Ferie o mozione? Il bivio sul voto del No

La partita si gioca di nuovo in Senato. Dopo l’informativa del premier e la fallimentare strategia dei 5 Stelle di lasciarlo solo in aula, anche il caso Tav dovrebbe finire sui banchi di palazzo Madama. Il condizionale è d’obbligo, perché la pausa estiva incombe. E se si dovesse andare a settembre, non è detto che sia il caso di “riaprire la ferita”.

Come noto, dopo il Sì alla Torino-Lione dato dal premier Conte in diretta Facebook, M5S chiede di mettere agli atti del Parlamento il fatto che loro restano contrari: “Faremo valere il nostro 33%”, ripete Di Maio, a cui serve un’occasione pubblica per non perdere del tutto la faccia con i suoi elettori e dimostrare che nel “partito del cemento” siedono sia la Lega che il Pd.

Ma la Camera ha il calendario blindato – a meno che ai deputati non venga l’improbabile idea di rimandare le ferie di una settimana – e il Senato idem. Pare esclusa l’unica corsia preferenziale, ovvero le comunicazioni del Presidente: come farebbero i 5 Stelle a votare contro il loro premier? Così bisognerà trovare lo spazio per una mozione o una risoluzione: “Bastano tre ore, le troveremo”, dicono nel M5S. Ma nel gruppo c’è chi sente aria di rinvio. E a quel punto – alla ripresa autunnale – tornare a parlare della retromarcia sul Tav potrebbe diventare un boomerang comunicativo come quello dell’altro ieri.

C’è voluta un’assemblea del gruppo dei senatori con il ministro Fraccaro, ieri, per esorcizzare la figuraccia fatta sull’informativa di Conte. C’è chi si è lamentato perché “ci siamo comportati come alle elementari”. Chi ha parlato di un’autentica “stronzata”. Chi ha invece rivendicato di aver eseguito l’ordine.

Ma a prevalere sono state le critiche, pesantissime, per il grave incidente istituzionale o pasticcio che dir si voglia, dell’uscita dall’aula ordinata pochi minuti prima dell’informativa sul Rubli-gate. “Sono una persona perbene. Se lo voglio far cadere glielo dico in faccia” – hanno detto i senatori – “Andare via davanti a Conte è stata una sfiducia politica: potevamo alzarci quando parlava il capogruppo della Lega”. E poi un profluvio di accuse rivolte al capogruppo Stefano Patuanelli e al ministro per i Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro da cui è partita la disposizione (eseguita da Patuanelli), che davanti all’assemblea del M5S si è assunto la responsabilità dell’accaduto. Ma nonostante la pioggia incalzante di domande, sul come fosse stata elaborata l’idea, nessun lume ulteriore. “È stato deciso dal Movimento, da chi prende le decisioni in questo momento” si riesce a estorcere al massimo a Patuanelli. Anche Fraccaro prova a chiudere l’episodio: “C’è stato un problema di comunicazione, alcuni parlamentari non hanno capito” ha detto sottolineando che “Conte non è affatto arrabbiato”. Eppure nonostante l’ordine, 41 senatori M5S sono rimasti incollati ai loro scranni. Tra loro, esponenti del direttivo del Senato come Gianluca Perilli, Arnaldo Lomuti, Alessandra Maiorino. E pezzi da 90 come Paola Taverna, Daniele Pesco, Primo Di Nicola, Elio Lannutti, Mattia Crucioli. Quest’ultimo il più deciso a richiedere un cambiamento delle regole statutarie perché cose del genere non avvengano mai più.

La Ragusa-Catania vale oro. Bonsignore&C. all’incasso

Leggendo i nomi sembrerebbe un ritorno alla prima Repubblica. C’è un’infrastruttura attesa da quasi mezzo secolo e un politico, banchiere e imprenditore che è stato uno dei proconsoli democristiani di Giulio Andreotti e più di recente di Angelino Alfano: il 76enne siciliano Vito Bonsignore. Dietro l’affare dell’autostrada Catania-Ragusa il vincitore è proprio lui. L’esito della partita lo ha svelato nella serata di ieri, con un video, il ministro alla Infrastrutture Danilo Toninelli, anticipando di fatto l’incontro al Comitato per la programmazione economica (Cipe) fissato per la prossima settimana. Anas e Sarc, la società privata, presieduta dall’83enne Francesco Bonsignore, fratello di Vito, hanno chiuso l’accordo per il passaggio del progetto dal pubblico al privato.

L’opera doveva essere realizzata con il solito project financing (il privato costruisce e si ripaga coi pedaggi, ma quasi sempre il costo finisce allo Stato). Vale 814 milioni, finanziati con fondi pubblici e privati e una concessione in favore di Sarc fino al 2056. La formalizzazione del primo accordo risale a cinque anni fa, quando attorno a un tavolo si ritrovarono il capo della vigilanza sulle concessionarie autostradali, Mauro Coletta e lo stesso Francesco Bonsignore. Da allora, però, i cantieri non sono mai partiti.

Colpa di un modello che il ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli ha bollato come “fatto malissimo”, riferendosi ai costi per l’utenza. Con quello che era il progetto di Sarc per spostarsi da Catania a Ragusa bisognava pagare quasi 10 euro di pedaggio, che sulla tratta completa andata e ritorno diventano quasi 20. Un salasso se si pensa che per andare da Catania a Messina, 77 chilometri, il costo è di 3,20 euro. La Regione, che partecipa al progetto con 217 milioni, si era impegnata a versare 4 milioni l’anno per dimezzare i costi, ma questa trattativa si è conclusa con un nulla di fatto.

Adesso lo scenario cambia con la nazionalizzazione del progetto e Anas in prima fila. Il Cas, il consorzio per le autostrade siciliane, potrebbe inserirsi successivamente. Bonsignore perde così la concessione del 2014. Ma l’operazione, benedetta dal Governo, gli porterà qualche milione di euro.

Il progetto preliminare vale circa 23 milioni di euro e averlo preso in mano per Anas significa scongiurare l’ipotesi di dovere ricominciare da zero acquisendo tutti i pareri e i nullaosta necessari per l’approvazione definitiva. Da pagare poi ci sarà il mancato utile del privato, che va indennizzato. In questo caso la cifra “potrebbe sfiorare i 50 milioni di euro”, spiega l’assessore Falcone. I numeri non sono ancora ufficiali e verranno vagliati da un collegio indipendente. Ma senza Sarc chi si farà carico dei 500 milioni di euro? Una delle principali incognite è proprio questa. E nonostante l’ottimismo mostrato al Cipe dal presidente del consiglio Giuseppe Conte non c’è ancora una risposta. A conti fatti, però, per rimediare alle storture di un “pessimo progetto” si è deciso di comprarlo dal privato che l’ha fatto. Toninelli ha annunciato che almeno così il pedaggio sarà gratis.

Sarc, acronimo di Società autostradale Ragusa Catania, era nata nel 2014 con l’obiettivo di diventare la prima concessionaria privata ad operare lungo le strade della Sicilia. Dentro, come azionisti compaiono nove società, con la fetta più grossa in mano a Silec, Serenissima Holding e Mec spa. Ed in quest’ultima, insieme ai figli Katia e Luca, che compare Vito Bonsignore. Passato dalla prima Repubblica, con una lunga militanza nella Dc e un breve periodo da sottosegretario al Bilancio, nella sua vita da sempre ha alternato la passione per la politica con quella per l’asfalto (è l’ideatore dell’infinito progetto della Orte-Mestre, da tempo bloccato). Per due mandati è stato europarlamentare di Udc e Pdl, passando anche nel Nuovo Centrodestra di Alfano insieme al cugino, l’ex senatore forzista Pino Firrarello, il suocero di Giuseppe Cstiglione, ex sottosegretario del governo Renzi. Anche lui, come Bonsignore, di Bronte. In mezzo ci sono gli affari e i guai con la giustizia, compresa una condanna in via definitiva a due anni per concorso in tentata corruzione per l’appalto del nuovo ospedale di Asti.

Sozzani&zozzoni

Cari lettori, quando vedete un esponente del Pd stracciarsi le vesti per le presunte tangenti alla Lega, quella di 30mila euro di Arata&Nicastri a Siri e quella di 65 milioni di dollari dai russi a Savoini, non credetegli. É tutta commedia, sceneggiata, ammuina. L’altroieri, mentre i pidini gonfiavano le giugulari per inveire in diretta tv alla Camera e al Senato contro il vicepremier Salvini e il premier Conte che lo sbugiardava, in Giunta per le autorizzazioni a procedere i loro compagni di partito votavano lontano da occhi indiscreti a braccetto con Lega e FI per negare ai giudici di Milano il permesso di usare le intercettazioni a carico di Diego Sozzani, deputato forzista indagato per finanziamento illecito, corruzione, traffico d’influenze e turbativa d’asta. Gli unici sì ai giudici sono arrivati dai 5Stelle. É la regola aurea della Casta, anzi della Cosca: cane non morde cane, ladro non disturba ladro. Lo scandalo Sozzani, rispetto a quelli leghisti, è illuminante perchè tutto fa pensare che il deputato forzista abbia intascato soldi illeciti, mentre Siri e Savoini pare di no: penalmente fa poca differenza, essendo reato anche la tentata corruzione. Ma politicamente chi si indigna per le mazzette promesse ma non incassate dovrebbe farlo, a maggior ragione, per chi i soldi li ha presi. Invece Sozzani è stato salvato dalle intercettazioni e quasi certamente anche dal processo, visto che le conversazioni sono la prova regina dell’accusa. Motivo: “fumus persecutionis”. E allora vediamolo, questo perseguitato dai giudici (e dal trojan).

Il 6 febbraio 2018 manca un mese alle elezioni del 4 marzo. Sozzani, ex presidente della Provincia di Novara, coordinatore piemontese di FI, consigliere regionale e candidato alla Camera, ha bisogno di soldi per la campagna elettorale. I pm dell’Antimafia di Milano lo ascoltano nell’inchiesta “Mensa dei poveri” mentre batte cassa da un imprenditore che gli sgancerà 10mila euro in nero. É Daniele D’Alfonso, titolare di Ecol-Service srl, ora accusato di aver corrotto politici e amministratori, ma anche agevolato il clan ‘ndranghetista dei Molluso di Buccinasco: secondo il gip, è il tipico “rampante” la cui “avidità di soldi e di potere imprenditoriale lo spinge ad ampliare la sua rete di relazioni per svilupparsi ulteriormente”. Sozzani non sa che il galantuomo ha il trojan nel cellulare, che registra tutto quel che dice e fa. Per convincerlo dell’utilità della mazzetta-investimento, precisa all’imprenditore di avere “il seggio sicuro“, grazie al Rosatellum che consente ai capipartito di nominarsi i parlamentari che vogliono.

E si dice interessato ad approfondire i rapporti con Ecol-Service, dandogli il nome di Mauro Tolbar, collaboratore di Greenline Srl, la società di Sozzani e del fratello Stefano, che seguirà gli aspetti pratici della faccenda. Poi viene al dunque: “L’eventuale tuo aiuto quanto potrebbe essere? La cifra finale”. D’Alfonso risponde che glielo dirà di persona a Novara. Il 5 marzo, giorno dopo il voto, Tolbar chiama D’Afonso per il lieto annuncio: “Siamo dentro, Diego è passato!”. Eletto deputato. Il 9 marzo Tolbar gli illustra il percorso della mazzetta per il neoeletto. Cioè -scrive il gip- tramite l’amministratore della E.s.t.r.o. Ingegneria di Milano, “il quale invierà via mail una fattura per operazioni inesistenti a D’Alfonso – che quest’ultimo pagherà come concordato con bonifico bancario – al preciso fine di celare l’illecito finanziamento promesso al neo parlamentare”. La fattura è datata 8 marzo. Il 22 marzo D’Alfonso bonifica 12.688 euro: 10mila per Sozzani, 2.500 per il mediatore E.s.t.r.o e gli altri 188 “aggiunti per non indicare una cifra tonda e rendere credibile il pagamento per la fatturazione di un’operazione aziendale”. Il titolare di E.s.t.r.o “monetizza l’incasso e lo consegna, in contanti e in diverse tranche, a Tolbar che provvederà alla consegna al destinatario finale”: il neodeputato. Che, secondo il gip, ha promesso di “far ottenere alla società di D’Alfonso agevolazioni nell’ottenimento di appalti in provincia di Novara”.

Però sperava di raccattare ben di più, infatti il 12 aprile piagnucola al ristorante con Nino Caianiello, ras forzista a Varese e gran manovratore della nuova Tangentopoli lombarda: “Sto cercando i soldi perché è una fatica, credimi! 15 anni fa qualcuno veniva lui di sua sponte da me, a dirmi ‘se entri in quel partito, che posso fare?’. Adesso non si può più mettere le mani… mi inginocchio per chiedere tre lire! Tremila, cinquemila, diecimila, quando avevo bisogno centomila!”. Poi, quando scatta il blitz dell’Antimafia, giura di non aver mai saputo nulla della tangente e assicura: “Se scoprissi anche solo un’ombra mi dimetterei immediatamente da deputato”. Ma pm e gip escludono che chi parla con la sua voce sia un bravo imitatore che vuole incastrarlo. Anche perchè ritengono di aver trovato pure “un riscontro agli indizi del sistema illecito di incarichi pilotati a favore della società Greenline srl riconducibile al deputato, da parte delle società in-house operanti in provincia di Varese eterodirette da Caianiello”. Così chiedono alla Camera l’autorizzazione a usare le intercettazioni indirette di Sozzani e poi ad arrestarlo, come han già fatto per altri 43 indagati sfortunatamente senza scudo. Ma non hanno fatto i conti con Lega, Pd e FI, che a favore di telecamere se le danno di santa ragione, ma nel chiuso della giunta si salvano i rispettivi inquisiti. No ai giudici, anche per le conversazioni registrate prima che Sozzani agguantasse il seggio e l’immunità. Vano il sì dei 5Stelle. Che hanno mille difetti, commettono mille errori e forse si sono persino scordati perchè esistono. Poi però provvedono sempre gli altri a ricordarglielo. E a ricordarcelo.

Juve-Inter, applausi (e rigori) solo per Buffon

All’inizio del campionato, fissato per il 24 agosto, manca un mese: piano, dunque, con gli indizi. La storia insegna che, di questi tempi, non sempre portano all’assassino. Ciò premesso, Juventus-Inter è Juventus-Inter comunque e dovunque, persino a Nanchino. Ha vinto la Juventus, ai rigori, dopo che un autogol di De Ligt e una punizione di Cristiano, spazzolata in barriera da Skriniar, avevano sancito l’1-1. Alla lotteria dei penalty, riecco Gigi Buffon: ne ha parati tre su sei (a Ranocchia, a Longo con l’aiuto del palo, a Borja Valero). Il 4-3 dal dischetto, per un totale di 5-4, è stato firmato da Demiral, il difensore turco che aspetterei a girare al Milan. Era la prima di Sarri contro Conte. In questi casi si corre a cercare la mano “di chi”. La mano di Conte, allora. Dalla difesa a tre, che costò il posto a Gasperini, a un impatto più aggressivo, a un controllo territoriale che, se ha prodotto rare occasioni, per un tempo ha in pratica azzerato i rischi.

In attesa di Lautaro e Dzeko, l’Inter non ha attacco: Esposito, classe 2002, e Perisic, bocciato come ala “tutta fascia”, sono ripieghi. La Juventus, in compenso, non ha centrocampo: con la differenza che Pjanic, disturbato da Brozovic, e Rabiot restano potenziali titolari. Non ha centrocampo, nel senso che la manovra da dietro, se escludiamo le sortite di Cancelo, sgorga a fatica.

Sarri ha piazzato De Ligt in coppia con Bonucci, Cristiano a sinistra, Higuain al centro. Un 4-3-3 molto lungo, molto sterile, L’equilibrio l’aveva spaccato già al 10’, quando si dice il destino, proprio De Ligt, il pupillo di Raiola che ha tenuto in ostaggio fette cospicue di edicole e, ad aprile, aveva timbrato l’uscita della Juventus dall’Europa. Un tempo a testa. Nel primo, Inter subito sul pezzo, più armonica e ormonica. Nel secondo, Juventus meno svagata e meno “bassa”. Queste partite sono laboratori a pagamento, si viaggia e ci si allena per seminare. Chi gioca potrebbe a breve giocare altrove. Marotta versus Paratici moltiplicava le locandine. Il mercato chiude il 2 settembre, campa Lukaku. In un eccesso di efferato masochismo, Marotta e Conte hanno scelto la più chirurgica delle trasparenze: Icardi a casa, Nainggolan in tribuna. Paratici, lui, preferisce mescolare le carte, l’ultima riguarda Dybala, bloccato nel traffico della rosa dagli straordinari di Coppa America e in bilico tra falso nueve, trequartista e cessione. Rabiot è un cavallo pazzo. Alla ripresa, bontà sua, la Juventus ha cominciato a inquadrare la porta, con Cristiano e lo stesso Rabiot, fino alla carambola del pareggio (68’). Sarri si sgolava come un ossesso: non è più la Juventus di Allegri, anche se nei calcoli iniziali ne ha ricordato la versione più timida. L’assenza di titolari e l’orgia di cambi consegnano così agli archivi un quadro che vale, soprattutto, per la cornice del Buffon di ritorno. A 41 anni.

Addio a Rutger Hauer, l’attore che aveva visto (quasi) tutto

Ha visto cose che noi umani non potremmo immaginare. E nemmeno più sapere: Rutger Hauer, passato alla storia per il ruolo di replicante in Blade Runner, è morto venerdì scorso, anche se la notizia è stato data solo ieri, a funerale avvenuto. L’anno – diavolerie della sorte – è lo stesso 2019 in cui il film di Ridley Scott è ambientato.

Ha visto (e fatto) cose tra le più disparate: lui che era daltonico dovette rinunciare alla carriera di lupo di mare, come il nonno. Era figlio d’arte di due teatranti – nato in provincia di Utrecht nel 1944 e cresciuto ad Amsterdam –, ma fece di tutto per sfuggire al destino d’attore, prima imbarcandosi su un mercantile, poi arruolandosi in marina, poi espatriando in Svizzera per lavorare come guida alpina e, infine, rintanandosi a Basilea in un teatro, scritturato sì, ma come macchinista. Solo nel 1967, con il diploma d’arte drammatica in tasca, si risolse a recitare, in oltre 170 pellicole.

Il battesimo fu in tv nella serie olandese Floris (1969), mentre il debutto a Hollywood avvenne accanto a Sylvester Stallone nel 1981 con I falchi della notte, ma è grazie al replicante Roy, l’anno successivo, che la sua carriera svoltò. Tra i suoi film iconici si ricordano Ladyhawke (1985); La leggenda del santo bevitore (1988) di Ermanno Olmi, Leone d’Oro a Venezia; I banchieri di Dio (2002); Confessioni di una mente pericolosa (2003) di George Clooney; Sin City (2005); Batman Begins (2005) di Christopher Nolan; Dracula 3D (2012) di Dario Argento.

Hauer si è sposato due volte: dalla prima moglie ha avuto la figlia Aysha, mentre dal 1985 era legato a Ineke, scultrice e pittrice. Del suo alter ego più famoso disse: “Sono orgoglioso della frase finale di Roy… Era così toccante che anche quelli che stavano filmando la scena si commossero”.

Peccato: il gioiello di Carta è diventato bigiotteria

La sospensione del dubbio si inabissa alla prima scena: Tokyo e Rio, due dei personaggi principali della Casa di Carta, sono su un’isola deserta da ben due anni. Deserta e minuscola, un atollo con un perimetro totale da cinque minuti a piedi. Quindi sole, le classiche palme, spiaggia, cocktail, sesso, pensieri zero, fuga certa, alcun rapporto con le classiche rogne da vita quotidiana; eppure lei, Tokyo, ha ancora delle splendide unghie laccate di nero.

Dettaglio? Mica tanto.

Se uno si affida al senso onirico della vita, lo smalto è un accessorio poco necessario per superare la quotidianità (ammalia i pesci e pesca meglio? La protegge dai raggi solari? Allontana moschini e zanzare?); se poi uno vuole aggiungere un senso pratico alla supposizione, allora sempre lo smalto nero diventa un riferimento irreale al soggetto: dopo due anni dove si trova la materia prima da spalmare sulle unghie? Difficile se si è su un’isola deserta, al limite Tokyo, mentre era in fuga dalle polizie del mondo, si sarebbe dovuta fermare in un negozio e affrontare un bel rifornimento annuale, evitando di mettere fretta alla commessa.

Improbabile.

Purtroppo lo smalto nero è il primo indizio di una crepa dentro l’attesissima terza stagione della Casa di Carta, ultra premiata, osannata, replicata serie televisiva spagnola (attualmente trasmessa in contemporanea in 190 paesi), con al centro un gruppo di ladri geniali, costretti a tornare insieme per salvare uno dei componenti della banda, pizzicato e arrestato.

Peccato, dicevamo.

Se le prime due stagioni sono un concentrato di equilibrio e adrenalina a rilascio lento e calibrato, personaggi intrecciati, con poco approfondimento psicologico, ma comunque un loro spessore, un fascino non banale, una bellezza a volte sognante; in questa terza si è perso il giusto livello: ci sono delle belle scene, alcuni dialoghi interessanti e delle trovate originali, ma si è preferito accentuare per risolvere, urlare per impressionare, macchiettizzare per giustificare una presenza. È il comico che per strappare una risata è costretto ad affidarsi alla parolaccia, è il sessantenne che indossa i jeans strappati per sentirsi giovane, o la sessantenne che sottrae alla camicetta un bottone di troppo.

La Casa di Carta (o di Papel, in spagnolo) era un prodotto pensato e chiuso in quelle prime due serie, congegnato per finirla lì, un piccolo capolavoro, quasi di nicchia per i dialoghi e lo svolgimento, poi uscito dalla sua normale fruizione per confrontarsi con il successo, il business, i cloni, le maschere di Dalì (i protagonisti utilizzano il volto dell’artista per mascherare il proprio) sparse per il pianeta e presenti in ogni contestazione, ogni lotta alla sopraffazione, ogni scontro sociale. Bella ciao cantata dai ragazzi nella prima e seconda serie è diventata un inno oltre le sue origini: esistono versioni pure in arabo, e i giovani pensano sia un inno patriottico spagnolo.

 

Gene, lo scazzo con Mel e il sapone di mamma

La mamma è sempre la mamma. Anche quella di Gene Wilder. “‘Vuoi sapere cosa significa fottere?’, mi domandò mentre mi trascinava in bagno. Aprì il rubinetto, passò una saponetta Ivory sotto l’acqua corrente e me la infilò in bocca. ‘Ecco fatto! Ora sai cosa significa fottere’. Scoppiai a piangere e poi, com’era solita fare, perfino in punto di morte, si mise a piangere anche lei e mi scongiurò di perdonarla”.

Allen, invece, tagliò corto: “A parte ‘Buongiorno’ e ‘Buonasera’, Woody mi disse soltanto tre cose durante tutte le riprese di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere): 1. ‘Qualcuno ti ha offerto tè o caffè, Gene?’ 2. ‘Sai dove andare a pranzo?’ 3. ‘A proposito, se qualche battuta non dovesse piacerti, cambiala come la diresti tu’”. Nel film a episodi del 1972, Gene si improvvisava medico, s’innamorava di una pecora e un po’ per pastorizia un po’ per impudicizia provava a rispondere alla domanda in esergo: Che cos’è la sodomia?.

Con il “suo” regista Mel Brooks, viceversa, si divise la nomination agli Oscar per la sceneggiatura di Frankenstein Junior, complici infiniti caffè, un tot di “Lupo ululà e castello ululì” e un unico diverbio: “Non riesco neanche più a ricordare l’argomento del contendere; ricordo soltanto le sue urla contro di me. Dieci minuti dopo essersi congedato, mi telefonò da casa: ‘CHI ERA QUEL FOLLE IN CASA TUA? LE SUE GRIDA SI SENTIVANO FIN QUA. NON DOVRESTI MAI FAR ENTRARE DEI PAZZI IN CASA TUA. SAI QUAL È IL PROBLEMA? POTREBBERO ESSERE PERICOLOSI’. Quella era la maniera di Mel di chiedere scusa. Da allora non abbiamo mai più litigato”.

Il 29 agosto sono tre anni senza Gene Wilder, il Willy Wonka del cult di Mel Stuart, il figlio di ebrei russi immigrati a Milwaukee che si fece le ossa all’inglese Bristol Old Vic Theatre School, si mantenne dando lezioni di scherma e infine si fece leggenda, anzi, “Si – può – fare!” di frankensteiniana memoria.

Siamo orfani di quel “ragazzo ebreo” – Jerome Silberman all’anagrafe – che morì a 83 anni ancora ragazzo: non per l’Alzheimer, ma per l’incapacità di adagiarsi, omogeneizzarsi, ridursi a attore, e luogo, comune. Basterebbe il titolo dell’autobiografia: Baciami come uno sconosciuto. La mia ricerca dell’amore e dell’arte, ripubblicata con merito da Sagoma Editore. Al riguardo, la cosa migliore l’ha scritta Brooks: “Sembrerebbe che non sia la mano a impugnare la penna, ma il cuore. Dice sempre la verità, bella o brutta, troppo personale o rivelatrice che sia”. È davvero così, che si tratti della terza moglie, l’attrice Gilda Radner morta di cancro nel 1989: “‘Gilda, tu tratti qualsiasi estraneo del mondo con rispetto, a prescindere dal dolore che covi dentro. Da te non voglio nient’altro che mi tratti come uno sconosciuto’. ‘Ma tu sei mio marito, non capisci? Sei l’unico contro il quale io possa urlare?’”, o della quarta, Karen Boyer, “senza la quale fluttuerei come un turacciolo di sughero nell’oceano”.

C’è anche l’Italia, nell’oceano di film, incontri e ingegno che Wilder è stato. E c’è Fellini, al cui Sceicco bianco s’ispira Il più grande amatore del mondo: Gene chiama Federico, “’l’ufficio legale della 20th Century Fox dice che ho bisogno di una specie di permesso da te, per stare tranquilli’. ‘D’accordo Gene. Ti dico cosa farai: nei titoli di testa farai scrivere in maiuscolo UN RINGRAZIAMENTO SPECIALE AL MIO AMICO FEDERICO FELLINI. Questo sarà sufficiente’. Feci proprio come mi aveva chiesto. Quando il film uscì nelle sale e il pubblico lesse quella scritta… si mise a ridere, pensando si trattasse di una mia trovata”.

Fosse ancora qui, Wilder oggi festeggerebbe il cinquantesimo anniversario dell’altra candidatura agli Oscar, da attore non protagonista di Per favore, non toccate le vecchiette (The Producers in originale, perché Primavera per Hitler era troppo). Lo scambio del suo Leo Bloom con il Max di Zero Mostel non ce lo scordiamo: “’Gli attori sono esseri umani come noi, non animali!’. ‘Tu credi? Li hai mai visti mentre mangiano?’”.

 

Le vacanze borghesi di Diabolik ed Eva Kant

Dopo un anno di duro lavoro – tra furti, rapine, scassi, rapimenti, ricatti, omicidi, pochi omicidi, a dirla tutta – niente di meglio del buen retiro nell’amata villetta di proprietà, in località balneare, con piscina, vista mare, centrifuga detox a portata di lettino, una pineta a protezione dal sole e da occhi indiscreti ed eleganti gabbiani nel cielo, che non gracchiano né usano il dehors come toilette. Anzi, per omaggiarli, hanno anche intitolato agli uccelli lo splendido isolotto al largo della baia.

Le (rare) vacanze di Diabolik ed Eva Kant sono così: borghesi, banali e très chic. L’élite di carta, all’Engadina e Capalbio, preferisce Ghenf, inizialmente identificata con Marsiglia, mentre Clerville, dove i due hanno la residenza fiscale (seeee), somiglia a Parigi, almeno nei primi numeri del fumetto smaccatamente ambientati in Francia. I terrapiattisti sostengono però che la città si affacci sul lago, come Ginevra, la cui pronuncia in tedesco suona proprio “ghenf” (Genf); gli amici delle sorelle Giussani ipotizzano invece un borgo della Provenza, al massimo della Costa Azzurra; i Manetti Bros., infine, se la immaginano come Trieste, dove hanno deciso di girare parti di Diabolik, prossimamente al cinema.

A Ghenf ci si annoia mortalmente: per questo il Re del terrore e signora si trovano così bene. E comunque, tra un piano criminale e l’altro, c’è poco tempo per oziare: le principali attrazioni della città sono il casinò (ma è troppo facile barare), il museo (ma è troppo facile da saccheggiare), le mostre (ma chi la capisce l’arte contemporanea), i caicchi e gli yacht (da arricchiti). Non mancano poi bische e localacci, in cui trovare alcol e droga di qualità a buon prezzo: peccato, però, che Diabolik ed Eva non si facciano di niente. È da parvenu: la vera élite non ha dipendenze.

Né plastica né carta, dove getto l’Estathé? Il sindaco contro la Ferrero: “Basta brick”

Cara Ferrero, basta con i brick di Estathé. Il grido d’allarme arriva da Capannori, Comune in provincia di Lucca, e per una volta non c’entrano gli zuccheri e la prova costume. Il motivo dell’intifada contro la popolare bevanda prodotta dall’azienda di Alba è semmai ecologico: “Sarà anche buono – ha scritto su Facebook il sindaco di Capannori Luca Menesini – ma l’Estathé presenta un problema reale. Il bicchierino da 20 cl è infatti fatto in poliestere C/PS90, una plastica difficilmente riciclabile che, quasi sempre, finisce o in discarica o negli ineceneritori”.

Ecco che allora il sindaco ha scritto una lettera alla Ferrero chiedendo di prendere provvedimenti, perché il brick – diffusissimo anche nei bar, oltre che nei supermercati – viene quasi sempre smaltito in maniera scorretta. Qualcuno lo butta nella carta, qualcuno nella plastica, qualcuno ci azzecca e lo getta nell’indifferenziato, che comunque non aiuta l’ambiente e il riciclo.

A fianco al sindaco c’è anche Rossano Ercolini, responsabile del Centro di ricerca rifiuti zero di Capannori: “È un imballaggio altamente inquinante ed emblema di una cultura ‘usa e getta’ dannosa ed incoerente per la formazione delle nuove generazioni, principali fruitrici del prodotto”. Quella che sembrava una rivolta bizzarra, però, ha già avuto i suoi effetti: la Ferrero ha infatti risposto al sindaco assicurando di aver girato la segnalazione all’ufficio competente, che nel caso potrà collaborare – gratuitamente, dice il sindaco – con il Centro ricerca rifiuti zero. Perché va bene dissetarsi, ma l’effetto Greta si fa sentire.

Tartarughe e delfini in posa per il selfie: gli animali siamo noi

L’antropocene e le sue conseguenze più spregiudicate continuano a nuocere al nostro Pianeta. L’impatto dell’attività umana sugli ecosistemi è sempre più visibile. Lo dicono gli scienziati e ce lo raccontano anche quelle piccole notizie che rendono manifesta una certa propensione a considerarsi, in quanto esseri umani, i soli esseri viventi. Per giunta auto-investiti del potere di decidere sulle sorti di tutti gli altri. È quanto accaduto qualche giorno fa a Ginosa Marina, in provincia di Taranto, dove l’avvistamento di una Caretta caretta ha convinto un bagnante a sollevarla per portarla a riva. Il tempo di un selfie e via. Mentre il rettile cercava disperatamente di mettersi in salvo, decine di presenti attendevano l’attimo propizio per lo scatto migliore, che, ovviamente, è finito sui social. Ma è stato il video pubblicato su Piazzanews a fare insorgere il web. L’uomo che ha trascinato la tartaruga a riva si è giustificato dicendo che voleva verificarne le condizioni di salute. Verifica che di norma dovrebbbe effettuare la Guardia Costiera. L’animale è sopravvissuto all’assalto mediatico e ha ripreso il largo. Qualche giorno dopo, sempre lungo le coste pugliesi, questa volta sul mar Adriatico, un delfino ferito è stato avvistato a una ventina di metri dalla riva. Il tursiope con molta probabilità si era avvicinato all’elica di una barca, procurandosi ferite al muso. In questo caso è stata subito allertata la Guardia Costiera. I veterinari, ritenendo che non necessitasse comunque di cure, hanno preferito portarlo al largo per liberarlo. Liberarlo da cosa? Dalle decine di curiosi che provavano ad avvicinarlo.

C’è addirittura chi non resiste alla curiosità di relazionarsi agli animali esotici, tanto da decidere di adottarli. Adozioni che rischiano di mettere in pericolo di vita l’animale e gli altri, quando il bisogno di disfarsene senza alcuno scrupolo prende il sopravvento. È accaduto ad Arezzo, ieri. Un esemplare di pitone reticolato, lungo cinque metri, è stato abbandonato davanti allo studio del veterinario. Per fortuna nel trasportino. Ora il medico sta cercando di trovargli una collocazione. La natura asservita alle pulsioni umane si nutre quotidianamente di storie più o meno deprecabili. Si pensi che i Loris lento, le scimmiette diventate famose con il cartone animato Madagascar, vengono sottoposti ad atroci torture per la gioia dei turisti. Nei paesi asiatici, ad esempio, è frequente che vengano loro tolti i denti per consentire ai visitatori di poterli accarezzare. Non mancano traffici illegali che li costringono a vivere in cattività, sebbene la vita domestica sia decisamente lontana dal loro habitat naturale. Ma non serve cercare paesi lontani o luoghi esotici per comprendere che il rapporto che l’uomo ha con la natura non sia affatto equilibrato. A Messina, ieri, un’operazione della Polizia ha scovato un rifugio lager, che l’anno scorso aveva provveduto a smantellare. Uccelli anche tropicali, pollame vario, conigli, tartarughe e cani, tra cui Pitbull e Rottweiler, convivevano in condizioni di assoluto degrado, assieme a carcasse di animali in avanzato stato di decomposizione. Ridotto a brandelli, qualche mese fa, è finito un bracconiere in Sudafrica, all’interno del Kruger Park. Era a caccia illegale di rinoceronti, quando un elefante lo ha travolto e il suo cadavere è stato divorato da un branco di leoni. “Entrare illegalmente e a piedi non è molto intelligente”, ha detto il direttore della riserva. Ora, diteci, chi sono davvero gli animali?