Ora che è morto Marchionne si può criticare

Quando anche nei santuari del marchionnismo si insinua il dubbio che “il maestro” abbia sbagliato, capisci che la lode è cosa per i vivi e non per i morti. Quando l’ex amministratore delegato della Fiat poi Fca era in vita i commenti sulla sua attività da manager toccavano vette altissime e c’era sempre qualche Aldo Cazzullo che ne cantava le gesta.

Ieri, anniversario della sua morte, il Corriere della Sera gli ha dedicato uno striminzito ricordo a pagina 39, ma solo per promuovere un libro del giornale medesimo. Nessuna firma illustre a ricordarlo, nessuna analisi finanziaria o industriale a rimarcare lo stato di salute della Fiat.

Ma il germe della critica postuma, sia pure pudicamente velata, si è fatto strada su Repubblica che a Marchionne ha dedicato uno speciale, anche se tutto online. Ed è lì che si ricorda che “nell’ultimo periodo della sua gestione Marchionne (d’accordo con l’azionista) aveva rinviato alcuni investimenti sul prodotto per raggiungere l’azzeramento del debito”. Finalmente l’ammissione che i tanto sbandierati investimenti annunciati in convention americane con giornalisti al seguito erano tracciati sulla carta, ma è come se lo fossero stati sull’acqua. Repubblica ammette, a denti stretti, che anche la grande intuizione marchionniana, la necessità delle alleanze internazionale, “prevedeva tempi stretti”. E quei tempi, soprattutto dopo il flop con Renault, rischiano di essere superati.

Il concetto è spiegato con più chiarezza e meno complessi sul Sole 24 Ore, giornale di Confindustria che con Marchionne non ha mai legato ma che della sua strategia ha dato sempre giudizi esemplari. E invece nello speciale, anche qui pubblicato online, ricordando “la visione macroeconomica sulle tendenze dell’industria dell’auto” come una delle tracce distintive dell’opera di Marchionne, il quotidiano salmonato nota che “le cose non sono andate come lui aveva previsto”. E pur riconoscendo che sull’idea industriale della Fiat medesima e sulla cultura industriale Marchionne ha vinto, il giornale economico non può sottacere che “questo processo di fusione e di aggregazione non è avvenuto. Si è, piuttosto, assistito a una riperimetrazione delle imprese: no alla finanza straordinaria sull’equity, sì alla focalizzazione sul core-business, (…) Quasi una forma di ritorno alla matrice novecentesca”. L’industria automobilistica, si è insomma ritratta proprio lì dove Marchionne pensava non sarebbe tornata e a lui sono mancati i tempi giusti.

Maggiore chiarezza la si trova però sul Foglio, che nei tempi degli splendori vedeva in Marchionne un filosofo della politica, che si ritrovano i giudizi più netti: “In questi dodici mesi la sua visione globale non solo è rimasta incompiuta ma ha subito duri colpi”. In termini di mercato, aggiunge il Foglio, “Fca soffre oggi più dei concorrenti la difficile congiuntura innescata dalla caduta del diesel”. “E la responsabilità è anche di Marchionne” il quale “aveva ritardato gli investimenti sui motori meno inquinanti”.

Non si tratta di giudizi impietosi, sia chiaro, ma sono gli stessi giudizi critici che nei confronti della Fiat-Fca, e del suo leader, hanno espresso per anni i sindacalisti che lo hanno contrastato, gli operai che hanno scioperato e i giornali che sono andati controcorrente. Gli stessi che venivano bollati come ideologici e fuori dal tempo. Oggi, invece, che Marchionne non c’è più e la realtà prende il sopravvento sulla “visione”, le penne si riprendono la libertà. A meno che questa resipiscenza postuma non nasconda una nuova compiacenza verso chi sta cercando di dimenticare e di far dimenticare il lavoro di Marchionne: la famiglia Agnelli, ovvero John Elkann.

Il senso dei dem per le occasioni perse

Costretto in una coazione freudiana ormai irrecuperabile, mercoledì il Pd ha mancato l’ennesima occasione per certificare la sua esistenza in vita. La giornata era fitta di cose importantissime che non interessano a nessuno: Renzi che parla in Senato, anzi no, su Facebook, perché lì nessuno lo critica e tutti gli vogliono bene; Zingaretti che incassa gli starnazzi incrociati spacciati per democrazia interna di chi aveva giurato “da noi mai fuoco amico” e i movimenti di retrovia dei reduci renziani, ormai una categoria protetta, intervistati a giornali unificati perché sia chiaro che fanno opposizione al segretario e a Franceschini minacciando mozioni di sfiducia contro Salvini.

A forza di stare sui social a gareggiare col ministro dell’Insaccato sul piano della ciarlataneria, quelli del Pd, che in teoria di lavoro fanno i politici, manco si sono accorti che nel frattempo il presidente Conte, nel riferire in Senato della presunta trattativa della Lega per ottenere fondi neri dalla Russia, stava dando del bugiardo a Salvini. E di conseguenza, invece di cavalcare l’enormità, denunciarla agli italiani e chiederne conto a Salvini, hanno passato la giornata a insultare Conte.

“Sinceramente il presidente del Consiglio è imbarazzante. È veramente imbarazzante. Di Maio e Salvini per me sono il male, ma rispetto al presidente del Consiglio almeno hanno una dimensione”, ha spifferato Renzi, occasionalmente alla buvette; “Oggi il Presidente Conte non ha detto nulla”, ha twittato Zingaretti, sempre acuto. In effetti, Conte ha solo detto che Salvini è un bugiardo: “Su indicazione del protocollo del ministero dell’Interno, la delegazione ufficiale comprendeva anche il nominativo del signor Savoini”, circostanza sempre negata da Salvini, che non si sa a che titolo il 16 luglio 2018 s’è portato dietro in Russia un personaggio senza “incarichi ufficiali o rapporti di collaborazione formale con membri di governo”. Etimologicamente spensierati come sono, i fratelli coltelli del Pd si sono messi a gareggiare amorosamente con Salvini e Di Maio a chi era più bravo e popolare in quella specie di Second Life che è diventata la politica in mano a questi Internet-dipendenti (Renzi, e chi sennò, ha persino pubblicato le schermate delle tre dirette Facebook, la sua e quella degli altri due statisti, vantandosi dei suoi 1000 visitatori in più).

Del resto, con lo stesso dilettantismo ha reagito l’opposizione in merito alla vicenda di Bibbiano. Come difendersi dagli attacchi strumentali e sciacalleschi di Salvini e Di Maio su questa storiaccia di affidi famigliari in cui il Pd non c’entra niente? Ma è semplice: condividendo il codice dello sciacallaggio. Ecco allora su Twitter un lugubre contro-video orgogliosamente firmato Deputati del Pd, con grafica e musica tipiche della peggiore web-paccottiglia complottista, in cui scorrono le immagini di Di Maio che dice “io col partito di Bibbiano non voglio avere nulla a che fare” e sopra la scritta: “I 5Stelle hanno dato 195mila euro alla Onlus sotto inchiesta” e “l’avvocato Ognibene, esponente di punta dei 5Stelle, difenderà la responsabile dei servizi sociali finita ai domiciliari. Cosa nasconde il M5S su Bibbiano?”. Il sottotesto è chiaro: è il M5S che ruba bambini, non noi.

La ripicca implica un nonsense logico: se i 5Stelle maramaldeggiano accostando al Pd l’inchiesta “Angeli e demoni” solo perché il sindaco di Bibbiano, del Pd, è indagato per abuso d’ufficio per aver concesso locali alla Onlus, allora si neutralizza la malafede di questa accusa rovesciandola pari pari contro i 5Stelle. Ma in quale universo incolpare i 5Stelle di nascondere qualcosa di losco per aver avuto rapporti amministrativi con la Onlus annulla, e non corrobora, l’accusa speculare che i 5Stelle rivolgono al Pd di finanziare i presunti manipolatori di bambini? Fosse stato un partito di persone serie che se ne fregano del consenso (un consenso peraltro scadente, dopato dalle trasmissioni del pomeriggio e condito di sfumature morbose), il Pd avrebbe dovuto chiedere i danni a Salvini e a Di Maio, tanto l’accostamento è oltraggioso. Purtroppo sono talmente storditi e di sguardo corto da non accorgersi che contro-accusare i 5S di essere la cupola di un’associazione a delinquere è la mossa più stupida e autolesionista si potesse fare. Una tipica mossa del Pd degli anni dal 2013 in poi, insomma.

Per entrambe le sviste, le spiegazioni sono due: o nel Pd sono intellettualmente e politicamente limitati, sospetto che si fa vieppiù fondato; o Salvini – fascista, mussoliniano, putiniano, pagato dai russi (ma questo, non scherziamo, solo per gigioneggiare sui social) – non gli dà poi così fastidio (anzi, l’antagonista serve negli storytelling primitivi, e poi è pur sempre il quasi genero di Verdini). Il problema sono Di Maio, che ruba bambini, e Conte, che col suo 58% dei gradimenti “è veramente imbarazzante”.

Emilia Romagna. Per boicottare i diritti Lgbt si ostacola anche l’inchiesta su Bibbiano

Gentile redazione, il percorso della legge anti-discriminazioni in Emilia Romagna sta rappresentando uno spettacolo al limite del grottesco. Ora il centrodestra ha presentato oltre 1.787 emendamenti che terranno l’assemblea impegnata a oltranza, impedendo peraltro di affrontare altri temi importanti come la commissione d’inchiesta su Bibbiano, di cui molto si parla in questi giorni. Ma possibile che in tema di diritti ci si ritrovi ancora a questo punto?

Luisella Girardi

 

Cara Luisella, secondo gli ultimi dati del report 2018 di Transgender Europe  sulle vittime di discriminazione di genere, a fare da capofila fra i Paesi con il più alto tasso di delitti a sfondo transfobico è, nell’Unione europea, l’Italia (e i numeri delle violenze sono da considerare sottostimati, anche perché molte persone trans, avendo il nome di battesimo sui documenti, non risultano conteggiate in queste statistiche). E la situazione, per quello che riguarda il 2019, non pare migliorare, anzi. Solo nell’ultima settimana, se restiamo nella “civile” Bologna, si sono registrati due episodi: l’ultimo ha visto una giovane donna trans – sex-worker sudamericana regolarmente soggiornante in Italia – adescata da una coppia e poi presa a sprangate, e ridotta all’immobilità. È in questo contesto, un contesto di intolleranza e chiusura verso tutte le forme di diversità, che si innesta la travagliata approvazione della legge regionale dell’Emilia Romagna per contrastare la violenza contro le persone gay, trans, lesbiche, bisessuali, queer e intersessuali. Prima la discussione si era arenata a causa di un emendamento presentato dall’ala cattolica del Pd contro la maternità surrogata che aveva spaccato la maggioranza dem (a dimostrazione di quanto certi temi siano controversi anche per la sinistra). Ora questa marea di emendamenti tradisce una strategia tutta strumentale, e ideologica. Parliamo peraltro di una legge che, per le associazioni lgbtqi+, se pur importante viene considerata, già nell’attuale formulazione, “depotenziata nel suo valore anti-discriminatorio e non all’altezza delle necessità delle nostre vite”. La cara amica Porpora Marcasciano, storica attivista per i diritti umani e presidente onorario del Movimento Identità Transessuale di Bologna, lo ripete da tempo: “Per la politica siamo cittadini di serie B, ed è anche da questa discriminazione che nascono le violenze”. E dire che proprio la città di Bologna vide la mitica Marcella Di Folco prima transessuale al mondo eletta a una carica pubblica. Chissà cosa direbbe Marcellona oggi…

Maddalena Oliva

Alla Dna Sirignano Maresca e Sparagna, non passa Dambruoso

Votatidalla Terza Commissione del Csm i candidati per i tre posti vacanti di pm alla Dna: 5 consiglieri su 6 (il presidente Ciambellini, Unicost, Zaccaro, Area, Pepe, AeI, Benedetti e Cerabona, laici di M5s e FI) hanno indicato Catello Maresca, il pm napoletano per cui faceva il tifo (magari a sua insaputa) Cesare Sirignano, il pm della Dna che parlava, senza alcun titolo, di varie nomine con Luca Palamara, intercettato. Unanimità per Roberto Sparagna, pm di Torino anti ‘ndrangheta e anti terrorismo e Giuseppe Gatti, il pm barese esperto di mafia foggiana e garganica. La consigliera Braggion, di Mi, invece di Maresca ha votato per Rino Piscitello, capo uscente dell’ufficio detenuti del Dap, ora pm a Palermo. Affossato Stefano Dambruoso, pm a Bologna, ex collaboratore di Alfano ed ex deputato di Scelta Civica. Lo volevano i laici leghisti e di Fi (non il napoletano Cerabona, che ha preferito Maresca) ma i togati sono stati compatti: lo ritengono troppo vicino alla politica. Grandi esclusi Domenico Gozzo, sostituto pg di Palermo, ex pm del processo Dell’Utri ed ex aggiunto a Caltanissetta e Antonello Ardituro, ex Csm, pm di Napoli in prima fila contro la camorra.

“Unità affossata dal Pd”: scontro con il pm

A settembre si tornerà a parlare dell’Unità e di come è stata uccisa la storica testata fondata da Antonio Gramsci: l’occasione sarà l’udienza preliminare del processo per bancarotta fraudolenta con imputati, tra gli altri, Renato Soru, fondatore di Tiscali, ex governatore della Sardegna ed ex eurodeputato del Pd, e l’imprenditore Maurizio Mian che gli è succeduto come editore del giornale. Ora i difensori di Mian e di due consigliere d’amministrazione (Olena Pryschchepko e Carla Maria Riccitelli) della società Nie, Nuove iniziative editoriali, che ha mandato il giornale in edicola dal 2008 al 2015, protestano contro il pm che ha svolto l’indagine: Stefano Fava, magistrato già in servizio alla Procura di Roma (e trasferito ora a Latina, su sua richiesta) coinvolto nella vicenda che ha travolto il Csm e l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Fava ora è indagato dalla Procura di Perugia per favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio proprio a favore di Palamara.

I legali Pasquale Pantano e Davide Contini avevano chiesto a Fava di approfondire il ruolo del Pd nella crisi de l’Unità. “Dopo che il pm ci ha notificato nell’aprile dell’anno scorso l’atto di chiusura delle indagini, abbiamo constatato che nella consulenza tecnica da lui disposta mancava tutta la parte relativa al ruolo del Partito democratico e perfino i documenti societari necessari per stabilire le responsabilità nella gestione”. Pantano e Contini hanno quindi presentato un’istanza al pm chiedendo di verificare, tra l’altro, l’esistenza di un patto parasociale “in forza del quale la concreta gestione dell’affare sociale di Nie era concentrata nelle esclusive mani del Partito democratico, per il tramite di Eventi Italia srl”. Era ancora il Pd di Matteo Renzi. I due legali richiamano anche le interviste di tre uomini del Pd – Matteo Orfini, Matteo Fago e Antonio Misiani – che confermano il fatto che su Nie decideva il partito. Chiedono al pm di sentire nuovi testimoni: Misiani, ex tesoriere Pd, che secondo un testimone avrebbe firmato il patto parasociale; Orfini, presidente del Pd fino al marzo 2019; e Lino Paganelli, amministratore unico di Eventi Italia srl. Fava risponde alle richieste dei due avvocati con poche righe scritte a mano: “Si rigettano le richieste istruttorie potendo provvedere la difesa all’acquisizione dei documenti e all’assunzione delle informazioni”.

Gli avvocati Pantano e Contini restano di sasso: “In sostanza il pubblico ministero ci dice di fare noi, di indagare noi sul Pd, quando invece spetterebbe a lui”. I due legali avevano allegato alle loro richieste anche una memoria di Mian in cui l’imprenditore scriveva: “Ho registrato una perdita di quasi 14 milioni di euro, frutto di una gestione a dir poco arrogante da parte del Pd che usava la Nuova società editrice (Nie) per assecondare i propri principi politici”.

A settembre, accusa e difese si confronteranno nell’udienza preliminare, in cui anche Soru, su un versante opposto, protesterà contro le accuse che gli sono state contestate dal pm: “Non sono mai stato nel consiglio d’amministrazione della Nie e non ho mai svolto alcun ruolo in quella società. Nel 2008, quando ne controllavo il capitale, avevo scelto gli amministratori. Tuttavia, come sarà facile appurare, ne ho perso il controllo già nel 2012 con l’arrivo del nuovo azionista Mian. All’epoca dei fatti contestati la mia partecipazione era scesa sotto il 5 per cento. Pertanto, diversamente da quanto sostiene l’accusa, non avevo alcuna possibilità di poter incidere nelle decisioni di gestione della società”.

Il pm Fava, interpellato dal Fatto, spiega di aver indagato tutti coloro i quali hanno avuto cariche e responsabilità nella società editrice finita in bancarotta: “Un conto è dire che il partito abbia avuto un influsso sulla testata, altro è individuare specifiche responsabilità penali. Dagli atti non sono emerse responsabilità di altri che possano aver cagionato il dissesto, in concorso con gli amministratori formali”.

La Corte dei Conti condanna Penati per il caso Serravalle

Da anni ripete come un mantra: “Sono stato assolto da tutto”. Ora una sentenza della Corte dei Conti mette qualche granello di sabbia nella solida convinzione di Filippo Penati e dei giornali che da anni lo ospitano senza mai chiedergli conto di una prescrizione che ha azzerato le accuse più gravi che gli erano state rivolte su quello che è stato chiamato il “sistema Sesto”.

La nuova sentenza è quella d’appello che ribalta le assoluzioni che chiusero nel 2015 il processo di primo grado per l’acquisto nel 2005 da parte della Provincia di Milano del 15% delle azioni dell’autostrada Milano-Serravalle. Allora Penati era presidente della Provincia e aveva, a sorpresa, comprato azioni di una società di cui, insieme al Comune di Milano, aveva già la maggioranza. A guadagnarci fu il venditore, il gruppo Gavio, che incassò 238 milioni, vendendo a 8,93 euro azioni che solo diciotto mesi prima aveva pagato 2,9 euro; realizzando dunque una plusvalenza di 176 milioni. L’allora sindaco di Milano Gabriele Albertini, affermò che Penati aveva fatto un regalo cash a Marcellino Gavio. In cambio, secondo Albertini, Gavio si schierò a fianco dei “furbetti del quartierino” sostenendo Giovanni Consorte, il presidente di Unipol, nella sua scalata alla Bnl: Gavio investì infatti 50 milioni per lo 0,5% della banca. Poi Penati, che era stato sindaco Pci di Sesto San Giovanni, diventò capo della segreteria di Bersani, allora segretario dei Ds. Nel processo che seguì, la Corte dei Conti assolse Penati in primo grado. Oggi lo condanna invece a risarcire, insieme ai suoi undici coimputati, un danno di 44,5 milioni. Con lui, che risponde di un danno di 19,8 milioni, sono stati condannati Antonio Princiotta, all’epoca segretario generale della Provincia (14,8 milioni), Giordano Vimercati, capo di gabinetto, e Giancarlo Saporito, direttore generale (insieme dovranno pagare 4,9 milioni), e altre otto persone (4,9 milioni). Secondo la Procura della Corte dei Conti della Lombardia, nell’operazione di acquisto il valore delle azioni era stato sopravvalutato causando un danno alla Provincia che va da 35,3 a 97,4 milioni e al Comune di Milano di 21,8 milioni. “I miei avvocati faranno ricorso e tutto questo si scioglierà come neve al sole”, dichiara Filippo Penati che aggiunge: “Un anno fa mi è stato riscontrato un cancro e i medici concordano che è anche conseguenza della mia vicenda giudiziaria. Da un anno sto combattendo. Questa è la sfida più importante della mia vita. Della vicenda Serravalle si occuperanno i miei legali”. Non rinuncia poi a ripetere per l’ennesima volta di essere stato sempre assolto.

Falso. A Penati è arrivata, nel 2016, l’archiviazione delle imputazioni minori fiorite attorno al processo principale sul “sistema Sesto”. Era la chiusura di 47 faldoni d’indagini che riguardavano una miriade di fatti che sarebbero stati comunque in gran parte prescritti. Il processo principale, invece, era quello condotto da Walter Mapelli, il procuratore di Monza recentemente scomparso. Era diviso in tre filoni, chiusi nel dicembre 2015 in primo grado.

Nel filone principale, Penati era accusato di concussione per una supertangente (5 miliardi e 750 milioni di lire) che l’imprenditore Giuseppe Pasini dice di avergli pagato come anticipo di una mazzetta complessiva di 20 miliardi di lire per ottenere di poter costruire sull’area Falck, a Sesto San Giovanni. Questa accusa, cuore del “sistema Sesto”, non è mai andata a processo. Penati aveva giurato che avrebbe rinunciato alla prescrizione, ma era assente dall’aula proprio nel momento magico in cui avrebbe dovuto formalizzare la rinuncia: così la prescrizione gli è piovuta addosso a sua insaputa e lo ha reso puro come un giglio. Ora la Corte dei conti riapre la partita su un’altra vicenda. E condanna.

Consip, il gip non archivia l’inchiesta su Papà Renzi

Tiziano Renzi resta indagato e anche Lotti non agguanta l’archiviazione, data ormai per scontata, della seconda accusa per rivelazione di segreto. Due brutte notizie da Roma per il Giglio magico. Il giudice delle indagini preliminari, Gaspare Sturzo, ha rigettato la richiesta di archiviazione contro Tiziano Renzi e i suoi co-indagati per i presunti traffici di influenze sul caso della gara Consip. Non solo: il Gip ha rigettato la richiesta di archiviazione oltre che per Lotti anche per l’ex comandante dei Carabinieri della Toscana Emanuele Saltalamacchia. La duplice soffiata all’amministratore di allora della Consip, Luigi Marroni (intercettato dai Carabinieri, anche se non indagato) per il Gip potrebbe configurare oltre al favoreggiamento, per il quale c’è stata già la richiesta di rinvio a giudizio dei pm, anche la rivelazione di segreto, esclusa dai pm in quanto “non vi è alcuna prova che Lotti e Saltalamacchia abbiano appreso le informazioni sensibili in ragione della loro qualità”. Tesi che il Gip Sturzo vuole verificare.

Rigettata anche la richiesta di archiviazione per la presunta turbativa della gara Consip per l’ex presidente Domenico Casalino, il dirigente Francesco Licci e un tecnico, Stefano Pandimiglio, insieme all’imprenditore Alfredo Romeo e al suo consulente ed ex politico, Italo Bocchino. Il rigetto più sonoro firmato da Sturzo è però quello dell’archiviazione del traffico di influenze sulla medesima gara per Romeo, Bocchino e Tiziano Renzi. Importante anche il rigetto dell’archiviazione per la turbativa presunta sulla gara di Grandi Stazioni, ipotizzata a carico dei soliti Bocchino e Romeo insieme a Carlo Russo e Silvio Gizzi, tuttora amministratore delegato della società del gruppo Ferrovie, Grandi Stazioni Rail.

Il Gip Luigi Sturzo ha firmato una decisione non scontata. Già magistrato antimafia a Palermo negli anni novanta, nipote di Luigi Sturzo, nel 2012 candidato alle regionali in Sicilia per un partito Italiani Liberi e Forti, Ilef, che si ispirava al messaggio del fondatore del Partito Popolare, Sturzo si è fatto consegnare il 25 giugno scorso tutti i cd informatici indicizzati con gli atti del processo. Dopo averli studiati con attenzione è giunto alla decisione che non è ancora tempo di archiviare. Il gip nel provvedimento non svela i suoi ragionamenti e respinge la richiesta di archiviazione del procuratore Giuseppe Pignatone con tre pagine secche.

Sturzo scrive solo che “la richiesta di archiviazione non può essere accolta” per quei fatti e per gli indagati suddetti. Il Gip premette di aver letto la richiesta presentata a ottobre e anche l’informativa del 25 marzo scorso dei Carabinieri con annessa nota dei pm. Nota e informativa erano relative alle chat, intercorse anche con Tiziano Renzi, estratte dal telefonino di Carlo Russo, sequestrato nel 2017 a Scandicci ma aperto, grazie ai tecnici tedeschi, solo nel 2019.

Dopo aver letto le chat di Tiziano Renzi e Carlo Russo, anche quelle nelle quali i due sembravano commentare con soddisfazione l’incontro con Alfredo Romeo a Firenze del 16 luglio 2015 (sempre negato da tutti e tre i protagonisti), il pm Mario Palazzi il 25 marzo aveva scritto che “le nuove acquisizioni non mutano punto le conclusioni a cui è giunto questo ufficio nella richiesta di archiviazione”. Evidentemente Sturzo non la pensa così. Il provvedimento depositato lunedì 24 luglio, fissa l’udienza in camera di consiglio il 14 ottobre nell’aula B di Piazzale Clodio. Solo quel giorno sarà possibile capire meglio l’orientamento del giudice.

L’avvocato di Tiziano Renzi, Federico Bagattini, ha dichiarato: “Prendiamo atto di tutti i provvedimenti giudiziari, non siamo di quelli che gridano allo scandalo. Ci difenderemo il 14 ottobre, confidiamo di far cambiare idea a un giudice che sarà sicuramente immune da condizionamenti”. Certo i precedenti non lo rassicurano. Sturzo è il Gip che ha rigettato la richiesta di archiviazione per Gianluca Bolengo, il broker di Carlo De Benedetti, con una procedura analoga. In quel caso dopo l’udienza in camera di consiglio per sentire le parti, Sturzo formulò l’imputazione coatta. Per effetto di quella decisione le carte divennero pubbliche e anche le testimonianze di Matteo Renzi e Carlo De Benedetti finirono sui giornali.

Certamente la sua decisione su Tiziano e Lotti restituisce un’immagine della Procura di Roma un po’ diversa da quella veicolata in questi ultimi mesi dai grandi giornali. Ci avevano spiegato che la Procura di Pignatone era stata talmente dura con Lotti e il giro di Renzi da suscitare la volontà del Giglio magico di influenzare la nomina del nuovo procuratore nel segno della discontinuità. La continuità dell’era Pignatone sembrava l’unica garanzia di un trattamento duro e giusto contro Lotti e compagni. Ora si scopre che una richiesta di archiviazione per Tiziano Renzi e Luca Lotti, firmata dal procuratore Pignatone, dall’aggiunto Ielo e dal sostituto Palazzi, non convince a pieno il Gip. E non perché era troppo dura.

Il padre dell’ex premier resta indagato in concorso con Romeo e Bocchino per traffico di influenze come Carlo Russo. Il punto è che Russo, nel procedimento parallelo che vede imputato tra gli altri attualmente anche Lotti, in udienza preliminare davanti al Gup Clementina Forleo, è trattato dai pm come un millantatore. Ipotesi alternativa al traffico di influenze. La richiesta di archiviazione per Russo e Tiziano, rigettata ora dal Gip Sturzo, si basa proprio sulla tesi della millanteria. Bisognerà attendere l’udienza di ottobre per capire come si concilino le due cose.

Una possibile spiegazione risiede nel fatto che Sturzo ha respinto anche la richiesta di archiviazione per la turbativa di gara su Grandi Stazioni. I due tronconi di inchiesta rivitalizzati riguardano entrambi Alfredo Romeo, Italo Bocchino e Carlo Russo. Il terzetto resta ora indagato di traffico di influenze con Tiziano Renzi per la gara Consip da 2,7 miliardi di euro, sulla pulizia e gestione di tutti gli uffici pubblici. Il medesimo terzetto resta indagato per turbativa (senza Tiziano) per la gara Grandi Stazioni. Renzi senior per i pm romani doveva essere prosciolto nonostante anche per i pm di Roma avesse mentito nell’interrogatorio del marzo 2017, quando negò di avere incontrato Romeo con Russo. Quell’incontro negato, e scovato dai Carabinieri grazie ai tabulati e alle celle telefoniche agganciate dai telefonini, non aveva ad oggetto la Consip ma, almeno stando a quel che diceva prima e dopo l’incontro al telefono Romeo, la gara di Grandi Stazioni. Forse il Gip Sturzo vuole capire se i due tronconi, cioé Consip e Grandi Stazioni, che separati viaggiavano dritti verso l’archiviazione, uniti non possano andare verso un’altra direzione.

Marrazzo sospeso dalla carica di corrispondente

Nuovi guai per Piero Marrazzo. Il giornalista Rai, ex presidente della Regione Lazio costretto alle dimissioni nel 2009 per uno scandalo di trans e cocaina, è stato sospeso dalla carica di corrispondente Rai da Gerusalemme per una vicenda di gestione allegra delle spese. Sulla vicenda sta indagando l’audit di Viale Mazzini. Tutto nasce a marzo quando a Roma arriva una lettera anonima che denuncia, con dovizia di particolari, una condotta discutibile dell’ufficio di Gerusalemme, che dal 2015 fa capo a Marrazzo. Secondo alcune fonti, si tratterebbe di note spese gonfiate e di rimborsi non giustificati per decine di migliaia di euro. A quel punto la Rai decide di inviare ispettori. E le indagini portano risultati, visto che a maggio viene licenziato il direttore amministrativo. A inizio luglio, poi, viene un provvedimento disciplinare per omessa sorveglianza a Piero Marrazzo, che si traduce in una sospensione dal servizio in via cautelare. Nessuna misura nei confronti dell’altro corrispondente Carlo Paris. La guida della sede è stata affidata all’ex direttore del Tg1, Raffaele Genah.

I tre della Sea Watch chiedono l’immunità

Loro rifarebbero tutto. Ma a pagare la multa per essere saliti a bordo della Seawatch non ci pensano proprio. E per questo Stefania Prestigiacomo di Forza Italia, Riccardo Magi di +Europa e Nicola Fratoianni di Leu hanno scritto al loro presidente Roberto Fico perché ritengono di aver subito un’ingiustizia: quella sanzione amministrativa inflitta dalla Capitaneria di porto “è una grave violazione delle prerogative connesse al libero esercizio del nostro mandato”. Che ogni parlamentare ha diritto di poterlo svolgere “non solo all’interno del Parlamento ma anche al suo esterno”. E così, siccome il mandato parlamentare si attua grazie alle prerogative che ne tutelano la libertà d’esercizio, la multa è “illegittima”. Ma cosa hanno chiesto i tre? Confidando nella “alta sensibilità istituzionale” di Fico e “nel suo deciso impegno a difesa dell’istituzione che presiede e dei suoi membri” gli hanno chiesto un appuntamento urgente. Ma soprattutto che rimetta la questione alla Giunta per le autorizzazioni a procedere “affinché – si legge nella missiva – la Camera dichiari l’insindacabilità dell’attività ispettiva da noi svolta”.

La questione della invocata immunità non è di lana caprina. Perché casi del genere si moltiplicano e il tema dei migranti tanto caro a Salvini, ancora caldo: a fine giugno “un presidio democratico” del Pd guidato dal capogruppo Graziano Delrio è salito a bordo dell’imbarcazione guidata dalla Capitana Carola Rackete, che per il capo del Carroccio che ne ha fatto un caso di Stato, è diventato il nemico pubblico numero 1. E ora chiedono a Montecitorio di decidere se verificare le condizioni dei migranti rientri nelle facoltà coperte dall’articolo 67 della Costituzione.

Ma quello dice che “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Le immunità sono regolate dal 68, che però copre con l’insindacabilità gli eletti solo per “le opinioni espresse e i voti dati” nell’esercizio delle loro funzioni (escludendo che possano essere chiamati a rispondere in ogni sede, compresa quella amministrativa), ma non per altre attività. Inoltre, i tre multati paragonano le navi che trasportano migranti siano alle strutture militari o agli istituti penitenziari dove gli onorevoli possono accedere senz’autorizzazione.

Oltre che a Salvini, la lettera dei tre deputati solo multati, farà fischiare le orecchie pure a Erasmo Palazzotto di Leu. Che ha deciso di tenere una linea opposta anticipando di voler rinunciare all’immunità per l’avviso di garanzia della Procura di Agrigento che lo ha indagato perché il 6 luglio, a capo della missione della Ong Mediterranea Saving Humans con a bordo 59 migranti, è entrato prima nelle acque italiane e poi nel porto di Lampedusa nonostante il divieto delle autorità italiane: “Ho fatto il capo missione della Alex da libero cittadino, come volontario di Mediterranea e non da parlamentare. Chi crede di avere agito correttamente non dovrebbe mai sottrarsi al giudizio della legge. Nella mia vita ho imparato che bisogna sempre avere il coraggio delle proprie azioni. A differenza di un ministro che abusa delle sue prerogative per scappare dai processi io affronterò il giudizio della Magistratura”.

Strage al largo della Libia: “Ci sono più di 150 morti”

Erano partiti in circa 300, lasciando la costa di Al Khoms, a un centinaio di chilometri a est da Tripoli. Poi il naufragio. È la “peggiore tragedia” del 2019 nel Mediterraneo centrale, per usare le parole di Charlie Yaxley, portavoce dell’Unhcr e di Filippo Grandi, commissario Onu per i rifugiati. Dei 300 passeggeri – forse a bordo di due barconi – ben 150 risultano dispersi. Gli altri sono stati soccorsi da un peschereccio e riportati sulle coste libiche.

Lo conferma Iom Libya, ovvero la sezione libica dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, con un tweet pubblicato nel pomeriggio di ieri: “Un tragico naufragio sarebbe avvenuto nel Mediterraneo centrale: circa 150 migranti risultano dispersi, mentre 145 sono stati riportati sulle coste libiche”. Conferme anche dalla guardia costiera libica: il suo portavoce ha affermato che i militari libici “hanno soccorso 125 migranti” e che “decine di persone potrebbero essere affogate”. Dei sopravvissuti si sta occupando l’Unhcr assistita dal International Medical Corps.

La stima di 150 vittime nel solo naufragio di cui si è avuta notizia ieri porta a oltre 300 i dispersi nel Mediterraneo in questi primi sette mesi dell’anno. Di certo, in questo caso, nessuno potrà accusare le navi delle Ong di aver agito da pull factor, ovvero da “fattore di attrazione”. Al di là di qualsiasi propaganda, la tragedia di ieri conferma che – presenti o meno le navi da soccorso delle organizzazioni umanitarie – le partenze avvengono ugualmente. Altrettanto certo è che in casi come quello di ieri, essendo arretrate le missioni internazionali, e in assenza di Ong, il pericolo che vi siano vittime di naufragi è notevolmente superiore. E quello di ieri è purtroppo il più tragico del 2019. Il portavoce dell’Unhcr per Africa e Mediterraneo/Libia, Charlie Yaxley, ieri ha commentato: “Uno dei sopravvissuti ha riferito che un grande gruppo di persone è morto in mare, e stima che potrebbe trattarsi di circa 150 persone. Notizie terribili. Se le cifre stimate sono corrette, si tratta del maggior numero di vittime nel Mediterraneo centrale nel 2019.Un promemoria, se ancora fosse necessario, del fatto che ci DEVE essere un cambiamento nell’approccio alla situazione nel Mediterraneo. Salvare vite in mare è un bisogno urgente”.

Della stessa opinione l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati: “È appena avvenuta la peggiore tragedia nel Mediterraneo di quest’anno. Deve riprendere ADESSO – esorta – il soccorso in mare, la fine dei campi di detenzione dei migranti in Libia, aumentando i percorsi sicuri per uscire della Libia, prima che sia troppo tardi per molta gente disperata”. E ancora: “Ripristinare il soccorso in mare, porre fine alle detenzioni di migranti e rifugiati in Libia, assicurare passaggi sicuri per uscire dal Paese. Deve avvenire ORA, prima che sia troppo tardi per altri disperati”. Mediterranea Saving Humans, la rete delle associazioni italiane che con Nave Mare Jonio e Nave Alex nei mesi scorsi ha monitorato il Mediterraneo centrale ieri ha commentato: “Il Mediterraneo è sempre più un cimitero. Ora basta. Fermiamo questa strage. I governi europei si adoperino per creare corridoi umanitari subito, per evacuare le donne, gli uomini e i bambini rinchiusi nei campi di concentramento libici. In mare c’è bisogno di soccorso. C’è bisogno anche di noi”.