Una sfasciafamiglie a corte: Camilla, la favorita di Carlo

“Lo sa che la mia bisnonna era l’amante del suo bisnonno, Edoardo VII?”. Il principe, non proprio british nella maglia sudata dopo aver disputato una veramente british partita di Polo nel parco di Windsor, alza gli occhi sull’impertinente fanciulla che ha scelto di presentarsi così al cospetto di sua altezza. Di fronte a Charles c’è il destino in persona, sotto forma di una graziosa e spigliata signorina di campagna, con il viso arrossato per le sfrenate cavalcate in compagnia dei fratelli e non certo per il più desiderabile imbarazzo che tanto si confà alle giovinette del ton.

I due innamorati ancora non lo sanno, ma quel cortocircuito scatenato dal loro “occhi negli occhi” nel 1971 avrebbe segnato la storia di un’intera nazione per quasi mezzo secolo. Il colpo di fulmine è istantaneo come può essere tra due ragazzi poco più che ventenni, e alla faccia del “No Sex Please, We’re British” la relazione inizia subito tempestosa e per nulla platonica. Ma dura poco, e non perché sia un fuoco che si è consumato in fretta: due anni dopo miss Camilla Shand sposa il fidanzato ufficiale, luogotenente della cavalleria reale Andrew Parker-Bowles. Sussurrano i maligni che non sia l’unico a cui la vivace Milla concede i suoi favori a corte, e la regina Elisabetta stronca la relazione del figlio (non il prediletto) con un micidiale, definitivo, giudizio reale: “Una ragazza infrequentabile”.

Nel 1977 l’esuberante Charles si fa vedere in compagnia di Lady Sarah Spencer, con cui ha un breve flirt tutto sommato insignificante. Non fosse che per un particolare di famiglia, ovvero la di lei sorellina, la timida sedicenne Diana che il principe comincia a corteggiare anche perché mamma Elisabetta vuole che metta la testa a posto e si sposi al più presto. Su di lui incombe “il fantasma di Edoardo VIII”, il re che abdicò per amore di un’americana divorziata, Wallis Simpson. Bisogna che dimentichi l’infrequentabile signora Parker-Bowles che invece secondo molti (e secondo la stessa Diana) lui continua a frequentare clandestinamente anche prima del matrimonio. Una volta ogni tre settimane, almeno.

Il 29 luglio 1981 si tiene nella cattedrale di Saint Paul il matrimonio del secolo: 2.500 invitati, 600 mila persone nelle strade di Londra, più di 750 milioni di spettatori davanti alle televisioni di tutto il mondo per seguire la diretta della favola che si avvera. Diana, avvolta in un abito avorio che diventerà uno standard e con uno strascico di sette metri, sa che tra gli invitati c’è anche la temibile rivale. Ha scoperto chi è davvero Camilla, in precedenza presentata come una “cara, vecchia amica”, da tre giorni soltanto. Succede tutto per caso, perché lei ascolta una telefonata di Charles. E una frase che non può essere fraintesa: “Qualunque cosa succeda, ti amerò sempre”. Il suo futuro marito sta giurando eterno amore alla sua amante. Ma ormai tutto è deciso, tutto è pronto: impossibile tirarsi indietro, è il prezzo della favola.

Diana diventa così la principessa triste, tra attacchi di panico e bulimia, tentativi di suicidio, giochi di Palazzo, la nascita dei due adorati figli e l’indifferenza della regina madre. A un certo punto fa un disperato tentativo e chiede al marito di lasciare Camilla, per provare a far funzionare quel matrimonio che lei stessa definisce “troppo affollato”. Lui risponde lapidario: “Rifiuto di essere il primo principe di Galles senza un’amante”. Ma c’è molto di più. Forse anche Diana si consola tra le braccia di un bodyguard, e di qualche altro amico.

Nel 1986 il matrimonio è già finito (il divorzio arriverà dieci anni dopo) ma è solo nel 1992 che casa reale annuncia l’amichevole separazione delle due altezze. Diana nel frattempo è diventata una donna. È un’icona di stile, un personaggio mondiale, amatissima anche per il suo impegno sociale ed è sempre meno discreta nei suoi amori. In giugno la casa reale viene travolta dall’uscita di un libro incredibilmente scandaloso: Diana – La vera storia, anticipato in due succulente puntate dal Sunday Times. Una vendetta, servita splendidamente fredda, in cui il mondo viene a conoscenza delle chiacchierate intime tra Charles e Camilla, con lui che le dice “vorrei essere il tuo tampax”. “Il sesso”, ha scritto in un recente libro Robert Johnson, “è l’elemento fondante della loro coppia. Quello che non li ha mai fatti restare lontani troppo a lungo”.

Tutto precipita nell’annus horribilis (così definito dalla regina Elisabetta) della casa reale che deve gestire anche la separazione del terzogenito Andrea da “Fergie la rossa” (indimenticabile la foto della duchessa di York che si fa succhiare l’alluce del piede da un ruspante miliardario americano). Due coppie – Carlo e Diana, Andrea e Sarah – sideralmente lontane dai loro alter ego di oggi, William e Kate e Harry e Meghan, così distanti da scandali e pettegolezzi. Mentre il mondo prende atto della fine della favola, l’opinione pubblica si schiera senza indugi a fianco della principessa tradita e contro Camilla la sfasciafamiglie.

Nel 1997, un anno dopo il divorzio ufficiale, Diana muore insieme al compagno Dodi Al-Fayed, in un incidente sotto il Ponte de l’Alma a Parigi, su cui si fanno milioni di ipotesi di altrettanti complotti. Al centro di un ipotetico mirino mondiale c’è la faccia di Camilla, che viene additata come la vera responsabile di quella fine tragica. “Non potevo uscire, ero prigioniera in casa mia. Non augurerei quello che ho passato nemmeno al mio peggior nemico”, dirà lei qualche anno dopo. Ma nemmeno la morte spezza il legame tra i due antichi amanti. Che alla fine si sposano, il 9 aprile 2005, con rito civile (a cui non presenzia Elisabetta II) a Windsor. Per tener fede a quella promessa, “ti amerò per sempre”, in una storia in cui è davvero difficile capire chi ha tradito chi.

 

La “fantasia” del premier Johnson al potere

Fuori Theresa, dentro Boris. Lei entra nella zona grigia degli ex premier con l’onore di una standing ovation alla Camera dei Comuni, un omaggio ad abnegazione e senso dello Stato più che ai fallimentari risultati. Il Regno Unito non può restare senza primo ministro nemmeno un minuto, e quindi l’avvicendamento, con il passaggio ufficiale dalla regina Elisabetta a Buckingham Palace, è rapidissimo. Davanti a Downing Street e alle telecamere di tutto il mondo, nel suo primo discorso da premier del Regno Unito, Boris Johnson lancia il nuovo corso, ben riassunto da un acuto commentatore: Make Britain Great Again, la versione britannica dello slogan dell’ingombrante amico e alleato Donald Trump. E quindi: Brexit è stata un fallimento non per ostacoli oggettivi, ma per il disfattismo dell’amministrazione precedente. “Dopo 3 anni di infondata sfiducia in noi stessi è il momento di cambiare corso”.

Qui c’è un dettaglio fondamentale: Johnson ha ribadito, stavolta da premier, che Londra lascerà l’Ue il 31 ottobre, con o senza accordo: il no deal non è l’esito desiderato, ma non bisogna temerlo nel caso l’Ue non cambi il suo approccio. Quindi: se usciamo senza accordo la responsabilità è della ostilità di Bruxelles, non nostra. Restano 99 giorni per costruire un consenso vasto attorno a questo approccio propagandistico, molto utile se, come è probabile, il tentativo di Johnson di rinegoziare l’accordo di recesso con la Ue dovesse fallire. E poi, l’annuncio di un ampio programma di spesa pubblica con la costruzione di ambiziose infrastrutture, l’assunzione di 20mila nuovi poliziotti, più soldi alla scuola e al servizio sanitario e la riforma della tassazione per attrarre investimenti stranieri, la garanzia che i residenti europei potranno restare dopo Brexit. Con quali soldi? Aiuteranno i famosi 39 miliardi dovuti all’Ue, che, questa la minaccia, il Regno Unito si terrebbe in caso di no deal, precipitando nel purgatorio dei paesi inaffidabili. Per fare tutto questo serve un esecutivo di Brexiteers senza se e senza ma, e i primi nomi sono di Leavers particolarmente feroci, come l’ex ministro per Brexit Dominic Raab ora agli Esteri e a Dominic Cummings, la mente della campagna Vote Leave, che mesi fa snobbò una richiesta di riferire di fronte alla Commissione parlamentare che indaga sui finanziamenti a quella campagna ed è stato premiato con il ruolo di consigliere speciale di Johnson. L’incarico di ministro delle Finanze va a Sajid Javid, cancelliere dello Scacchiere responsabile dell’Interno nel governo May, mentre il nuovo Home Secretary è Priti Patel. Esce di scena Jeremy Hunt a cui era stato offerto un altro dicastero, forse la Difesa, e su Twitter, ha spiegato di aver declinato. Questo perché sono fioccate le dimissioni. Dai moderati come l’ex delle Finanze Philip Hammond, quello della Giustizia David Gauke, quello allo Sviluppo Rory Stewart, il vice della May, David Lidington. Ma la scure colpisce anche i Leavers, come la ministra delle Difesa Penny Mordaunt e il responsabile del Commercio internazionale Liam Fox, o agnostici ma leali a May come il ministro ai Trasporti Chris Grayling o Karen Bradley, segretaria di stato per il Nord-Irlanda. Meno clamoroso, ma significativo, l’addio di Raoul Raparel, consigliere di May su Brexit. Gli euroscettici hanno vinto la decennale guerra con i filoeuropei che ha diviso i Tory. Ora, sono a Downing Street. E non fanno prigionieri.

Mueller: “Trump sarà perseguibile ma a fine mandato”

La pistola fumante, Robert Mueller non l’aveva con sé e non l’ha poggiata sul banco dei testimoni. Ma Donald Trump ha poco da rallegrarsi dell’audizione al Congresso dall’ex procuratore speciale del Russiagate, l’intreccio di contatti tra la campagna del magnate nel 2016 ed esponenti russi. L’ex magistrato inquirente ripete al Congresso quello che aveva già detto a maggio lasciando l’incarico (e correggendo la lettura difensiva del suo rapporto finale fatta dal Dipartimento della Giustizia). Mueller afferma: “Il mio rapporto non scagiona totalmente Trump … il presidente potrà essere incriminato alla fine del mandato”.

Ma l’incriminazione che conta, che potrebbe costargli la Casa Bianca, cioè l’impeachment, non è affare della magistratura: è affare della politica. E i democratici devono ancora decidere, o capire, se l’impeachment è la via giusta per riconquistare la presidenza o se rischia di divenire un boomerang.

Il magnate-presidente denuncia, a priori, l’attacco “illegale e sovversivo” portatogli dai democratici e crea una cortina di sbarramento di tweet prima che Mueller parli, sfidandolo, fra l’altro, a negare d’avergli chiesto la direzione dell’Fbi: l’ex procuratore lo smentirà: “Ne abbiamo parlato prima che io assumessi l’incarico d’indagare sul Russiagate e io non ero candidato”.

Quando l’audizione è ancora in corso, il magnate rilancia un tweet di Chris Wallace, un commentatore della Fox: “È stato un disastro per i democratici e un disastro per la reputazione di Mueller”. La Casa Bianca parlerà più tardi di “imbarazzo epico per i dem”. L’audizione dell’ex procuratore, che non è all’esordio davanti al Congresso, e che si presenta prima davanti alla commissione Giustizia della Camera per tre ore e poi a quella Intelligence, comporta una novità procedurale che fa discutere: Aaron Zebley, braccio destro di Mueller, viene autorizzato a sedergli accanto e a dargli consigli, senza però avere lo statuto di testimone, cioè senza potere rispondere direttamente alle domande. La presenza di Zebley irrita Trump, perché – parole sue – “consente a un investigatore ‘never Trump’ di aiutare Mueller a testimoniare davanti al Congresso. Che vergogna per il nostro sistema. Mai sentito prima. Molto ingiusto, non dovrebbe essere permesso. Una corrotta caccia alle streghe!”. Non c’è però prova che Zebley abbia mai aderito al movimento anti-Trump né che abbia fatto donazioni al partito democratico. Con Zebley a fianco, Mueller conferma che Mosca interferì in modo “ampio” e “sistematico” nella campagna 2016 e cercò di condizionare le elezioni presidenziali, perché credeva di trarre beneficio dalla vittoria del magnate, ma ribadisce di non avere trovato prove sufficienti d’una cospirazione di Trump con i russi.

Le ombre che pesano sul presidente sono soprattutto legate all’ostruzione alla giustizia, cioé ai tentativi che Trump avrebbe compiuto di impedire o di frenare le indagini: lo avrebbe esplicitamente chiesto al direttore dell’Fbi James Comey, che si rifiutò di farlo e venne licenziato. Su questo punto, il rapporto non ha mai escluso che il presidente non sia responsabile: Mueller ripete parola per parola quanto già detto: “Nonostante dieci potenziali istanze d’ostruzione della giustizia, in base alle linee guida del Dipartimento della Giustizia (che vietano d’incriminare un presidente in carica, ndr), abbiamo deciso di non decidere se il presidente abbia o meno commesso un crimine”.

Mueller ricorda che Trump rifiutò di farsi interrogare, ma precisa di non avere mai incontrato personalmente ostacoli nelle sue indagini. E conferma che il presidente tentò di proteggersi chiedendo al suo staff di falsificare documenti rilevanti per l’indagine.

Putin e Xi, le mani sul Pacifico

Apparentemente irrilevante, un’intrusione aerea senza alcuna conseguenza nei cieli sud-coreani e giapponesi svela i piani di Pechino e Mosca di aprire un nuovo fronte nel contenzioso mai sopito con l’Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti: il Pacifico. Nell’interpretazione di media e analisti americani, la violazione dello spazio aereo da parte di velivoli militari russi e cinesi era parte di un disegno preciso. La Cnn da Mosca è esplicita: “I presidenti russo Vladimir Putin e cinese Xi Jinping hanno mandato un messaggio chiaro: sono pronti a testare la loro partneship militare” e la capacità di reazione dei loro interlocutori nel Pacifico.

Dove Mosca e Pechino hanno priorità e obiettivi diversi, anche territoriali – a nord, le Curili, oggetto del contendere tra Russia e Giappone; a sud, Taiwan e le Spratly, su cui la Cina avanza pretese –, ma identiche controparti: gli Stati Uniti e i loro alleati nella Regione, il Giappone e la Corea del Sud; le Filippine e, appunto, Taiwan. Prima di tutto i fatti. All’alba di martedì, caccia sud-coreani e giapponesi si levano in volo perché nei loro cieli sono presenti aerei militari russi e cinesi che – si apprenderà poi – stanno compiendo manovre congiunte. Fonti sud-coreane affermano che due bombardieri cinesi H-6 hanno traversato l’area coperta dalla difesa aerea di Seul, seguiti da due bombardieri strategici russi Tu-95. Secondo lo Stato Maggiore sud-coreano, colpi d’avvertimento sono stati sparati verso un velivolo russo A-50 di comando e controllo, che avrebbe violato due volte lo spazio aereo sud-coreano. Successivamente, il Ministero della Difesa giapponese avalla le affermazioni sud-coreane, affermando che un A-50 russo – lo stesso, è probabile – avrebbe penetrato lo spazio aereo di Tokyo, mentre bombardieri russi e cinesi volavano intorno al Giappone (l’isola sorvolata nell’incidente è contesa tra Corea del Sud e Giappone ed entrambi ne considerano proprio lo spazio aereo).

Mosca in un primo tempo contesta le affermazioni di Seul e Tokyo, denunciando, a sua volta, che caccia sud-coreani avevano pericolosamente intercettato due suoi bombardieri nello spazio aereo internazionale. In un secondo tempo, ammette che i suoi aerei formavano una “pattuglia congiunta” con aerei cinesi a lungo raggio. E, infine, si scusa per l’incidente, salvo poi – è lo sviluppo più recente – rimangiarsi le scuse. Sorge una domanda: che significato, e che obiettivi aveva l’esercitazione militare aerea congiunta? Mosca e Pechino hanno già “mostrato i loro muscoli militari” nella Regione l’anno scorso, quando la Russia ha organizzato le due manovre militari su più larga scala dalla caduta dell’Unione sovietica, con la partecipazione di migliaia di uomini cinesi e mongoli. L’esercitazione, chiamata Vostok 2018, prese il via, non casualmente, durante un incontro bilaterale tra Putin e Xi a Vladivostok, la maggiore città russa sul Pacifico, lontana sette fusi orari da Mosca “l’europea”. È da Vladivostok che la Russia proietta il suo potere sull’Asia e sul Pacifico; ed è qui che Putin organizza ogni anno un Forum per sottolineare il ruolo centrale che la Russia vuole giocare in Asia. Negli ultimi anni, inoltre, Pechino ha inviato sue unità navali nel porto russo, che è anche una base militare, per condurre manovre congiunte. In una dichiarazione rilasciata dopo i sorvoli, il Ministero della Difesa russo sottolinea proprio che l’operazione era la prima del genere attuata congiuntamente dalle aeronautiche militari russa e cinese. Obiettivo delle pattuglie congiunte è “approfondire e sviluppare le relazioni militari russo-cinesi, come parte d’una partnership complessiva, aumentando il livello d’interazione tra le forze armate dei due Paesi, incrementando la loro capacità di condurre azioni congiunte e rafforzando la stabilità strategia globale”. Una dichiarazione che l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti e i loro alleati, possono percepire più come una minaccia che come una rassicurazione.

Tanto più che l’incidente coincide con parole minacciose di Pechino verso Taipei, evocando l’uso della forza come strumento per riannettere l’isola rifugio della Cina nazionalista di Chian Kai-shek alla “madre patria”, in un contesto di rapporti economici tesi tra Pechino e Washington e di relazioni complessive fredde tra Mosca e Washington. Molto ha magari a che fare con la personalità e i modi del presidente Usa Donald Trump, ma l’ipotesi non peregrina che Trump resti alla Casa Bianca fino al 2024 può indurre Xi e Putin, il cui potere fin oltre quella data è sulla carta assicurato, a prendere contromisure e realizzare un’alleanza militare: in assoluto, non è un inedito nel dopo guerra, perché Cina e Urss e poi Russia hanno alternato fasi di alleanza e fasi di confronto, anche di belligeranza. La Russia sta con la Cina nella “guerra dei dazi” con gli Usa; e i due Paesi appoggiano l’Iran nel contenzioso nucleare (e non solo) con gli Stati Uniti.

Whirlpool, il governo offre 17 milioni per restare a Napoli

Il sito di Napoli di Whirlpool non chiuderà e non sarà venduto. Questi i buoni propositi della multinazionale di elettrodomestici che ieri ha presentato al ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio e ai sindacati 5 proposte per rilanciare la produzione e garantire i livelli occupazionali. In cambio Di Maio ha messo sul tavolo la decontribuzione per 17milioni di euro sui contratti di solidarietà nei prossimi 15 mesi. Ai lavoratori di Napoli, in presidio sotto al Mise con le magliette “Whirlpool Napoli non molla”, la notizia è stata data dai delegati sindacali. Dalla prossima settimana la vertenza passerà ai tecnici, chiamati a esaminare le proposte illustrate dall’ad di Whirlpool Italia. Sullo sfondo resta la crisi globale del settore delle lavatrici di alta gamma. Napoli ora sta lavorando sotto il 40% della sua capacità. Di Maio ha eliminato l’ipotesi di trasferimenti a Napoli di produzioni da altri siti italiani ma resta, e piace molto ai sindacati, l’ipotesi di un trasferimento di parte delle produzioni dall’estero per fare di Napoli il centro di produzione principale dell’alta gamma. Per l’azienda invece la proposta con più chance sarebbe il “cambio di missione dello stabilimento”. Ma questa ipotesi non piace ai sindacati.

Bio-On, i tanti sospetti sui conti affondano la start-up miracolosa

Il titolo della azienda a lungo considerata la start-up modello della bioplastica, Bio-On, ieri mattina è stato scambiato per soli tre minuti alla Borsa di Milano: alle 9.03 viene sospeso per eccesso di ribasso, dopo il passaggio di mano di un pacchetto di titoli equivalente a 1,6 milioni di euro. Il calo ufficiale di quei tre minuti è del 10,36 per cento, ma quello teorico sulla base degli ordini di vendita è superiore al 51 per cento.

È l’effetto delle informazioni raccolte dal fondo americano Quintessential e raccontate ieri in Italia dal Fatto e in Grecia da Kathimerini. Quintessential è un fondo specializzato nello scommettere al ribasso su società che hanno bilanci sospetti e che potrebbero nascondere frodi finanziarie: indaga, tra i conti e con un’inchiesta sul campo e poi, dopo aver preso posizioni ribassiste, rivela tutto al mercato. È quello che ha fatto on line martedì sera l’avvocato Gabriele Greco di Quintessential, presentando il dossier che parla di “una Parmalat a Bologna”.

In sintesi: non si capisce bene cosa faccia Bio-On, che opera nel promettente campo delle bioplastiche ma per ora non sembra avere trovato una vera fonte di redditività. È normale per le start-up muoversi in ambiti inesplorati e per questo scommettere su di loro è un rischio. Bio-On sulla carta promette bene: dalla quotazione del 2014 annuncia partnership con grandi multinazionali, progetti nei settori più disparati, dalle creme solari alla lotta ai tumori. Il titolo in Borsa sale da 5 euro fino a oltre 70. Però i bilanci sono strani: l’impianto di Castel San Pietro terme che deve produrre i PHA, la materia prima in cui è specializzata Bio-On, viene completato con anni di ritardo a fine 2018, costa 40,7 milioni invece di 15 e la società stessa dice che servirà soprattutto a dimostrare l’efficacia delle tecnologie inventate da Bio-On per poi cedere le licenze di utilizzo. La società, nelle sue repliche di ieri, assicura che l’impianto sia in produzione, ma a precisa domanda non dice quante delle 1.000 tonnellate annue promesse abbia sfornato (e comunque nel 2016 il presidente di Bio-On, Marco Astorri, prometteva 50.000 tonnellate). La versione ufficiale dell’azienda è questa: “La produzione sinora raggiunta è stata al momento utilizzata per la realizzazione di prodotti solari nell’ambito della joint venture Aldia in partnership con Unilever e di arredamento nell’ambito della partnership con Kartell”. Niente numeri.

Bio-On cede l’utilizzo delle proprie tecnologie a delle società costituite con altri partner – come Kartell – ma di soldi veri in cassa ne entrano pochi: il fatturato 2018 arriva a 51 milioni, ma la cassa è negativa per 21. Dei tanti progetti annunciati negli anni si sono perse le tracce: a che punto, per esempio, quello annunciato nel 2013 per usare la bioplastica addirittura per sostituire le ossa umane? O quello di integrare la bioplastica con nanotecnologie per la lotta ai tumori? I comunicati stampa sono parecchi, ma trovare qualcosa di concreto è arduo. Su 59 milioni di euro di crediti, ben 33 sono con joint-venture partecipate dalla stessa Bio-On e gestite dagli stessi manager.

Non tutti i soldi sono però virtuali in questa storia. I due fondatori, Marco Astorri e Guido Cicognani controllano Bio-On con la holding Capsa. Nel 2017 hanno ceduto i warrant in loro possesso, cioè degli strumenti finanziari che permettono di acquistare entro una certa data le azioni sottostanti, nel caso specifico le azioni della Bio-On. In pratica una quotazione a rate che ha permesso ai due soci fondatori di accumulare un discreto tesoretto nella loro Capsa, evitando che le risorse finissero a Bio-On. Con questo sistema nel 2017 la Capsa ha incamerato utili per 8,7 milioni di euro e ha distribuito dividendi ai soci Astorri e Cicognangi per 7,4 milioni.

Nella sua indagine il fondo Quintessential ha scoperto anche un dettaglio curioso su Lino Buonpensiere, il cfo, cioè responsabile della finanza della Bio-On. È un commercialista, iscritto all’albo nel 1990, risulta “censurato” dal Consiglio nazionale dei commercialisti il 2 novembre 2018. Il Fatto ha chiesto a Bio-On a cosa fosse dovuta la censura ma senza risultato.

La Consob ha acceso un faro sull’andamento del titolo. Bio-On è quotata al mercato delle medie imprese Aim che è meno regolamentato e su quello la Consob interviene soltanto nei casi di market abuse, cioè quando si verifica manipolazione informativa, manipolazione operativa oppure abuso di informazioni privilegiate. Sulla base delle prime valutazioni, il tracollo del titolo è coerente con la gravità delle informazioni emerse.

A questo punto o Bio-On e il suo manager Marco Astorri riescono a dimostrare che le accuse del fondo Quintessential sono tutte inventate (ed è difficile visto che l’indagine si basa in prevalenza su documenti ufficiali e pubblici), oppure a rischiare conseguenze spiacevoli, non soltanto dal punto di vista del prezzo delle azioni, sarà la stessa Bio-On. Che per ora annuncia querele ma non fornisce numeri o dettagli diversi da quelli pubblicati ieri da Quintessential, dal Fatto e da Kathimerini.

Le odi a saggi lasciti e all’eccellenza

Oggiè il giorno dell’anniversario della morte di Sergio Marchionne, ma già ieri i quotidiano hanno dato il via a celebrazioni scritte per la memoria dell’ex ad di Fca. La Stampa, ovviamente, inizia dalla prima pagina segnalando che “L’eredità di Marchionne è la guerra alla mediocrità” per spiegare all’interno che l’insegnamento del manager, che aveva tre lauree, era “Migliorare sempre” per inseguire guida autonoma, motori elettrici e formando nuove alleanze. La Repubblica gli riserva due articoli a pagina 22, nel primo ricordando che Marchionne aveva azzerato il debito del gruppo ma anche che c’è ancora il nodo della trattativa con Renault da sciogliere, nel secondo ricordando – con una intervista a Baravalle, uno dei suoi “allievi” – che imponeva “ritmi folli per tutti” ma con una forte “etica del lavoro”. Inoltre era, si legge enfatizzato nel titolo, “umanissimo”. E ancora, Il Giornale, che fa il punto di Fca a dodici mesi ma poi ripercorre il silenzio, in chiave muto calvario, mantenuto durante tutta la malattia. Bilancio anche sulle pagine del Sole 24 ore, che però ad un pezzo basso riservano l’elegia : “Ha fatto la storia – si legge nel titolo virgolettato – ma poi su lui è calato il silenzio”.

“Marchionne è ancora vivo”. Ma non lotta più insieme a noi

“Aun anno dalla scomparsa di Sergio Marchionne, l’esempio che ci ha lasciato è vivo e forte in ognuno di noi”. Queste le parole pronunciate ieri dal presidente di Fca John Elkann nell’anniversario della scomparsa di Marchionne, morto il 25 luglio del 2018. Ma l’aria che si respira in Fca non è quella che vede un Marchionne vivo e in lotta insieme a noi.

La memoria del manager italo-canadese, certamente, verrà conservata a lungo. La Fca ha reso noto ieri l’immagine di una porzione del grande Auditorium da 900 posti che al defunto manager è stato dedicato al Cern di Ginevra. E del resto, come ricorda Giorgio Airaudo, della Fiom piemontese, memoria storica delle vicende di casa Fiat, “Marchionne è stato un manager che ha fatto la storia della Fiat e che può essere pargonato solo all’altro grande manager della casa automobilistica, Vittorio Valletta”. Nessuno, anche tra i più fieri avversari di Marchionne, ne sottace le capacità e il ruolo giocato nell’industria automobilistica mondiale: il risanamento della Fiat che a inizio degli anni 2000 era sull’orlo del fallimento, il gran colpo americano con la “conquista” della Chrysler, in realtà regalata da Barack Obama, la riorganizzazione delle piattaforme e degli stabilimenti italiani, coincisi peraltro con la marginalizzazione dell’Italia nelle strategie del gruppo.

Ma il ricordo di Marchionne sembra fatto apposta per dimenticarlo e per far risaltare il nuovo uomo al comando. Il manager, infatti, non ha lasciato eredi, non ci sono altri manager lasciati alla guida dell’azienda e oggi le redini sono tenute sempre più saldamente direttamente dalla proprietà nella persona di Elkann.

Come Valletta. Successe lo stesso dopo l’uscita di Valletta dalla gestione aziendale con il passaggio del testimone nelle mani di Gianni Agnelli, il capo della famiglia che tenne il timone fino agli anni ‘70 in cui fu affiancato dal fratello Umberto. Solo che la gestione diretta della proprietà accumulò così tanti guai che nel 1980 ci fu bisogno di Cesare Romiti per rimettere le cose in ordine. A scapito di una dura sconfitta operaia e di una gestione feroce dello scontro con i sindacati – che comunque alla fine furono accomodanti – ma, dal punto di vista aziendale, efficace. Uscito Romiti la famiglia ritorna in campo con una gestione confusa e fallimentare fino a quando arriva Marchionne.

Oggi il copione sta per essere ripetuto. Con la morte dell’uomo con il maglioncino, John Elkann ha avuto molta fretta nel posizionarsi nella “stanza dei bottoni”. È stato lui a gestire la trattativa con il presidente della Renault, Jean-Dominique Senard, e le autorità francesi e, come ha scritto Le Monde, apparendo “per quello che oramai è: un capitano d’industria che decide da solo”. La solitudine dell’uomo al comando di cui parlava proprio Marchionne.

Solo che la prova Renault è stata un fallimento. Non solo ha lasciato Fca di nuovo sola all’altare con il futuro consorte fuggito via all’ultimo minuto, ma ha rappresentato un approccio aziendale che difficilmente si sarebbe attagliato a Marchionne. Elkann era disposto a non competere per la guida dell’eventuale nuovo gruppo e si sarebbe volentieri diluito nel nuovo agglomerato “perché la famiglia Agnelli – nota ancora Airaudo – vuole diluire i propri rischi finanziari in un mercato che ha una necessità enorme di capitali”.

Stile Renault. Marchionne, quando ha trattato con Chrysler, ha preso il comando dell’operazione facendo poi l’amministratore “dei due mondi”, volando tra Detroit e Torino per non perdere il controllo dell’azienda. Elkann avrebbe concesso il timone ai francesi. Ma non basta. Il ruolo attivo del giovane presidente Fca ha coinciso con il tonfo delle vendite nel mercato europeo e italiano e l’aura del ricordo di Marchionne si staglia contro le bacchettate del presidente dell’Antitrust, Roberto Rustichelli sul “rilevante danno” causato dal trasferimento della sede fiscale a Londra.

Sergio Marchionne, paradossalmente, ha creduto in Fca più di quanto sembra crederci la proprietà. Lui era il manager che ha servito l’azienda e l’ha spinta in avanti, la famiglia oggi non crede nei manager e forse non crede nemmeno più nel futuro della Fca.

Un altro Marchionne, quindi, non solo non sembra oggi possibile, ma nemmeno desiderabile. Anche perché, fuori dalla retorica dei ricordi commossi per la fine prematura di una figura comunque di grande valore, c’è poi l’eredità concreta che è stata lasciata. Marchionne aveva capito molto in anticipo la tendenziale spinta del mercato automobilistico a fondersi e a polarizzarsi attorno a pochi grandi player. Per questo la sua idea fissa è stata quella di trovare alleanze sempre più forti: il desiderio più grande del manager, mai raggiunto, è stata proprio la fusione con il colosso americano General Motors.

Eredità a metà A sorreggere questa visione è stata la necessità di unire i capitali fissi per poter raccogliere i necessari investimenti in tecnologie che servono al futuro dell’automobile. Il primo obiettivo si è fermato all’accordo salvifico con Chrysler. Il secondo ha scontato la mancata comprensione della centralità delle nuove tendenze, l’auto elettrica o il self-driving, l’auto che si guida da sola. Un errore che potrebbe essere fatale a Fca. Unico obiettivo raggiunto, proficuo per l’azienda ma non per l’Italia, è stato quello di portare via dal Paese la sua industria più rilevante dal punto di vista dell’immagine e dell’occupazione. Un impoverimento a cui si è assistito senza fiatare.

Dopo Marchionne, quindi, resta una azienda in mezzo al guado e ben rappresentata dall’immagine dell’amministratore delegato Michael Manley che, mentre Elkann trattava la propria diluizione in Renault, vendeva di soppiatto le azioni Fca.

Greg, Fede e gli altri: la meglio gioventù riparte dallo sport

Nel giorno più caldo di questo luglio torrido per via del clima e di certa malapolitica, s’incrociano i destini di fuoriclasse che riscattano l’orgoglio malinteso del nostro sgangherato Paese, rimuovono (un poco, ma spesso basta…) pessimismo e catastrofismo come capita quando si vince e ci si issa in vetta al mondo. L’immagine sportivamente virtuosa è una sorta di placebo collettivo: si sa, lo sport fa spesso il miracolo di confondersi con la nazione che rappresenta e quando un paese boccheggia, è il palliativo che lenisce il malessere. Succede infatti che ai campionati mondiali di nuoto – in quel di Gwangiu, Corea del Sud – martedì 23 luglio la ventenne romana Simona Quadarella s’imponga autorevolmente nella gara più massacrante del programma in vasca lunga, ossia quella dei 1500 metri stile libero, affibbiando alla seconda un perentorio distacco di 7”94, che è tanto e vuol dire tanto, a un anno dai Giochi di Tokyo. È una predestinata, dicono i tecnici, i suoi limiti sono ancora inesplorati. Un po’ come quelli della disorientata Italia che in questi giorni ripete il memorabile grido del magistrato Francesco Saverio Borrelli, il capo del pool di Mani Pulite, “resistere! resistere! resistere!”.

E infatti una che resiste, a dispetto dell’anagrafe, degli avversari e degli acciacchi è l’immensa Federica Pellegrini, veneta di Mirano, fisico statuario, volto da cherubina, trentun anni il prossimo 5 agosto e la ferrea volontà di non arrendersi mai. Campionessa mondiale uscente dei 200 stile libero, la “sua” disciplina prediletta, Federica detta “la Divina” arriva “a Gwangiu così di passaggio”. È in forma. Lascia intendere che non ha alcuna voglia di abdicare. Ai Mondiali vanta già 3 ori individuali (altri due in staffetta), 2 argenti e un bronzo. Il quarto lo conquista ieri alle 13 e 17. Il suo è un medagliere da leggenda. Quindici anni fa, a soli 16 anni e 12 giorni, monta sul podio delle Olimpiadi di Atene 2004, medaglia d’argento. L’inizio di una carriera mitica. Nessun’altra nuotatrice italiana era mai riuscita a pigliare una medaglia così giovane. Record significativo. E ancora imbattuto. Quattro anni dopo, ai Giochi di Pechino domina. L’oro la consacra stella di uno sport estremamente esigente perché impone livelli tecnici di altissimo livello, sacrifici infiniti e fatiche colossali. Tutto ciò non s’improvvisa e il talento da solo non accelera le bracciate: occorre una disciplina rigorosa. La Pellegrini diventa personaggio nazionalpopolare. Dalle piscine approda in tv, fa spot, campagne contro il femminicidio o per l’ambiente. Bella, disinvolta, mai banale. Vera “fidanzata d’Italia”, magari perseguitata da gossip, perché le sue storie d’amore e i relativi bisticci l’accompagnano, ma senza distrarla dai suoi obiettivi sportivi. Quando è il momento, difficilmente delude. Come il carpinate Gregorio Paltrinieri detto Greg, non ancora 25 anni, oro olimpico del 2016 a Rio, nei 1500sl. Pure lui, un palmarès notevole: tre ori ai Mondiali, cinque agli Europei. Gareggia negli 800 metri sl., territorio dell’amico-rivale Gabriele Detti, campione in carica. Gareggia qualche minuto prima di Federica, Greg. E domina. Detti è quinto. Ma non importa. In 24 ore l’Italia ha colto tre prestigiose medaglie d’oro. Il nuoto, dicono, è lo specchio di un sistema evoluto che abbina scuole, strutture e tecnici: l’Italia ora fronteggia colossi come Cina, Russia, Stati Uniti, Australia. E non solo nuoto. Pochi giorni fa si sono conclusi in Svezia gli europei under 20 di atletica: l’Italia, con 5 ori, è seconda dietro la Gran Bretagna. La meglio gioventù di questi anni difficili bada ai risultati, non alla propaganda. Come ha fatto Matteo Trentin, primo ieri nella tappa di Gap al Tour, da uomo solo al comando. Con addosso la maglia di campione Ue. A dispetto di Salvini.

Tav, le “colpe” di chi predica nel deserto

Caro direttore, la cosa più paradossale tra le tante intorno alla vicenda del tunnel della Valsusa, detta Tav, sta proprio nel nome e nella storia che c’è dietro quel nome. Quotidiani e tv Pro-Tav (quasi tutti) parlano di una linea ad alta Velocità. Che non c’è. Non esiste. Il progetto non è più una linea ad alta velocità dalla fine degli anni ’90. È un tunnel di 57 km, senza nuove vie di accesso, perché nel progetto attuale per tagliare i costi si sono via via tagliati tutti i pezzi della nuova linea, che sono rimandate a data da destinarsi. Dopo il 2038 per i francesi. Nel corso dei prossimi decenni, si tratterà solo della costruzione di un tunnel che costerà moltissimo in termini finanziari, di qualità della vita delle persone della Valle e ambientali, che non inciderà sul trasferimento modale dalla gomma al ferro perché non ci sono previsioni che la linea attualmente usata a un sesto del suo potenziale potrà moltiplicare il traffico in modo da rendere l’opera sostenibile. I treni che vi passeranno viaggeranno per lo più sulla linea attuale.

Non sarebbe stato molto meglio, in tempi di sconvolgimenti climatici galoppanti, mettere a posto il tunnel del Frejus? Anche sul tema dei finanziamenti europei si consumano imprecisioni e mistificazioni. La discussione sulle prospettive finanziarie 2020/27 non è finita e ci si prepara a una dura battaglia per renderle “a prova di clima” a partire dalla lista delle opere da confermare e dai criteri da rispettare per concedere i finanziamenti; non ci sono certezze né sui montanti finali né sulla lista delle opere, che per l’Italia comprende ben tre valichi ultra onerosi (Brennero, Terzo Valico, Tunnel Valsusa), dato che tutto dipende dall’accordo finale su tutto il pacchetto. La volta scorsa, si passò dai 20 miliardi per tutte le opere proposto dalla Commissione a… 8. Davvero si crede che li otterremo tutti?

Sarebbe un errore pensare che la responsabilità di questo epilogo forse non definitivo su quest’opera sia tutta della Lega, della destra, del Pd, dei media, che dopo anni ancora continuano a raccontare la favola delle grandi opere come volano di crescita a prescindere. Questa è anche la dimostrazione di come l’ambientalismo del M5S sia inconcludente, posticcio, poco informato. Non essere riusciti, dopo avere ottenuto oltre il 30% dei voti, ad avviare subito un dibattito basato sui fatti e a creare le condizioni per una narrativa alternativa a quella del mito della Tav, è la prova dell’incapacità di trovare le alleanze, gli argomenti, di governare insomma, che è cosa ben diversa da essere il megafono acritico e, appunto, inconcludente, di tutte le battaglie. Questa, spero, non definitiva sconfitta interpella naturalmente anche il mondo ambientalista, politico e non, che ancora non pare in grado di imporsi negli atti di governo e nell’urna a un livello sufficiente da cambiare veramente le cose. Ma, anche se abbiamo pochissimo tempo, è presto per arrendersi. Anzi. Proprio di fronte a questa decisione irrazionale, dobbiamo mettere da parte ogni esitazione e divisione, rafforzando più presto una alternativa aperta e plurale, ma distintamente verde ed europea in Italia.

Monica Frassoni Presidente dei Verdi Europei

 

Cara Monica, i 5Stelle hanno molte colpe, ma sul Tav – non avendo la maggioranza assoluta nè al governo nè in Parlamento nè tantomeno in Europa – potevano fare ben poco più di un’altra melina di qualche mese. Che mi dici invece della cosiddetta sinistra italiana, che dovrebbe essere ambientalista e invece finge di esserlo solo quando deve travestirsi da Greta? E che hanno fatto le sinistre e gli ambientalisti europei per fermare il Tav? Quando il Partito degli Affari è così potente, pervasivo e totalizzante, anche nel mondo della cosiddetta informazione, è difficile contrapporgli una “narrazione” alternativa. Si può solo predicare nel deserto, come San Giovanni il Battista, che infatti finì decollato.

Marco Travaglio