Borghi contro Tria: “Dice che è già tutto deciso, ma non è così”

“Ho ascoltato un’interessante intervista del ministro Tria dove afferma di aver già deciso il deficit per il 2020, di non aver intenzione di attuare i minibot e di aver già deciso come fare la flat tax. Tutto ciò è curioso perché sono argomenti attualmente in corso di discussione all’interno del nostro partito e non mi pare vi sia stato ad oggi un confronto approfondito su tutti questi temi”: a dirlo, ieri, il presidente della Commissione Finanze della Camera, il leghista Claudio Borghi che ha commentato così all’agenzia di stampa Adnkronos, le dichiarazioni del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, in un’intervista a Sky Tg24. “Comunque le nostre sono idee e proposte e le idee spesso durano di più dei ministri o dei deputati – ha evidenziato Borghi – . È preciso dovere di un ministro del nostro governo tagliare le tasse, pagare i fornitori velocemente, riconoscere i crediti di imposta e rispettare il contratto di governo e gli impegni del parlamento, tutti, non solo quelli graditi. Se non si è d’accordo, nessuno obbliga a continuare a fare il ministro”.

Inps, più Reddito e meno Rei (ma non per tutti)

Nel passaggio dal Reddito di inclusione (Rei) al Reddito di Cittadinanza, molto è cambiato, molto è migliorato ma qualcosa non solo è rimasta uguale ma è anche peggiorata. A dirlo è il rapporto presentato ieri dall’Inps: delle 400 mila famiglie che stavano ricevendo il reddito di inclusione, solo 93 mila nuclei – per necessità o scelta – stanno ancora percependo il Rei, mentre ben 311 mila sono stati travasati nel nuovo sostegno.

Per quasi tutti questo ha determinato un aumento delle cifre dell’aiuto, mentre per una piccola parte, il 7%, si è palesata una beffa: circa 23 mila famiglie stanno prendendo, sotto forma di reddito di cittadinanza, un importo minore o uguale rispetto a quello di inclusione. Le altre 288 mila, invece, ci hanno guadagnato: l’incremento medio è stato di 381 euro. Ma come è possibile il paradosso dei 23 mila?

Il sussidio introdotto a marzo dal governo Conte può arrivare anche a 1.300 euro mensili a famiglia, quindi è di norma molto più generoso di quello avviato a gennaio 2018 dall’esecutivo Gentiloni che aveva fissato il tetto a 540 euro al mese. E anche i requisiti oggi sono più facilmente raggiungibili. L’ipotesi più verosimile è che nel frattempo sia un po’ migliorata la situazione di queste famiglie. In pratica, hanno aumentato i propri guadagni – perché magari un componente ha trovato un lavoretto part-time – e nella domanda di reddito di cittadinanza hanno presentato un Isee aggiornato. Così il beneficio concesso dallo Stato si è ridotto. Al Nord questo ha riguardato il 10% delle famiglie passate da una misura all’altra; al Sud solo il 6%.

C’è però anche una seconda ipotesi, difficile ma non impossibile, e dipende dal diverso metodo di calcolo adottato. Nella determinazione del Rei si tiene conto dell’indicatore della situazione reddituale: questa voce si ottiene sottraendo, dai guadagni di tutti i componenti, le eventuali spese di affitto. Quindi un nucleo può avere redditi ma l’indicatore può risultare comunque pari a zero per il meccanismo della deduzione. Per concedere la carta acquisti di cittadinanza, invece, i tetti sono più alti ma ai redditi totali non si sottrae l’eventuale canone di locazione. Al massimo è previsto un contributo aggiuntivo da 280 euro mensili per le famiglie che non vivono in case di proprietà. Questa differenza causerebbe, per le famiglie numerosissime, la possibilità che il reddito di cittadinanza sia inferiore al Rei.

Fattore che, con molta probabilità, ha contribuito anche a fare sì che 93mila famiglie restassero coperte dal reddito di inclusione senza essere inglobate in quello di cittadinanza. Con il Rei, un single con 6.500 euro di redditi annui e 542 euro di affitto risultava a reddito zero e prendeva il bonus pieno. Quella stessa persona oggi non prende il reddito di cittadinanza perché sfora il requisito di reddito massimo da 6 mila euro. Oltre a questo caso, tra quei 93 mila ci sono sicuramente molti stranieri: la stretta sui requisiti di residenza imposta dalla Lega – diventati più severi rispetto a quelli previsti per il Rei – ha reso più difficile l’accesso alla misura per gli extracomunitari.

Sulla base di questi due elementi – il metodo di calcolo e l’esclusione degli stranieri – l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) aveva previsto correttamente 100 mila famiglie ammesse al Rei ma fuori dal reddito di cittadinanza. In generale, il sussidio targato Cinque Stelle si sta comunque rivelando molto più inclusivo: in tre mesi ha coinvolto 2,2 milioni di individui e vale in media 526 euro. Il Rei, in un anno e tre mesi, ha raggiunto 1,4 milioni di persone con importo medio da 293 euro.

Sindacati, Conte recupera e la Lega diserta il vertice

Giuseppe Conte convoca i sindacati a palazzo Chigi e si riprende la scena sulla manovra di bilancio. La Lega diserta l’incontro e poi lo attacca. Luigi Di Maio, che con Giovanni Tria è presente al vertice, contrappone alla Flat Tax la riduzione del cuneo fiscale con la proposta di sopprimere la quota versata dalle imprese per la Naspi, l’assegno di disoccupazione, per un valore di circa 4 miliardi. I sindacati, dal canto loro, assistono un po’ perplessi al balletto di incontri che il governo ha messo in campo, forse mai così tanti dal tempo della “concertazione”.

Con quello di ieri il presidente del Consiglio ha aperto “i lavori preparatori della manovra” fissando un calendario che prevede già il 29 luglio un nuovo incontro sul Mezzogiorno e il 5 agosto un altro per discutere di “lavoro e politiche sociali”. Data pensata apposta per sterilizzare quella proposta da Matteo Salvini lo scorso 15 luglio alle parti sociali (il 7 agosto) e che a questo punto non è chiaro se ci sarà. “La manovra si fa qui” ha detto Conte nella sua breve introduzione, spiegando di volerla “espansiva e nel segno della crescita” e “quanto più possibile condivisa”. Basta con gli incontri separati perché serve un “binario” e un “percorso ordinato”. Conte smonta anche la volontà del leader leghista di anticipare i tempi della manovra informando i sindacati che il suo inizio sarà a settembre.

Anche il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, sorregge la posizione del premier spiegando che una grossa parte delle risorse servirà per bloccare l’aumento dell’Iva e quindi, di qui in avanti, ogni ipotesi di riforma deve fare i conti con le risorse disponibili.

La Lega capisce subito che il responsabile del Mef vuole mettere in mora la Flat tax e ogni altra ipotesi di riforma fiscale, e infatti, con Claudio Borghi, presidente della Commissione Bilancio alla Camera, lo attacca immediatamente. Del resto, nessun altro ministro leghista avrebbe potuto intervenire a stretto giro perché l’incontro di palazzo Chigi è stato boicottato dalla Lega il cui unico ministro presente, quello all’Agricoltura, Gian Marco Centinaio, è arrivato a pochi minuti dalla fine del vertice. Presenti, invece, oltre a Conte e Di Maio, la ministra per il Mezzogiorno Barbara Lezzi, il ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli.

Sul fronte sindacale molte parole di circostanza per un incontro di cui sfugge la sostanza, oltre a un apprezzamento per la disponibilità al confronto. Maurizio Landini, segretario della Cgil, ha presentato le proposte unitarie delle tre sigle, sottolineando che in tema fiscale la centralità va data alla riduzione delle tasse per lavoratori e pensionati. E rilanciando la questione dell’evasione fiscale ma anche la tassazione delle grandi ricchezze. Poi, però, ha auspicato che il governo di qui in avanti si presenti con una sola voce, evitando le convocazioni separate. Anche la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan, ha richiamato il tema delle tasse sul lavoro dipendente da diminuire, ma poi ha colto al volo la novità della proposta che Di Maio ha buttato sul tavolo nel suo breve intervento: eliminare il contributo dell’1,6% che le imprese versano per la Naspi, la nuova indennità di disoccupazione, presentandola come un taglio del cuneo fiscale. “Non è cuneo fiscale” ha sottolineato la Cisl che ha ben chiaro che la riduzione di quella voce, stimata in 4 miliardi, rappresenta solo una riduzione fiscale per le imprese senza vantaggi per i lavoratori. Anzi, siccome la Naspi costa 14,7 miliardi ed è finanziata per soli 5,5 miliardi, senza quel contributo il buco per l’Inps aumenterebbe. Quindi la proposta va spiegata meglio.

Ma Di Maio ha voluto lanciarla soprattutto per contrapporre alla flat tax leghista una precisa riduzione fiscale a beneficio delle imprese. Lo si capisce dal fatto che ha voluto sottolineare l’importanza della “progressività” delle imposizioni fiscali. Il viceministro all’Economia, Massimo Garavaglia gli ha replicato che “quattro miliardi di riduzione di tasse alle imprese sono pochi”. A lui ha contro-replicato l’altra viceministra, Laura Castelli in un ping-pong imbarazzante. Ai sindacati non resta che aspettare.

Fico lascia l’Aula, la Sarli dice No e altri 17 grillini non votano

Il decreto sicurezza bisha superato il primo scoglio alla Camera con 322 voti favorevoli, 90 contrari e l’astensione di Vittorio Sgarbi del gruppo Misto. A far rumore sono soprattutto i 17 deputati 5 Stelle che hanno deciso di non partecipare al voto, oltre al voto contrario della grillina Doriana Sarli, che per questo probabilmente verrà espulsa dal Movimento. Anche il presidente della Camera Roberto Fico, come già accaduto per il primo decreto sicurezza, ha mandato un messaggio sul suo dissenso lasciando l’Aula appena prima del voto decisivo, su cui il governo aveva posto la fiducia. I motivi dei malumori dell’ala di sinistra del Movimento li ha espressi la stessa Sarli dai banchi di Montecitorio: “Il decreto si inventa una nuova tipologia di reato, ovvero salvare le vite in mare. Il problema esiste da tempo, ma servono delle soluzioni strutturali, bisognerebbe che il ministro dell’Interno si andasse a sedere ai tavoli di concertazione internazionale. Se vuole ridiscutere il Regolamento di Dublino è lì che deve andare a battere i pugni sul tavolo, non prendersela con la gente per mare”. Il provvedimento introduce una stretta contro l’immigrazione clandestina e i soccorsi in mare da parte delle navi delle ong. Le novità principali sono nei primi due articoli. In particolare, il ministro dell’Interno potrà limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nelle acque territoriali per ragioni di ordine e sicurezza o in caso di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Introdotta anche la maxi multa da 150mila euro fino a un milione per il comandante della nave che violi quel divieto e, in aggiunta, c’è il sequestro dell’imbarcazione. Per l’approvazione definitiva bisognerà aspettare il Senato, con la maggioranza che spera di chiudere prima della pausa estiva.

A Palazzo Madama i numeri dei gialloverdi sono ancora più risicati, anche se di per sé il provvedimento potrà contare sull’appoggio anche di Forza Italia e di Fratelli d’Italia, come già avvenuto per la prima versione del decreto e per il voto di ieri.

Mattarella: “Io sono l’arbitro, le scelte spettano ai partiti”

Quando un discorsodel capo dello Stato – questo come i precedenti – riporta la dizione “è superfluo” per introdurre un concetto, c’è da star sicuri che in realtà sta per arrivare il centro del discorso. Sergio Mattarella – ieri alla tradizionale “cerimonia del ventaglio” prima della pausa estiva – non ha fatto eccezione. Dopo giorni di continue crisi sceneggiate dalla maggioranza ha detto: “È superfluo ribadire che il Quirinale non compie scelte politiche. Queste competono alle formazioni politiche presenti in Parlamento nel rispetto della Costituzione. Il presidente della Repubblica è chiamato, come arbitro, a garantire funzionalità alla vita istituzionale”. “L’arbitro”, però, “non può non richiamare al rispetto del senso delle istituzioni e ai conseguenti obblighi, limiti e doveri”, si conclude il passaggio rivolto a Di Maio e Salvini. Carezze per Conte, invece, che ha gestito l’accordo con l’Ue sui conti pubblici: “Si è evitato uno scenario che avrebbe pesantemente ipotecato il futuro del Paese. Occorre mantenersi dentro questo percorso virtuoso e rassicurante per risparmiatori, imprenditori e investitori”.

La riunione “carbonara” dei centristi Pd pronti a uscire

Fin qui nel Pd si è parlato di una possibile scissione dei renziani. Ma se fossero i centristi cattolici, gli ex popolari, ad andarsene? Ne hanno discusso ieri, in una riunione un po’ carbonara, tenuta segreta e a porte chiuse, nella sede dell’Anci in via dei Prefetti, alcuni protagonisti del centrismo cattolico. C’era, per esempio, Bruno Tabacci, c’era Pier Ferdinando Casini, e pure Giuseppe De Mita, figlio di Ciriaco. Presenti anche gli ex parlamentari Giorgio Merlo, Gianluca Susta e Lucio D’Ubaldo. Forse anche Marco Follini. In tutto una trentina di persone.

Sembra sia stata invitata anche Mara Carfagna, che al momento sta dall’altra parte della barricata, in Forza Italia. Ma la vice presidente della Camera ieri è rimasta tutto il giorno a Montecitorio. “Il problema è che Zingaretti di tutto questo mondo sembra fregarsene, ha sterzato il partito a sinistra e tutti gli ex popolari sono in grande sofferenza”, racconta un esponente politico che ha partecipato alla riunione. “O il Pd si mette in pista per recuperare il rapporto con il mondo dell’associazionismo cattolico e delle reti bianche oppure, se ci fanno sentire ospiti sgraditi, stare nel partito non ha più senso…”, continua la nostra fonte.

Insomma, la riunione di ieri potrebbe essere l’alba di un nuovo soggetto politico che recuperi la tradizione del cattolicesimo democratico, che affonda le sue radici nel pensiero di Aldo Moro e Luigi Sturzo. E il sistema proporzionale aiuta. “A dialogare col Pd non può essere solo Sant’Egidio, non possono più bastare Delrio e Gentiloni…”, si dice. L’invito a Zingaretti è chiaro: dare rappresentanza a un mondo escluso dal gruppo dirigente e dall’orizzonte dem. Ieri, intanto, è stato piantato un germoglio. Ma Carfagna che c’entra? “In un secondo momento, se la nave partirà, bisognerà vedere anche con chi dialogare…”.

Lukoil, il Viminale ferma la protesta dei lavoratori per fare un favore ai russi

L’ultima protesta dei lavoratori dell’ex Isab potrebbe essere stata quella del 7 maggio scorso. Siamo a Priolo, in provincia di Siracusa, davanti all’ingresso della Lukoil, la più grande compagnia petrolifera russa. Da mesi, davanti i cancelli dell’impianto siciliano la tensione è salita alle stelle per quella che, almeno in prima battuta, sembrava l’ennesima storia di licenziamenti e mancati ricollocamenti del complesso industriale delle raffinerie ex Isab, di cui i russi detengono da qualche anno il pacchetto di maggioranza dopo l’acquisto da Erg.

“Abbiamo fatto un presidio lasciando le autobotti cariche libere di uscire, ma impedendo l’ingresso a quelle vuote”, racconta al Fatto un ex lavoratore. Due giorni dopo quel sit-in con 30 operai dell’indotto, il colpo di scena: un’ordinanza firmata dal prefetto di Siracusa Luigi Pizzi. Tre pagine datate 9 maggio in cui si dispone lo stop per cinque mesi, fino al 30 settembre, agli “assembramenti di persone e automezzi” in tutti i dodici varchi d’ingresso del polo industriale. Motivo? “Il contrasto al diritto alla libertà d’impresa”, ma anche “le difficoltà e rallentamenti nell’accesso agli stabilimenti”, le “ripercussioni negative sul traffico”, e i profili di criticità “per l’ordine e la sicurezza”.

“È un’entrata a gamba tesa che aiuta le aziende committenti nel tentativo di comprimere il nostro diritto alla protesta. Rivendichiamo il posto di lavoro e l’attuazione della democrazia”, continua il lavoratore. Dopo l’alt agli scioperi nell’area industriale, a farsi avanti è stata la Cgil locale, con un ricorso presentato al Tribunale amministrativo di Catania per ottenere la sospensiva immediata del provvedimento prefettizio. I giudici però hanno respinto l’istanza.

“L’avvocatura dello Stato per sostenere la tesi del prefetto – spiega Roberto Alosi della Cgil Siracusa – ha allegato alla memoria difensiva tre lettere: due delle quali provenienti da esponenti della Federazione Russa. Emerge chiaramente che dietro il provvedimento ci siano ingerenze di un governo che scrive rivolgendosi in prima persona al ministro dell’Interno Matteo Salvini”.

Le missive a cui fa riferimento Alosi sono datate 28 marzo 2019 e 9 aprile 2019. La prima è firmata dall’ambasciatore Russo in Italia Sergey Razov, con tanto di “Caro Matteo” . “Vorrei attirare la sua attenzione sui problemi degli episodi di interruzione delle attività delle raffinerie Isab”, scrive Razov. “Negli ultimi dieci anni ci sono stati più di cento casi concreti”, con perdite “per alcuni milioni di euro e di reputazione per il gruppo Lukoil”. Prima dei saluti finali, esplicitata anche la richiesta: “Vorremo contare su una partecipazione più attiva delle autorità italiane nelle soluzioni del problema del più grosso investitore russo in Italia”.

La seconda missiva è del console generale russo a Palermo, Evgeny Panteleev. Il problema, in questo caso sottoposto al prefetto di Siracusa, è lo stesso: “Gli episodi di interruzione delle attività delle raffinerie Isab che appartengono al gruppo russo Lukoil”.

L’ultima missiva è del 12 aprile scorso: è quella che a Siracusa arriva da Paolo Formicola, vice capo di gabinetto del ministro dell’Interno. In questo caso si chiedono lumi in merito al problema di Lukoil all’interno del polo industriale.

“Ricorreremo al Consiglio di giustizia amministrativa per la mancata sospensiva”, spiega il sindacalista della Cgil Alosi. Oggi, intanto, davanti i cancelli dello stabilimento arriverà l’ex segretario regionale del Pd Davide Faraone. Ma qualche lavoratore storce il naso: niente cappelli politici sulla protesta. “Nell’attesa di capire se la polizia farà rispettare l’ordinanza – conclude Alosi – prendiamo atto che da quelle lettere emerge l’ingerenza pesantissima del governo russo in questa storia”.

“Siri lo incontrai nel 2017 da Arata”. Parola di Nicastri

Ci fu un incontro, intorno al 2017, tra il “re del vento” Vito Nicastri, l’ex deputato forzista Paolo Arata e il futuro sottosegretario leghista Armando Siri. A raccontare l’episodio è lo stesso Nicastri, nel corso dell’incidente probatorio tenutosi ieri al Tribunale di Roma, su specifica domanda del sostituto procuratore Mario Palazzi. Si fa riferimento all’intercettazione telefonica, registrata dalla Dia di Trapani il 10 settembre 2018, in cui Arata dice a Manlio, figlio di Nicastri: “Armando (Siri, ndr) questo, l’ha conosciuto anche tuo papà è venuto a pranzo anche a casa mia”. “Sì, sì, lo so”, risponde il giovane.

Frase già riportata dal Fatto e trova riscontro nel racconto dell’imprenditore siciliano. “Vito” avrebbe incontrato Arata nella sua casa romana. I due stavano iniziando la collaborazione su alcuni progetti da sviluppare in Sicilia nel settore del mini-eolico. Secondo il racconto di Nicastri, fu lo stesso Arata a telefonare a Siri e invitarlo a raggiungerli a pranzo. L’imprenditore siciliano ha spiegato che non sapeva chi fosse Siri, anche perché all’epoca dell’incontro non era in politica, tantomeno sottosegretario, e gli fu presentato come “un amico”.

Molto più noto era invece il profilo giudiziario di Nicastri. Indagato in Sicilia già nel 2009 e sorvegliato speciale nel 2013. Citato da alcuni collaboratori di giustizia, finito più volte sulle copertine della stampa nazionale e internazionale, per i suoi presunti rapporti col superlatitante Matteo Messina Denaro, detto “Diabolik”, figura apicale di Cosa nostra.

La domanda, forse inaspettata, ha spinto l’ex deputato forzista a rilasciare spontanee dichiarazioni in aula: “Quanto detto da Nicastri non corrisponde a verità – spiega Arata – Posso portare mia moglie a testimoniare che la circostanza non è assolutamente vera”. Episodio smentito anche dai legali di Siri.

L’incontro non è penalmente rilevante, ma non è escluso che i magistrati possano fare ulteriori accertamenti, magari acquisendo i tabulati telefonici dell’epoca.

Il nucleo dell’inchiesta romana resta l’accusa di corruzione tra Arata e Siri, vicenda che ha spinto il senatore leghista alle dimissioni da sottosegretario. “Gli dò 30 mila euro perché sia chiaro tra di noi, io ad Armando Siri, ve lo dico…”, riferisce l’ex deputato forzista al telefono con il figlio di Nicastri. Una “tangente” che, secondo i magistrati, sarebbe stata promessa in cambio di un emendamento, poi non approvato, che avrebbe favorito le aziende di Arata, e del suo socio occulto Nicastri, appunto nel settore del mini-eolico.

Vito e Manlio Nicastri erano già stati interrogati dai pm romani a inizio luglio, che per “cristallizzare” le loro dichiarazioni, hanno chiesto l’incidente probatorio.

L’udienza però non è stata così semplice. Durata quasi cinque ore, con una lunga e animata discussione, in cui più volte è intervenuta la giudice Emanuela Attura per sedare gli animi.

Il “signore del vento”, ha confermano ai pm la sua versione, spiegando che “il senatore Siri non era a conoscenza” della possibile dazione di denaro promessa da Arata: quest’ultimo, secondo la ricostruzione di Nicastri, “una volta ricevuto l’incentivo”, cioè incassato l’emendamento, avrebbe corrisposto “un pensiero di gratitudine”.

Agli atti dell’indagine ci sono diverse conversazioni tra Arata e Siri, ed è proprio l’ex deputato forzista a informare Manlio Nicastri sugli sviluppi dell’emendamento. Il giovane aveva spiegato ai pm romani di aver “capito” durante la telefonata con Arata, che si parlava di “una promessa” di denaro, ma in aula si sarebbe contraddetto: “Ho sentito dire di questa promessa di 30 mila euro – spiega Manlio Nicastri – ma se fosse solo un’intenzione di Arata, o Siri ne fosse a conoscenza, non saprei dire”.

I vice entrano, Conte esce. La guerra fredda al premier

Loro entrano, lui esce. I due vicepremier si riparlano dentro Palazzo Chigi dopo giorni di bisticci su Facebook, mentre il padrone di casa, il presidente del Consiglio, se ne va a mangiare sushi e si lascia dietro una frase che è un marameo ai discoli gialloverdi: “Dobbiamo lavorare, non chiacchierare”. In una torrida giornata romana, eccolo l’aneddoto degno di uno sceneggiatore, eccola la foto che racconta le differenze di governo. Perché vuole essere diverso Giuseppe Conte, il premier che gioca la partita a modo suo, colui che “è e sarà sempre di più una figura terza” come ripetono dalla presidenza del Consiglio. Però terzo è sinonimo di autonomo, almeno dai partiti, e questo è e sarà sempre di più un problema per i suoi due vice, il Matteo Salvini che scappa dalle ombre russe ma intanto non smette di vincere, e il Luigi Di Maio che non teme strane nubi ma che non la smette di cedere terreno e bandiere.

Per questo in una torrida giornata romana i capi gialloverdi si siedono a discutere dentro Palazzo Chigi, per ricordare plasticamente a tutti e anche al presidente che il suo governo si regge sui loro voti. Però Conte non gradisce il vertice nel suo tinello, e allora se ne va a mangiare giapponese con lo staff. E si premura di farlo notare ai cronisti, con cui gioca fingendo di non farlo. Un diversivo di comunicazione che ovviamente è un segnale: ai 5Stelle, certo, che mercoledì gli avevano riservato banchi semi-vuoti in Senato durante il suo intervento sul Rubli-gate, e ieri Di Maio si è di fatto scusato pubblicamente. Però è ovvio che il dispetto a base di pesce crudo parla di più al vero avversario, il Salvini che ha stravinto le Europee e che non si è degnato di mandargli neanche qualche riga scritta per spiegargli la sua versione sul pasticciaccio russo.

Il duello è innanzitutto tra loro, tra il premier primo nei sondaggi e il ministro dell’Interno primo nelle urne. Con Conte che mercoledì dentro Palazzo Madama gli ha ricordato che la prassi costituzionale può essere un’arma: “A questo consesso tornerò ove mai dovessero maturare le condizioni per una cessazione anticipata del mio incarico”. Cioè, se i partiti mi sfiduciano verrò in Aula, e vedremo cosa accadrà nel voto. E Salvini si è acceso come una torcia: “Se c’è qualcuno che pensa di andare avanti con i giochetti di palazzo e di potere ha sbagliato persona”.

E ieri mattina a Radio Anch’io il leghista rilancia: “”Mi è sembrato strano che il presidente del consiglio abbia detto quelle cose, come se ci fosse la necessità di cercare degli Scilipoti di turno per non andare a casa”. Conte non schiva, e a stretto giro risponde: “È assolutamente fantasioso che io posso cercare maggioranze alternative, andrei in Parlamento per trasparenza nei confronti dei cittadini e rispetto delle istituzioni”. Come è pura “fantasia”, giura, che lui possa fondare un suo partito: “Non facciamo ragionamenti da Prima Repubblica”. Poi è già ora di pranzo. Con Salvini e Di Maio che parlano per circa un’ora. “Un colloquio tranquillo” assicurano da entrambi i fronti. Ma dritto, perché soprattutto Salvini invoca “un cambio di passo” per il governo, una nuova fase. Così torna a parlare di alcuni ministri che non funzionano, insomma dell’esigenza di un rimpasto (senza scandire la parola, pare). Di Maio non è sorpreso, e ribatte: “Sentiamo molte lamentele su scuola e agricoltura”. Ossia su temi di ministeri a guida leghista.

Se ne riparlerà a settembre, perché quello del ritocco della squadra è un tema che non può evaporare, ma resta complicato. Nel frattempo Conte fa il punto sui temi economici, prima di incontrare le parti sociali. Discute di numeri e proposte con la viceministra all’Economia Laura Castelli, ed è la conferma che il filo con il M5S c’è ancora, ci deve essere anche per il premier che è orgogliosamente terzo. Un po’ troppo, come ringhia un big grillino: “Ultimamente ogni volta che gli poniamo un nodo politico ci risponde: ‘Io sono il presidente del Consiglio, decido io’. Ma i voti sono innanzitutto i nostri”. Veleni, magari. Comunque lo specchio di un misurarsi, con il Conte che adesso è troppo forte per Salvini e Di Maio. Anche se è con il capo del M5S al suo fianco, che in serata il premier addenta la Lega sulla manovra. Perché il nemico, quello vero, è sempre il leghista. Quello forte.

Londra, l’Università annulla l’evento sul libro di Altaforte

La casaeditrice vicina a Casapound “è in contrasto” con la linea dell’Università. E così ieri è saltata la presentazione del libro “Io sono Matteo Salvini”, edito da Altaforte, alla London Metropolitan University. Dopo l’esclusione dal Salone del libro di Troino arriva così un altro stop. A denunciare la decisione dell’università è stata l’autrice del libro-intervista, la giornalista Chiara Giannini: “I ragazzi della Lega nel mondo e dell’associazione locale di ragazzi italiani The Vortex Londinium avevano organizzato la presentazione del libro per oggi in una sala della London Metropolitan University di Londra alla presenza mia e dell’editore Francesco Polacchi. Sembrava tutto a posto fino a quando una manager dell’Università è venuta a dirci che non possiamo presentare il libro perché sostiene che, in base al loro regolamento, non si può presentare un libro che può danneggiare il buon nome dell’Università”. Altaforte presenterà una richiesta di risarcimento danni all’Università, richiesta a cui la Giannini ha già dichiarato di volersi accodare. Dall’Istituto, però, restano convinti: “La casa editrice è in contrasto con la nostra politica antidiscriminazione”.