Lascia la Procura di Roma per fare il giudice a Latina il pm Stefano Rocco Fava, indagato dalla procura di Perugia per favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sull’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Quest’ultimo, anch’egli pm a Roma, è indagato per corruzione ed è attualmente sospeso dalle funzioni e dallo stipendio nell’ambito del procedimento disciplinare in corso a suo carico al Csm. Quanto a Fava, invece, il plenum del Csm ha accolto la richiesta presentata dallo stesso magistrato. Si tratta di un trasferimento “preventivo” con cui Fava certamente evita l’eventuale allontanamento d’ufficio dalla procura di Roma per incompatibilità. La Prima Commissione aveva infatti aperto una pratica su di lui che ora sarà archiviata. La decisione di concedere il trasferimento a Fava è passata all’unanimità. Fava è il magistrato che aveva presentato un esposto in cui sottolineava gli incarichi professionali conferiti dall’avvocato Pietro Amara, ex legale esterno dell’Eni sotto inchiesta a Roma, al fratello dell’ex procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone. Vicende ritenute irrilevanti dalla Procura di Perugia.
Carlo Federico Grosso, la signorilità del diritto
Dopo la scomparsa di Francesco Saverio Borrelli, ora quella di Carlo Federico Grosso. Due gravi perdite per la giustizia e il diritto. Figure e responsabilità diverse, ma con in comune signorilità, rigore, correttezza e fedeltà al proprio ruolo, due punti di riferimento sicuri e preziosi, in una stagione di goffaggini, trivialità e tracotanza, dove dominano frasi fatte, slogan e pensieri rozzi. L’esatto contrario di quel che è stato il professor Grosso.
Per noi torinesi era appunto, prima di tutto, il “professore”: titolare della cattedra di diritto penale presso l’università di Torino dal 1974 al 2007 ha contribuito a plasmare generazioni di avvocati, magistrati, giuristi. In questo egli era “figlio d’arte”: suo padre aveva insegnato a lungo Storia del diritto romano concorrendo a formare una scuola torinese (o sabauda, volendo ricordare una definizione a mezza strada fra il rispettoso e l’ironico) di grande e riconosciuto prestigio.
Oltre che professore, Carlo Federico Grosso era avvocato penalista impegnato in processi anche mediaticamente famosi. Non si conoscono, francamente, episodi – in questo suo ambito professionale – che siano anche solo indirettamente riconducibili all’andazzo diffuso in certi settori politici e dei loro epigoni giudiziari volto a pretendere servizi più che decisioni imparziali da parte dei magistrati. Verso i quali la cifra distintiva dell’avvocato Grosso era sempre di assoluto rispetto, pur nel conflitto dialettico più teso.
Carlo Federico Grosso va anche ricordato come componente prima e vice presidente poi (dal 1994 al 1998) di quel Csm oggi in crisi profonda, e che proprio a figure come Grosso dovrebbe richiamarsi per cambiare davvero pagina. Lunga e intensa è stata poi l’attività politica presso il Comune di Torino e la Regione Piemonte. In un caso come nell’altro ha ricoperto cariche di rilievo; senza indulgere a formule retoriche o clausole di stile, è ben possibile rilevare che i suoi comportamenti e le sue scelte si sono sempre indirizzati alla cura del bene comune.
Rilevante è stata pure l’attività di ricerca scientifica nel campo del diritto, anche con l’elaborazione di un pregevole progetto di riforma del codice penale, rimasto però unprogetto (destino di quasi tutti i tentativi di riforma, forse per una sorta di damnatio della quale si spera che prima o poi riusciremo a liberarci).
Infine, i lettori de La Stampa erano affezionati lettori dei suoi editoriali, in quanto veicolo di alta (sottolineo “alta”) divulgazione di temi e giuridici di solito accessibili ai soli “chierici”. Anche in questo settore la costante ricerca del punto di equilibrio, caratterizzava il suo pensiero. Ricordo un intervento del 2 gennaio 2012 sulla specializzazione dei magistrati messa a rischio dall’imposizione di limiti di tempo alla permanenza nei gruppi di lavoro; intervento nel quale Grosso proponeva “sostituzioni scaglionate che consentano al gruppo di non perdere la qualificazione complessiva ed ai nuovi arrivati di impratichirsi lavorando a fianco dei colleghi più esperti”. Ecco una lezione di buon senso e saggezza, senza fughe in avanti o pregiudizi. Moneta, di questi tempi, sempre più rara.
Dambruoso piace ai laici del Csm e va verso la Dna
È ultimo (il 41esimo) in ordine cronologico di presentazione delle domande, ma è il super favorito per uno dei tre posti vacanti come pm della Direzione nazionale antimafia. Stiamo parlando di Stefano Dambruoso, attuale pm a Bologna, ex deputato, eletto con Scelta Civica di Mario Monti nel 2013.
Le nomine saranno fatte dal plenum ormai dopo l’estate e forse oggi, nell’ultima riunione prima delle ferie, non riuscirà a votare le proposte neppure la competente Terza commissione presieduta da Michele Ciambellini, togato di Unicost, il consigliere che insieme al collega del suo stesso gruppo, Marco Mancinetti era in rotta con Luca Palamara, dominus della corrente centrista fino allo scandalo delle nomine. .
Il favorito Dambruoso piace tanto ai laici di palazzo dei Marescialli in quota Lega e Fi, ma sull’attuale magistrato di Bologna i togati, soprattutto di Area (progressisti) e Aei ( “davighiani”) ritengono che la figura di Dambruoso sia stata troppo contigua alla politica. Nel 2008, per esempio, il pm è stato nominato capo dell’ufficio per il Coordinamento dell’attività internazionale dal ministro della Giustizia Angelino Alfano.
A Montecitorio, da questore della Camera, Dambruoso si beccò 15 giorni di sospensione disciplinare perchè il 29 gennaio 2014 colpì al volto la deputata M5s Loredana Lupo, durante una rissa di una decina di parlamentari M5s, tra cui la stessa Lupo (sanzionati con 10 giorni di sospensione) durante il voto sul decreto Imu-Bankitalia. Dambruoso allora disse di aver colpito “involontariamente” la deputata ma l’ufficio di presidenza lo sospese. Oltre a M5s anche Pd e Scelta Civica condannarono il gesto e chiesero -inascoltati- le dimissioni.
Diversi anni prima, Dambruoso, nel 2004, era stato esperto giuridico a Vienna, alla Rappresentanza permanente italiana dell’Onu contro il terrorismo internazionale. Di terrorismo internazionale, in particolare di matrice islamica, se n’è occupato a Milano. Come pm ha avuto esperienze anche alle direzioni distrettuali antimafia di Palermo e Milano.
Tra i candidati più conosciuti c’è Domenico Gozzo, oggi sostituto procuratore generale a Palermo, ex procuratore aggiunto a Caltanissetta, pm di Palermo del processo Dell’Utri, insieme ad Antonio Ingroia. Ha fatto arrestare, tra gli altri, il capomafia Salvatore Lo Piccolo. La sua lunga e riconosciuta esperienza non sembra, però, favorirlo anche se i togati restano molto abbottonati.
Diversi i magistrati napoletani candidati, tra cui Antonello Ardituro, togato di Area nella precedente consiliatura, pm anti camorra, ha indagato sul clan dei casalesi e Catello Maresca, altro pm anti camorra: ha fatto arrestare il super boss Michele Zagaria. Al telefono intercettato di Palamara, il pm della Dna Cesare Sirignano (costretto a cambiare area di competenza, Potenza invece di Napoli per il tenore delle sconcertanti conversazioni soprattutto sulla procura di Napoli) sembra sponsorizzare la nomina in Dna di Maresca in quanto di Unicost, perché, a suo dire, la Dna è piena di magistrati di Area. Parla pure male di Ardituro che non deve andare né in Dna, né a fare l’aggiunto a Roma o a Napoli. Sirignano attacca anche il procuratore aggiunto della Dna Maria Vittoria De Simone. A Palamara gli dice: “Abbiamo il nemico in casa”. Mentre contro il pm della Dna, Nino Di Matteo, parla Palamara con il pm di Roma Stefano Fava, ieri trasferito come giudice a Latina, dopo essere finito sotto indagine a Perugia per rivelazione di segreto a favore di Palamara, accusato di corruzione.
In corsa per la Dna pure Rino Piscitello, martedì lascia, dopo 10 anni di fuori ruolo, la direzione dell’ufficio detenuti del Dap, per tornare alla procura di Palermo. In Commissione ha destato qualche interesse, a quanto pare, anche il curriculum di Giuseppe Gatti, pm di Bari, perché esperto di mafia foggiana, finora sottovalutata, ma molto aggressiva.
Carige, il sì delle Ccb sblocca il salvataggio da 900 milioni
Una schiarita nel salvataggio di Banca Carige. Il Fondo Interbancario (Fitd) e Cassa Centrale Banca (Ccb) hanno trovato la squadra di salvataggio. Il cda di Ccb, che si candida a partner industriale, ha approvato un intervento da 165 milioni di euro, di cui 65 per sottoscrivere una quota di poco inferiore al 10% del capitale e 100 che finiranno in un bond subordinato tier 2. Dovrebbe anche aver ammorbidito le sue posizioni sull’opzione call che servirà a rilevare la quota del Fitd, riducendo il termine di esercizio e lo sconto richiesto. La proposta dovrà passare dal comitato di gestione e dal consiglio del Fondo. Il Fitd dovrà deliberare gli interventi di sua competenza e garantire l’intero aumento. In campo ci sono poi anche i soggetti di proprietà pubblica, Medio Credito Centrale (Invitalia) e Credito Sportivo (Mef), che devono sottoscrivere il bond subordinato, ideato per permettere di intervenire ai due gruppi di intervenire. Si vedrà se il Tesoro provvederà a ripulire i 3,3 miliardi di euro di crediti deteriorati con l’intervento di Sga e cosa faranno i soci, tra cui i Malacalza, in assemblea. Se tutti i tasselli calzeranno, si potrebbe procedere a settembre con il rafforzamento patrimoniale della banca da 900 milioni.
Costa più fermarlo che farlo? Tutti i dati veri e le bugie sul Tav
Il Tav dunque si farà. Perché “costa più fermarlo che farlo”, ha spiegato Giuseppe Conte. A far cambiare idea al premier è il presunto aumento dei fondi messi da Bruxelles. Ieri Conte ha spiegato alla Camera che questo è il risultato della sua interlocuzione con l’Ue e Parigi. Quello che non è stato possibile, invece, “è la discussione dell’opera” – prevista dal contratto di governo – per la “ferma decisione della Francia a proseguirla”. Per spiegare come stanno le cose serve una premessa. L’analisi costi-benefici affidata dal ministero delle Infrastrutture alla commissione guidata da Marco Ponti ha bollato l’opera come un inutile spreco di soldi pubblici: i benefici sono quasi nulli e il traffico inesistente. L’impatto economico è negativo per 7 miliardi.
I costi. Per Tav Torino-Lione si intende ormai il tunnel di base transfrontaliero (57 km) sotto il Frejus. Costo: 9,6 miliardi. Il contributo europeo è pari al 40%. Al netto di questo, l’Italia paga il 58%, la Francia il 42%. Fu il governo Berlusconi nel 2004, con la regia del ras delle Infrastrutture Ercole Incalza, a inventarsi questa geniale trovata per convincere i riottosi francesi.
La decisione di far pagare all’Italia due terzi di un tunnel solo per un quinto in territorio italiano venne motivata col fatto che la Francia pagava cara la sua tratta nazionale dal tunnel a Lione (10 miliardi). Problema: nel 2017 Parigi ha deciso che quella tratta non ha stime di traffico sufficienti, quindi se ne riparla nel 2038, otto anni dopo la teorica conclusione dei lavori per il Tav, prevista nel 2030.
I fondi europei. Secondo Conte, l’Ue alzerà il finanziamento del tunnel al 55%. In realtà lo ha detto Iveta Radicova, coordinatrice del corridoio mediterraneo, ma la decisione spetterà alla nuova Commissione e l’iter prevede almeno due anni. Se fosse confermato, Bruxelles ci metterebbe 5,3 miliardi. Una cifra gigantesca. Nell’ultima tornata (2014-2020) del programma europeo per la mobilità (Connecting Europe Facility) erano stanziati 6 miliardi per le tutte le tratte transfrontaliere dei corridoi ferroviari Ue. Nel nuovo Cef ci sono 17 miliardi per i “progetti strategici”, in cui rientra il Tav. Se anche fosse la cifra destinata alle sole linee transfrontaliere significherebbe che alla Torino-Lione andrebbe un euro su tre stanziato da Bruxelles.
Conte ha poi annunciato un contributo europeo del 50% per la tratta nazionale italiana (1,7 miliardi il costo totale). Questo impegno arriva sempre dalla Raticova ma non è previsto dal contratto che regola il finanziamento dell’opera. La realtà è che l’Ue non ha mai messo a disposizione più di 700-800 milioni per settennio. E Francia e Italia ne hanno sistematicamente perso la metà ogni volta.
I costi dello stop. Non è vero che costa più fermare il Tav che farlo. I grandi appalti non sono partiti e le penali non sono previste, né verso l’Ue né verso la Francia. Secondo una relazione del Mit i costi massimi dello stop potrebbero arrivare a 1,7 miliardi (“difficilmente raggiungibili”). Anche con il contributo Ue maggiorato, sarebbero meno dei 3,3 miliardi che l’opera costerebbe all’Italia.
I motivi per lo stop. L’Italia, lo ha ammesso anche Conte, aveva buoni argomenti per sospendere il progetto. Il motivo principale è che la Francia non rispetta gli impegni: oltre a non fare la tratta nazionale (il che rende ancora più inutile il Tav), non ha mai stanziato a bilancio i fondi necessari per realizzare l’opera. L’Italia lo ha già fatto con il governo Monti, mentre Parigi ogni anno decide quanto mettere. Ma l’accordo di Roma (2012) prevede che i lavori possano partire solo quando c’è la disponibilità complessiva dello stanziamento. Per Parigi non c’è.
Che cosa si poteva fare. Per l’iniqua ripartizione dei costi con la Francia, l’Italia poteva rivolgersi al tribunale arbitrale previsto dal Grant agreement del 2015. Per il mancato stanziamento dei fondi da parte di Parigi, poteva sollevare la questione alla Commissione intergovernativa italo-francese che sovrintende alle procedure tecnico-finanziarie che disciplinano il Tav, sostituendo prima i membri italiani (gli attuali sono pasdaran dell’opera). Poteva perfino revocare i membri del cda del promotore italo-francese dell’opera (Telt) e nominarne di nuovi per bloccare i lavori.
Renzi? non è cattivo ma ci arriva dopo
Il tempo è galantuomo, continua a ripetere Matteo Renzi. Due giorni fa il mantra è tornato buono per commentare il sì del governo al Tav, circostanza che ha fatto brindare l’ex premier: ”Ci hanno messo un mese per capire che bisognava stare nell’Euro. Tre mesi per capire che gli 80 euro andavano tenuti, sei per capire che la fatturazione elettronica serviva. Dopo un anno dicono sì alla Tav. Non sono cattivi: ci arrivano dopo. Serve pazienza, il tempo è galantuomo”. Peccato che il periodo di elaborazione del governo, anche assecondando il gioco retorico renziano, sarebbe comunque ottimo se paragonato a quello dell’ex premier. Lui stesso infatti, nel 2013, faceva uscire il libro Oltre la rottamazione, dove stroncava l’alta velocità: “Prima lo Stato uscirà dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e si concentrerà sulla manutenzione delle scuole e delle strade, più facile sarà per noi riavvicinare i cittadini alle istituzioni. Iniziative come la Torino-Lione non sono dannose, sono inutili: sono soldi impiegati male”. Il resto è storia recente, con Renzi che sei anni dopo quel libro è diventato un convinto Sì Tav. Come si dice? Il tempo è galantuomo. Con tutti.
Foietta infierisce: “Adesso convoco l’Osservatorio…”
Non bastasse la débacle dei 5Stelle sul Tav, ieri ci ha pensato anche Paolo Foietta a infierire sui pentastellati con un’uscita surreale. L’ex commissario del governo per la Torino-Lione, di cui è un fan entusiasta, ha annunciato ieri che convocherà per settembre l’Osservatorio di Palazzo Chigi sull’opera: “Ci sono diverse questioni da affrontare – ha spiegato trionfante – come gli interventi compensativi che devono essere autorizzati. Quindi alla luce della novità emersa l’Osservatorio solleciterà il governo e riprenderà i confronti con le comunità locali cercando il massimo consenso”. Problema: l’architetto Foietta – che serve lo Stato da lobbista dell’opera – non è più il commissario per il Tav da ottobre scorso. Il governo, su input del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli (M5S) non lo ha riconfermato alla guida dell’Osservatorio lasciando scadere il suo incarico. Ma l’euforia per il via libera all’opera deve averlo convinto di poter tornare in sella. “Di fatto l’Osservatorio non è mai stato sconvocato”, si è giustificato ieri. “Ci avessero ascoltato prima non si perdeva questo tempo. Le frasi di Conte io le dicevo già almeno un anno”.
Tra chi resiste in Val Susa: “Presi in giro dai grillini”
Chiomonte (Torino)
“Per noi non cambia nulla. Non avevamo politici amici prima e non ne abbiamo nemmeno adesso”. Al presidio No Tav di Venaus, nel cuore della Val Susa, è tutto un via vai di tavoli, martelli e tende. Tra poche ore questo spazio verde circondato dalle montagne accoglierà migliaia di persone per il Festival Alta Felicità, quattro giorni (da oggi fino a domenica) di dibattiti, campeggio libero, musica, che riunisce le varie anime del movimento No Tav in nome della “lotta contro le grandi opere inutili”. Con un appuntamento chiave, quello di sabato 27 luglio, quando tutto il festival si fermerà per una “passeggiata” verso il cantiere di Chiomonte.
Il corteo ha già fatto scattare l’allerta sicurezza, soprattutto dopo le azioni dimostrative che alcuni gruppi hanno realizzato nel week end scorso. Al presidio, però, tutti assicurano che non ci saranno disordini. Di certo sarà una marcia dal forte valore simbolico, dimostrazione che “la resistenza non si ferma”. Soprattuto dopo il discorso del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che martedì sera ha sancito il via libera alla Torino-Lione.
“Arrabbiati? Sarebbe meglio dire delusi e amareggiati”. Valerio Colombaroli ha 70 anni, è uno di quegli attivisti che con il movimento No Tav è invecchiato. Ha memoria di tutte le tappe e di tutti i politici che qui sono passati a chiedere voti. “Vedi questo spazio? Nel 2005 qui c’è stata la ‘battaglia di Venaus’. Le famiglie della Valle occuparono il terreno su cui doveva essere avviato il primo cantiere. Il presidio venne sgomberato dalla polizia, ma dopo alcuni giorni rioccupammo l’area. Eravamo decine di migliaia”. Al presidio lo conoscono tutti: saluta e monta bandiere. “I miei figli sono nati 30 anni fa e hanno mangiato pane e No Tav. In questi anni abbiamo creato una comunità. Ora se penso al futuro vedo un grande punto interrogativo. Ma sono convinto che nella vita possiamo vincere o perdere, ma non essere traditi”.
Il riferimento, è chiaro, è al Movimento 5 Stelle, di cui qui si fanno nomi e cognomi: Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Laura Castelli. E poi, ovviamente, Beppe Grillo. “Si sono presentati come innovatori, avevano una proposta valida e ci abbiamo creduto”, spiega Emilio, convinto No Tav dal 2004. “Ci apparivano come una speranza. Io li ho scelti anche alle ultime elezioni Europee, ma ora vorrei tagliarmi la mano. Non avevamo certo bisogno di una nuova Democrazia cristiana”.
Gli fa eco Tiziano, un altro volto storico. “Di Maio ha detto che in Parlamento voteranno contro l’opera. Ma è una manfrina. Siamo stati presi in giro, questa è la verità”.
Eppure, nonostante la frustrazione, l’immagine della politica sembra sbiadita e lontana. Nessuno, nonostante il voto, sostiene di averci mai creduto fino in fondo. “Non siamo certo sorpresi, ce lo aspettavamo. Le critiche al Movimento 5 Stelle abbiamo cominciato a farle già un anno fa”, racconta Guido Fissore, 74 anni, di cui gli ultimi 20 passati con la bandiera No Tav in mano. Si sta dando da fare per il Festival, ma parla volentieri. “È stato un lento procedere. Prima hanno ceduto sull’Ilva, poi sulla Tap e sul Terzo valico. C’erano tutte le premesse. Hanno ammainato la bandiera dell’ambiente e l’hanno fatto nel modo più squallido. Ma dobbiamo farci una domanda: è davvero questo il modello di sviluppo su cui vogliamo investire? Crediamo che il progresso sia fare un buco nella montagna? Sarà un disastro ambientale”.
La sensazione è quella di essere tornati al punto di partenza. Di aver cancellato in una manciata di mesi campagne elettorali, comizi e promesse, per essere rispediti in poco tempo a un punto zero. “Quando vanno a Roma cambiano tutti, è come se prendessero un virus”. Anche Gabriella ha 70 anni e oggi ha deciso di venire al campeggio con sua nipote. “Io sabato andrò al corteo, come ho sempre fatto. Porto avanti la lotta da 20 anni e non mi fermo di certo ora. Ne abbiamo visti tanti di politici sostenitori della Tav e sono tutti spariti. Quella di Conte non sarà l’ultima parola su questa Valle.”
Il Cipe e Toninelli in coro: il partito del cemento vince
Era tutto scritto, anche se le convulsioni delle ultime ore rendono tutto incomprensibile. Alle cinque della sera il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli emette il bollettino della vittoria: “Durante la riunione odierna del Cipe è stato dato l’ok all’aggiornamento 2018-2019 del contratto di programma Investimenti Rfi-Mit 2017-21. Un passaggio molto importante che non solo segna un cambio di passo nella velocità di aggiornamento di questi importanti documenti, ma prevede la contrattualizzazione di circa 15,4 miliardi di euro in più”. Si spende e si spande, alla faccia di Matteo Salvini che lo aveva accusato di dire no agli investimenti. “L’aggiornamento del contratto di programma destina nuove risorse, ad esempio, al completamento della Napoli-Bari (2,1 miliardi) e del nuovo collegamento Palermo–Catania (2,985 miliardi di euro). Si completano le coperture del Terzo Valico dei Giovi sul Corridoio Reno-Alpi e del nodo di Genova (818 milioni)”. Toninelli è diventato il ministro che sblocca, come un Lupi o un Delrio qualsiasi. E si fa il verso da solo, ringraziando l’uomo che gli ha inflitto un’umiliazione epocale: “Grazie grazie grazie al ministro Salvini che nella riunione di stamattina a Chigi ha scoperto, letto e ripetuto in una diretta Facebook l’elenco delle ultime opere che ho sbloccato. Avanti così!”.
Era tutto scritto. Fin dal contratto di governo, prima ancora che nascesse il governo Conte. In quel documento, pur di sancire l’alleanza con la Lega, testa d’ariete del partito del cemento, il M5S aveva già ammainato la sua storica bandiera No-Tav: “Con riguardo alla linea ad Alta Velocità Torino-Lione, ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”. Nello stesso contratto si propugna “la ridiscussione dei Trattati dell’Ue” ma ci si inginocchia agli intoccabili trattati con la Francia per un’opera inutile che nemmeno Emmanuel Macron ha mai voluto.
Era tutto scritto. Nel contratto di governo hanno dato il via libera al Terzo Valico (alta velocità da Genova a Tortona) senza manco nominarlo: “Senza un’adeguata rete di trasporto ad alta capacità non potremmo mai vedere riconosciuto il nostro naturale ruolo di leader della logistica nel Mediterraneo”.
Era già chiaro il 1° giugno 2018, il giorno del giuramento del governo Conte, che il partito del cemento aveva già vinto, per la semplice ragione che aveva dietro di sé interessi concreti e corposi, molto più organizzati ed efficaci di chi si è illuso che bastassero il buonsenso (sono davvero soldi buttati, e tanti) e il volatile consenso elettorale per vincere la battaglia.
Era tutto scritto, e bastava leggere con un po’ di sereno distacco la triste parabola di Matteo Renzi. Anche lui era partito con l’idea di fermare le colate di cemento. Quando è andato alla conquista del Pd aveva buon gioco ad accusare le vecchia gestione bersaniana di trastullarsi troppo con le grandi opere: “Prima lo Stato uscirà dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e si concentrerà sulla manutenzione delle scuole e delle strade, più facile sarà per noi riavvicinare i cittadini alle istituzioni”. Sulla Torino-Lione era sprezzante: “Non credo a quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la Torino-Lione. Per me è quasi peggio: non sono dannose, sono inutili. Sono soldi impiegati male”.
Ma era tutto scritto. Anche lui poi ha dovuto chinare la testa, è riuscito a far fuori Enrico Letta da palazzo Chigi ma non Maurizio Lupi (ed Ercole Incalza) dal ministero delle Infrastrutture, perché per governare contro il potente e trasversale partito del cemento bisogna essere bravi davvero. Non lo era abbastanza Renzi, che si è subito convertito alle grandi opere firmando il mitico decreto Sblocca Italia. Né sono bravi abbastanza Di Maio e Toninelli. Ci hanno provato, credendo che bastasse chiedere a un tecnico bravo (lui sì) come Marco Ponti di dimostrare scientificamente che il nuovo tunnel del Frejus e il Terzo Valico erano solo soldi buttati. Ma un Movimento in cui c’è spazio per No-Vax, terrapiattisti e No-sbarco sulla Luna doveva sapere che scienza e razionalità servono a poco se non hai la capacità politica di sconfiggere interessi organizzati capaci di sostenere, se serve a succhiare denaro pubblico, pure che Cristo è morto di sonno.
Il M5S ora ha fretta di votare sul Tav (a talk show chiusi)
Adesso che la botta è arrivata, più forte che mai, ai Cinque Stelle non resta che capire come provare a tirarsi su. Il Tav gli è passato sopra e meno male che è arrivato Beppe Grillo a prestare soccorso. Li aveva già rassicurati, martedì sera, con i toni concilianti usati nella telefonata con il premier Conte, che lo ha chiamato subito dopo la diretta Facebook in cui ha annunciato il Sì alla Torino-Lione. Eppure fino a ieri sera, la paura che il fondatore potesse assestare il colpo di grazia al Movimento sconfitto, continuava a rimanere fortissima. D’altronde lo aveva già fatto ventiquattr’ore prima, sfottendo Luigi Di Maio per la storia del “mandato zero”. Ma stavolta è diverso. Perché, dice Grillo, “credere che basti essere al governo, in tandem, per bloccare un processo demenziale come questo significa avere dimenticato che non siamo una repubblica presidenziale oppure una dittatura”. “Conte ha tenuto testa a Macron e Toninelli ha fatto miracoli – li conforta il garante – Ora decida la democrazia e teniamocela stretta”.
Il sospiro di sollievo è arrivato. Ma adesso per salvare la faccia bisogna che carta canti. E che in Parlamento rimanga imperitura traccia del No dei grillini alla “piramide del terzo Millennio”, come Grillo ha ribattezzato il Tav. Bisogna fare in fretta: “A talk show chiusi”, sintetizza con una certa efficacia uno dei maggiorenti Cinque Stelle. Dunque prima della pausa estiva, quando il Paese ha già un piede sulla sabbia ed è più incline al perdono.
Il problema è come si fa. Perché gli atti di indirizzo e controllo – una mozione o una risoluzione – per essere calendarizzati hanno bisogno di tempo: il calendario è già praticamente pieno e vanno rispettati gli spazi concessi a maggioranza e opposizione. Difficile, se non impossibile, trovare il modo di infilare il voto sul Tav entro la prima decade di agosto. Tra l’altro, fanno notare i deputati 5 Stelle, gli atti di indirizzo prima di essere messi ai voti necessitano di un parere del governo, a cui la maggioranza è teoricamente chiamata a uniformarsi. Di certo, un altro passaggio che metterebbe in difficoltà i ministri del Movimento, uno su tutti il titolare delle Infrastrutture Danilo Toninelli.
Così, l’orientamento dei parlamentari Cinque Stelle sarebbe quello di chiedere al premier Giuseppe Conte di aiutarli almeno su questo: una comunicazione in Aula del presidente risolverebbe sia i problemi di calendario – ha la precedenza su tutto – sia quelli più strettamente politici. A quel punto, Di Maio e i suoi potrebbero serenamente votare contro, dimostrare agli italiani che la colpa non è loro e andarsene in vacanza tranquilli (si fa per dire: in Parlamento ieri giravano certe facce più di là che di qua).
Nella diretta Facebook di martedì, Conte era sembrato assai determinato sul passaggio parlamentare: “Solo il Parlamento potrebbe adottare una decisione unilaterale”, diceva a proposito dell’ipotesi di sciogliere il trattato internazionale siglato con la Francia. Ieri invece, durante il question time, il premier ha spiegato che si va avanti “in attesa di un eventuale pronunciamento del Parlamento”.
E quell’“eventuale” ha fatto credere ai più che non sarà lui a fare in modo che avvenga. I Cinque Stelle però lo pretendono. “Non è finita – ha detto ieri Luigi Di Maio – perché bisogna andare in Parlamento dove faremo pesare il nostro 33 per cento”. Anche il Di Maio del “mandato zero” sa che con la matematica, stavolta, non si può giocare.