L’“esilio dorato” di Selmayr ex fedelissimo di Juncker

La notizia che Martin Selmayr, potentissimo segretario generale della Commissione e uomo di fiducia di Jean- Claude Juncker, lascerà il suo incarico con l’arrivo di Ursula von der Leyen, aveva fatto tirare un sospiro di sollievo. Dal 1 novembre, l’eurocrate tedesco guiderà la rappresentanza Ue a Vienna. Un “esilio dorato” da 17.000 euro al mese, ma defilato rispetto alla possibile assegnazione nelle sedi ben più delicate di Washington o Londra che erano state prospettate.

La rapida ascesa di Selmayr, nel febbraio 2018, al ruolo non politico più importante dell’Ue era stata oggetto di contestazioni da parte di molti europarlamentari, che ne avevano invocato le dimissioni denunciando la mancanza di trasparenza nella nomina. Chiamata in causa, il difensore civico europeo, Emily O’Reilly, ha contestato irregolarità nella procedura. Eppure per allontanare il plenipotenziario di Juncker – ritratto dai nemici come dispotico e senza scrupoli – non è bastato lo scandalo, ma è dovuta rientrare in gioco la politica. Per ottenere la presidenza della Commissione, a Von der Leyen è stata chiesta la testa del tedesco, come domandavano molti esponenti del partito di Angela Merkel, la Cdu. Selmayr verrà demansionato già da agosto, quando resterà consigliere speciale del presidente della Commissione, e poi relegato nella capitale austriaca.

Capitolo chiuso? Forse no. Come riferisce il sito Euroctiv, a pochi giorni dall’addio al Berlaymont, Selmayr avrebbe trovato il modo di piazzare alcuni dei suoi in posti-chiave. Ad esempio, la funzionaria bulgara Jivka Petrova – già membro del team provvisorio “selmayeriano” che ha affiancato VdL” – è stata promossa vicedirettore del Segretariato generale della Commissione. C’è anche un nome per la vendetta in extremis dell’eurocrate: “operazione sole della sera”. Andrà pure a Vienna, Selmayr. Ma poi non esclude il ritorno.

Abu Mazen: “Stop accordi con Israele”

A una settimana dalle demolizioni di alcuni palazzi nei Territori palestinesi occupati realizzate dai bulldozer inviati dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente del- l’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen, ha annunciato per l’ennesima volta che sospenderà gli accordi in corso da anni tra le forze di sicurezza palestinesi ed ebraiche.

La reazione dell’Anp è stata resa nota dopo una lunga riunione a Ramallah tra i dirigenti palestinesi, tutti appartenenti al partito Fatah che governa Gerusalemme Est e la Cisgiordania. Ma le parole di Abu Mazen ora dovranno essere tradotte in atti concreti, e potrebbe volerci molto tempo o non avvenire come già accaduto in passato. Affinché la sospensione degli accordi diventi realtà, il presidente palestinese dovrà infatti attendere il lento e farraginoso svolgimento delle pratiche burocratiche affidate alle “commissioni speciali” che lui stesso ha nominato. L’anziano Abu Mazen non poteva evitare di annuciare una misura così delicata, data l’ondata di indignazione e rabbia sollevatasi tra i propri cittadini non appena Israele ha distrutto le abitazioni.

Allo stesso tempo il leader palestinese, sempre più debole sotto il profilo politico oltre che fisico, sa che smantellare gli accordi con Israele metterebbe ancora più a rischio la propria leadership a vantaggio dei molti, dentro e fuori la Cisgiordania, che tramano nell’ombra per un cambiamento a 360 gradi dei vertici dell’Anp. In mezzo a questa faida sempre più spinta, potrebbero guadagnare spazio gli estremisti islamici da tempo in attesa di agire, ma finora bloccati proprio grazie alle indagini e pattugliamenti congiunti tra la polizia israeliana e quella della Cisgiordania. Queste cellule terroristiche ancora in sonno sono sostenute da Hamas, che governa dal 2007 la Striscia di Gaza dopo una guerra lampo con Fatah. L’organizzazione estremista islamica non è però l’unica a volere la caduta nella polvere di Mazen. Anche all’interno del partito fondato da Arafat e dallo stesso Abu Mazen – che per molto tempo fu uno dei principali negoziatori con Israele durante le varie fasi di trattative per la fine del conflitto – c’è chi vorrebbe rinunciasse a rimanere alla Muqata in favore di facce nuove e giovani. Se questa volta l’annuncio di Abu Mazen si concretizzerà, è probabile che si ritorcerà però anche contro Benjamin Netanyahu, responsabile del progressivo indebolimento e della emarginazione di Abu Mazen. Se dovessero riprendere gli attentati contro gli israeliani, alle prossime elezioni, che si terranno a settembre a causa dell’incapacità di Netanyahu di formare un governo dopo le recenti elezioni, alle urne potrebbe essere sorpassato da politici ancora più oltranzisti e violenti nei confronti dell’Anp.

Israele ha affermato che i 10 condomini, molti dei quali ancora in costruzione, sono stati costruiti illegalmente e rappresentano un rischio per la sicurezza delle forze armate israeliane che operano lungo il muro illegale (secondo il diritto internazionale) che attraversa la Cisgiordania occupata. È altrettanto vero che l’area dove erano stati costruiti è sotto il pieno e legale controllo delle forze di sicurezza palestinesi, secondo gli accordi ufficiali siglati tra l’Anp e lo stato israeliano.

Tra Sánchez e Iglesias è finita: alleanza cercasi

“È stata una cosa seria, ma è finita. Non si può andare avanti ignorando ciò che è successo giovedì”. Sembra un verso su una storia d’amore finita, in realtà è l’epigrafe al fallimento di un “governo di coalizione” tra i socialisti spagnoli di Pedro Sánchez e la sinistra radicale di Podemos, nonché la conclusione di un qualunque tentativo di avvicinamento tra il premier incaricato e Pablo Iglesias. I due da oggi in poi potranno continuare a bisticciare come sempre, senza obbligo di convivenza.

Ma, soprattutto, hanno licenza di proseguire ad accusarsi a vicenda di questo fallimento annunciato finanche in tv dallo stesso premier, quando in un’intervista la settimana scorsa aveva confessato che “il principale scoglio per arrivare a un accordo con Unidas Podemos è che nel governo entri Pablo Iglesias. Non ci sono le condizioni perché questo avvenga – aveva spiegato – siamo in disaccordo su questioni di Stato che paralizzerebbero l’azione dell’esecutivo. Abbiamo bisogno di un governo coeso”. “Non voglio essere io la scusa del Psoe per non formare il governo di coalizione di sinistra. Stare o meno nel Consiglio dei ministri non sarà un problema, sempre che non ci siano altri veti e la presenza di Unidas Podemos al governo sia proporzionata ai voti”, aveva risposto il leader di Up in un video-messaggio. Solo dopo aver ripetutamente inviato frecciatine a Sánchez ricordandogli che lui e il suo partito “di fronte alle pressioni dei poteri economici e dei loro bracci mediatici affinché ci sia un governo che non cambi niente” avrebbero continuato a battersi “per un governo di sinistra insieme ai lavoratori pubblici e alla gente che lotta per i beni comuni”. Un’allusione neanche troppo velata all’ipotesi di un’alleanza tra socialisti e Ciudadanos, il partito di Albert Rivera, riferimento della borghesia imprenditoriale spagnola, certamente ben vista dai cosiddetti poteri forti. Ipotesi rifiutata anche dai militanti socialisti che la notte elettorale del 28 aprile, durante i festeggiamenti sotto alla gigantografia di Sánchez sulla sede del Psoe a Madrid avevano intonato un sonoro e chiaro: “Con Rivera no, con Rivera no”. Slogan ribadito fino al sondaggio di un mese fa in cui i ‘sì’ al governo Psoe-Up superavano anche a quelli di un governo in solitaria. Eppure, “ci tocca esplorare altre soluzioni”, ha annunciato ieri la vicepresidente del governo, Carmen Calvo.

Il che suona, per ora, come un rinnovato appello ai Popolari di Pablo Casado e ai centristi di Ciudadanos ad astenersi per lasciare governare Sánchez con un appoggio esterno, ipotesi negata ieri dagli arancioni che hanno fatto sapere di non avere nessuna intenzione di favorire Sánchez. Per le esplorazioni, ieri il re Felipe VI ha concesso ai socialisti ancora “un po’ di tempo”, prima che – in mancanza di una possibilità concreta che il socialista designato ottenga la fiducia dalle Corti – passi a conferire l’incarico a un altro leader che testi alleanze di tutt’altro colore. Se anche questa strada poi dovesse rivelarsi non percorribile, il 10 novembre agli spagnoli toccherebbe tornare alle urne per la quinta volta in quattro anni se si contano anche le Regionali e le Europee. Decisione difficile da far comprendere ai cittadini e non vista bene neanche in Europa. È della settimana scorsa l’avviso di Bruxelles alla Spagna che il periodo di grazia di Sánchez sta per finire e che sarebbe il caso di porre fine all’instabilità politica.

Bernal è in “giallo”. Ma chi domina è il meteo

Diciannovesima tappa, tracciato corto da resa dei conti con scalate micidiali. Si profila fin da subito un maledetto venerdì 26 (due volte 13…) luglio per i francesi. Quelli in sella e quelli che organizzano la corsa. Infatti, nemmeno il tempo di cominciare che Thibaut Pinot, gran favorito, è costretto a ritirarsi tra le lacrime, appena dopo il via da Saint Jean de la Maurienne, tradito dal ginocchio sinistro. Su di lui si appendevano le speranze di una Francia che non vince il Tour dal 1985. Alle 16 e 32, è la volta del connazionale Julien Alaphilippe. Perde la maglia gialla, gliela sfila il ventiduenne colombiano Egan Bernal.

Ma a decidere l’ordine d’arrivo e la classifica non sono solo i corridori. È il maltempo. Il clima impazzito.

L’Europa schiatta di caldo, Parigi brucia sotto il sole più cocente della storia e il Tour, invece, va a cozzare contro un improvviso scrollone di freddo, una grandinata memorabile. Mentre i corridori stanno transitando sull’Iseran, il valico percorribile in auto più alto d’Europa (2770 m.), una tempesta di ghiaccio si scatena furiosamente su un tratto della vertiginosa discesa, quando mancano ancora una trentina di chilometri all’arrivo. Il ghiaccio asfalta la strada, scuote la montagna, uno smottamento completa il disastro. Che potrebbe trasformarsi in tragedia: stanno infatti per piombare a settanta all’ora i primi corridori. Christian Prudhomme, il direttore del Tour, neutralizza la tappa. Tempi presi in cima all’Iseran. Strategie delle squadre gettate al vento. La decisione scontenta tutti. Ma non si può far altro.

Negli ultimi due chilometri di salita, Bernal aveva seminato i rivali e messo in crisi Alaphilippe, maglia gialla da 14 giorni. Nella discesa Bernal viene raggiunto da Simon Yates. Il britannico ha già vinto due tappe. Vuole il tris. Bernal vuole il Tour. Il patto è chiaro. Dura poco. Lo stop scombina tutto. La tappa è vinta così da Egan. Dietro, Alaphilippe sfoga la rabbia zigzagando e imprecando: sentiva di recuperare terreno in discesa e limitare i danni. Pure Geraint Thomas, capitano della Ineos e, formalmente, di Bernal, è scuro in volto. Pensava di riprendere il delfino. Tutti scontenti. In verità, chi ci ha rimesso è Bernal. Tappa dimezzata, vantaggio dimezzato. Alaphilippe è a meno d’un minuto, oggi può sperare di riprendersi la maglia, anche se lo attendono le rampe arcigne che portano a Val Thorens. La disperazione può fare miracoli, in bici. Tempo permettendo. Il vero arbitro di questo Tour de France incapace di gestire il microclima della corsa, prevedendo un percorso alternativo. Cosa che al Giro d’Italia sanno fare meglio. La tanto vantata organizzazione del Tour ha sperato di sfangarla. Ma ad essere sfangato, ieri, è stato il Tour.

Galeotto fu l’sms e chi lo inviò: così Paratici litigò con Marotta

La vera storia del Grande Amore e del Grande Freddo che hanno dapprima unito e poi allontanato i due più importanti dirigenti del calcio italiano: Beppe Marotta, 62 anni, ad dell’Inter e Fabio Paratici, 47 anni, Chief Football Officer della Juventus. Storia di un’amicizia tradita.

L’antefatto data 23 ottobre 2012. È la sera di Nordsjelland-Juventus (1-1) di Champions e Antonio Conte è in tribuna per la squalifica di 4 mesi rimediata nel calcio scommesse; accanto a lui c’è Paratici, braccio destro di Marotta alla Juve. Il regolamento non lo consente, ma a dare ordini al vice Alessio in panchina è Conte, che detta a Paratici le sue disposizioni, subito girate ad Alessio via sms. Succede però che nel secondo tempo, con la Juve sotto di un gol, i tre sms dei cambi ordinati da Conte finiscano per sbaglio anche sul telefonino di Gianluca Fiorini; che è un procuratore e agente Fifa. Fiorini legge gli sms e di lì a poco vede entrare in campo, come da ordini, prima Vucinic, poi Bendtner, poi Giaccherini. “Hai sbagliato persona”, scrive a Paratici. Che l’indomani lo chiama e gli prega di non dire nulla: Conte è squalificato, per lui sarebbe un guaio grosso.

Ma che ci azzecca un sms finito sul telefonino sbagliato con la rottura di un’amicizia? Per capirlo occorre saltare al 15 luglio 2014 quando al pronti-via del ritiro, in polemica col club che non gli compra i giocatori richiesti, Conte si dimette e abbandona la Juve. Due giorni dopo, e stavolta non per sbaglio, Paratici chiama Fiorini. È agitato. Gli spiega che Alvaro Morata senza Conte minaccia di non venire più alla Juve e che Marotta ne è felice: chiede un aiuto a Fiorini che l’anno prima, agli Europei Under 21 in Israele, aveva avvicinato Morata per conto di Osti (Sampdoria). Fiorini chiede un compenso in caso di buon esito dell’intervento. Poi chiama Morata, che è a cena a Madrid, e lo convince a dire sì alla Juve. L’indomani Paratici chiama Fiorini e lo ringrazia: ti aspetto a Vinovo, gli dice.

In realtà Paratici chiede a Fiorini una mano anche per Babic, 18enne difensore serbo: è un extracomunitario, ma Paratici vuol fare l’operazione contando su un club amico come Sassuolo o Atalanta. La trattativa però non decolla; e nel frattempo Fiorini comincia a sentire Paratici freddo nei suoi confronti. Decide così di chiamare Marotta e gli rammenta il ruolo avuto nell’“operazione Morata”: Marotta, che voleva Immobile, cade dalle nuvole. Non ne sapevo niente, dice. Tempo pochi minuti e Fiorini riceve sms durissimi da parte di Paratici, come: “La Juventus non ha bisogno di Gianluca Fiorini”. L’agente prova allora a ricontattare Marotta, ma i suoi tentativi cadono nel vuoto. Il 13 novembre Fiorini chiede alla Figc l’autorizzazione ad adire le vie legali nei confronti di Paratici per le ingiurie ricevute via sms: la Figc non gli risponderà mai.

Nel frattempo Paratici ha confessato a Marotta l’episodio degli sms “proibiti” finiti sul cellulare di Fiorini: il fatto non è ancora caduto in prescrizione e Paratici non si fida di Fiorini, che ora potrebbe inguaiare la Juve. L’agente invia infatti un esposto in cui documenta il fatto degli sms alla Procura federale (Palazzi) e alla Procura del Coni: non avrà mai risposta. Riceve invece un’inattesa e artefatta denuncia per stalking da parte di Marotta, fatta senza chiedere l’autorizzazione alla Figc. Il 20 febbraio 2015 Marotta presenta una seconda denuncia alla Digos di Torino (che il 9 maggio va a sequestrare il telefonino di Fiorini) all’attenzione del commissario Carmine Massarelli: un pubblico ufficiale che di lì a poco riceverà compensi dalla Juventus per docenze, pagate 140 euro l’una, che svolgerà in data 17-06-2015, 28-03-2017 e 28-06-2017, come risulta dai tabulati di questure.poliziadistato.it. Ai primi di gennaio il procuratore Toso condanna Fiorini alla multa di 300 euro per molestie telefoniche. Fiorini fa opposizione (sarà definitivamente assolto nel 2018), presenta a sua volta una denuncia per diffamazione verso chi ha fornito false testimonianze a Marotta e chiede alla Procura federale il deferimento di Marotta che lo ha portato in tribunale violando la clausola compromissoria. Ancora una volta Palazzi, e il Palazzo, fanno finta di nulla.

Tutto ciò, Marotta lo fa per rimediare ai pasticci di Paratici che possono compromettere l’immagine della Juventus e bruciare lo stesso Paratici. Per aiutarlo, il dg chiede testimonianze amiche a Pradè, Osti, Corvino, Foschi ed è costretto a calarsi in contenziosi legali. Ma Marotta di Paratici è amico: sono una cosa sola, dicono. Ma molta acqua è passata sotto i ponti dalla sera in cui Paratici sbagliò a mandare quei tre sms; e tante cose sono successe, ultima l’acquisto di CR7 che Marotta osteggiò e Paratici invece propiziò. Alla fine Paratici è entrato nel cuore di Agnelli scacciando Marotta e scalzandolo dall’organigramma. Come dice la canzone: “Cominciava così”. Con un sms, sette anni fa.

Grasso di toro e palle di volpi: gli antenati del Viagra

Che il sesso abbia a che fare col corpo (quasi sempre) e con l’amore (il più delle volte, almeno nella migliore delle ipotesi) è questione già diffusamente appurata; tuttavia, a leggere I balsami di Venere di Piero Camporesi (1926-97), riproposto mirabilmente dal Saggiatore, scopriamo che nell’eros si compenetrano letteralmente anche cucina e morte, la prima come farmakon dell’altra.

Non è un caso che già all’altezza del Medioevo uno dei più vitali filosofi, mistici e poeti arabi Ibn ’Arabi (1165-1240), mentre sosteneva quanto la massima aspirazione dell’uomo fosse l’amore (tanto divino quanto umano), lo definiva saggiamente “piccola morte”, e ciò perché da sempre al coitus è legata l’idea di estasi, svenimento, vertigine. La riuscita felicità di tale definizione è commisurata anche nel ripetuto uso all’interno del linguaggio popolare: a partire dal Settecento, nel francese colloquiale l’orgasmo – e la perdita di sensi a esso correlata – è definito “la petite mort”.

La letteratura ci mostra come siano molti i volti che Thanatos sa assumere per impedire che Eros si compia: può strappare uno dei due amanti alla vita – come capita a Romeo e Giulietta –, può essere una separazione – Lea e Chéri del fortunato romanzo di Colette –, una scelta di castità – come in La Principessa di Clèves di Madame de la Fayette –; e ancora un rifiuto, un impotenza virile o il suo rovescio, una frigidità. Ed è qui che Camporesi fa intervenire la cucina in cui si è molto cercato, nel periodo che intercorre tra Medioevo e Settecento – quando cioè la farmacologia non esisteva –, di trovare una soluzione a queste sfaccettature della morte.

Con bibliofila argomentazione, l’autore ricupera trattati, epistolari, memorie fino a disseppellire rimedi casalinghi, unguenti rinvigorenti degni delle televendite notturne nelle emittenti locali: in poche parole, il viagra degli antichi.

Al servizio di Papa Gregorio XIII (1502-85) – che oltre a occuparsi del calendario era un salutista –, l’archiatra Alessandro Petronio consigliava a quegli uomini in età da matrimonio e procreazione che “hanno bisogno di maggior quantità di seme” di bere al mattino e alla sera per qualche giorno prima dei pasti una sbobba “di pan fresco e di chiari d’ovi mal cotti, ridotta a forma di latte”. Dal Medioevo al Barocco godette di ottima fama “il diasatirone di Mesue” (o diasatiron), confezionato con dosi massicce di testicoli di volpe cotte in brodo di ceci e poi amalgamate con “latte vaccino o pecorino, oglio e butiro vaccino”, ottimo per eccitare gli appetiti di Venere. Anche le carni del piccione, soprattutto se cotte nel vino rosso, “aumentano l’appetito del coito” secondo Michele Savonarola (1385-1468, nonno di Giacomo), che nel Trattato utilissimo di molte regole per conservare la sanità consiglia anche “le tartufole” (tuberi simili alle patate) per “movere la lussuria”. E poi ancora fave, melanzane e castagne ad accompagnare e insaporire code di volpi e di lucertole, testicoli di cervi, di tori, di galli “ch’ancora non calcano le galline” e grasso di vipera.

Si nota come la questione ruoti prevalentemente attorno al conforto da prestare all’organo maschile (attaccato dall’insaziabile femmina) su cui si avviluppa l’intero tema dell’eros. E ciò perché in quegli anni sono gli uomini a pontificare sul sesso, e a vedere la donna “sempre vogliosa, sempre lasciva”, una creatura in perenne attesa della “benedizione del membro eretto”, commenta nella sua introduzione Elisabetta Rasy. A levare timidamente la voce per porre l’attenzione sulla questione muliebre sarà Caterina Sforza, signora di Forlì (1463-1509). Nei suoi Experimenti, un ricettario medico-cosmetico, oltre a prodursi in ricette afrodisiache per “fare stare duro el membro tutta la notte”, consiglia alle donne unguenti, acque riparatrici, lozioni, polveri e profumi per conservare la linea, levigare, rassodare, schiarire, depilare. Le sue “acqua de iovinezza” e “acqua mirabile e divina” aiutano a restare belle e giovani, ma anche a “far le mammelle piccole e dure”. In più, sapeva anche come trasformare una “donna corrupta” (non più vergine) in “naturalissima vergine”.

I balsami di Venere è un pastiche godibilissimo, divertente ma anche terapeutico. Perché mentre oggi l’imperitura ossessione per la camera da letto – a cui dopo il Medioevo venne affiancata con l’Illuminismo il salotto e la conversazione – si declina in strumento di controllo politico-religioso (come farlo, con chi è giusto farlo, quando farlo) o nello scambiarsi o rubare sextape in chat, Camporesi ci ricorda quando il sesso era una cosa seria.

Aiuto: solo musei, caldo e polvere. Ma il mare?

Lo so, ne ho assoluta certezza, pagherò care queste righe. Non resisto, e passati trent’anni è una piccola, allegra vendetta.

Estate del 1989, una delle più torride, non paragonabile a quest’ultima, ma sempre importante in quanto a gradi centigradi percepiti e vissuti. Mamma decide: “Quest’anno giriamo la Spagna”. Giriamo? “Sì”. E il mare? “Non ti preoccupare, ci arriviamo”. Obbedisco, ovvio.

Piccolo chiarimento: ho dei genitori giovani e appassionati di cultura, “de sinistra” come direbbe Nanni Moretti. Quando avevo sei anni mi portarono a Parigi, e ricordo Versailles con terrore e raccapriccio, ho impressa, e alla perfezione, la maledetta “Sala degli specchi”, con me arreso e buttato a terra, loro imperterriti nel trainarmi e spiegarmi la bellezza. Quel pavimento l’ho lucidato. E quando avevo 10 anni è arrivata a corrompermi: “Se visitiamo un altro museo ti pago”. Ho accettato.

Insomma, il “giriamo” per me equivaleva a “dolore” e “terrore”. Non mi sbagliavo.

Migliaia di chilometri su un’auto senza aria condizionata, bagagli ovunque, il finestrino abbassato era solo alito da terra di Spagna. Polvere. Musei. Città e cittadine dell’entroterra. Monumenti. Camminate. L’acquedotto di Burgos, il Prado di Madrid, i maledetti (maledetti per me) mosaici di Siviglia, “Guarda la meraviglia”. Il mare? “Manca poco”. Di nuovo in macchina, direzione Portogallo. All’improvviso cambia il paesaggio, diventa più verde, più accessibile, meno polvere, e soprattutto da lontano arriva brezza marina. Dietro una curva un miraggio, poco dopo un altro miraggio, e ancora, fino a quando mi convinco dell’esistenza della gioia: “Mamma, ci sono i parchi acquatici, andiamo?”. Silenzio e raccapriccio nell’abitacolo. “Sono esperienze cretine, da turisti qualunquisti”. Addio miraggio. Continuiamo così.

La versione di Paola: “Davanti a certe case fatico a restare seria”

In qualche modo Paola Marella regala sogni, sogni di mattone, e li tratta con accenti di pragmatismo esistenziale, senza cadere nella facile trappola dell’ossimoro. Lei è l’agente immobiliare per eccellenza, l’arredatrice d’interni della televisione italiana, basta una sua puntata per mettere in discussione ogni certezza e correre a cambiare il colore di casa; sembra la sintesi perfetta della vera donna borghese di Milano: toni bassi, congiuntivo perfetto, accogliente, visione privilegiata verso l’estero, attentissima all’abbigliamento, con il particolare, magari l’oggetto, utilizzato per ottenere la differenza. Da dieci e passa anni incassa successi in televisione, e ora il martedì conduce su Sky Uno Un sogno in affitto (“E non ci pensavo proprio a una carriera televisiva. Io vivevo sui cantieri”).

La sua ciocca bianca l’ha anche resa una delle donne più desiderate del web. “L’ho scoperto per caso l’anno scorso, non lo sapevo”

Impossibile.

È vero, vivo in un pianeta completamente mio, certe situazioni non mi arrivano; la rivelazione c’è stata grazie a un amico in vacanza. Poi ho controllato e con mio marito abbiamo riso tantissimo.


Sex symbol.

A 56 anni è una soddisfazione.

Dichiara l’età.

Perché secondo me è una bella bandiera, nasconderla lo trovo sciocco quanto inutile: se uno investe bene il suo tempo, lo stesso tempo ti aiuta ad acquisire maggiore sicurezza. Poi è ovvio, a 22 anni ero più bella e più tutto.

Con i programmi di cucina, oramai sono tutti esperti di cibo; adesso con i suoi tutti esperti di arredamento?

Un po’ è così; quando ho presentato Shopping night arrivavano dei concorrenti convintissimi delle proprie capacità valutative, mentre noi, dietro, ridevamo da star male, tanto da trovare qualche difficoltà nel mantenere un contegno.


Insomma, si credono, ma…

Spesso sono delle capre, e uno dei momenti più imbarazzanti è quando ti mostrano i pezzi di mobilia provenienti dalla famiglia: in molti casi non sai come uscire dall’angolo per esprimere un giudizio senza offendere.

Come è arrivata alla tv?

In realtà potevo debuttare nei primissimi anni Ottanta grazie a Enzo Tortora.

Cioè?

Per guadagnare qualche lira, lavoravo con un’amica alla Fiera: una mattina passa Tortora, ci vede, ci conosce e ci propone di diventare delle signorine “buonasera”. A noi l’idea piaceva, tanto da frequentare un corso di dizione. Poco dopo lo hanno arrestato (nel 1983).

Fregatura.

Ah, anni prima ho partecipato al Topolino show con Patricia Pilchard.

Allora la telecamera le piace.

Non ci pensavo più: il vero esordio in televisione è datato “2007” e in un momento di stallo del mercato immobiliare; un giorno un’amica mi chiama: “Cercano una persona per un programma sulle case. Secondo me sei perfetta”.

Altro che cantieri.

No, a me piacciono, è il mio habitat; però rabbrividisco se penso alla quasi totale assenza di sicurezza che c’era un tempo. Situazioni assurde. Pericolosissime.

Lei in politica?

La seguo per coscienza civile, ma non sono preparata come credo sia necessario e opportuno. (ci pensa) A prescindere dalle candidature, ognuno dovrebbe riflettere sui propri comportamenti, iniziare a valutare se stesso.

Quando la invitano a casa gli amici, tremano?

Inizialmente c’è un po’ di imbarazzo, ma poi passa.

La ciocca chiara.

Qui torniamo alla mia idea di non nascondere la vita: vent’anni fa, dopo la morte di mio padre, sono diventata completamente bianca. Vado dal parrucchiere e lui si è inventato questo taglio.

Lei è…

Perfezionista e pignola, mio fratello mi ha accusata di essere un po’ una maestrina; ma ho una convinzione: cercare di migliorare sempre è un dovere rispetto alla vita.

Ha rivisto le puntate del suo esordio in tv?

Tragiche, sbagliavo i tempi, e spesso ci inerpicavamo in discorsi privi di senso.

Oggi?

Uso troppo l’aggettivo “meraviglioso”.

Cosa legge?

Sul comodino ho Le fedeltà invisibili di Delphine de Vigan (Einaudi). Molto bello.

Sul web è definita “severa ma giusta”.

Davvero? Mi ci ritrovo molto, e lo sono pure con me stessa.

@A_Ferrucci

Ridere per resistere: poche regole migliorano la vita

Se avessi uno stemma nobiliare (già fa ridere l’idea) ci scriverei quella frase di Billy Wilder: “Se proprio devi dire la verità, fallo in modo divertente. Quelli che fanno ridere verranno risparmiati”. Ecco. Con tutto che alla famosa formula “una risata vi seppellirà” non ci ho mai creduto molto, nemmeno da ragazzino quando avevo, come tutti, il poster di quell’anarco-sindacalista che rideva in faccia agli sbirri (Parigi, 1905). Ma resta il fatto che ridere è un moto eversivo del cuore, che smuove e squassa, che vede l’assurdo dove gli altri non lo colgono, che dà fastidio a chi non sa ridere, e già questo è uno sberleffo.

Ma insomma, onore al vecchio Billy: uno che ha scritto A qualcuno piace caldo si è meritato risate nei secoli del secoli, e come omaggio basta così. Ma poi c’era anche L’ispettore generale di Gogol’, Mistero buffo di Dario Fo, Vonnegut, Mastro Benni, e insomma, grandi, grandissimi, inarrivabili. E in più: fanno ridere. Non è mica un dettaglio.

Aborro il dibattito sulla satira, mi accontento della lezione del maestro Fo: “L’unica regola è non avere regole”, per cui toglierei di mezzo le accuse di volgarità, di assenza di grazia, di inopportunità: tutte scemenze, la satira c’è dai tempi di Aristofane e ci sarà sempre. Anni di frequentazione (militanza?) dell’ambiente mi hanno insegnato che la satira piace molto quando parla degli “altri”, e molto meno quando parla dei “nostri”, ma è un problema che non riguarda chi fa satira, che non deve riguardarlo.

E però qualche regola c’è. Suscitare la risata, costruire la battuta, limarla, renderla acuminata e facile da lanciare, ecco le regole. Mica facile. È una grammatica, una lingua. Ribaltare i fattori, l’assurdo passato per reale come difesa dal reale così assurdo che ci circonda.

Cuore (1991-1996. R.I.P.), meraviglioso collettivo di penne e matite geniali non a caso aveva per sottotitolo: “Settimanale di resistenza umana”. Ecco, ridere è per me questo: resistere, ribaltare, passare al contrattacco. E quanto all’imparare a usare quella grammatica e quella lingua, è soprattutto questione di sintesi e idee chiare, sapendo che si maneggia la dinamite e che una battuta ben fatta può descrivere un’epoca, un tempo, un contesto, meglio di un saggio ponderoso. “Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti” (marzo 1991) fu uno di quei guizzi diventato storia, due righe di titolo e c’era tutto, e ancora fa ridere, e ancora si cita. L’aver fatto parte di quel manipolo di talenti ha a che fare con mia éducation satirique, perdonerete l’orgoglio. E poi altri gruppi, altre mirabolanti squadriglie del far ridere, fino, storia di oggi, all’ensemble dei mirabili autori di Maurizio Crozza, uno potente, uno che quando ha un testo buono lo trasforma in un testo ottimo, perché far ridere è anche questione di faccia, di costruzione, di volo pindarico, di stratificazione, di significati. E di avere un pensiero, che altrimenti, senza un pensiero tuo, che ridi a fare?

Sarà che “ridere è un altro modo di piangere”, come dice Radu Mihaileanu (ma sì, Train de vie l’avrete visto, no?), ma insomma, faccio fatica a pensare di scrivere qualcosa che fa ridere senza un obiettivo, un bersaglio. Perché del ridere mi piace ciò che il ridere nasconde per finta e mette in evidenza sul serio: l’assurdo e l’ingiustizia. Non è un caso che niente fa più incazzare i regimi totalitari della gente che ride, e potevi farti decenni di Siberia per una battuta (citofonare Solženicyn).

Caso di scuola. Il lavoratore Boris riceve una telefonata dal capocellula della fabbrica, è il 1974:

“A riconoscimento del tuo impegno per la costruzione del socialismo, compagno Boris, è stata accettata la tua domanda di avere un’automobile, che ti verrà consegnata il 7 maggio 1984”.

“Ma è tra dieci anni!”, risponde il bravo operaio Boris. E poi: “Va bene, grazie compagno dirigente, il 7 maggio 1984, ottimo, me lo segno. Mattina o pomeriggio?”.

“Mancano dieci anni, compagno Boris, che importanza ha?”.

“No, è che alla mattina mi viene l’idraulico”.

Eccola là l’Urss brezneviana, assurda, pachidermica, lenta e noiosa, opprimente. E per una barzelletta così si poteva andare in galera, eppure si rideva lo stesso, di nascosto, ma si rideva, persino là. E non tutto faceva ridere, eppure la smorfia divertita c’era, come nella famosa battuta rumena dei tempi di Ceausescu: “Cosa c’è, nella nostra meravigliosa Repubblica Socialista di più freddo dell’acqua fredda? L’acqua calda”. Chapeau.

Ma poi – tristezza – della frase di Billy Wilder che vorrei sul mio stemma, la seconda parte non funziona più. Non è vero che “Quelli che fanno ridere verranno risparmiati”, non è vero almeno dalla strage a Charlie Hebdo (gennaio 2015). Morì fucilato per reato di risata anche il mio preferito, un mio amore: Georges Wolinski, meraviglioso cochon, genio assoluto. L’ultimo messaggio l’aveva già lasciato: “Voglio essere cremato. Ho detto a mia moglie di gettare le ceneri nel water: così potrò guardarti il culo tutti i giorni”.

Non fa ridere, dite? Boh, però è meraviglioso.

Ultimo

ciak

Zingaretti
saluta Camilleri
”In questo momento abbiamo finito il film. Felicità
e anche tanta tristezza. Tanta. Il sole
e il cielo
di Sicilia
ci salutano così. Ciao”. Con queste parole
e una foto
al tramonto Luca Zingaretti
su Instagram ha annunciato
la fine
delle riprese della serie tv su Montalbano, salutando per l’ultima volta
anche
il maestro Andrea Camilleri,
il “papà” del commissario di Vigata. Alla morte dello scrittore, il 17 luglio scorso, il set si era fermato per lutto: questa 14esima stagione della fiction sarà trasmessa su Rai 1 nel 2020

I nuovi reati per colpire le nuove mafie

L’obiettivo che gli interventi di riforma legislativa devono porsi è quello di delineare ulteriori fattispecie incriminatrici adeguate a prevenire e a reprimere forme di manifestazione di criminalità mafiosa attinenti all’“area grigia”, puntualmente individuate da accurate analisi socio-criminologiche. Fattispecie che siano idonee ad essere applicate anche in territori di non tradizionale infiltrazione mafiosa.

Gli incerti confini di ciò che è da ritenersi, attualmente, penalmente rilevante in relazione alle condotte di contiguità proprie dell’“area grigia” incidono negativamente sia sui profili di garanzia, sia su quelli di prevenzione generale e speciale: quanto più è definita la condotta vietata, tanto più la norma che la prevede ha capacità, da un lato, di determinare i comportamenti dei destinatari e, dall’altro, di tutelarne la libertà personale e gli altri diritti.

Occorre, in sede di riforma, cogliere l’essenza di nuovi fenomeni criminosi associativi, che costituiscono il punto d’incontro tra settori amministrativo-politici, settori economici e (spesso) criminalità mafiosa. Una risposta potrebbe consistere nell’introduzione di un’ulteriore fattispecie associativa che tuteli l’ordine pubblico, inteso nel suo significato di corretto svolgimento delle relazioni istituzionali e funzionali, il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione e il corretto andamento dell’economia e del mercato, e che si imperni sullo stravolgimento funzionale riferibile ad un soggetto pubblico.

Fattispecie che punisca la condotta di tre o più persone (tra cui almeno un pubblico ufficiale), che si associno per commettere più delitti contro la P.A. (tra i quali, corruzione, concussione, turbata libertà degli incanti e del procedimento di scelta del contraente, ecc.) o per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività amministrative o economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi o di assunzioni o di concorsi pubblici, mediante l’abuso della qualità o dei poteri di un pubblico ufficiale partecipante.

Contestualmente andrebbe meglio disciplinata quella che è oggi l’area del concorso esterno associativo, attraverso l’introduzione di fattispecie incriminatrici strutturate come reati propri per le categorie professionali, per quelle economico-imprenditoriali, per quelle attinenti a pubbliche funzioni.

Le condotte vietate dovrebbero consistere nell’uso distorto del potere (quando si parla di un pubblico ufficiale) o della facoltà (quando si parla di un imprenditore o di un professionista) per il raggiungimento di uno scopo diverso da quello per il cui conseguimento il potere o la facoltà stessi sono stati attribuiti dall’ordinamento: scopo diverso consistente nell’agevolazione di un’associazione mafiosa.

Andrebbe, poi, regolamentata la punibilità delle condotte neutre di sostegno alle organizzazioni criminali.

Si pensi all’ipotesi del dirigente di banca che, nel rispetto delle regole statutarie previste per la concessione del credito, finanzi mediante la sua erogazione un gruppo mafioso o un traffico distupefacenti. Si potrebbe prevedere espressamente la punibilità di tali condotte qualora vi sia violazione dolosa o colposa di una regola cautelare (da descrivere puntualmente) che imponga al soggetto di verificare che la sua attività, anche se realizzata nel rispetto delle regole previste per il suo esercizio, non possa risolversi, comunque, in un sostegno ad un’organizzazione criminale.