Quando anche nei santuari del marchionnismo si insinua il dubbio che “il maestro” abbia sbagliato, capisci che la lode è cosa per i vivi e non per i morti. Quando l’ex amministratore delegato della Fiat poi Fca era in vita i commenti sulla sua attività da manager toccavano vette altissime e c’era sempre qualche Aldo Cazzullo che ne cantava le gesta.
Ieri, anniversario della sua morte, il Corriere della Sera gli ha dedicato uno striminzito ricordo a pagina 39, ma solo per promuovere un libro del giornale medesimo. Nessuna firma illustre a ricordarlo, nessuna analisi finanziaria o industriale a rimarcare lo stato di salute della Fiat.
Ma il germe della critica postuma, sia pure pudicamente velata, si è fatto strada su Repubblica che a Marchionne ha dedicato uno speciale, anche se tutto online. Ed è lì che si ricorda che “nell’ultimo periodo della sua gestione Marchionne (d’accordo con l’azionista) aveva rinviato alcuni investimenti sul prodotto per raggiungere l’azzeramento del debito”. Finalmente l’ammissione che i tanto sbandierati investimenti annunciati in convention americane con giornalisti al seguito erano tracciati sulla carta, ma è come se lo fossero stati sull’acqua. Repubblica ammette, a denti stretti, che anche la grande intuizione marchionniana, la necessità delle alleanze internazionale, “prevedeva tempi stretti”. E quei tempi, soprattutto dopo il flop con Renault, rischiano di essere superati.
Il concetto è spiegato con più chiarezza e meno complessi sul Sole 24 Ore, giornale di Confindustria che con Marchionne non ha mai legato ma che della sua strategia ha dato sempre giudizi esemplari. E invece nello speciale, anche qui pubblicato online, ricordando “la visione macroeconomica sulle tendenze dell’industria dell’auto” come una delle tracce distintive dell’opera di Marchionne, il quotidiano salmonato nota che “le cose non sono andate come lui aveva previsto”. E pur riconoscendo che sull’idea industriale della Fiat medesima e sulla cultura industriale Marchionne ha vinto, il giornale economico non può sottacere che “questo processo di fusione e di aggregazione non è avvenuto. Si è, piuttosto, assistito a una riperimetrazione delle imprese: no alla finanza straordinaria sull’equity, sì alla focalizzazione sul core-business, (…) Quasi una forma di ritorno alla matrice novecentesca”. L’industria automobilistica, si è insomma ritratta proprio lì dove Marchionne pensava non sarebbe tornata e a lui sono mancati i tempi giusti.
Maggiore chiarezza la si trova però sul Foglio, che nei tempi degli splendori vedeva in Marchionne un filosofo della politica, che si ritrovano i giudizi più netti: “In questi dodici mesi la sua visione globale non solo è rimasta incompiuta ma ha subito duri colpi”. In termini di mercato, aggiunge il Foglio, “Fca soffre oggi più dei concorrenti la difficile congiuntura innescata dalla caduta del diesel”. “E la responsabilità è anche di Marchionne” il quale “aveva ritardato gli investimenti sui motori meno inquinanti”.
Non si tratta di giudizi impietosi, sia chiaro, ma sono gli stessi giudizi critici che nei confronti della Fiat-Fca, e del suo leader, hanno espresso per anni i sindacalisti che lo hanno contrastato, gli operai che hanno scioperato e i giornali che sono andati controcorrente. Gli stessi che venivano bollati come ideologici e fuori dal tempo. Oggi, invece, che Marchionne non c’è più e la realtà prende il sopravvento sulla “visione”, le penne si riprendono la libertà. A meno che questa resipiscenza postuma non nasconda una nuova compiacenza verso chi sta cercando di dimenticare e di far dimenticare il lavoro di Marchionne: la famiglia Agnelli, ovvero John Elkann.