La partita si gioca di nuovo in Senato. Dopo l’informativa del premier e la fallimentare strategia dei 5 Stelle di lasciarlo solo in aula, anche il caso Tav dovrebbe finire sui banchi di palazzo Madama. Il condizionale è d’obbligo, perché la pausa estiva incombe. E se si dovesse andare a settembre, non è detto che sia il caso di “riaprire la ferita”.
Come noto, dopo il Sì alla Torino-Lione dato dal premier Conte in diretta Facebook, M5S chiede di mettere agli atti del Parlamento il fatto che loro restano contrari: “Faremo valere il nostro 33%”, ripete Di Maio, a cui serve un’occasione pubblica per non perdere del tutto la faccia con i suoi elettori e dimostrare che nel “partito del cemento” siedono sia la Lega che il Pd.
Ma la Camera ha il calendario blindato – a meno che ai deputati non venga l’improbabile idea di rimandare le ferie di una settimana – e il Senato idem. Pare esclusa l’unica corsia preferenziale, ovvero le comunicazioni del Presidente: come farebbero i 5 Stelle a votare contro il loro premier? Così bisognerà trovare lo spazio per una mozione o una risoluzione: “Bastano tre ore, le troveremo”, dicono nel M5S. Ma nel gruppo c’è chi sente aria di rinvio. E a quel punto – alla ripresa autunnale – tornare a parlare della retromarcia sul Tav potrebbe diventare un boomerang comunicativo come quello dell’altro ieri.
C’è voluta un’assemblea del gruppo dei senatori con il ministro Fraccaro, ieri, per esorcizzare la figuraccia fatta sull’informativa di Conte. C’è chi si è lamentato perché “ci siamo comportati come alle elementari”. Chi ha parlato di un’autentica “stronzata”. Chi ha invece rivendicato di aver eseguito l’ordine.
Ma a prevalere sono state le critiche, pesantissime, per il grave incidente istituzionale o pasticcio che dir si voglia, dell’uscita dall’aula ordinata pochi minuti prima dell’informativa sul Rubli-gate. “Sono una persona perbene. Se lo voglio far cadere glielo dico in faccia” – hanno detto i senatori – “Andare via davanti a Conte è stata una sfiducia politica: potevamo alzarci quando parlava il capogruppo della Lega”. E poi un profluvio di accuse rivolte al capogruppo Stefano Patuanelli e al ministro per i Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro da cui è partita la disposizione (eseguita da Patuanelli), che davanti all’assemblea del M5S si è assunto la responsabilità dell’accaduto. Ma nonostante la pioggia incalzante di domande, sul come fosse stata elaborata l’idea, nessun lume ulteriore. “È stato deciso dal Movimento, da chi prende le decisioni in questo momento” si riesce a estorcere al massimo a Patuanelli. Anche Fraccaro prova a chiudere l’episodio: “C’è stato un problema di comunicazione, alcuni parlamentari non hanno capito” ha detto sottolineando che “Conte non è affatto arrabbiato”. Eppure nonostante l’ordine, 41 senatori M5S sono rimasti incollati ai loro scranni. Tra loro, esponenti del direttivo del Senato come Gianluca Perilli, Arnaldo Lomuti, Alessandra Maiorino. E pezzi da 90 come Paola Taverna, Daniele Pesco, Primo Di Nicola, Elio Lannutti, Mattia Crucioli. Quest’ultimo il più deciso a richiedere un cambiamento delle regole statutarie perché cose del genere non avvengano mai più.