Il muro di Berlino è diventato memoria in tanti modi diversi, anche per la stessa persona. È il 1989, un anno che sarebbe restato senza volto se non fosse stato per l’attivismo un po’ frenetico di Ronald Reagan che, da attore, impersonava il ruolo di presidente degli Stati Uniti, simpatico, cordiale, aggressivo, pericoloso, invischiato, sia prima che dopo, in eventi segreti (Iran e Nicaragua) in guerre locali, in attacchi di poche ore e nessuna spiegazione (proteggeva Saddam, bombardava Gheddafi) e della capacità unica, si può dire, per un presidente conservatore, di diffondere ottimismo e una certa fiducia.
La caduta (si dovrebbe dire il crollo) del muro di Berlino è stato il grande evento che ha squassato e cambiato quell’anno, quel decennio, ma ha avuto la forza, difficile da spiegare, di cambiare del tutto il prima, non solo il dopo. Tutti noi attivi in quegli anni, abbiamo ancora ben radicata l’immagine del Check Point Charlie, uno stretto cunicolo grigio scuro di strada armata e sorvegliata: soldati, polizia, agenti scoperti, agenti coperti, agenti segreti, infiltrati, provocatori che cercavano tutto, toccavano tutto, anche la carta da pacco, sotto e sopra, e ogni ispezione appariva interrotta, non finita, e ognuno restava un sospetto.
Check Point Charlie era l’unico modo di compiere una operazione magica: passare da una città luminosa e ricca a una città scura e povera, strade deserte, passanti come comparse di un film denigratorio, auto (pochissime) come in una parodia malevola. E il teatro di Bertolt Brecht, che ogni volta si andava a vedere, polveroso e grigio come il resto dei luoghi intorno, dove tutto, persone e cose, aveva l’aria di andare verso una dignitosa estinzione.
Check Point Charlie è stata per decenni una triste Disneyland del comunismo al potere. Ma nessuno poteva prevedere la portata del crollo, che ha distrutto tutto il prima, fatto di orgoglio per la vittoria contro il fascismo e il nazismo della seconda guerra mondiale, e aveva dato a ciascuno, nel mondo libero, una pretesa di protagonismo e di controllo libero del destino che è evaporato di colpo. Ora, con quello che abbiamo vissuto e sperimentato da allora, non è fuori posto spingere avanti i pezzi di quel che ci resta di allora (memoria, storia, emozioni, euforia, paura) senza metterli in ordine. Perchè il disordine che allora sembrava festoso sul grande evento che ha reso memorabile il 1989, è rimasto con noi, un disordine che non è più finito e anzi è una macchia che si allarga sempre di più e impedisce di capire bene il prima e di intravedere il dopo, che è diventato un terribile gioco a mosca cieca. L’evento “muro” per me si colloca fra due persone. Una è Kurt Masur, il grande Direttore d’orchestra tedesco che, benchè vivesse a Berlino East, era uno dei pochi grandi che poteva viaggiare, e a New York lo incontravo al Carnegie Hall o al Metropolitan Theatre. Dopo il muro l’ho intervistato a Bologna (dove era venuto a dirigere un concerto) per un libro e un documentario dal titolo Il terzo dopoguerra e ho avuto da lui la storia dei suoi giovani violinisti. Erano andati a suonare davanti al muro ancora intatto, ed erano stati arrestati. Masur allora ha portato tutta l’orchestra sotto il muro e benchè circondato da soldati armati, ha diretto, come in un rito magico, tutte le sinfonie di Beethoven, “e il muro è crollato” (sto citando lui).
Infatti i soldati sono scomparsi e sono arrivati i ragazzi delle picconate e della apertura dei primi varchi. “Sul momento – diceva Mansur – è sembrato davvero che l’Inno alla Gioia fosse magico”. Anche l’altro protagonista della mia memoria del muro è un artista, un artista da strada che ho conosciuto molto dopo. Lui – Kiddy Citney – dipingeva sul posto tutti i pezzi di muro che gli cadevano intorno, dipingeva soprattutto con un viso di donna che lo ha poi reso famoso nelle Gallerie e nelle mostre.
Io ho avuto da lui in regalo un suo pezzo di muro solo pochi anni fa. Devo aggiungere una scena che mi è chiara come un film ma che resta sospesa nell’irrealtà come un sogno: una “motorcade” di molte limousine nere con una scorta immensa sta muovendosi lungo Park Avenue, a Manhattan in un pomeriggio di sole, i passanti diventano folla che applaude. Poi sempre più folla che accorre dalle strade laterali. La motorcade si ferma, le moto e i blindati di scorta non sembrano avere ordini. Ma da una delle auto nere scende, da solo, Gorbaciov e comincia a stringere mani.
E so benissimo che non siamo in sequenza temporale corretta per questa sequenza. Ma è legata alla caduta del muro, al fatto che ha reso unico nelle nostre vite il 1989. Unico e ingannevole.
Il vento di euforia, a momenti di gioia, a momenti di incontrollata speranza che stava agitando i sentimenti e le bandiere del mondo, era una falsa spinta verso qualcosa che non accadeva e non sarebbe accaduto. Stava iniziando la grande discesa sempre meno controllata, sempre meno conosciuta , dove persino i disastri non sono soltanto un complotto o un malevolo piano. Sono una sorta di accidente che si ripete, dove il male, come se fosse stato liberato da una sua prigione, vaga in cerca di protagonisti, e costringe a uno stato di guerra che, dopo molti sobbalzi e molte finte vittorie, abbiamo cominciato a organizzare noi stessi, munendoci della indifferenza e della crudeltà necessarie, perdendo, come il nemico o presunto nemico, sempre un po’ più di umanità, e arrivando al punto da promettere la costruzione di muri dovunque, gettando intanto sulla strada di altri esseri umani tutto il filo spinato che riusciamo a trovare, il più tagliente possibile e dedicando insulti e disprezzo a chi, nonostante tutto, riesce a passare. No, il 1989 è stato un grande anno. Ma non è finito bene.