Mattarella: “La Ue e la Nato i pilastri della politica estera”

Anche una notazionetutto sommato innocua, mentre i media sono dominati dal cosiddetto “Russiagate”, può sembrare un segnale. Ci si riferisce a quella che segue di Sergio Mattarella, pronunciata ieri davanti agli ambasciatori italiani riuniti alla Farnesina: “Nato e Ue hanno rappresentato le leve solide ed efficaci grazie alle quali l’Italia ha potuto contribuire attivamente ai passaggi fondamentali che hanno caratterizzato la storia recente del nostro Continente, proiettando in un quadro più ampio i nostri interessi nazionali, testimoniando i valori della nostra cultura e sostenendo le nostre priorità, dalla libertà alla pace, dall’apertura dei mercati alla valorizzazione del contributo del nostro sistema produttivo, dal Mediterraneo alla stabilizzazione dei Balcani, alla partecipazione a grandi progetti in campo energetico e infrastrutturale”. E così il presidente della Repubblica tiene dentro tutto: dall’alleanza atlantica giù giù fino all’alta velocità e al gasdotto Tap. L’Ue in particolare, dice Mattarella, “non è altro da noi: limitarsi a lamentare disagio, ad affermare una sua inettitudine nell’offrire risultati auspicati rischia di apparire un esercizio autolesionista”.

“Ai prefetti eccessivi poteri discrezionali. Sì al nuovo Daspo”

Sono poteri eccessivamente discrezionali rispetto agli enti locali quelli concessi ai Prefetti nel primo decreto Sicurezza. Ieri la Corte costituzionale ha diffuso le motivazioni della sua bocciatura di questa parte del decreto (il ricorso era stato presentato della Regione Umbria): il testo di Salvini prevedeva infatti che, anche in assenza dei presupposti per lo scioglimento di Comune e Provincia o persino per l’adozione di provvedimenti correttivi o sanzionatori, il prefetto potesse ordinare cosa fare agli enti locali e addirittura esautorarli con un commissario ad acta passati 20 giorni in caso di non meglio definita “mala gestio”. La Consulta sostiene che la norma, oltre a violare l’autonomia costituzionalmente garantita agli enti, avrebbe introdotto un nuovo potere prefettizio “fondato su presupposti generici ed eccessivamente discrezionali”. Promozione, ancorché parziale invece, per l’estensione del cosiddetto “Daspo urbano” ai presidi sanitari, ma “a condizione che non si applichi a chi ha bisogno di cure mediche poiché il diritto alla salute prevale sempre sulle altre esigenze”.

“Nei telefoni ci sono contatti tra il ministro e gli indagati”

Contatti telefonici tra Matteo Salvini e almeno uno degli italiani che il 18 ottobre 2018 a Mosca parteciparono all’incontro dell’hotel Metropol. È il frutto del primo sommario esame dei cellulari sequestrati ai tre indagati nell’inchiesta per corruzione internazionale del Rubli Gate: Gianluca Savoini, Gianluca Meranda e Francesco Vannucci.

Certo, sarà necessario un esame approfondito per recuperare tutte le informazioni contenute negli smartphone: sms, whatsapp, foto, video e audio eventualmente cancellati. Ma già un primo esame ha confermato i contatti. Ora dovranno essere collocati temporalmente per capire se ve ne siano stati proprio in occasione dei viaggi in Russia di Salvini. E in particolare nei due giorni di ottobre in cui il leader leghista a Mosca fu protagonista di un tourbillon di incontri. A cominciare dal colloquio con il vice-premier russo Dimitry Kozak incontrato il 17 ottobre nello studio dell’avvocato Vladimir Pligin. C’è poi la cena al ristorante Ruski, organizzata da Luca Picasso, direttore di Confindustria Russia, imprenditore-consulente nel campo dell’energia e titolare di un’agenzia di modelle. Al meeting, oltre a Salvini, erano presenti anche Ernesto Ferlenghi (manager Eni e presidente di Confindustria Russia), Claudio D’Amico (consulente di Salvini e tra i promotori dell’associazione Lombardia-Russia), nonché Savoini che di Lombardia-Russia è presidente. Poi ovviamente, c’è l’appuntamento chiave al Metropol.

I pm si sono presi qualche giorno per studiare il materiale e poi dovrebbero riprendere le danze. I magistrati sono orientati a sentire quattro persone che in quelle ore seguirono alcuni spostamenti di Salvini: oltre a D’Amico, Ferlenghi e Picasso, ci sarebbe Fabrizio Candoni, manager e amico del vicepremier, che ha rifondato Confindustria Russia nel 2014. Candoni in un’intervista a La Stampa ha fornito elementi interessanti: “Ero stato invitato al Metropol, ma io non vado mai a tavola con persone che non conosco. Mia nonna mi diceva così, e ho suggerito a Salvini di seguire questa saggezza popolare e infatti lui il giorno dopo ha preso un aereo ed è andato a Trento per la campagna elettorale”. Perché Candoni era preoccupato? Cosa disse a Salvini? Ma Candoni aggiunge un elemento: “In Russia c’è una regola: non si intermedia mai petrolio se non sei nell’inner circle, si tratta da governo a governo”. E qui prende rilievo un elemento raccontato ieri dal Fatto: pm e investigatori avrebbero individuato due dei tre russi presenti all’incontro. Oltre a Ylia Yakunin, vicino all’avvocato Pligin, ci sarebbe stato un pubblico funzionario: forse la prova che, dalla parte russa del tavolo, c’era il governo.

Tilt a 5Stelle, furia su Di Maio: e ora è fronda da crisi

Certi dèi punivano i popoli blasfemi con la follia. Così dopo la resa sul Tav per interposto premier, un dogma calpestato, per qualche ora i Cinque Stelle non capiscono più nulla. Al punto da infettare la ferita con un disastro che fa infuriare innanzitutto lui, Giuseppe Conte. E che sconcerta e divide i senatori, tra cui ora si fa largo la voglia di vendetta sulla Lega: e la prima via può essere votare no al decreto sicurezza bis, in arrivo a giorni a Palazzo Madama. Perché ora in diversi dicono di volersi tenere “le mani libere”.

Però il centro della giornata resta un sms: perché cinque minuti prima dell’apparizione del presidente del Consiglio ieri pomeriggio a Palazzo Madama per parlare di Rubli-gate al posto di Matteo Salvini, ai senatori del M5S ordinano tramite messaggio di uscire dall’Aula proprio in protesta contro l’assenza del ministro. “Visto che era richiesta la presenza di Salvini e non di Conte, in Aula rimarrà solo il capogruppo Stefano Patuanelli”. I più escono, altri no, più o meno tutti diventano paonazzi: “Ma come, ce lo dicono solo ora?”. E chissà quanta furia reprime Conte, che si ritrova di fronte spalti semi-vuoti. Così a fine seduta, dopo essersi beccato i lazzi degli altri partiti dai microfoni, fa una sfuriata al capogruppo Patuanelli: incolpevole, perché quell’ordine l’aveva calato il capo politico, Luigi Di Maio. Forse a sua volta ferito dalle agenzie di Salvini che, ingordo, dopo aver portato a casa pure il Tav ora vuole togliere al Movimento i residui di anima, e così invoca “basta con i no ai termovalorizzatori”. Così vanno le cose, dentro i gialloverdi e tra i 5Stelle, storditi dall’abiura sulla Torino-Lione. Ma ora che si fa? “Non ci sono le condizioni e i numeri per cambiare capo politico” riassume asciutto un big. Perché dopo Di Maio ad oggi c’è solo Di Maio, nel M5S. C’è solo il capo, che vuole andare avanti comunque con questo governo. Anche se nelle chat e nella chiacchiere in tanti lo dicono: “Se andiamo avanti così del Movimento non rimarrà più nulla, che aspettiamo ad andarcene a casa?”.

E nero su bianco lo mette Roberta Lombardi: “Ora va deciso cosa vogliamo fare da grandi. Se essere presenti con un voto di testimonianza ma inutile sul Tav oppure se rinunciare a fare la stampella della Lega e riprendere la nostra identità. Domandiamoci se siamo ancora utili al governo”. Quesito che rimbalza ovunque, mentre il sì di Conte all’opera fa spurgare il malessere. Comincia il presidente dell’Antimafia Nicola Morra, che a Palazzo Madama si presenterà con la cravatta No Tav. Ma prima su Facebook va giù duro: “Non è accettabile che si receda da nostre posizioni, sul mandato zero e sul Tav a me sembra ci sia un po’ di confusione. Senza valori siamo privi di identità”. Ma nella pancia del Senato parla anche Mario Giarrusso: “Questo doveva essere il giorno in cui la Lega dava spiegazioni sul caso Russia, invece è la Caporetto del M5S”. Poi c’è Gianluigi Paragone, da tempo inquieto: “Alla politica mancano visione e coraggio. Continuerò a girare l’Italia con l’umiltà di chi deve scusarsi per non aver inciso come avrebbe voluto”. Poi arriva il pomeriggio, l’sms, il caos. Paragone si affaccia davanti alla buvette con un viso che è tutto una smorfia e fa scrocchiare le dita. I senatori parlottano con facce da lutto. Ma c’è chi resta sul suo seggio “perché io Conte lo rispetto”, come rivendica un veterano. E il senso è che era giusto disobbedire a Di Maio, il capo, che su Facebook rivendica la scelta: “L’assenza dei senatori era un atto politico, ringrazio Conte per essere andato riferire sulla Russia, ma a riferire sulla questione doveva andare qualcun altro”. Però in serata il ligure Mattia Crucioli conferma che quell’sms ha aperto un cratere: “Con un messaggio non firmato ma che è stato riferito direttamente a Di Maio ci è stato chiesto di abbandonare l’aula. Dissociandomi dall’iniziativa sono rimasto al mio posto insieme a molti colleghi”. In buvette Alberto Airola, storico no Tav, beve un caffè: “Ho chiamato Grillo, gli ho chiesto cosa fare, e mi ha detto di stare calmo. Non serve dimettermi ora”. Però il gioco cambia: “Valuterò cosa fare sui prossimi provvedimenti”. E il prossimo è il Sicurezza bis.

Un testo che non può piacere a Matteo Mantero, uno della vecchia guardia: “Se cediamo su tutto ufficializziamo che questo è il governo di Salvini”. E un collega di nuovo conio profetizza: “Mancheranno diversi voti del M5S al decreto”. Un buco che si può colmare con i voti di Fratelli d’Italia e dei forzisti. Ma il governo gialloverde appare più fragile, nel Palazzo dove ha soli tre voti di maggioranza. Tanto più che si torna a parlare di 5Stelle tentati dall’addio. E il confine tra voci e minacce è labile, nel giorno del caos.

Conte sui rubli resta solo: 5S assenti, Salvini attacca

Appoggiato allo schienale dei banchi del governo, il volto provato, gli occhi inferociti, Giuseppe Conte si accorge di essere solo. È venuto qui, nell’aula del Senato, per informare il Parlamento di quel che sa dell’affare russo. Tutti lo ringraziano, ne apprezzano la buona volontà. Ma è lui stesso a premettere che non può “presagire se questa mia informativa sarà in grado di soddisfare appieno l’urgenza di essere informati” dell’opposizione che ne ha fatto richiesta. Perché del Metropol, delle missioni a Mosca, del ruolo di quel Gianluca Savoini può dire solo quel che risulta dai suoi uffici a Palazzo Chigi. “Non ho ricevuto informazioni dal ministro competente” dice. Eppure le aveva chieste ufficialmente, voleva che Matteo Salvini gli consegnasse per iscritto la sua versione su quell’audio diffuso da BuzzFeed. Il Viminale non ha buttato giù neanche una riga: tutto può tornare indietro e fare male, meglio non lasciare tracce.

Non ha fogli in Aula, Giuseppe Conte. E non ha quasi amici. Lo assiste il titolare dei Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro, qualche poltrona più in là è seduta la collega Giulia Bongiorno, a fine giornata arriva il ministro Giorgio Bonisoli. Poca roba: la maggioranza che lo sostiene, lì, non si vede. I leghisti sono sul banco degli imputati e hanno un solo mandato: buttarla in caciara. Ci riescono benissimo, tant’è che lo stenografico della seduta alle 17.35 segna il punto di non ritorno della discussione: “Bibbiano!”, “Mitrokhin!”, “Soldi all’Unità!”, “Ciaone!”, urla il capogruppo del Carroccio Massimiliano Romeo, mentre Mosca, Savoini e il Metropol diventano un puntino lontano. Ma non ci sono nemmeno i 5 Stelle, che hanno improvvisato la sciagurata mossa di uscire dall’Aula per protestare contro Salvini: qualcuno esegue l’ordine di Di Maio, molti altri no (si vedono, tra gli altri, Paola Taverna, Primo Di Nicola, Elio Lannutti, Alberto Airola).

Il risultato è che mezzo dibattito si esaurisce a parlare del fatto che non sono venuti ad ascoltare il presidente del Consiglio nemmeno quelli che gli hanno dato la fiducia un anno fa. Se lo ricorda lui, quel 5 giugno del 2018. E in apertura del suo intervento, butta lì l’unica frase che fa davvero indispettire Salvini: “A questo consesso siate pur certi tornerò – dice Conte a Palazzo Madama – ove mai dovessero maturare le condizioni per una cessazione anticipata dal mio incarico”. “Le maggioranze non si raccolgono come funghetti. Non mi presto a operazioni di palazzo”, gli risponderà in serata il suo vice: “Malevolo”, è la reazione off di Palazzo Chigi, che fa sapere che ieri mattina Conte aveva incontrato Salvini per avvertirlo di quel che avrebbe detto.

“Chiacchierate di aria fritta”, le giudicherà il leader della Lega. Eppure qualche fatto sul Rubli-gate, Conte lo ha messo in fila. Tre, per la precisione. Primo, Savoini non ha mai avuto incarichi o consulenze con il governo e “tuttavia era presente in una missione ufficiale a Mosca, avvenuta nei giorni 15 e 16 luglio 2018, al seguito del ministro dell’Interno”. Secondo, agli appuntamenti col presidente russo Vladimir Putin – il forum e la cena a Villa Madama – Savoini è venuto su invito di Claudio D’Amico, lui sì “consigliere per le attività strategiche e di rilievo internazionale” del vicepremier Salvini. Terzo, il viaggio di Salvini a Mosca del 17 e 18 ottobre (in contemporanea all’incontro del Metropol registrato) è stato organizzato dal Viminale solo per la partecipazione all’assemblea di Confindustria Russia: il resto degli incontri erano di “carattere privato”.

Conte aggiunge che la sua fiducia nel ministro dell’Interno “non è incrinata”. Eppure sente il bisogno di chiarire che nonostante non abbia motivo di “dubitare” di possibili “deviazioni rispetto ai nostri interessi nazionali”, la “piena garanzia” che questo non sia avvenuto la dà anche “il fatto che alla Presidenza del Consiglio sia stato chiamato il sottoscritto, persona terza rispetto alle due formazioni politiche di maggioranza”. E d’ora in poi, conclude riferendosi alla riunione tra Salvini e il ministro dell’Interno russo a cui ha partecipato anche Savoini, “mi adopererò affinché negli incontri governativi a livello bilaterale siano presenti solo persone accreditate ufficialmente”. Non esattamente un attestato di stima per il comportamento tenuto dalla Lega fin qui.

L’opposizione annuncia una mozione di sfiducia a Salvini. “Il suo sforzo – dice a Conte il dem Dario Parrini – è ammirevole sul piano dell’impegno fisico ma è disdicevole sul piano politico”. Conte se ne va: i senatori 5 Stelle provano ad avvicinarlo. Lui, pacatamente, gli ricorda quella parola che usavano ai V-day.

La difesa del premier è un attacco al leghista

L’unico a notarlo direttamente nell’Aula di Palazzo Madama è Pier Ferdinando Casini: “Presidente Conte, lei sostanzialmente ha detto che nessuna forza politica avrebbe potuto incidere su una diversa collocazione internazionale del nostro governo per la sua vigilanza” e non per la “convinzione di non trasgredire gli interessi indisponibili della nazione”.

Effettivamente, è proprio quel che ha detto Conte. Mai, il presidente del Consiglio, ha sostenuto – come sarebbe stato lecito attendersi – che la Lega non prende certo ordini da Mosca, come dimostrano ad esempio le posizioni in materia di politica internazionale (dall’Iran al Venezuela, dalla Cina a Israele etc. etc.) prese dacché è al governo. No, Conte ha sostenuto prima che “le posizioni assunte dal governo, in particolare nei confronti della Federazione russa, risalgono a un chiaro confronto tra le due formazioni politiche che hanno dato vita al contratto di governo” e che questo “intenso confronto” ha già di suo “offerto ampie garanzie di una posizione politica” assunta secondo “un percorso lineare pienamente trasparente”. Poi ha detto che il fatto che a Palazzo Chigi “sia stato chiamato il sottoscritto è ulteriore elemento che contribuisce a far sì che la sintesi dell’indirizzo politico di governo” sulla Russia “sia scaturito in condizioni di piena garanzia”.

Insomma, l’Italia resta collocata nell’Ue e nella Nato e al premier, anche in quanto vertice politico dei servizi, “non risulta evidenziato alcun elemento tale da farmi dubitare circa un indebito scostamento dalla linea”. Conclusione: “Mai nessuna forza politica che sostiene la maggioranza avrebbe potuto avere la possibilità di poter imprimere un indirizzo di politica internazionale in ragione dei rapporti intrattenuti con singole forze politiche di altri Paesi. Su questo sono stato sempre molto attento”. E se è stato attento, forse ha pensato che ci fosse motivo di esserlo: se questa è una difesa, Salvini ha sbagliato avvocato (del popolo).

Pensieri dal manicomio

Mettere ordine e trovare una logica nel manicomio di ieri sarebbe uno sforzo vano, quindi non ci proviamo neppure. Quelli seguenti sono dunque pensierini in ordine sparso.

Il Tav. Tutto nasce dalla conversione di Conte dal No al Sì Tav, che ha tramortito i 5Stelle, già agonizzanti dall’euroflop del 26 maggio. Il premier, a suo modo, è stato coerente con quello che aveva promesso a marzo e col contratto di governo: ha provato a ridiscutere integralmente il progetto Torino-Lione con Macron e con la commissione europea, ma ne è stato sonoramente respinto, anche perché la gran parte dei costi la sosterrà l’Italia grazie ai geniali impegni assunti a suo tempo da Renzi e Delrio. A quel punto il M5S, ben conscio di non avere i numeri in un Parlamento a maggioranza Sì Tav per disdettare il trattato fra Italia, Francia e Ue, aveva una sola strada: immolare Toninelli in un blitz per sostituire i vertici di Telt (la società italo-francese che dovrebbe bandire gli appalti) con tecnici contrari all’opera per rinviare ancora le gare, con l’ottima ragione del mancato stanziamento fondi da parte di Francia (zero euro) e Ue (meno del 10%). E sfidare Salvini a decidersi una volta per tutti: o prendersi la briga di far saltare il governo, oppure abbozzare e avviare quel treno inutile, costoso e dannoso sul binario morto. Non l’hanno fatto, sia per il terrore della crisi e delle elezioni, sia perchè Palazzo Chigi riteneva quella strada pericolosa e foriera di penali miliardarie (peraltro tutte da dimostrare). E l’altroieri si sono ritrovati impreparati dinanzi all’annuncio del premier, improvvisando l’annuncio di un passaggio parlamentare dall’esito scontato (M5S anti-Tav e tutti gli altri pro), ma dalle conseguenze numerico-politiche imprevedibili. Se il M5S presenterà una risoluzione che impegna il governo a bloccare il Tav e gli altri gruppi una per ciascuno di segno opposto, formalmente passerà quella dei 5Stelle, che hanno tuttora la maggioranza: nel qual caso Conte verrebbe sconfessato e dovrebbe dimettersi. Per far passare quella che impegna il governo a dare il via libera al Tav, tutti i gruppi Sì Tav (Lega, Pd, FI e FdI) dovrebbero presentare una risoluzione congiunta, che vedrebbe Salvini, Zingaretti, B. e Meloni uniti in un imbarazzante abbraccio. Nel qual caso il M5S, finito in minoranza, dovrebbe o almeno potrebbe dissociarsi da Conte e chiederne le dimissioni. In ogni caso, Salvini gode.

Il caso Rubli. Ieri in Senato il premier, con i suoi toni soavi e i suoi modi felpati, ha dato del bugiardo al vicepremier.

Ma nessuno se n’è accorto o comunque tutti han fatto finta di niente: i 5Stelle erano incredibilmente usciti quasi tutti dall’aula, il Pd doveva fingersi insoddisfatto e furibondo in favore di telecamere, la Lega parlava di Bibbiano per buttare la palla in tribuna. E così quell’accusa, che in un paese serio provocherebbe le dimissioni del ministro bugiardo o la sfiducia al premier che gli ha dato del bugiardo, è passata inosservata. Che cos’ha detto, infatti, Conte? Che il ministro dell’Interno leghista mente quando liquida Savoini come uno Zelig semisconosciuto che s’imbuca qua e là a titolo personale, perché era presente al vertice bilaterale fra Salvini e il suo omologo russo il 16 luglio 2018 in veste ufficiale: “su indicazione del protocollo del ministero dell’Interno, la delegazione ufficiale comprendeva anche il nominativo del signor Savoini”, pur “non avendo incarichi ufficiali o rapporti di collaborazione formale con membri di governo”. Dunque Salvini è bugiardo e pure reticente: il premier gli ha chiesto nei giorni scorsi spiegazioni e dettagli sull’affaire russo in vista della sua relazione al Parlamento, ma “non ho ricevuto informazioni dal ministro competente”. Il premier ha aggiunto un giudizio severissimo sulla presenza di Savoini accanto al suo vicepremier: “Mi adopererò perché tutti i miei ministri e gli altri membri del governo vigilino con massimo rigore affinché negli incontri governativi siano presenti solo ed esclusivamente persone accreditate ufficialmente che siano tenute al vincolo della riservatezza. Questo per avere la massima garanzia che le informazioni riguardanti l’attività di governo siano gestite con la massima cura”. Parole pesantissime, che nessuno ha raccolto. E Salvini gode.

Salvini. Mentre il premier risponde al posto suo in Parlamento, Salvini se ne sta al Viminale a godersi lo spettacolo, come se non lo riguardasse. E va capito: se ufficializzasse in aula la sua versione dei fatti sul caso Rubli, potrebbe vedersela smentire (ancora) a stretto giro dagli sviluppi delle indagini giudiziarie e giornalistiche, come accadde a Maria Elena Boschi dopo aver negato di aver fatto alcunchè per la Banca Etruria, poco prima che si scoprisse il suo giro delle sette chiese in banche, Bankitalia e Consob per la banca così ben amministrata dal babbo. Quindi Salvini scappa, come scappa dall’Antimafia che l’ha convocato più volte per spiegare i suoi rapporti con Paolo Arata, ora agli arresti per autoriciclaggio e corruzione in combutta con Vito Nicastri (a giudizio per i suoi rapporti con Messina Denaro) e Armando Siri (indagato per essersi venduto un emendamento-marchetta ad Aratam e ad Nicastrum per 30mila euro). Ma, anziché inchiodarlo a rispondere, quasi tutti i media si sperticano in elogi sulla sua grande abilità di politico. Intanto il Pd, anzichè infilare un cuneo nelle crepe parallele aperte tra Conte e Salvini e fra M5S e Salvini, ritorna (o resta) renziano e presenta una mozione di sfiducia contro Salvini, con l’unico risultato di ricompattare una maggioranza a pezzi. E Salvini gode.

I 5Stelle. Da quando han perso le Europee, sono in perenne stato confusionale e ne hanno imbroccate ben poche: il no al progetto leghista di autonomia differenziata e poco altro, unico fronte d’intesa con Conte rimasto. Il resto è un rosario di catastrofi politiche e comunicative. Tre clamorose solo negli ultimi due giorni. 1) Il “mandato zero”, ridicolo sia nella denominazione sia nella sostanza, visto che riguarda appena una ventina di eletti della vecchia guardia, non risolve nessuno dei problemi del M5S sul territorio, si accoppia a un’altra deroga ancor più pesante dei sacri principi fondativi (l’eletto può cambiare poltrona a metà mandato) e per giunta trasforma per i prossimi due anni le sindache Appendino e Raggi in due dead woman walking, delegittimandole agli occhi delle rispettive burocrazie comunali, già di per sé riottose a collaborare. 2) L’assoluta impreparazione mostrata nel gestire l’annuncio di Conte sul Tav e la totale sottovalutazione dei contraccolpi sulla base, gli iscritti, gli eletti e gli elettori superstiti, finiti sotto quel maledetto treno senza sapere il perché. 3) La mossa demenziale di ordinare ai senatori M5S di uscire dall’aula tre minuti prima che Conte iniziasse a parlare del caso Rubli. E poi, peggio ancora, spiegarla come un atto polemico contro Salvini latitante in Parlamento e contro le sgangherate smargiassate leghiste sul Tav e contro Fraccaro alla Camera, quando ormai tutti avevano notato il grave sgarbo istituzionale e personale a Conte (in Senato stava parlando lui, non Salvini, che ovviamente se n’è infischiato). Così il premier è sempre più distante dai due partner e gioca la sua partita in autonomia: non solo per l’ostilità-rivalità della Lega, ma anche per l’incredibile sfarinamento del rapporto con il partito che l’aveva scelto e che oggi rischia di perdere i benefici della sua popolarità. Con quella ritirata precipitosa dall’aula, fra l’altro, il Movimento votato all’ “onestà” ha rinunciato a interrogare, anche in contumacia, l’imbarazzante alleato sull’ennesimo scandalo. E Salvini gode.

Ps. Di solito, quando i 5Stelle sembrano morti, provvedono gli altri partiti a salvarli facendo peggio di loro. Ora, non c’è dubbio che gli altri partiti siano tuttoggi molto peggio di loro. Ma, per farsi salvare un’altra volta, dovrebbero, se non muoversi, almeno respirare.

Il “Gattolico praticante” va in paradiso

Ho ripetuto ad nauseam che la musica è la mia passione e insieme la mia professione, ma il mio vizio è la lettura. Con un libro in mano non mi accorgo nemmeno se la Freccia Napoli-Roma fa dodici ore di ritardo. Alcuni uomini sono più attaccati ai proprî vizî che alle proprie passioni. Io faccio parte della razza. Quando un vizioso s’incontra con un altro che condivide lo stesso vizio, anche non si sono mai visti in faccia, si riconoscono immediatamente. Ho provato questa sensazione leggendo in meno di un giorno un delizioso libro di Alberto Mattioli, Il gattolico praticante. Esercizi di devozione felina . Mattioli, che non ho mai incontrato, scrive in un italiano corretto ed elegante, oggi raro, che non ostende l’erudizione ma la tradisce. Come si fa a conoscere il nome di tutti i gatti che il cardinale di Richelieu teneva sul letto, vezzeggiava, con loro passando le notti insonni? Un grande ammalato, Richelieu, che forse senza la compagnia di tanti gatti sarebbe morto prima: il gatto infonde salute e benessere; a Napoli si crede (parlo della dimenticata sapienza tradizionale) che una casa senza un gatto non sia benedetta dal buon augurio.

Mattioli prova per i gatti una devozione assoluta, ma tenera, motivata, intelligente. Nel breve giro del libro dona un ritratto profondo della psicologia felina, un unicum nella natura. Il gatto è intelligentissimo, più del cane – debbo ammetterlo –: forse solo l’elefante e il delfino lo eguagliano. Ma non ha alcuna vanità di palesare la sua intelligenza. Anche perché il rapporto con il suo ospite è rovesciato rispetto a quello che abbiamo con tutti gli animali domestici. Pretende di essere servito, addirittura adorato. Mattioli apporta argomenti per dimostrare la fondatezza di questa pretesa. Io non posseggo la sua competenza in fatto di felini, ma posso rivendicare una benemerenza che mi verrà riconosciuta: nel mio libro del 2017 Il canto degli animali. I nostri fratelli e i nostri sentimenti in musica e in poesia ai gatti dedico decine di pagine, cito alcuni dei quadri ricordati da Mattioli nel suo (Lotto, Lanfranco), e intitolo un capitolo Natura divina del gatto. Suoi simboli. Insomma, con Mattioli siamo quasi fratelli spirituali.

A differenza del mio, il suo libro si rivolge agli esclusivi cultori del gatto, che sono falange sin dall’antico Egitto. Infatti ha avuto da aprile già tre edizioni. Ma si rivolge a qualsiasi lettore colto per i piccoli celati doni che racchiude, fatti anche di sagaci riflessioni generali.

Egli conosce nelle risposte pieghe le sue divinità. Dimostra come esse siano individui, ciascuna dotata di un carattere e intelligenza assolutamente propri e diversi. E spiega come si debba impostare l’infinitamente delicato rapporto col gatto domestico. Che cosa si debba fare; che cosa, soprattutto, non si debba fare: data la sensibilità sottile e la memoria lunghissima di queste divinità bestie. Di gattolici praticanti ne conosco molti, a cominciare da Vittorio Feltri.

La gatta di Mattioli si chiama Isolde, come la protagonista dell’Opera di Wagner; la mia Isaura, come la protagonista di Jacquerie di Marinuzzi. Ma fra me e l’autore vi sono pure differenze. Io ho un vasto serraglio: un bassotto, Ochs (che dorme sul mio letto insieme con Isaura: hanno gli stessi gusti musicali: Johann e Richard Strauss), due tartarughe, Fana e Spanò, e una decina di merli che vivono liberi nel vasto giardino sotto il mio terrazzo ma si raccolgono su di esso a beccare il cibo che quotidianamente ammannisco loro. Spero che anche i panteisti vengano ammessi nel paradiso gattolico.

 

Apollinaire con la ragazza del treno: amore al capolinea

Fu davvero un “breve incontro”, assai più breve di quello fra Trevord Howard e Cecilia Johnson narrato da Noel Coward per il famoso film, Brief Encounter, girato nel 1945 da Davide Lean. Il poeta Guillaume Apollinaire (1880- 1918) e l’insegnante di liceo Madeleine Pagès (1883- 1965) si videro soltanto in due occasioni. Accadde per poche ore sul treno Nizza-Marsiglia, il primo gennaio del 1915. Poi si rividero per la seconda e ultima volta a Orano, in Algeria, durante una licenza dal fronte del poeta, tra la fine del dicembre 1915 e i primi giorni del gennaio 1916. Eppure la relazione con Madeleine ispirò all’autore di Calligrammes decine di lettere appassionate, che danno vita a un vero romanzo d’amore epistolare, e alcune splendide composizioni, i Poèmes secrets à Madeleine, che sarebbero stati pubblicati solo nel 1949.

Dopo il soggiorno a Orano a casa della famiglia di lei, Apollinaire, ritornato al fronte, nel marzo del 1916 venne ferito alla testa dalla scheggia di un obice. Da quel momento la corrispondenza con la giovane borghese, così differente dalle altre donne di Guillaume, cominciò a rallentare, fino a interrompersi del tutto nel settembre del 1916. Due anni dopo Apollinaire si unì in matrimonio con Jacqueline Kolb, ma nello stesso anno, agli inizi di novembre, morì. Madeleine non si sposò mai. Nel 1952 decise di dare alle stampe, seppure con alcune censure, le lettere di Guillaume. Nella prefazione che scrisse, però, non parlò dei giorni di Orano e non spiegò la ragione della fine del loro legame, preferendo rievocare soltanto con parole commosse il loro incontro sul treno diretto a Marsiglia. La corrispondenza di lei, invece, è andata perduta.

Le lettere a Madeleine Pagès escono ora nella prima traduzione italiana integrale nel volume Tenero come il ricordo, pubblicato a cura di Angelo Mainardi dalla Biblioteca del Vascello-Robin. Nel libro c’è pure lo scritto di Madeleine, con il ricordo del “sorriso tenero del soldato”, del turbamento per un’emozione “di cui dovevo spegnere il riflesso nei miei occhi prima di abbandonare lo specchio e voltarmi”, e di quella consapevolezza di un amore improvviso e probabilmente destinato a durare per sempre: “Bisogna che se ne vada perché io possa pensare a lui”.

Tenero come il ricordo, “Tendre comme le souvenir”, da un verso di Guillaume a Madeleine, non è solamente “un romanzo vissuto”, nato senza un intento letterario, come nota Mainardi, e il racconto di una storia d’amore più immaginaria, forse, che reale. Scrive il curatore di questa bella edizione italiana che è un giornale di guerra, sempre più tragico con il trascorrere dei mesi, e soprattutto “la più importante testimonianza autobiografica di Apollinaire”. Restituisce “umori, gusti, impressioni, sentimenti, propositi segreti dell’autore”, a cominciare dalle confessioni degli amori passati più laceranti, come quello per Marie Laurencin.

La passione per Madeleine, in ogni caso, è senza dubbio al centro delle lettere. Una passione che, molto verosimilmente, rimase platonica, sebbene non si sappia che cosa capitò durante le due settimane passate da Apollinaire a casa di lei. Si può solo cogliere, afferma Mainardi, “l’amplificazione fantastica che Guillaume aveva fatto di questa storia”, e di questa donna per la quale scriveva: “Stringo il vostro ricordo come un vero corpo”. Era una fantasia, insomma, che non poté reggere “al quadro provinciale e famigliare al quale si trovò di fronte”. Lei fu troppo cauta, troppo piccolo borghese? Può essere. Comunque “il candore di lei”, continua Mainardi, “così apprezzato nelle avide fantasie suscitate da ‘cette guerre trop chaste’”, questa guerra troppo casta, “poté mutarsi in freddezza nel poeta”.

La guerra, in seguito, non sarà più troppo casta. E neppure Guillaume sarà più lo stesso. In una delle ultime e brevissime lettere a Madeleine, il 2 maggio del 1916, le scrisse: “Non sono più quello che ero da nessun punto di vista e se seguissi il mio impulso mi farei prete o monaco”.

Le Radio contro Spotify. Un’app per lo streaming

Le radio italiane suonano i tamburi di guerra. Sotterrate le asce del conflitto per la supremazia nazionale, si concentrano ora su nemici ben più insidiosi: gli “aggregatori” di contenuti audio come la californiana Tune-In o la corazzata svedese dello streaming, Spofity.

Data epocale, quella di ieri, per il comparto radiofonico della Penisola: a tre giorni dalla pubblicazione dei dati sugli ascolti nel primo semestre 2019 (confronto delicato, perché ogni variazione percentuale sposta investimenti e flussi pubblicitari, il cui indotto complessivo è di 440 milioni di euro), la costellazione tricolore, dai grandi network alle stazioni locali, è riuscita a fare sistema per rilanciare la sfida contro i colossi delle app che da qualche anno gestiscono immensi fatturati lucrando – di fatto – sull’operatività altrui: pescando dai palinsesti delle radio (Tune-In le accorpa nel suo contenitore, senza riconoscere emolumenti e imponendo per giunta la propria pubblicità) e dagli artisti, indotti a tuffarsi nelle acque limacciose di Spotify. Il brand riconosce loro la miseria di 0,004 dollari per singolo ascolto di un brano e contemporaneamente gestisce playlist create con criteri non sempre decifrabili ma decisamente lucrose e ambite.

Basti pensare alla Viral Top 30: se ti ci ritrovi con la tua canzone hai fatto bingo, vorrà dire che il compilatore dell’azienda scandinava (il “gatekeeper”) avrà visto in te qualcosa di utile o di speciale. O alle compilation per sala d’attesa, solfe di sottofondo commissionate dalla stessa Spotify (che incassa così direttamente ingenti somme di diritti d’autore) a musicisti stipendiati. Un fatturato da più di 4 miliardi di dollari, per 217 milioni di utenti, 100 dei quali votati a un abbonamento premium: business faraonico con un risibile rischio d’impresa.

Le nostre radio correvano il rischio di perdere il treno delle nuove tecnologie di fruizione (lo streaming supera ormai abbondantemente il 50 per cento del “traffico” musicale mondiale) e si sono consorziate dietro il marchio Per (Player Editori Radio). Una Srl cui partecipa la totalità della filiera italiana, pubblica e privata. Al tavolo della società siedono tra gli altri Rai, Radiomediaset (R101, 105, Virgin, Subasio, Montecarlo), la Gedi di Marco De Benedetti (Deejay, Capital, m2o), Sole 24ore (Radio 24), Dimensione Suono, Radio Italia, Kiss Kiss, le associazioni Aeranti-Corallo e Frt per le realtà intermedie. E naturalmente Rtl102.5 (la più ascoltata con circa otto milioni di ascoltatori giornalieri), con le altre due emittenti del gruppo, Radiofreccia e Zeta, a far da corona. Il patron di Rtl, Lorenzo Suraci, è stato nominato presidente di Per, il cui direttore è invece Michele Gulinucci, numero due di RadioRai.

La strategia di Per è chiara: dotarsi in tempi rapidi (si parla di fine anno), di una app unica che convogli in un solo spazio virtuale i contenuti delle radio italiane. Dovrà essere un’arma affidabile, dunque fruibile su tutti i “device” attuali: i classici cellulari, pc e tablet, passando per gli smart watch, le smart tv, gli assistenti vocali, e soprattutto le cosiddette “connected car”, le auto di nuovissima generazione, dotate di wi-fi.

Tramontati da un pezzo i tempi dell’autoradio tradizionale (chi ricorda “mattoni” e frontalini?), oggi lo scenario resta quello dell’automobilista in cerca di conforto nel traffico con le voci amiche della radio preferita: e basterà scegliere l’app gratuita di Per, compulsare l’elenco, trovare la stazione del cuore e il gioco sarà fatto, grazie anche a un “motore ibrido” dell’applicazione che passerà automaticamente dalla Fm al Dab allo streaming, valutando di volta in volta il sistema più congruo per la ricezione. La trovata funziona, come ben sanno gli sviluppatori della Radio Player Worldwide, piattaforma nata sotto l’egida della Bbc, ai quali gli italiani di Per si sono rivolti per la licenza e in vista del consolidamento di un polo europeo cui hanno già aderito Germania, Svizzera, Belgio, Austria, Irlanda. I costruttori di auto sono operativi: Audi sta lavorando sui modelli che prevedano l’app di serie.

Non si tratta, però, di una mera strategia di innovazione strutturale, ma di un nuovo riscatto della Radio: che malgrado l’età veneranda resta il mezzo di comunicazione più agile, capace di rigenerarsi a ogni passaggio tecnologico, pur se gravemente minacciata dai padroni dello streaming. La potenza di fuoco di Spotify ha indotto gli operatori del settore a piegarsi al suo schema: Apple ha deciso di chiudere I-Tunes, le major non vendono più dischi, gli artisti vengono presi per fame. E gli ascoltatori, in stragrande maggioranza giovanissimi, si sono concentrati sulle playlist preconfezionate, dimenticando il valore empatico, dannatamente umano delle radio. Che in Italia, oggi, vantano una platea quotidiana di 34 milioni di ascoltatori. Metà del Paese. Talmente innamorati del mezzo che una volta si dannavano girando una manopola od orientando un’antennina come rabdomanti, pur di catturare quell’onda esoterica ma calda. Ora basterà una sola app per ritrovare tutte le voci dei dj e dei conduttori. E le canzoni che fanno memoria condivisa: in un tempo aureo, ci incantavamo con Mina o Battisti. Questa è l’estate dei tormentoni di Elisa & Carl Brave, J-Ax, Benji e Fede, Jovanotti, Tiziano Ferro, Salmo. Però anche loro, ascoltati alla radio, diventano molto più godibili che non dentro la gabbia gelida di una lista stilata nel buio del web.