Sulle grandi opere non è cambiato nulla

È veramente molto difficile trovare argomenti oltre i numeri per valutare negativamente il nuovo tunnel del Frejus (che non è un treno, e soprattutto non è ad alta velocità). Anche i nomi pesano: molti pensano, i piemontesi e i lombardi soprattutto, che come passeggeri ne avranno grandi benefici per andare in Francia: non è vero, i francesi di là dal tunnel non faranno nulla fino al 2038. E un primo punto è proprio questo: il corridoio europeo così spesso citato è stato cancellato dalla Francia due anni fa, tanto ci credono, e Macron ha saggiamente bloccato tutte le grandi opere, appena insediato. Forse è più attento agli sprechi di noi.

Anche questo spreco ha provato a bloccarlo, forte del parere della Corte dei Conti e di molti studiosi d’oltralpe, ma contro gli interessi locali e dei cementieri non ce l’ha fatta.

Ma proviamo ancora: oggi l’ex-parlamentare Pd Esposito in Tv ha provato a metterla sul tremendo inquinamento dei camion in Val di Susa, dimenticando che i dati ufficiali lo smentiscono: l’inquinamento è minimo, e si ridurrà grazie al progresso tecnico.

E il mondo industriale? Giudica l’opera essenziale per lo sviluppo del Piemonte. Ma se è così, perché non si offre di pagarla almeno in piccola parte, diciamo il 30%, con i pedaggi per l’uso dell’opera? E devono pagarla invece tutta i contribuenti? (e non importa se tra loro ci sono un po’ di idraulici polacchi o casalinghe portoghesi).

Risposta fulminea: ma le infrastrutture le deve pagare lo Stato, non noi! Quelle che gli servono invece gli utenti le pagano, industriali compresi: soprattutto le autostrade, alcune delle quali sono state pagate, attraverso generosissimi pedaggi, anche più di una volta, senza che nessun industriale fiatasse. Forse c’è da pensare che nessuno fiatasse perché la maggior parte della rete autostradale è in mano a privati? Non si sa.

La più tuonante difesa del tunnel fatale arriva però dal Piemonte, come per l’alta velocità Brescia-Padova, altro spreco di soldi dei contribuenti, arriva dal Veneto. Ma questo è giustissimo: non ne pagano i costi, perché dovrebbero rinunciare a regali miliardari?

Ma “cessi il compianto”: il tunnel si farà, e nessuno dei decisori risponderà se ci passerà poco traffico, né se costerà il doppio del previsto. Chi paga non saprà.

Non solo: il sindacato si è spinto, con estremo ardimento (la Filt-CGIL) ad auspicare che tutti i 133 miliardi di opere mai valutate lasciateci in eredità dal precedente governo vengano realizzate.

Un coraggio davvero stupefacente: è noto che le grandi opere civili oggi hanno effetti occupazionali molto ridotti per euro speso, rispetto ad altri settori, in primis le manutenzioni. Poi si tratta di occupazione temporanea. Poi il settore ha un basso contenuto di innovazione (addirittura le “talpe” che scavano i tunnel sono spesso importate). Poi le grandi opere non sono anticicliche (per finire quel tunnel ci vogliono 10 anni). Poi non sono molto apribili alla concorrenza (risultano invece molto apribili ad interessi organizzati poco simpatici, e alla corruzione).

Ma in fondo, costruttori, politici locali, e lo stesso sindacato sono interessi costituiti. Forse qualche attenuante la si può dare.

Ma i 5Stelle? Oggi Luigi Di Maio e Danilo Toninelli fanno a gara con Salvini (una gara davvero non nobile) per presentarsi come quelli che non bloccano niente, anzi, cemento e soldi per tutti. E non a parole, con i fatti. Hanno prima detto subito sì, facendo nella fretta anche errori nei conti, al Terzo Valico (c’è ne sono già due: 6 miliardi a nostro carico) tra Milano e Genova, cui l’analisi costi-benefici da loro commissionata aveva detto no. La cosa si è ripetuta identica per l’alta velocità Brescia-Padova (8 dei nostri miliardi), compresi gli errori di calcolo per non avere il coraggio di contraddire direttamente i conti da loro commissionati. Non hanno nemmeno avuto il coraggio di ricordare agli italiani che pagano, che si tratta di appalti assegnati senza gara in piena tangentopoli.

E adesso, gran finale! Dodici miliardi (il costo di 4 di quei tunnel piemontesi, per le casse dello Stato) per le ferrovie in Sicilia. Più altri miliardi qua e là al sud. Ma qui non si vogliono correre rischi: non si faranno nemmeno analisi, né economiche né finanziarie né di traffico. Potrebbero esserci sorprese, no?

E quei fessi di tecnici che hanno creduto che l’operazione analisi costi-benefici non fosse strumentale, ma dettata da una ferma volontà politica di evitare sprechi? Hanno fatto al meglio il loro lavoro, e in tempi strettissimi, e con risorse ridotte. Non meritavano questo incredibile voltafaccia, che per fortuna squalifica molto più chi il voltafaccia lo ha fatto che non loro, la cui indipendenza sembra oggi largamente provata, anche se chi scrive non può essere buon giudice, per palese confitto di interesse.

 

Mail Box

 

Pericolo criminalità in Val Susa: così la strada è spianata

Quest’anno il Festival Alta Felicità nella Valle di Susa No Tav probabilmente lo faranno le mafie, che da anni si preparano a morsicare il boccone con il sostegno dei giornaloni e dei partiti tradizionali solidali da destra a sinistra del “purché si faccia che qualche briciola resta”. In Valle si racconta che si sono intensificate le feste calabresi, l’adozione di Santi locali ben presto gemellati con quelli dei comuni ionici. Rilanciate antiche processioni, durante le quali qualcuno segnala aver notato qualche inchino. Tutto da manuale. Così come segnalato dalla Direzione nazionale antimafia nel suo annuale rapporto, alla voce dedicata alle strategie di consenso per le infiltrazioni mafiose. Dimenticavo la presenza nelle Polisportive. Verificare per credere. Gli amministratori locali, giulivi, partecipano con la fascia tricolore, insieme alle bande musicali giustamente ricompensate. Via libera al Tav, semaforo verde alle mafie che da anni ci hanno sperato e investito e già si erano infiltrate come la cronaca giudiziaria ha constatato. Evviva! Le madamin-e sono contente, l’Italia si muove!

Melquiades

 

Bloccare i corridoi umanitari è un crimine collettivo

“Più muoiono, meno partono”. Nessuno ha il coraggio di rendere esplicito questo teorema, ma è proprio quello che è alla base del divieto – esasperato con il provvedimento “Sicurezza bis” – per il soccorso in mare, diretto soprattutto alle Ong. Purtroppo, il teorema non funziona, come ha dimostrato l’ultimo drammatico naufragio con 150 morti, tra cui molti madri e bambini morti nel mare nero della notte. I migranti massacrati nei lager libici partono lo stesso, anche se sanno che ora la possibilità di affogare è aumentata (1 su 6 muore). Chi priva di corridoi umanitari queste persone è complice della loro morte in mare, spesso preceduta da una lunga attesa di sevizie. L’affogamento di deterrenza è l’unica politica europea e italiana. Un crimine collettivo, grande quanto il numero di persone che si assolve.

Massimo Marnetto

 

Mattarella: arbitro ecumenico alla Cerimonia del Ventaglio

All’incontro con la stampa politica, alla cerimonia del Ventaglio, Mattarella nella sua veste pontificale non richiama energicamente il governo e i suoi corifei, Conte, Di Maio e Salvini, perché pongano fine a questa ignobile pantomima, ma si limita a suggerire ecumenicamente collaborazione e non dissidio (senza neppure precisare all’interno del governo), sottolineando che lui, come presidente della Repubblica, non fa scelte politiche ma è solo arbitro della partita. E, allora, direi che proprio come arbitro – e rispettando le prerogative costituzionali – avrebbe dovuto scegliere un modo più istituzionale ed efficace per intervenire, e cioè o con un vero e proprio monito, o meglio ancora con un invito ufficiale del premier Conte al Quirinale. Insomma, si è trattato del solito Mattarella temporeggiatore, mentre in atto il vero premier del nuovo governo sostanziale (senza rimpasto tecnico) è Salvini. Il leader della Lega ha infatti detto, commentando la relazione ultima di Conte al Senato: “Il discorso del premier mi interessa meno di zero”. Fa quasi piangere assistere alla convocazione dei sindacati da parte di Conte a Palazzo Chigi. Gli ingenui 5s rischiano, restando ancora impantanati in questo governo alle dipendenze di Salvini, di protrarre l’emorragia di consensi.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

La legge è uguale per tuttitranne che per Formigoni

Già la scarcerazione ai domiciliari per Formigoni, condannato a quasi 6 anni di galera, grida vendetta al cospetto di Dio per tutti coloro che hanno rubato una mela o fumato uno spinello, e non sottratto a tutti noi 6 milioni come lui, però loro – a differenza sua – la galera se la fanno tutta.

Ma a parte questo, c’è una cosa che non si capisce: a Formigoni è stato concesso di uscire 2 ore al giorno, si suppone per fare la spesa o andare a prendere il caffè. Che bisogno ci sia di questa munifica elargizione di libertà (che in carcere non avrebbe), non si capisce proprio. Non sarà che quella ben nota scritta nei tribunali, “la legge è uguale per tutti”, per motivi di vergogna o decenza dovrebbe essere cancellata totalmente e sostituita con: “La legge è uguale per tutti, escluso Formigoni”?

Enrico Costantini

 

Diritto di replica

Nell’articolo apparso sul vostro quotidiano il 24 luglio si sostiene che il politologo russo Aleksandr Dugin “predica l’Eurasia al Tg2”. Premesso che intervistare un personaggio pubblico non significa condividerne le idee. La direzione del Tg2 intende precisare di aver trasmesso un’intervista ad Aleksandr Dugin, realizzata dal corrispondente Rai, il 23 febbraio scorso. Ma si è trattato di un’unica intervista e il Tg2, fra le testate Rai, è arrivato ben ultimo. Nel dettaglio: un’intervista a Dugin va in onda il 18/02/2018 nella trasmissione a cura della TGR “Estovest”, un’altra intervista va in onda su RaiNews24 nel febbraio 2018, mentre il 28 ottobre 2018 viene intervistato nella puntata di Mezz’ora in più su Raitre. Siamo ben lontani, dunque, dal predicare qualsivoglia cosa sul Tg2.

Mariarita Grieco, Tg2

Il futuro del M5S. Le sconfitte su Tav, Tap e Ilva sono solo questioni locali?

 

Nell’articolo di Stefano Feltri di ieri Rompere non serve: andare al voto premia solo la Lega e Salvini si legge un’affermazione che trovo sconcertante: non solo il Tav, ma anche l’Ilva a Taranto, il Tap in Puglia, le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina, e così via, sarebbero tutti e solo “relativi a battaglie locali”. Ma il Fatto non ha lanciato e promosso cento battaglie per i beni comuni, per una concezione dell’intero territorio italiano come un tutto unico da gestire secondo criteri costanti, nel pubblico interesse come vuole la Costituzione? E non era questo, fra l’altro, uno dei punti più popolari del programma del M5S? Temo che in questo degradare a “locale” fatti e battaglie che sono di interesse nazionale si annidi il virus di una brutta, contagiosa malattia, tutt’uno con il suo placebo: finiremo col digerire tutto?

Maria Michela Sassi

 

Gentile Maria Michela, nell’articolo che lei cita, mi sono limitato a constatare un’ovvietà: nel passaggio dall’opposizione al governo, il Movimento Cinque Stelle ha perso molte battaglie locali e ne ha vinte alcune nazionali. Ha ceduto su Tav, Tap e Ilva (anche se la partita è ancora aperta, nel negoziato durissimo con l’azionista Mittal), ma ha conseguito alcuni obiettivi programmatici “nazionali” come il reddito di cittadinanza, il taglio di alcuni vitalizi rimasti, la legge Spazzacorrotti e così via. Questo ha delle inevitabili ripercussioni sull’elettorato e sulle prospettive del Movimento: si perdono i militanti delle origini, quelli che si erano avvicinati al M5S vedendolo come amplificatore nazionale di battaglie locali, e si conserva (forse) quell’elettorato di opinione che ha identificato nella forza guidata da Luigi Di Maio un’alternativa ai partiti tradizionali. Questo sembra intravedersi anche nei flussi elettorali: i delusi dal M5S scelgono l’astensione, più che un’offerta concorrente. La domanda è: i Cinque Stelle possono sopravvivere e reinventarsi anche dopo aver ceduto su temi storici? Stare al governo, inoltre, implica parecchi compromessi pure sulle questioni più “romane”, basti pensare al voto per salvare Matteo Salvini dal processo sul caso della nave Diciotti. Di Maio al momento non ha grandi alternative, andare alla crisi e al voto significa ammettere la sconfitta, consegnare Palazzo Chigi a Salvini e perdere metà dei parlamentari. Gli conviene prendere tempo. E provare a capire in che direzione far evolvere il M5S ora che alcuni obiettivi iniziali sono stati raggiunti mentre su altri fronti ha dovuto registrare cocenti sconfitte.

Stefano Feltri

Il fallimento

 

“Per l’importanza che la comunicazione riveste nel terzo millennio il servizio pubblico determina la qualità della democrazia”.

(da Ricostruiamo la politica di Francesco Occhetta – Edizioni San Paolo, 2019 – pag. 118)

 

È quantomeno singolare che l’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni, proprio alla vigilia della scadenza del suo mandato, abbia lanciato il 23 luglio scorso una bomba atomica come la minaccia di una maxi-multa da 72 milioni alla Rai, pari al 3 per cento del suo fatturato, per violazione del pluralismo informativo. Sono lacrime di coccodrillo quelle che versa ora l’Authority presieduta per sette anni da Angelo Marcello Cardani, con questo tardivo intervento sul degrado del sistema televisivo e in particolare del servizio pubblico. E fa pensare anche il fatto che la relazione per l’avvio dell’istruttoria sia stata presentata in extremis dal commissario di area progressista Mario Morcellini, nominato due anni fa in sostituzione del defunto Antonio Preto: sia perché lui stesso sapeva che con ogni probabilità la proposta non sarebbe stata approvata dalla maggioranza del collegio; sia perché Morcellini, con tutto il rispetto per la persona e per lo studioso, è l’unico commissario uscente che potrebbe essere riconfermato per altri cinque anni e quindi in cerca o in attesa di un’eventuale proroga.

Il fatto è che – come ha denunciato il deputato del Pd, Michele Anzaldi – l’Agcom chiude il suo mandato con un “bilancio largamente fallimentare”. Nel corso di questo settennato, riassume il parlamentare, “nessuna sanzione comminata di fronte a evidenti e imbarazzanti violazioni del pluralismo, nessun argine alla disinformazione sui social, umiliazione e vanificazione del lavoro del Parlamento sulle regole contro lo strapotere degli agenti televisivi”. Ancor più anomalo appare perciò l’annuncio a effetto di una super-sanzione, anche a prescindere dal merito e dall’oggetto. Se non corrisponde alla ricerca di un alibi, allora si tratta di una decisione tanto inefficace quanto pilatesca che rischia di sconfinare in una comica finale.

Nominato dal fu governo Monti, il presidente Cardani s’è distinto per l’inerzia e l’equilibrismo con cui ha guidato l’Authority. Salvo intervenire in modo indebito sulla maxi-fusione fra il gruppo editoriale L’Espresso e la società Itedi (Fiat), con un articolo pubblicato sul supplemento Affari & Finanza del quotidiano diretto allora da Ezio Mauro, in vista dell’operazione che ha partorito l’ircocervo denominato “Stampubblica”. In quell’intervento, Cardani si pronunciava inopinatamente a favore della fusione, anticipando un giudizio che spettava all’intero collegio, per motivarlo in forza delle “economie di scala” e della ricerca di “efficienza e razionalizzazione”.

Non è tuttavia un caso che l’Agcom si sia praticamente immobilizzata dal momento in cui il presidente è rimasto orfano del suo sponsor politico. Caduto il governo Monti, anche la gestione Cardani ha perso capacità d’iniziativa, sopravvivendo a se stessa nella pratica del “day by day”. Questo risale, per la verità, a un vizio d’origine dell’Authority che fin dalla sua istituzione nel lontano 1997 è stata condizionata dalle interferenze politiche, dagli interessi e dai conflitti d’interessi che hanno imperversato sul sistema televisivo nell’era di Sua Emittenza.

Adesso tocca al “governo del cambiamento” e al Parlamento nominare rispettivamente il nuovo presidente e i quattro commissari che compongono il collegio dell’Agcom. È lecito ricordare che si tratta per definizione di un’Autorità indipendente? È troppo chiedere che i partiti, di maggioranza e di opposizione, compiano scelte lineari e conseguenti?

“Ho sofferto di depressione”: il Vasco Rossi che non ti aspetti

“Cantare è il momento migliore, perché è nel resto della vita che faccio fatica. Io tendo a questo male di vivere”. L’incipit del nuovo libro di Vasco Rossi Non Stop Le mie emozioni da Modena Park a qui – scritto con Michele Monina –, rimanda al 2016, quando Bruce Springsteen pubblicò a sorpresa la sua autobiografia Born To Run. Emerse la volontà di affrontare pubblicamente la sua depressione, descrivendo non solo i trionfi di una rockstar ma, soprattutto, le ansie, le paure e i momenti down dopo un tour, quando si torna ai ritmi ordinari della vita. Il Blasco segue l’esempio del Boss ed evita un libro autocelebrativo, mostrandosi vulnerabile. Ed è una dimostrazione di forza. Il libro – il cui ricavato andrà in beneficenza – è una sorta di diario dell’ultimo tour, dalle prove di Castellaneta nel mese di maggio sino al 19 giugno, con l’ultimo dei due concerti in Sardegna. La depressione dell’artista è raccontata nel capitolo “Il mio canto della neve silenziosa”, il cuore del libro: “C’è stata anche una causa scatenante, esterna. La morte del mio amico Mario Giusti. Lui è uno che nella vita ne ha combinate davvero di tutti i colori. Però poi si era calmato, aveva cominciato a vivere serenamente. Ma la morte è arrivata all’improvviso, così, presentando un conto salatissimo quando lui era ormai una persona migliore, un po’ come canto in Quante volte. Questo fatto mi ha letteralmente impietrito, annichilito. Il male di vivere è diventato il mio vivere, in quel momento. Mi ha avvolto, immobilizzato”.

Vasco racconta la genesi di alcune sue canzoni nate proprio in questo contesto: “Quando ho il male di vivere non scrivo più. Canzoni come Stupido Hotel o Siamo soli, per dire, che vengono subito dopo quel periodo di depressione, le ho scritte quando ormai ne ero uscito, perché se vivi un momento così non hai la forza di fare niente, neanche di chiedere aiuto, figuriamoci di comporre canzoni”. Un episodio, in particolare, racconta come un fotogramma nitido l’apice della malattia: “Nel 1982, quando l’Italia vinse i Mondiali, io neppure sapevo che ci fossero. Ricordo che mi trovavo nel piazzale di una concessionaria di Bologna, meravigliato di non vedere nessuno in giro. Sentivo solo le urla della gente e non capivo cosa stesse succedendo”. Rispetto al passato oggi Vasco si racconta come un uomo pacificato con se stesso e le sue precedenti abitudini, scevro da giudizi e falsi moralismi: “Sono sopravvissuto a tutto e sono ancora qua. Un vero miracolo. Oggi ho cambiato vita e abitudini. Mi piace guardarmi intorno e avere cura di me. Non dedico più tutte le mie energie a scrivere canzoni”. Nel capitolo si anticipa anche il prossimo singolo, in uscita in autunno. Vasco crede nei singoli quale espressione del presente, del proprio modo di comunicare qui e adesso. E cita Spotify quale paradigma dello stato attuale della musica composta da playlist selezionate dal pubblico. “Potrebbe essere davvero l’ultima. È infatti il riassunto della mia vita, una sintesi. Anche una confessione (forse dovrei citare, con le dovute proporzioni, le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau o di sant’Agostino per intenderci). E un decalogo. Quello che mi ha sempre guidato fin qui. Insomma una canzone definitiva”.

Il (quasi) secolo di Franca che ha ammazzato la noia

È la noia il sentimento del tempo presente: non l’ha detto Moravia, l’ha scritto Valeri, Franca Valeri, 99 anni mercoledì prossimo. Quasi un secolo, portato benissimo, non fosse altro che è Il secolo della noia, come il titolo del suo ultimo, muriatico pamphlet licenziato da Einaudi.

Attrice e autrice, dal multiforme ingegno e dalla penna irresistibilmente crudele, Valeri si sente “un pezzo unico” – senza spocchia –, una donna “vissuta molto prima dell’attualità”, “allegrissima” al lago e che “lavora per essere felice”: ciononostante, “una che si annoia più di lei è difficile trovarla”.

Per scrivere della noia, e pensarla e leggerla, ci vuole talento: il talento di ammazzarla, la noia. E Valeri ne ha almeno un altro: il piglio icastico dell’aforista in un “Paese che ha dato un calcio alla tradizione, non capendo che era l’unico modo per essere moderni”. Quanto al tedio, che “fodera il fondo delle nostre giornate”, è un sentimento eroico, sì, ma solo “se ti afferra sulla tomba di un eroe o se lo vivi dietro un vetro in attesa di un amante ritardatario”.

La delusione del secolo è scoccata alla mezzanotte del “più normale capodanno, quasi a tradimento: io non ricordo neanche dove sono andata a cena”. Benvenuti nel Duemila e nel secolo XXI, “disadorno” oltre che noioso, anestetizzato e narcisista: “Credersi al centro dell’universo tocca chiunque è consolidato dalla televisione, da internet e dai social network… Vedo troppa gente convinta di conoscersi, mentre è evidentemente l’ultimo scopo della loro vita”. Per l’artista il mondo è inquinato da “questo sistema di familiarità nell’aria”: la più ficcante definizione della modernità che il sociologo definì, molto più prosaicamente, liquida.

“Credo che nessuno si sia mai sentito nel secolo giusto. Paolo Uccello avrebbe preferito farsi conoscere su internet: è molto più difficile avere un pubblico che non aspettare il lento cammino della storia dell’arte”: è troppo smaliziata e intelligente Valeri per attaccare la contemporaneità tout court, la virtualità, il sovraffollamento, le dittature e le galere dell’oggi. E infatti non attacca, insinua: Bugiarda no, reticente, come si definì lei stessa nell’autobiografia del 2010.

Di noia non si muore, ma ci si ammala: la pandemia si è diffusa “quando abbiamo smesso di telefonare coi gettoni”, quando la vita si è fatta facile, più svaghi ma meno godimento e zero fatica, eppure “il mondo era più bello quando ce n’era molta”. Forse la noia è solo il “prezzo” dei moderni privilegi, un anestetico che ha sedato con il dolore anche il “grande svago” che il dolore porta con sé. Persino l’amore è fuori moda, privato di qualsiasi fatalità, così come l’odio: “Non abbiamo più niente che ci sorprende”, o è solo pigrizia, perciò ben ci sta il grigiore.

In questo delizioso zibaldino di pensieri, l’attrice – forse per deformazione professionale – si ritrova spesso a chiacchierare con altri personaggi: l’Arte, la Scienza e il Teatro, “quel signore che mi ha accompagnato quasi tutta la vita” e che oggi, manco a dirlo, è di una noia mortale, soprattutto quando scimmiotta la realtà. Morti Puccini e Picasso, “diciamo che di grandi motivi di emozione non ne abbiamo avuti molti”: gli antichi maestri non sono quasi mai di conforto, semmai lo sono i cani, la cui “rigorosità” è bestiale, invidiabile, irraggiungibile.

Le relazioni, animali o umane, paiono l’unico rifugio all’uggia: l’amicizia, gli ingenui pettegolezzi, le favole sugli antenati, le cui “disperazioni erano così diverse”, così interessanti, così poco barbose. Certo, pure un marito o una moglie potrebbero essere un valido repellente al tedio; a patto, però, di scegliere quello giusto: “Meglio un idiota che un noioso, perché la noia è proprio uno stato di vita da evitare, se possibile. Ma non è possibile”.

Come Davide contro Golia: la sfida italiana a Venezia

Il tappeto rosso può attendere, per ora certo è l’inserimento nel cast e dunque nel cartellone di una ponderosa, financo mesmerizzante 76esima Mostra di Venezia: i premi Oscar Meryl Streep, Juliette Binoche, Penelope Cruz, Brad Pitt (produttore), Tommy Lee Jones, Donald Sutherland (statuetta alla carriera), Robert De Niro, Jean Dujardin, Gary Oldman e Mark Rylance.

Ancora, Catherine Deneuve, Kristen Stewart, Scarlett Johansson, Laura Dern, Gong Li, le rockstar Mick Jagger e Roger Waters, Johnny Depp, Robert Pattinson, Jude Law, Joaquin Phoenix, Ethan Hawke, Adam Driver, Gael García Bernal, Louis Garrel, Matthias Schoenaerts, Antonio Banderas, Timothée Chalamet, John Malkovich, Emmanuelle Seigner.

Con i nomi non si fanno i festival, ma le stelle aiutano: A-list hollywoodiana e aristocrazia europea sono un valore aggiunto, un moltiplicatore importante di visibilità. Garanzia di eccellente visione no, ma forse nemmeno importa troppo: per dire, lo spaziale Ad Astra di James Gray, con l’astronauta Pitt alla ricerca di papà Tommy Lee Jones, Waiting for the Barbarians di Ciro Guerra, con Rylance, Depp e Pattinson, o il relazionale Marriage Story di Noah Baumbach, con la Johansson e Drive, hanno una tale potenza di fuoco mediatica da emendare le possibili e passibili imperfezioni del caso, o no?

E che cosa ci si può aspettare, se non il meglio, da Ema del cileno Pablo Larraín, il J’accuse di Roman Polanski, incentrato sul seminale caso Dreyfus, interpretato da Dujardin e prodotto da Luca Barbareschi, da The Laundromat di Steven Soderbergh, divertissement cazzuto sui Panama Papers con la trinità Streep, Oldman e Banderas, o Wasp Network di Oliver Assayas, tra Irma Vep e Carlos con Cruz, Bernal e le spie cubane castriste su suolo americano negli anni Novanta?

Dice bene il direttore Alberto Barbera, “ci sono tanti film che lavorano con minuzia documentaria a ricostruire e ripensare eventi del passato. È la prevalenza del cinema della realtà: non i mondi paralleli, ma il nostro mondo raccontato oltre il cronachistico”. In questa volontà di potenza analitica e comprensione globale sta la grandeur – già prerogativa francese domiciliata a Cannes – esibita, ancorché tutta da verificare, di Venezia 76: al confronto, di questo festival e di questi stranieri, gli italiani peccano di piccineria, minimismo più che minimalismo, due camere e tinello con riserva sull’affaccio. La residua grandezza patria è sintomaticamente seriale: targate Sky, in visione al Lido due episodi per ciascuna, la narcotica ZeroZeroZero di Stefano Sollima e il bis al soglio di Pietro, The New Pope, di Paolo Sorrentino, esempi spiccati di co-produzione internazionale (Canal+ per entrambe, Cattleya e Amazon per la prima, Wildside e Hbo per la seconda).

In Concorso, viceversa, troviamo titoli nazionali di qualità, ma dalla silhouette meno imponente, dalle dimensioni più modeste: le tre M, ovvero Mario Martone con l’eduardiano Sindaco del Rione Sanità, tratto dalla propria tournée teatrale; Franco Maresco, che guarda al Leone da Palermo con la fotografa Letizia Battaglia, l’impresario Ciccio Mira e la constatazione che La mafia non è più quella di una volta; Pietro Marcello, che riadatta Martin Eden di Jack London entro i nostri confini con Luca Marinelli per protagonista. Rione, città e nazionalizzazione: tre indizi non fanno una prova, ma di fronte a Dreyfus del polacco naturalizzato francese Polanski, i Panama Papers dell’americano Soderbergh e gli 007 castristi dell’altro galletto Assayas, be’, la sensazione è del no contest, di categorie di peso diverse, se non di arredatori di interni versus architetti o ingegneri strutturisti.

A inaugurare, in competizione, la prima trasferta europea del nipponico Kore-eda Hirokazu, La veritè, con Deneuve, Binoche e Hawke, stavolta gli americani passano la mano dell’apertura, ma non lo scettro: in mancanza dell’atteso e ancora non pronto The Irishman di Martin Scorsese, De Niro dà la battuta, e parrebbe il testimone, a Phoenix, che restituisce al Joker di Todd Phillips voltaggio umanissimo, eco trumpiana e sicura direzione Oscar.

Fuori Concorso Francesca Archibugi (Vivere) e Gabriele Salvatores (Tutto il mio folle amore), a Orizzonti il promettente esordio Sole di Carlo Sironi e quello di Nunzia De Stefano, già signora Garrone, Nevia, Venezia 76 è grande al cospetto, e a dispetto, di un cinema italiano meno grande.

Tre metri insieme con gli altri: ora Moccia diventa “collettivo”

Già con Amore 14 (2008) e Scusa ma ti voglio sposare (2009) (il seguito di Scusa ma ti chiamo amore) Federico Moccia aveva dimostrato che la fantasia era finita, che il solito frullato di nomi ignobili (Step, Baby, Niki), dialoghi banali, passioni esitate, lacrime e poi tanto già detto e già scritto non bastava più. Nemmeno se condiva il tutto con le canzoni di Alessandra Amoroso. Così, dopo il silenzio sotto cui erano passati i suoi ultimi volumi, la ditta Moccia (che scrive libri, sceneggiature e programmi tv, dirige film e amministra anche paesi) in collaborazione con la casa editrice SEM vara l’esperimento narrativo “Il Cantiere delle storie”, un romanzo a più mani, in cui “chiede ai suoi lettori di contribuire direttamente alla scrittura dell’opera”. Otto storie tra quelle inviate saranno inserite nel prossimo libro di Moccia: La ragazza di Roma Nord, che già dal titolo oscura i film La ragazza di Parigi di Chaplin e La ragazza con la pistola di Monicelli. Anche noi parteciperemo, mandando una citazione dal libretto de Il ritorno d’Ulisse in patria firmato da Iacopo Badoer: “Un bel tacer/mai scritto fu”.

Byron e i ricci perduti: ciao ai pappataci di una volta

Era il tramonto, uno di quelli da cartolina della Grecia, tonalità pastello dovute alla densità dell’aria, nell’afa paludosa di Missolungi. Avevo il casco anche se a quel tempo (era il millennio scorso) non c’era legge che lo prescrivesse. Andavo verso Delfo e, per passare il tempo, pensavo a Byron, alla sua mitica nuotata nel golfo della città simbolo della resistenza agli ottomani, morto giovane (per i nostri tempi, ai suoi – la prima metà dell’800 – ne aveva combinate già parecchie, divenendo idolo romantico) per meningite. Forse erano le acque poco salubri ad aver favorito l’accesso di febbre fatale. Di colpo rimasi accecato, non vedevo più nulla. Passai il guanto sulla visiera, ma senza effetto. Fermai lentamente la moto e accostai sul lato della strada deserta. Tolsi il casco, ridotto a un unico impasto nerastro e brulicante: migliaia di pappataci s’erano schiantati in rapida successione annerendo l’orizzonte. I dubbi sulla sorte di Byron erano fugati.

Pochi giorni fa, passando a tarda sera su un tratto ancora paludoso della Maremma ripensavo al blob d’insetti ellenico e di colpo mi sono illuminato: il parabrezza dell’auto, pur avendo attraversato nottetempo diverse volte quelle zone ex malariche, era quasi pulito, solo rare tracce d’impatto di meteore animali. Allora ho cercato di ricordare quando era l’ultima volta che avevo visto un riccio schiacciato sulla carreggiata. È evidente: non ci sono più i pappataci di una volta. Soprattutto ce ne sono molti meno. Meno insetti, meno ricci, meno serpenti (di cui i ricci sono ghiotti), come già meno api, meno impollinazione: in cambio frutta e verdura levigate, gusto standardizzato. Ripensandoci quel casco oscurato non era un cattivo segnale.

La Capannina fa 90: “Dalle lacrime di Ray all’assolo di Benigni”

Jerry Calà ci suona ogni settimana, e da anni, ma se uno entra dentro la Capannina di Franceschi a Forte dei Marmi, può stropicciarsi gli occhi, incredulo, e ritrovare le atmosfere di Sapore di mare dei Vanzina. “Perché la Capannina è un’istituzione, un museo, con degli accenti onirici, e da quando ne sono proprietario (1976) ho cercato di rispettarne la storia”. Lui è Gherardo Guidi, un over settanta con lo sguardo di chi sa, ha visto, vissuto, indirizzato, soppesato e assegnato le giuste priorità alla vita, compresi gli errori: “Forse per troppe volte ho lavorato la notte. Anzi, la notte ho lavorato quasi sempre, mentre quelle ore vanno dedicate più al riposo, alla riflessione e all’amore”. A che ora si sveglia? “Dopo le due del pomeriggio…”. Negli anni ha ingaggiato il firmamento dello show, da James Brown a Renato Zero, da Ray Charles a Roberto Benigni, e scoperto Stefano Busà, considerato uno dei più bravi con pianoforte e repertorio italiano.

Insomma, la Capannina è un’istituzione…

È così da novant’anni, e non va cambiata: è un mix straordinario, un concentrato di esperienze, e ha resistito a tutto, comprese le bombe della guerra, le rivolte del ‘68 e il terrorismo degli anni Settanta e Ottanta.

Il pubblico.

Ci sono famiglie di nobili che la frequentano da sempre (ed elenca una lunga serie di casati), o dinastie di industriali (Gianni Agnelli era un habituè). È la Versilia.

Ora con i russi.

Hanno imparato i nostri tempi: quando sono arrivati pretendevano il tutto e subito; oggi non più.

Trasuda storia, dice.

Qui sono passati tutt e penso a James Brown: pretendeva tre presentazioni.

Tre?

Lo speaker doveva annunciarlo. Poi silenzio. Il secondo. Sempre silenzio. Quando iniziava il brusio del pubblico, allora partiva il terzo e lui appariva sul palco con tutta la sua energia.

Tatticissimo.

Mentre chi mi ha stupito di più è Ray Charles: all’improvviso inizia a raccontarmi del fratello morto, e dietro gli occhiali scuri vedo comparire delle lacrime. Erano passati anni dalla sua tragedia, ma immutata la sofferenza. Poi durante la sua esibizione ho percepito che era di un altro livello artistico, fuoriclasse.

Gli italiani.

Benigni, nel 1984, è salito sul palco per l’unico spettacolo di Capodanno della carriera.

E poi?

Anna Oxa bravissima, ma si è persa nei timori, e in soluzioni sbagliate.

Lo stress, un classico.

Ho visto artisti devastati da i crampi allo stomaco, anche Renato Carosone qui è scoppiato in lacrime.

Coma mai?

Negli anni Settanta si era ritirato dalle scene, era il momento delle contestazioni, e preferì studiare. Tornò a metà degli Ottanta totalmente cambiato, il suo spettacolo velocizzato; due anni dopo lo rivedo in privato. Lo abbraccio. Ed ecco le lacrime. “Alla mia età succede. Ti guardi attorno, vedi la Versilia e pensi al tempo che se n’è andato”.

Un artista sottovalutato?

Fred Bongusto.

Qui il tempo è quello di “Sapore di mare”.

E ho rischiato di perdere. Che errore sarebbe stato.

Cioé?

Venne da me la produzione per spiegare il progetto, “grazie, non mi interessa”. Tornarono il giorno dopo, altro no.

Fino a quando?

Nel copione apparve il nome di Virna Lisi, grande frequentatrice della Capannina, e donna meravigliosa: ho ceduto. E, ribadisco, per fortuna.

Un cult.

Me lo chiedono di continuo: quel film ha fissato un periodo, ha echi di gioia e positività, di leggerezza, e tutti vogliono risentire quel sapore.

Jerry Calà viene da anni.

Anni? Da una vita, e ogni volta, dopo il suo spettacolo, vedo i ragazzi uscire con il sorriso sul volto. Questo è il parametro: è fondamentale l’espressione di chi va via.

Competitor di questi decenni?

Alla fine dei Settanta era partita la moda della Sardegna, e con tutti la bollavo: “Non capisco l’enfasi, non è un granché, lo so”. In realtà non ci ero mai stato.

Un errore?

Non aver creduto fino in fondo in Giorgio Panariello, Carlo Conti e Leonardo Pieraccioni: lavoravano con me però al momento di produrre il film di quest’ultimo ho tentennato, ne ho parlato con mia moglie, lei contraria, così ho mollato il progetto a Vittorio Cecchi Gori. E lui ha incassato decine e decine di miliardi.

Sua moglie partecipa?

Stiamo insieme da cinquant’anni, e c’è sempre alle serate in Capannina. Vede? È un locale con una storia.