C’è una Procura nella provincia del Regno, una qualsiasi, in un posto qualunque, senza tempo, dove lavora un Tizio, uscito da I Giusti di Borges. Uno di quelli che fanno cose comuni. Uno che fa il sostituto procuratore, orgogliosamente a vita, che lavora a un processo qualsiasi. Uno di quelli che nei libri di Montalbano fa sempre la figura del fesso, che nel Maresciallo Rocca fa sembrare Gigi Proietti il commissario Maigret. Uno di quelli che però crede nella forza delle parole e che, qualsiasi mestiere si faccia, non si possa prescinderne. Uno per cui il motore del mondo è il desiderio, il primo impulso per conoscere e capire, ciò che rende vivi in tutto ciò che si fa, compreso occuparsi di delitti e di morti.
Ma questo non conta, perché se non appari non esisti. Se non sei nei corsivi giusti o nelle mailing list che contano, sei out. E se non esisti non c’è fiducia verso nessuno che non sia la famiglia, gli amici, il clan. E la sfiducia genera distacco, per non dire avversione e sovversione. E così il rischio dei recenti fatti di cronaca giudiziaria che hanno coinvolto il Csm è che sia minata la fiducia nel servizio giustizia. Nessuno si affida più: né al medico del pronto soccorso né al vigile urbano né tantomeno al giudice, bombardati come siamo da immagini e notizie di malasanità, malagiustizia o malammore. Diventiamo noi stessi di volta in volta medici, vigili, giudici, amanti traditi.
Non fa notizia la normalità. C’è sete di eroi o di mostri. Medietà è sinonimo di mediocrità, malgrado Celine ci abbia insegnato ad amare chi vive nell’ombra. Quello che conta è la visibilità mediatica. Conta chi grida più forte, chi è fotogenico. Non contano più gli orari di lavoro da Bartleby lo scrivano dei tanti Giusti di Borges, il loro pensare che non è la funzione che qualifica la persona ma è l’uomo che fa il magistrato, che è importante come si fa il giudice e non dove lo si fa, che altro è essere serio altro è essere seriosi, che non conta il colore del fascicolo ma il fascicolo, non il nome dell’indagato ma il reato. Non la scorta ma le scorte… di libri, canzoni, film.
Non conta più pensare che si lavora meglio se si campa d’altro, se il lavoro occupa il tempo giusto e non il superfluo, se ci si innamora della propria donna e non di un’indagine. Non conta più pensare che la condanna non è una vittoria e l’assoluzione una sconfitta, che bisogna smetterla di essere autoreferenziali e corporativi, che non esiste il partito dei giudici ma solo dei giudici che fanno il loro lavoro.
Non conta più la freschezza e l’entusiasmo dei giovani magistrati, le loro notti in caserma, le prime timide ma rispettose requisitorie. Non conta più avere le porte dell’ufficio sempre aperte, pensare che un capo è tale se ha una legittimazione che viene dal basso, dai suoi collaboratori, che si conquista e alimenta giorno per giorno. Non conta credere che non fa carriera il magistrato più visibile o che va sui giornali o in tv – perché i giudici non fanno carriera, si distinguono solo per funzioni e non per gradi; che la giurisdizione è diffusa proprio per evitare gerarchie e garantire l’ autonomia e far sì che il magistrato sia solo il legittimo arbitro finale del significato della legge.
Da anni quel Tizio incontra straccioni, mendicanti, suonatori, volti che si difendono dal dolore della conoscenza o dal pericolo della pietà, sguardi allucinati e dolcissimi che colgono e uccidono per sempre il brulichio della vita. Sguardi che penetrano nel cuore delle vicende dei fascicoli, ne rendono il senso e il tempo interiore e restano incollati addosso a chiunque se ne curi, occupando e affollando il suo immaginario.
Di quel mondo quel giudice vuole continuare a occuparsi, dalla scrivania a cui siede tutti i giorni e non da altre, come quando da piccolo pensava di fare quel mestiere, per lui il più bello del mondo.
Quel Tizio ha letto quei versi e ha fatto propria l’idea di giustizia che da essi trasuda e che forse sarebbe bene rileggere, ogni tanto, nel silenzio del proprio ufficio pensando, con il poeta, che la salvezza del mondo dipenda dal mutuo ignorarsi di quei giusti:
“Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire./Chi è contento che sulla terra esista la musica./Chi scopre con piacere un’etimologia./Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi./Il ceramista che intuisce un colore e una forma./Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace./Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto./Chi accarezza un animale addormentato./Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto./Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson./Chi preferisce che abbiano ragione gli altri./Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo”.