Raggi a Casapound: “Via l’insegna abusiva”

Il gesto è più politico che amministrativo, restando ancora lontano l’obiettivo dello sgombero. Ieri però Virginia Raggi ha scelto di nuovo di schierarsi in maniera decisa contro Casapound, il partito di estrema destra che dal 2003 occupa abusivamente un ampia palazzina nel centro di Roma. Lo ha fatto accompagnando alcuni agenti di polizia fuori dalla sede dei neofascisti per consegnare loro l’atto di notifica del provvedimento che adesso impone a Casapound di eliminare l’enorme scritta sulla facciata di quell’edificio. Nove lettere – “Casapound”, appunto – in carattere ispirato al Ventennio che furono affisse senza regolare permesso e a cui da circa un mese si è aggiunto uno striscione polemico nei confronti proprio di chi, sindaca compresa, aveva annunciato la necessità dello sgombero: “Questo è il problema di Roma”.

La Raggi ha diffuso il proprio presidio in diretta Facebook: “Siamo venuti qui per notificare alcuni verbali che si riferiscono a scritte completamente illegali. Chiaramente questo comporterà una diffida e se non ottempereranno spontaneamente a rimuoverle allora si procederà in modo coatto”.

In effetti la sanzione notificata a Casapound indica un limite di tempo di dieci giorni – oltre che una sanzione di circa 300 euro – per rimuovere l’insegna prima che intervengano di nuovo le forze dell’ordine. Casapound intanto, attraverso il leader Simone Di Stefano, minimizza: “È un atto amministrativo, faremo ricorso come ogni negozio che espone un’insegna che non va bene al Comune”.

Difficile però immaginare un ricorso da parte di chi occupa abusivamente uno stabile. L’edificio, di proprietà dello Stato, doveva essere destinato al Miur prima che il partito lo occupasse. Per anni lo sgombero non è stato preso in considerazione, ma negli ultimi tempi qualcosa si è mosso, tanto che il Demanio ha avviato l’iter per riprendersi la palazzina dopo che la Corte dei Conti ha quantificato in 4,6 milioni di euro il danno provocato dall’occupazione.

“Parliamo del nulla, – si difende ancora Di Stefano – è come se fossero andati a un bar a multarlo perché tiene i tavolini fuori senza permesso”. Ma al di là delle conseguenze, resta la presa di posizione della Raggi. Anche perché nelle stesse ore Lega e M5S hanno bocciato un ordine del giorno del Pd alla Camera che impegnava il governo a sgomberare, nonostante dallo stesso Movimento il capogruppo Francesco D’Uva si sia detto “favorevole” alla legalità ma non disposto a votare quella che ritenevano una trappola.

Raggi ha scelto comunque esporsi, in circostanze simili a quelle del maggio scorso quando, pur in mancanza di sostegno dal Movimento, era andata a Casal bruciato per difendere dai neofascisti una famiglia rom destinataria di una casa popolare.

Il capitano in braghette che nessuno vuol fermare

Proprio nella giornata del Russiagate al Senato, che secondo giornali e tv doveva essere tra le più rognose per Matteo Salvini, uscivano le foto rilassate di lui e della fidanzata Francesca Verdini, sulla spiaggia di Milano Marittima, “tra baci appassionati e coccole al mare” (Diva&Donna). Nelle stesse ore i sondaggi segnalavano la Lega lanciata oltre il 37%, come se la brutta faccenda dei rubli avesse gonfiato di più le vele del vicepremier, invece che rallentarne la corsa. Che, infatti, più arrogante che mai ieri mattina a Radio anch’io ha così liquidato le parole di Giuseppe Conte a Palazzo Madama: “m’interessano meno di zero”.

Poi, tolte le braghette da bagno ha indossato la divisa da poliziotto antisommossa avvertendo i partecipanti al raduno No Tav di sabato in Val Susa che “niente resterà impunito”. Forse si crede Putin. Piangere sul latte versato serve a poco ma non si può certo ignorare che ogniqualvolta i Cinque Stelle hanno avuto la possibilità di mettere i riga l’altro contraente, colto in fallo sulla base di fatti accertati, hanno evitato di farlo. Accadde sulla vicenda della nave Diciotti quando i grillini gli evitarono sciaguratamente il processo. È accaduto mercoledì in Parlamento quando potevano metterlo alle corde sui traffici moscoviti ma sono rimasti zitti. “Conte sbugiarda Salvini, ma nessuno se ne accorge”, ha titolato ieri il Fatto cogliendo il punto decisivo. Sarebbe bastato poco per cercare, almeno, di frenare la boria salvinesca. Le battute sfottenti sulla vicenda Metropol su cui indaga la Procura di Milano (“caccia al tesoro”, “fantasy di spionaggio”). Lo sbattersene dell’istituzione parlamento con l’ostentata assenza. Le successive espressioni offensive nei confronti del premier. Sarebbe stato sufficiente che, invece di scappare dall’aula in quel modo dissennato, i senatori M5S avessero reso incandescenti le bugie di Salvini. Mettendo a confronto la sua frase dello scorso 12 luglio (“Posso produrre i documenti di chi ha viaggiato con me. Savoini al tavolo? Che ne so cosa ci facesse, chiedete a lui”). Con quanto riferito il 24 luglio dal presidente del Consiglio: “A Mosca il 16 luglio 2018 la delegazione ufficiale del ministro Salvini comprendeva anche il nominativo del signor Savoini”.

Invece, a parte la questione di galateo sull’assenza di Salvini sollevata dal garbatissimo capogruppo Stefano Patuanelli, per il resto niente e così sia. Si dà il caso che il caso Salvini stia diventando un serio problema per la democrazia italiana. Non si tratta di evocare inesistenti ritorni al fascismo ma di affrontare il tema di un vicepremier dalle ambizioni fuori controllo. Lanciato a briglia sciolta in una permanente demagogia elettorale che si fa beffe del premier e delle istituzioni, interessato unicamente ad accaparrarsi fette progressive di potere che non gli appartengono. Una sbornia a cui qualcuno dovrà pure porre un freno, prima che il personaggio si convinca che tutto gli sia permesso in quanto “uomo forte”, o meglio unico gallo tra tanti capponi.

Questo stop dovrebbero darglielo i Cinque Stelle ma, visti i procedenti e malmessi come sono, dubitiamo ne abbiamo la forza (e la voglia). Non rimane che Giuseppe Conte, che possiede l’autorità e l’autorevolezza per porre la questione Salvini davanti al Parlamento. Che, come ha detto, non è “un molesto orpello” ma “il consesso da cui tornerò se ci fosse una cessazione anticipata del mio incarico”. Forza presidente, batta un colpo.

Rompere non serve: andare al voto premia solo la Lega e Salvini

Accettare il Tav Torino-Lione è senza dubbio una sconfitta esistenziale per i Cinque Stelle. Anche se, come ha fatto notare più volte l’autore dell’analisi che bocciava l’opera, Marco Ponti, la vera sconfitta è aver ceduto al principio che le grandi opere si fanno sempre. Anche e soprattutto se sprecano soldi pubblici (Terzo Valico, ferrovie al Sud ecc.). Ma questo rende razionale per i Cinque Stelle far cadere il governo ora e andare a votare?

I maggiori compromessi che il M5S ha dovuto accettare nell’ultimo anno sono tutti relativi a battaglie locali: il Tap in Puglia, l’Ilva a Taranto, il passante autostradale a Bologna, le Olimpiadi invernali a Milano e Cortina invece che a Torino. E ora il Tav. Sulle battaglie nazionali, come il reddito di cittadinanza, la riduzione del numero dei parlamentari e il contenimento dei vitalizi, invece, i Cinque Stelle qualche successo possono rivendicarlo. Già questo sconsiglia di lasciare il governo in nome di una battaglia identitaria ma locale che, nonostante l’evidenza dei numeri sullo spreco, è percepita anche da molti elettori moderati Cinque Stelle come anti-industriale e retrograda.

Poi ci sono due considerazioni tattiche. La prima di leadership: se salta l’alleanza con la Lega, finisce la già vacillante primazia di Luigi Di Maio che su questa esperienza ha impegnato tutto. C’è un’alternativa per il M5S? A oggi no, Alessandro Di Battista è tacciato di opportunismo, Roberto Fico è troppo prudente e a sinistra, resta il solo Giuseppe Conte, ora passato senza entusiasmo sul fronte pro-Tav, che però non potrebbe essere prima abbattuto dai Cinque Stelle e poi diventare il volto del rilancio, magari in vista di un accordo post-elettorale col Pd.

Seconda ragione tattica. Far saltare il governo ora, significa andare al buio verso la sessione di bilancio in autunno. È vero che Mario Draghi si sta congedando dalla Bce con dichiarazioni rassicuranti che hanno spinto lo spread sotto 200 punti, ma una legge di Bilancio bisognerà pur farla. E sappiamo quanto è difficile, con la crescita zero, i 23 miliardi da trovare per evitare l’aumento dell’Iva e tutto il resto. Se cade il governo Conte ora, chi la farà? Solo due opzioni: un esecutivo Lega-Fratelli d’Italia nato dopo un’elezione anticipata in autunno, con Salvini premier, potrebbe essere tentato dallo scontro frontale con l’Europa e financo dall’uscita dall’euro. Ci sono ben poche possibilità di realizzare progetti ambiziosi come la flat tax senza sfasciare i conti, senza aumentare le tasse e senza tagli alle spese.

In alternativa, se il governo cadesse e le elezioni venissero fissate a inizio 2020, la legge di Bilancio dovrebbe votarla una maggioranza in questo Parlamento. Resta da capire quale. Di sicuro la Lega si sottrarrebbe, in quanto partner tradito e abbandonato della coalizione rimarrebbe a guardare, cercando di riciclarsi come vittima di ogni establishment, così da mascherare tutte le sue compromissioni (non soltanto russe). In un tale scenario, è facile prevederlo, il Quirinale di Sergio Mattarella farebbe appello al senso di responsabilità del premier Conte, del Pd, del M5S, magari di Forza Italia per votare un bilancio che di sicuro non può essere generoso e quasi certamente comporterà tagli o nuove tasse. Appena arriverà il momento delle urne, Salvini capitalizzerà il consenso rafforzato dal non aver messo la firma su misure impopolari.

Sono ragioni troppo meschine per proseguire quella che al momento sembra una lenta agonia? Forse. Ma il M5S ha già scelto un inedito percorso di ibridazione tra ideali e compromessi quando ha trasformato l’immediatezza del “Vaffa” nei commi di un contratto di governo. Passare dalla politica dei valori a quella degli interessi, però, non funziona bene se c’è la confusione sui valori. Qual è la missione del Movimento Cinque Stelle ora che reddito di cittadinanza e tagli alla “casta” sono stati approvati? Rispondere a questa domanda per Di Maio è soci è molto più importante che stabilire se la convivenza con Salvini deve durare ancora tre giorni, tre mesi o tre anni.

È l’ultima guerra persa: M5S finirà disintegrato se non lascia il governo

Il momento è ora. Se il Movimento 5 Stelle vuole sperare di avere un qualsiasi futuro, deve uscire dal governo sul Tav. Il presidente del Consiglio non è riuscito a invocare una sola ragione tecnica che ribalterebbe la famosa analisi costi-benefici. Ha invocato vaghe decisioni dell’Europa (prima ancora che la nuova Commissione decida), ha prospettato “costi” del recesso non precisati e non dimostrati: ha solo fatto sua la solita fumisteria di chiamparini e madamine.

Conte ha fatto dunque una scelta politica: arrivati alla resa dei conti, il garante del patto di governo ha scelto uno dei due contraenti. Non quello che l’ha portato a Palazzo Chigi: ma il più forte. E ha scelto l’arma-fine-di-mondo: perché restare in un governo che fa il Tav significa, per i 5 Stelle, il suicidio.

E c’è di peggio: presentarsi non più come l’avvocato difensore dei cittadini, ma come l’avvocato d’affari del Tav significa schierarsi non solo con la Lega, ma con il sistema di cui la Lega è parte. Con il Pd, con Confidustria e (ahimé) con i sindacati: con il presidente della Repubblica e con tutti i garanti dello stato delle cose.

Perché i 5 stelle dovrebbero rimanere al governo? L’unica ragione nobile sarebbe la quasi certezza che votare ora significherebbe consegnare il Paese a Salvini. Con questa legge elettorale – superando il 40% dei voti, ad elezioni che avrebbero un’astensione record – qualcosa come un quarto degli aventi diritti al voto potrebbe esprimere parlamentari sufficienti a eleggere il Presidente della Repubblica e a cambiare la Costituzione. Ma se l’unico modo di fermare Salvini è trasformare il governo Conte in un governo Salvini, allora conviene rompere ora.

Perché andando avanti così l’esito sarà lo stesso, con l’aggravante di un Movimento 5 Stelle letteralmente disintegrato. Al contrario, se il Movimento rialzasse la bandiera dei suoi valori fondanti, a partire dall’ambiente, uscisse dal governo sul Tav (ma anche sulla corruzione dilagante nella Lega; sulla sudditanza di Salvini alla Russia di Putin; su un’autonomia differenziata che ha l’unico scopo di fottere definitivamente il Mezzogiorno) e cambiasse il leader (perché Di Maio ha credibilità zero) potrebbe ancora giocarsi la partita.

A suo favore gioca ancora la totale assenza di alternative: alle Europee Salvini si è preso i voti di destra del Movimento, ma sono invece finiti nell’astensione i milioni di voti di tutti coloro che vorrebbero davvero cambiare il sistema.

Sono tra coloro che, da sinistra, aveva provato a credere che il Movimento avrebbe potuto giocare un ruolo nello scardinamento dello stato delle cose. Non ho mai accettato le cariche che mi hanno proposto, e non ho mai fatto dichiarazioni di voto a loro favore (se non per la Raggi a Roma: e, in quella situazione, la rifarei mille volte). Ma trovandomeli accanto in mille battaglie per l’acqua, l’ambiente, i beni comuni avevo sperato che potessero giovare. Una speranza ingenua: della quale tuttavia non mi pento, anche solo perché – in attesa delle condizioni, ancora assai lontane, della ricostruzione di una qualche sinistra politica – non c’era altro in cui sperare. Anche oggi – diciamolo chiaro – l’alternativa è l’astensione.

Ma la sudditanza (e l’esplicita complicità, a tratti disgustosa) alla politica di estrema destra di Salvini sui diritti umani, un reddito di cittadinanza lontanissimo da quello che avevano proposto prima di essere al governo (e realizzato all’insegna del ‘sorvegliare e punire’), la ripresa della svendita del patrimonio pubblico, una riforma costituzionale che piccona ulteriormente il ruolo del Parlamento, e in generale una velocissima trasformazione in casta di potere (con mandato, e competenza, zero) hanno distrutto quella speranza.

Restava solo la casamatta del Tav, che non investe solo il destino della Val di Susa ma l’idea stessa di democrazia: subire il tradimento di Conte sarebbe la fine del Movimento, respingerlo è l’ultima occasione di una palingenesi. Che non sarebbe facile, ma sempre meglio di una fine vergognosa.

“Sul Tav la pazienza è finita”. Ecco le reazioni dei lettori

Dopo il via libera del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al Tav nei giorni scorsi, in redazione sono arrivate moltissime lettere di reazione. Ne abbiamo selezionate alcune, che pubblichiamo di seguito.

Una disfatta: il M5s ha cambiato il suo spirito

Non pensavo che il M5S, dopo innumerevoli cedimenti a Salvini, potesse ammainare anche la bandiera No Tav. È la più cocente sconfitta. Di Maio, accettando l’incredibile decisione di Conte, ha segnato la sua fine e quella del Movimento. Sono stati troppi i voltafaccia in quest’anno, che hanno portato alla disastrosa sconfitta delle Europee. Di Maio ebbe a dire: “La nostra gente non è andata a votare”. Si è mai chiesto perché? Nel settembre 2017 ero a Rimini, alla convention dei 5 Stelle come iscritto. Un’esperienza unica, indimenticabile, tra gente di cui percepivi l’entusiasmo, le speranze che nascevano dal programma del Movimento che incarnava finalmente un nuovo corso politico per il Paese. Non più un miraggio, ma una realtà che stava prendendo corpo dopo anni di corruzione e di grandi delusioni. Una nuova era stava per nascere, fatta di onestà, impegno e tanti buoni propositi. Ebbene, quello spirito, lo spirito di Rimini, ora non c’è più, non se ne vede traccia. L’agonia è iniziata nel maggio 2018 con la formazione di questo governo, contro natura perché basato su di un contratto tra due forze politiche che più distanti tra loro non avrebbero potuto essere. Certo, Renzi aveva fatto naufragare la possibilità di un governo M5S-PD, ma si poteva rimanere all’opposizione. I sondaggi davano il M5S al 35%. In breve tempo si sarebbe facilmente raggiunto il 40 e la Lega sarebbe rimasta inchiodata al 17%. Ora, dopo aver salvato Salvini sul caso Diciotti, gli si regala anche il Tav. Non è questo il Movimento che mi aveva conquistato. Era l’ultima speranza, ormai svanita.

Forse è tempo che cada davvero il Governo

Alle elezioni europee 2019, in Val di Susa la Lega ha vinto. Sapevano gli elettori che, votando Salvini, si sarebbe fatto il Tav? Ora la croce la portano i Cinque Stelle e il sì al Tav sarà una macchia indelebile, ma la realtà è cangiante, sfuma da tonalità decise a grigi tenui ed evanescenti. Varrebbe la pena far cadere il governo sul tema delle grandi opere? Forse stavolta sì.

Questa storia di Conte diventato improvvisamente Sì Tav cade come il cacio sui maccheroni: è necessario far dimenticare agli italiani quella brutta storia dei rubli-leghisti. Quale argomento migliore? Ma i 5S non devono prestarsi a questo gioco. Da loro elettore-non attivista credo sia ormai giunta l’ora di staccare la spina al governo. I pentastellati non peggiorerebbero certo la loro situazione abbandonando Salvini che è la causa prima del loro sfacelo. Del resto gli italiani si dimostrano sempre più un popolo di destra anche grazie al Pd e altri partiti che si credono di sinistra. Non solo, gli italiani sono sempre più leghisti, compresi i meridionali, che scordano di essere stati per anni il bersaglio della Lega bossiana. Per i 5S l’aria del governo è ormai irrespirabile. Un governo Lega-FdI-Berlusconi con il PD come finta opposizione è il sogno di tanti. Si accomodino.

Toninelli: dimettersi per difendersi no?

Il ministro grillino delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, subisce il fuoco nemico perché blocca i cantieri ma anche per il via libera al Passante di Bologna. A questo punto ha senso restare abbarbicati alla poltrona o non sarebbe più dignitoso lasciare l’incarico e difendersi dalle accuse incrociate?

Mai nessuno ha avuto il massimo consenso

Vedo che il mantra dei 5 stelle adesso è “non abbiamo il 51%” per determinare sul Tav. Da elettore del Pd vorrei far notare che mai nella storia la sinistra di governo (Pds, Ds, Pd che dir si voglia) ha avuto tale consenso. Da lì una serie di alleati come Mastella, Alfano, Bertinotti che si sono spesso messi di traverso sul percorso riformista. Nessuno ha fatto sconti a quelle esperienze di governo, mi pare logico che lo stesso avvenga adesso.

Decida il Parlamento: è democrazia

Un applauso al premier Conte che rivendica la centralità del Parlamento. Sui provvedimenti, provenienti da legislature precedenti di importanza strategica nazionale, o su argomenti su cui la maggioranza è in disaccordo “il Parlamento è sovrano”. In realtà è sempre sovrano, sovranità che passa in secondo piano quando il governo è d’accordo ma viene sempre votata dal Parlamento. Quindi i parlamentari della maggioranza votino pure ad esempio contro Tav, è un loro diritto. Ma se il Parlamento la approva è una cosa da fare, non è utile al Paese minacciare o innescare una crisi su un provvedimento che approva il Parlamento. A me non piace il Tav, ma se il Parlamento sovrano la approva mi inchino alla democrazia e lo rispetto. Non può cascare un governo per disaccordi su provvedimenti ereditati. La democrazia è questa.

Torino, la capogruppo M5S con l’Appendino: “Evitiamo scissioni”

La scissione è un passo che “da sempre sancisce la scomparsa politica di chi lo compie” e “di chi pensa di difendere così valori che vuole difendere”. È un appello all’unità dei consiglieri comunali M5S che amministrano Torino quello lanciato su Facebook dalla capogruppo pentastellata Valentina Sganga. “È così da sempre, pensiamoci”, sottolinea la capogruppo. Un invito, neppure troppo celato, ai consiglieri che nelle ultime ore hanno espresso disappunto per il via libera del premier Conte al Tav, minacciando l’addio alla maggioranza per il gruppo misto che rischierebbe di interrompere il mandato di Appendino ben prima della sua scadenza naturale, prevista tra due anni. L’invito arriva comunque dopo aspre critiche riguardo alla giravolta dei 5 Stelle sulla Torino Lione: “Questa battaglia meritava vicinanza al territorio, presenza e ascolto. Tutto ciò è, in buona parte, mancato. Forse perché le priorità del governare erano tante e grandi, e noi ancora troppo piccoli”. Motivi comunque non abbastanza forti, secondo la Sganga, per provocare lo strappo in giunta comunale.

La Regione Piemonte espone lo striscione: “Verità per Bibbiano”

Sulla facciata della Regione Piemonte è comparso ieri uno striscione con la scritta “Verità per Bibbiano”. A srotolarlo è stato l’assessore alla Sicurezza, il leghista Fabrizio Ricca: “È una richiesta di trasparenza, un invito a indagare a fondo e ad accertare tutte le responsabilità. Ma anche un monito per le istituzioni nel perseguire sempre politiche e prassi che favoriscano i bambini e non li mettano in pericolo”. Il nuovo striscione affianca quello che chiede “Verità per Giulio Regeni”, messo anni fa dalla precedente amministrazione di centrosinistra, sostituita da poco dopo la vittoria della coalizione guidata da Alberto Cirio. “La terribile storia che sembra essere avvenuta a Bibbiano – afferma Ricca – sta sconvolgendo l’opinione pubblica”. E la Lega, insieme al M5S, da tempo cavalca il caso in chiave politica, puntando il dito contro il Pd a cui è iscritto il sindaco indagato di Bibbiano. “Non vorrei che una sede istituzionale fosse diventata la bacheca di Lega e FdI, – replica il capogruppo del Pd Regione Domenico Ravetti – chiedo, e lo chiederò formalmente in aula al presidente Alberto Cirio, chi abbia autorizzato l’esposizione dello striscione”.

La difesa di Toninelli: “Torino-Lione inutile”. Ma rivendica i fondi Ue

Da due giorni è uno dei nomi sotto accusa. Lui però rivendica quanto fatto, si difende e dice che “sarebbe una follia non andare avanti col governo”. Ieri il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli ha affidato a Facebook i commenti del giorno dopo il via libera al Tav e alle altre opere sbloccate dal Cipe.

Gli attivisti 5 Stelle gli contestano l’aver autorizzato una serie di opere – su tutte, appunto, la Torino Lione – ritenute inutili. E in effetti sul Tav Toninelli non cambia idea e dice che “l’opera è e resta inutile”. Meglio, “un bidone per tutti gli italiani”, “un progetto vecchio ancor prima di vedere la luce”, che gli esperti “hanno fragorosamente bocciato perché non porta benefici neppure nel lungo periodo”. Poi però il ministro elogia il lavoro fatto, che ha portato al sì all’opera: “La nostra caparbietà ha spinto la Commissione a comprendere che l’opera non era così conveniente e quindi a alzare i fondi. Una cifra che può arrivare fino a tre miliardi di euro risparmiati”. Soddisfazione anche per le opere sbloccate dal Cipe: “Ieri se ne è accorta anche la Lega delle decine di miliardi di opere che ho fatto approvare. I frutti dell’immenso lavoro fatto si stanno vedendo. È tutta farina del sacco del Movimento 5 stelle”. Intanto ieri si è scoperto che la scadenza per non perdere i fondi dell’Unione europea destinati al Tav non sarà più la fine di questa settimana, ma il 30 settembre, complici anche le rassicurazioni arrivate dal governo.

Salvini vuole militarizzare la Val Susa. Il vicesindaco: “Così innesca la miccia”

Da una parte il ministro Matteo Salvini, che già paventa “disastri” e annuncia l’utilizzo di 500 agenti. Dall’altra l’orgoglio No Tav, che sfotte e provoca il vicepremier. A Venaus, neanche mille anime in piena Val di Susa e dunque in territorio di alta velocità, è partita la Festa Alta Felicità, serie di concerti, spettacoli e esibizioni nel mezzo di un campeggio degli attivisti.

Rito che si ripete da anni ma che mai è stato così importante, ora che il governo ha appena annunciato il via libera alla Torino Lione. Sabato è prevista la grande adunata degli attivisti, con un corteo No Tav verso il cantiere di Chiomonte. Occasione che preoccupa in particolar modo la prefettura di Torino e il ministro Salvini anche alla luce di quanto avvenuto qualche sera fa, quando duecento manifestanti hanno tentato di sfondare una cancellata e lanciato pietre.

E così il leader leghista annuncia già misure di sicurezza eccezionali: “Ogni eventuale atto di violenza verrà contrastato con fermezza. La mia priorità è mandare 500 uomini per evitare che provochino disastri”. Parole che arrivano in Val di Susa più come una provocazione che come un tentativo di evitare guai. Il vicesindaco di Venaus Erwin Durbiano, per esempio, respinge le accuse: “Non vedo violenza, l’atteggiamento da barricata di sabato lo sta creando l’esagerazione del prefetto di Torino. Di certo rispondere con uno scudo di 500 poliziotti è il modo per innescare la miccia”.

E mentre il sindaco del paese, Avernino Di Croce, prova a tranquillizzare prefetto e ministro assicurando che “i matti verranno isolati”, gli organizzatori dell’evento non hanno preso bene le parole di Salvini. Uno di loro, Francesco Richetto, avvisa: “Ci sono persone che vogliono impiantare un progetto devastante su questo territorio e sono preoccupate da noi e noi siamo molto contenti di questo, perché se fossero felici della nostra presenza significherebbe che c’è qualcosa che non funziona”. E i toni si alzano: “Hanno ragione a essere preoccupati per la nostra presenza. Se Salvini è preoccupato noi siamo felici”. Meno aggressivo è Alberto Perino, storico leader del Movimento No Tav, che però dimostra di non aver apprezzato affatto la militarizzazione della festa: “C’è chi vuole sempre pompare per fare terrorismo psicologico. Abbiamo sempre detto che sarà una passeggiata tranquilla e quindi non facciano delle provocazioni inutili”.

Sul Tav tante bugie: dal “cambiamento” son tornati a Delrio

Sono trascorsi solo poco più di quattro mesi. Lo scorso 7 marzo il premier Giuseppe Conte sosteneva che l’analisi costi-benefici della Torino-Lione aveva superato lo “stress test” del giorno prima e giungeva perfino a scusarsi con gli autori per aver dubitato, dopo averne letto i resoconti sulla stampa, della solidità della stessa. Si era dunque convinto che la prosecuzione dell’opera non fosse nell’interesse degli italiani. Qualche giorno fa il contrordine. Ora, grazie al presunto aumento del contributo dell’Ue, “fermarla costa più che completarla”. È falso. Vediamo perché:

1) I soldi dell’Ue sono, ad oggi, una vaga promessa. Nessun impegno giuridico è stato preso. E non ci sarebbe da stupirsi troppo se da Bruxelles, incassato il sì, invece di un assegno più cospicuo giungesse una pernacchia. Intanto, la pelle dei contribuenti è stata venduta. Ad ogni modo, l’eventuale maggiore contributo di Bruxelles non cambia di una virgola la disastrosa valutazione economica dell’opera: sposterebbe eventualmente una parte maggiore dei costi dagli italiani agli europei. Stesso spreco di risorse e maggiore iniquità: a pagare di più sarebbero coloro che, ancor meno di italiani e francesi, beneficeranno dell’opera.

2) I conti per gli italiani resterebbero in rosso anche qualora l’Unione europea contribuisse per il 55% della tratta internazionale e si facesse carico di metà dei costi di quella nazionale. La perdita di ricchezza per l’Italia conseguente alla realizzazione dell’opera è stata stimata pari a 2,8 miliardi. Nella più favorevole delle ipotesi, essa si ridurrebbe a circa 1,6 miliardi. Questo senza mettere nel conto possibili o, meglio, probabili sforamenti dei costi di costruzione che per opere di questo tipo in passato sono stati dell’ordine del 50% del preventivo (il 100% per il tunnel sotto la Manica) e che comporterebbero qualche miliardo di perdita aggiuntiva (per i contribuenti, si intende, non certo per i costruttori).

C’era un modo dignitoso per chiudere la partita. Riconoscere di essere minoranza nel Parlamento e tra gli italiani e, quindi, impossibilitati a fermare la corsa del treno contrastando gli interessi corposi che ne guidano la folle corsa. Al danno si è invece voluta aggiungere la beffa. Politique d’abord, come sempre, come tutti.

D’altra parte, con l’eccezione della Torino-Lione, avversata forse più per ragioni ideologiche che per la sua scarsa utilità, vi è una perfetta omogeneità in tema di investimenti in infrastrutture ferroviarie tra il governo “del cambiamento” e i precedenti esecutivi. Sì a tutto, a prescindere. Sì alla Brescia – Padova, sì alla Napoli – Bari, sì alla alta velocità in Sicilia. Due giorni fa, alla shopping list ereditata da Graziano Delrio, il vicepremier, Luigi Di Maio ha suggerito di aggiungere il collegamento per Matera. E il Cipe ha dato il via libera all’aggiornamento del Contratto di programma di Rfi nel tripudio generale con la contrattualizzazione di 15 miliardi ulteriori rispetto a quanto previsto. Esattamente come Delrio. Il partito unico della spesa pubblica senza alcuna valutazione costi-benefici vince come sempre a mani basse.

Fare i conti non piace a nessun decisore politico. Perché comporta dire dei no. E i no scontentano sempre qualcuno. Scontentano spesso piccoli gruppi di utenti, ma scontentano soprattutto i costruttori e chiunque trae un cospicuo vantaggio individuale ed ha dunque un forte interesse, lecito o meno, a fare pressione perché una spesa sia approvata senza valutazioni. Spesa che però viene suddivisa tra decine di milioni di contribuenti, ognuno dei quali riceve un danno modesto e non ha dunque ragione, se non motivato da un forte spirito civico, a impegnarsi per contrastarla.

Una decisione, per esempio, di distribuire 20.000 euro a 100.000 beneficiati conferisce a ognuno di essi un incentivo pari a 20.000 euro ad adoperarsi perché la decisione venga approvata. Se, d’altro canto, i 2 miliardi di euro – che rappresentano il costo della proposta – vengono ripartiti sull’intera collettività, ognuno dei 60 milioni di italiani ha un incentivo pari a soli 35 euro a opporsi all’approvazione della decisione. Scriveva Vilfredo Pareto nel lontano 1896: “In queste circostanze, l’esito è fuori di dubbio: gli sfruttatori avranno una vittoria schiacciante”. Non si può dire che sia stato un cattivo profeta.