Coppola, la vera storia dietro l’uscita del prof Sì Tav

La decisione del ministero delle Infrastrutture di rescindere il contratto con il professor Pierluigi Coppola, esperto della struttura di missione, continua a far discutere. La grande stampa ha presentato il “licenziamento” come una rappresaglia verso un esperto favorevole al Tav. Ieri ai giornali Coppola ha spiegato di aver ricevuto dal Mit “una mail che mi accusa di aver violato il codice di comportamento dei dipendenti pubblici”.

Coppola è l’unico della commissione analisi costi-benefici guidata da Marco Ponti a non aver firmato il dossier finale, che stroncava l’opera, diffuso a febbraio. I giornali titolarono “commissione spaccata”, anche se – chiarì il ministero – Coppola non aveva mai lavorato al dossier, salvo contestarne il risultato con una nota di 6 pagine (l’analisi di Ponti e compagnia è di 79 pagine). Nella sua nota il professore (al Mit già a i tempi di Graziano Delrio) contestava la metodologia usata da Ponti & C., a partire dal considerare come un costo le mancate accise per lo Stato pagate dai mezzi le cui merci si trasferiranno sulla ferrovia e di considerare tutti i costi totali dell’opera e non solo quelli a carico dell’Italia. Il dossier finì sul giornali, che spiegarono come – eliminando questi aspetti – Coppola arrivava a ribaltare l’analisi, che così diventava “positiva”, con tanto di risultato finale (400 milioni per il Corsera, 2,4 miliardi per il Sole 24 Ore etc.) Il problema, però, è che nessuno di questi dati compariva nella nota di Coppola. Il Mit lo ha accusato di non averli mai smentiti, danneggiando così il ministero.

Ottiene risarcimento da 900 euro ma ne paga 1500 di spese processuali

Ha dell’incredibile quanto successo a un lavoratore di Torre Annunziata, che per riservatezza chiameremo Antonio, nome di fantasia. Ha fatto causa alla sua azienda, in quanto riteneva di essere stato pagato meno del dovuto, e il giudice – sebbene solo parzialmente – gli ha dato ragione. Applicando però il codice di procedura civile, lo ha comunque costretto a pagare le spese legali del suo datore. Ne è venuto fuori un paradosso: l’impresa deve un risarcimento da 900 euro al suo addetto; quest’ultimo però deve sobbarcarsi 1.500 euro di costi del processo sostenuti dalla controparte.

A rendere possibile tutto questo è una riforma introdotta nel 2009. Visto l’esito assurdo generato, la Corte di Appello di Napoli, prima di emettere la decisione di secondo grado, ha inviato tutto alla Corte Costituzionale affinché dica se quella legge è compatibile con la Carta.

Da che cosa deriva la condanna al pagamento delle spese processuali? Prima di arrivare alla sentenza, il Tribunale di Torre Annunziata aveva predisposto una proposta di conciliazione: l’azienda avrebbe dato 2.500 euro al lavoratore per chiudere la vicenda con un accordo. Antonio, però, ne chiedeva 7.500 e perciò non ha accettato l’offerta. Durante il periodo alle dipendenze dell’impresa, si era occupato di ricevimento ordini, sistemazione della merce e vendita al dettaglio: undici ore al giorno, secondo il suo racconto, ma le buste paga erano inadeguate. Un’ingiustizia sopportata sotto minaccia di licenziamento. Il rifiuto dei 2.500 euro, però, si è rivelato un boomerang per due motivi. Il primo è che poi il giudice gli ha concesso solo 900 euro. E il secondo, diretta conseguenza dell’altro, è che gli ha imposto di restituire le spese legali. L’articolo 91 del codice di procedura civile, infatti, prevede questo: “Se (il giudice, ndr) accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta”. Con questa norma, il Parlamento voleva ridurre i costi della giustizia, incentivando le parti a mettersi d’accordo ed evitare lunghi procedimenti.

Secondo la Corte d’Appello di Napoli, però, nelle cause di lavoro diventa iniqua: nell’ordinanza, il presidente Antonio Robustella e l’ausiliare Carlo De Marchis ricordano che il lavoratore è il soggetto “economicamente debole” rispetto al datore. Questa disparità viene enfatizzata da quella norma, perché spinge la persona a rinunciare alla sentenza e ad accontentarsi della mediazione per paura di trovarsi a vincere la disputa ma a rimetterci comunque, come è successo ad Antonio.

Concorrenza strada-ferrovia, il tabù che spaventa la politica

Questo tabù riguarda la concorrenza strada-rotaia. Recita circa così: le ferrovie devono essere, in un modo o nell’altro, sussidiate perché fanno un servizio sociale e inquinano di meno. Tutte cose verissime, solo che il servizio più sociale oggi lo fanno gli autobus di lunga distanza: è lento, scomodo ma costa meno, pur essendo pesantemente tassato con pedaggi autostradali fenomenali e imposte sui carburanti tra le più alte del mondo. Lo usa davvero chi ha nel costo del biglietto il problema maggiore: studenti del Sud ed extracomunitari. Ma certo queste categorie non strillano molto, come sempre succede a chi ha poca visibilità mediatica. Strillano i pendolari ferroviari, e spesso hanno ragione, ma spessissimo no. Certo hanno molta presenza mediatica (oltre che sussidi, ed è difficile non collegare i due fatti). Non sono poi nemmeno tanto poveri: vanno a lavorare o a studiare nelle aree centrali delle città maggiori. È anche vero che il ferro inquina di meno; limitiamoci qui a ricordare che fuori città i trasporti su gomma pagano per questo motivo alla Stato uno scatafascio di soldi, e questi soldi li pagano anche molti pendolari che vivono e lavorano in tanta malora.

Sul tema inquinamento c’è da segnalare la scoperta di un importante rappresentante di Legambiente, svelata in televisione (L’aria che tira, su La7). Per rendere fattibile la famigerata Tav occorre proibire i camion su quella direzione. Ma siccome lì l’inquinamento è bassissimo e congestione sull’autostrada non ce n’è, sicuramente questo signore è convinto che dove questi problemi sono gravi, a maggior ragione i camion vanno proibiti. È una questione di coerenza e di ignoranza. Le proibizioni, anche quelle che possono avere dei benefici, hanno sempre un costo per la società, e quindi bisogna confrontare questo costo ai benefici (ambientali, in questo caso). Il calcolo è facilissimo: basta chiedere quanto un camionista, uno spedizioniere, un turista, chiederebbe per rinunciare al camion o alla macchina. Questo costo si chiama “costo-opportunità”, roba da prime lezioni di economia all’università. Verrebbero fuori dei risultati molto interessanti, anche come impatto sul Pil. Se poi si sostenesse che bisogna offrir loro migliori alternative ferroviarie, gli impatti sul Pil sarebbero ancora più interessanti.

Ma assumiamo pure (eroicamente) che il quadro della concorrenza strada-rotaia sia ancora squilibrato in favore della strada: occorre ricordare che ci sono in gioco anche i pedaggi da pagare per usare le infrastrutture. Quelle che si fanno davvero concorrenza sono autostrade e ferrovie. Oggi per le autostrade si sa che gli utenti pagano pedaggi fantastici (anche nel senso che generano profitti fantastici), che coprono tutti i costi di esercizio e gran parte dei costi di investimento. E per le ferrovie invece gli utenti non pagano nemmeno tutti i costi di esercizio.

Perché questa abissale differenza di tariffe? La Commissione Europea, tra l’altro, prescrive che, giustamente, i fenomeni di congestione, incidenti e inquinamento che il trasporto stradale genera vanno colpiti direttamente, cioè facendo pagare i danni o ponendo vincoli ai veicoli. Le infrastrutture sono innocenti, non generano esternalità (se non nella fase di costruzione, ma queste sono simili per i due modi).

La differenza la si spiega con un semplice conto. Ricordiamo che i costi di costruzione sono fissi, non cambiano con il traffico. Ora, immaginiamo per una ferrovia nuova un costo di 60 milioni al km, che richieda per l’ammortamento ricavi del 8% all’anno (valore non irragionevole, tra capitale ed interessi, che abbiamo preso da quelli per le autostrade). Deve dunque incassare 5 milioni al Km all’anno. Immaginiamo che transitino tanti treni, 100 al giorno, cioè 36.000 all’anno. Vengono 140 Euro al Km per ogni treno che passa. Immaginiamo anche treni piuttosto pieni, per stare sul sicuro: 400 passeggeri in media. Ogni passeggero pagherebbe 0,35 euro al km più di quanto paga adesso. Su un viaggio medio, diciamo di 100 km, la tariffa aumenterebbe di 35 Euro. Cioè, sempre semplificando, raddoppierebbe. Ma come reagirebbero i passeggeri? Anche qui, siamo prudenti: diminuirebbero solo del 25%, cioè assumiamo una elasticità modesta. Abbiamo visto però che i costi da pagare per l’ammortamento sono fissi: quindi quei 300 passeggeri che rimangono sul treno (400 – il 25%) adesso dovrebbero pagare 47 euro in più, quindi i passeggeri diminuirebbero ancora, e più rapidamente di prima (l’elasticità non è costante). E così via. Di fatto, non viaggerebbe più nessuno (default finanziario del sistema).

Cioè, quello che sembra sostenibile per le autostrade, non lo è per le ferrovie. Perché? perché gli utenti delle autostrade, pur già giustamente tassatissimi per tutelare l’ambiente, manifestano una “disponibilità a pagare” molto alta, che in generale copre anche i costi di investimento, e spesso molto di più. Se uno è disposto a pagare molto caro un servizio (il trasporto stradale) è perché gli serve moltissimo, molto più delle alternative che potrebbe avere.

EasyJet, una multa da 3 milioni per contributi non pagati

EasyJet ha ricevuto una multa di circa 3 milioni di euro dall’Ispettorato nazionale del lavoro per non aver pagato i contributi su somme che venivano erogate erroneamente a piloti e assistenti come “indennità di volo”. Le violazioni – commesse tra l’1 maggio e il 31 dicembre 2014 – sono state riscontrate dal Gruppo ispettivo centrale durante le verifiche iniziate nel marzo 2019.

Gli accertamenti hanno riguardato la posizione di circa mille lavoratori di EasyJet con la qualifica di piloti ed assistenti di volo. Al centro dell’indagine gli istituti della contrattazione collettiva di settore ma, si legge ancora nella nota, “una particolare attenzione è stata posta sulla reale natura delle indennità corrisposte in busta paga”.
Dalle verifiche, che al momento hanno riguardato il solo periodo del 2014 e che proseguiranno per le annualità successive, sono dunque emerse “violazioni in materia previdenziale e assicurativa per circa 500 unità di personale” con conseguente addebito per la compagnia low cost di circa 3 milioni di euro.

L’attività di vigilanza nel settore del trasporto aereo ha già evidenziato, anche nel recente passato, alcune problematiche sul rispetto della disciplina in materia di lavoro e legislazione sociale e proseguirà anche nei confronti di altri vettori. Una situazione simile, come svelato da Ilfattoquotidiano.it, aveva già riguardato Ryanair, che era stata multata per oltre 9 milioni. “Siamo sorpresi dal contenuto del provvedimento ispettivo – ha detto Easyjet in una nota – Siamo convinti della correttezza del nostro operato e pertanto faremo ricorso nelle sedi opportune confidando che la nostra interpretazione sarà confermata in giudizio”.

Gela, la raffineria diventa bio ma funziona a olio di Palma

Bonifiche a rilento, una bioraffineria che però punta sull’olio di palma, una corsa continua all’estrazione delle risorse fossili. “A Gela l’inquinamento e i danni alla salute sono paragonabili a Taranto” ha detto ieri il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, durante un blitz della nave Goletta Verde – con tanto di oranghi – per denunciare i problemi non ancora risolti dell’area del polo petrolchimico siciliano dell’Eni. “Ad oggi le bonifiche del territorio procedono a rilento – spiega Legambiente – e a pagarne lo scotto sono i cittadini”.

Lo sfruttamento del polo di Gela è iniziato negli anni Cinquanta e in parte ancora in corso (il Protocollo d’intesa del 2014 prevede investimenti nelle attività upstream per 1,8 su 2,2 miliardi di euro). Il piano di disinquinamento per il risanamento ambientale risale al 1995, nel 1998 Gela diventa Sito di interesse nazionale (Sin) del Programma nazionale di bonifica. Il Piano di risanamento prevede 47 interventi, di cui 14 a carico delle aziende e 33 a carico dello Stato. Secondo i dati del Ministero dell’Ambiente, a dicembre 2018 erano state caratterizzate tra il 98 e il 100% delle aree, presentati tra il 15% (terra) e il 54% (falda) progetti di messa in sicurezza e bonifica, approvati tra il 13 (terra) e 54 (falda) %. Nessuno, però, è stato concluso. A rallentare tutto, anche i guai giudiziari: nel 2002, il caso del sequestro della centrale termoelettrica alimentata con pet-cok (fu superato con un intervento dell’allora Governo Berlusconi: il pet-coke fu trasformato da rifiuto a combustibile e la raffineria è stata spenta nei primi mesi del 2015); poi nel 2019, quando la procura di Gela ha disposto il sequestro degli impianti di Trattamento acque di falda e quelli di acque di scarico, nonché di 11 pozzi della rete di monitoraggio, nell’ambito di un’indagine ambientale per accertare la possibile contaminazione della falda. E se fino a un paio d’anni fa il gruppo Eni aveva condotto nel sito di Gela una politica di dismissione, recentemente si era registrata un’inversione di tendenza, con investimenti per il risanamento e lo sviluppo di parte dei suoi impianti e con un progetto di riconversione industriale della raffineria che non tratterà più petrolio ma biodiesel estratto da bio-oli. L’Eni ha investito nella nuova bioraffineria – che sarà attivata definitivamente a settembre – già 275 milioni, 3 milioni per l’impianto di trattamento dei rifiuti organici che trasforma i rifiuti in olio. Problema: al momento non c’è sono abbastanza olio per soddisfare la produttività dell’impianto (668mila tonnellate) e il rischio è che si ricorra all’olio di Palma importato. Il calcolo è che gli oli di frittura recuperati non bastino, così come gli olii vegetali prodotti dal nuovo impianto o quelli dervivanti dalla liquefazione dei grassi animali. Senza contare che l’organizzazione di nuove raccolte differenziate città per città richiede tempo e la potenzialità teorica di recupero è sull’ordine di grandezza delle 200 mila tonnellate.

“L’Eni ha detto a Legambiente di aver importato nel 2018 212mila tonnellate di olio di palma per la bioraffineria di Porto Marghera”. Secondo l’associazione, nel 2018, il 53% di tutto il biodiesel (di tutte le compagnie) commercializzato in Italia è derivato da olio di palma. “E a Gela – si chiede il presidente di Legambiente – con quali materie prime nel 2019 si produce biodiesel?” L’olio di palma e i suoi derivati sono classificati ormai anche dall’Europa, nella nuova direttiva rinnovabili, come coltivazione a rischio per le foreste tropicali e la biodiversità. Al Fatto, Eni fa sapere che “la Bioraffineria di Gela è in fase di avviamento ed essendo questa una fase delicata utilizzeremo – perché la qualità è migliore- solo olio di palma di provenienza certificata, che non deriva da deforestazione e non nuoce alla biodiversità”. Rassicurazione che non convince gli ambientalisti. “Non sempre la certificazione corrisponde allo stato dei fatti – conclude Ciafani – . Per noi, ben vengano le bioraffinerie per sostituire il petrolio purché non si usi l’olio di palma”.

Bio-On, i conti non tornano per la start up da 1 miliardo

Si chiamano “Unicorni”, quelle start up che si quotano in Borsa e arrivano a superare il miliardo di euro di capitalizzazione, sono quelle che ce l’hanno fatta, che vengono paragonate a Uber o alla Apple di Steve Jobs. L’Italia ne ha viste nascere un paio, l’azienda di abbigliamento on line Yoox (ora non più quotata dopo l’acquisizione da parte di Richemont a maggio 2018) e una società che si occupa di bioplastiche a Bologna, la Bio-On. Ma i bilanci di quest’ultima, la Bio-On, sollevano parecchie domande.

Il report.Il fondo americano Quintessential, specializzato nell’identificare società con conti irregolari, ha pubblicato un report frutto di mesi di lavoro dal titolo pesante: “Bio-On Spa: Una Parmalat a Bologna?”. Il report, che si basa in gran parte sull’analisi incrociata di documenti pubblici, si è diffuso alla velocità della luce tra gli operatori finanziari perché Quintessential finora ha sempre colpito e affondato i suoi bersagli: società come Globo e Folli Follie in Grecia hanno perso l’intera capitalizzazione, dopo le inchieste del fondo Usa, Ability in Israele il 92 per cento. E così via. In sintesi: Bio On non sarebbe una start up con un futuro promettente, ma un’azienda senza prospettive che presenta bilanci in attivo soltanto grazie a operazioni incrociate con delle società di cui è azionista e alle quali cede tecnologia in cambio di soldi che in diversi casi non vengono versati, in una ragnatela di conflitti di interesse che coinvolge anche l’unica banca che produce studi sul titolo, la Finnat. Soprattutto: Bio-On non ha di fatto mai prodotto fatturato reale, dichiara un utile di 33 milioni nel 2018 ma nello stesso anno ha bruciato cassa per 21 milioni. Quali siano i clienti, al netto delle joint venture create dalla stessa Bio-On e gestiti dai suoi manager, dai bilanci non si capisce.

GLI ANNUNCI. “Bio-On nasce nel 2007 per operare nel settore delle moderne biotecnologie applicate ai materiali di uso comune per dare vita a prodotti e soluzioni completamente naturali, al cento per cento ottenuti da fonti rinnovabili o scarti della lavorazione agricola”, si legge sul sito aziendale. Già un anno fa Franco Velcich su Business Insider sollevava dubbi: “Sul titolo non ci sono studi di broker, né italiani né stranieri, a parte quello di Banca Finnat, l’istituto che ha accompagnato Bio-On alla quotazione”. E ancora: “È impossibile trovare termini di paragone sensati. Non si conoscono società quotate impegnate nella stessa attività di Bio-On”. Eppure Bio-On continua ad annunciare partnership con multinazionali come Unilever e a costituire joint venture in un’attività che pare molto dinamica e in tutti i campi di frontiera, dalla pulizia dei mari alle creme solari alla diagnostica medica. Ha anche costruito a Bologna “il primo impianto industriale al mondo per produrre PHA”.

L’IMPIANTO. Questi PHA sono “polidrossialcanoati (plastica veramente biologica) e relative applicazioni strategiche a 360° (packaging generico, packaging alimentare, design, abbigliamento, automotive)”, si legge sul sito. E qui cominciano i problemi: l’impianto doveva costare 15 milioni, alla fine ne è costati 40,7. Secondo il bilancio 2018, i costi imprevisti sono dovuti alla scelta di “riprofilare l’investimento” per sfruttare nuovi brevetti e tecnologie sviluppate dopo l’inizio dei lavori. L’impianto deve produrre 1.000 tonnellate all’anno, ma se si confrontano i costi di Bio-On con i costi sostenuti dalla migliore società del settore, Novamont, i conti non tornano. Novamont ha speso 239 milioni di euro ma per una capacità produttiva di 80.000 tonnellate annue. Quindi Bio-On si trova ad avere un costo per ogni tonnellata di capacità produttiva di 44 euro contro i meno di 3 di Novamont.

Il bilancio 2018 di Bio-On lascia intendere che l’impianto sarà in realtà soltanto una vetrina, cioè serve a “creare uno standard id prodotto di riferimento di mercato” per amplificare “le richieste di licenze da parte dei futuri clienti e per fornire i servizi complementari all’attività di licensing (es. training dei clienti)”. La dimensione dell’impianto, scrive la stessa Bio-On “non potrà servire i futuri volumi di mercato (confermando il tipo di business non industriale di Bio-On)”. In pratica la società ha costruito uno stabilimento produttivo costato più del doppio del previsto non per produrre davvero, ma per far vedere quello che sa fare. Eppure, nel 2014, al momento della quotazione in Borsa, annunciava: “Per il 2016 è prevista una produzione di 50mila tonnellate grazie a stabilimenti già operativi in Francia, Germania e Repubblica Ceca e a uno in via di attivazione in Italia”. Se una produzione ci sia, oggi, non è chiaro. I dipendenti restano pochi: 44.

PARTITA DI GIRO. Quello che conta sono la tecnologia innovativa e i brevetti, è la linea del fondatore e presidente con pieni poteri Marco Astorri. Ma la rete di joint venture che dovrebbe valorizzare le idee al centro del business di Bio-On sembra avere qualche criticità. Intanto quasi tutte hanno sede nello stesso indirizzo bolognese – via Santa Margherita al Colle 103 – di Bio-On. E poi hanno come amministratore unico il solito Marco Astorri o, in alternativa, Guido Cicognani (che si fa chiamare “Guy”), vice presidente di Bio-On e, con Astorri, socio della holding Capsa che controlla Bio-On con il 48 per cento. Quanto alle attività della joint venture, le stranezze sono parecchie. Prendiamo Eloxel, nel campo della “elettronica organica per l’elettronica”, partecipata (da gennaio 2019) al 50 per cento dalla celebre azienda di design di mobili Kartell della famiglia Luti. Nel 2018 i soci aumentano il capitale di Eloxel a 8 milioni di euro. Quei soldi servono alla Eloxel a pagare a Bio-On diritti di concessione e sfruttamento di tecnologie proprietarie. Bio-On cede – in pratica a se stessa – diritti per 6 milioni e riceve una partecipazione di 4 milioni. Astorri e Cicognani contrattano con se stessi, ricoprendo gli incarichi di vertice sia in Bio-On che in Eloxel.

Lo stesso schema si trova in un’altra joint venture, la Zeropack: nel 2019 c’è un aumento di capitale, la metà lo versa la Rk Zero (altra azienda del settore bioplastiche), il resto Bio-On. Bio-On cede 10 milioni di diritti su tecnologia alla propria controllata e riceve in cambio una partecipazione da 6,5 milioni. Liphe è un’altra di queste scatole societarie della galassia per sviluppare prodotti “per la protezione del cavo orale (oral care)”, costituita nel 2017. Ha immobilizzazioni, si suppone brevetti o altro, per 6 milioni di euro che non si capisce bene come ha pagato, visto che non risulta avere fatturato e ha chiuso il 2018 in rosso di 15.000 euro. Ma, sorpresa, nell’azionariato di Liphe c’è anche la banca Finnat della famiglia di Giampiero Nattino, protagonista di mille intrecci romani tra finanza, politica e Vaticano. La Finnat è anche azionista di un’altra joint venture, la Aldia. Ma questo non viene mai specificato nei report di Finnat che consigliano agli investitori di comprare i titoli di Bio-On.

Molte delle promesse di Bio-On agli investitori sono rimaste sulla carta. Nel 2015, per esempio, i giornali locali e nazionali danno ampio risalto alla joint venture tra Bio-On e il gruppo Maccaferri, nasce la Sebiplast. Lo scopo è realizzare “un maxi-investimento da 55 milioni di euro per costruire il primo impianto al mondo per la produzione di plastica biodegradabile da glicerolo, un sottoprodotto del biodiesel”. Oggi la Maccaferri, dopo una profonda crisi, è in concordato preventivo. Di quel progetto il bilancio 2018 di Bio-On non fa alcuna menzione. Il valore della produzione per Sebiplast è stato 0 nel 2017 e 5.049 euro nel 2018.

I CREDITI E LA CASSA. Questo intreccio, che si replica per nove diverse joint venture, determina nel bilancio di Bio-On 33 milioni di euro di crediti verso le partecipate su 59 totali. Queste joint venture non si sa se e quando potranno onorare il debito, visto che ad oggi hanno fatturati minimi e i soci che dovrebbero rimborsarli sono la stessa Bio-On e qualche raro partner esterno. La cifra, 33 milioni, è la stessa dell’intero utile di esercizio dichiarato dalla Bio-On a fine 2018, maturato però bruciando cassa per 20 milioni di euro in un anno. Sulla carta il fatturato cresce, ma i soldi non entrano davvero. E le riserve di cassa e i bond a coprire questo flusso negativo sono soltanto 18 milioni di euro, quindi bastano per meno di un anno se le cose non cambiano.

I manager sembrano consapevoli del problema e nel bilancio 2018, approvato a giugno scorso, assicurano di aver già incassato 12 milioni di euro nel 2019 sulla base di accordi siglati a fine 2018 e di aspettarsi una “regolarizzazione dei flussi di cassa” grazie all’esaurimento di “speciali dilazioni” – concesse dopo la quotazione in Borsa nel 2014 a non si capisce bene quali clienti e neppure su quali basi – che hanno ritardato l’afflusso di ricavi dovuti alla cessione di licenze sulle tecnologie proprietarie.

Il Fatto Quotidiano ha chiesto – via mail e via sms – a Bio-On di rispondere ad alcune domande, ieri sera. Ma non è arrivata risposta.

Chi ha ragione sui voti tra scuola e Invalsi

Strano Paese l’Italia. Tutti invocano il merito, nessuno sa cosa sia. Lo dimostra il caso dell’Invalsi, cioè quel tentativo di misurare in modo uniforme la preparazione degli studenti italiani affidato dal 2007 all’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione. Il sistema è criticabile e criticato, ma il dibattito che si è aperto ieri dimostra che il primo problema è come funziona la testa degli italiani. Il ministero dell’Istruzione ha pubblicato ieri i voti degli esami di maturità 2019. E i titoli dei siti, sia dei giornali che del mondo della scuola, erano tutti dello stesso tenore: “Maturità e Invalsi 2019, due carte d’identità diverse (e contraddittorie) per gli studenti italiani”. Con commenti tipo questo: “La pubblicazione dei risultati Invalsi avrà come effetto paradossale che lo stesso studente in alcuni casi si ritroverà in mano due carte d’identità scolastiche con ‘altezza’ ‘peso’ e ‘colore degli occhi’ non coincidenti”. Ma è proprio lo scopo dell’Invalsi introdurre una misura oggettiva per evitare che il diplomato di una scuola che regala i 100 e lode e quello di un istituto severissimo abbiano l’errata percezione di essere sullo stesso piano. Ma in Italia ci si preoccupa più della delusione del diplomato a pieni voti del Sud che si vede bocciato dall’Invalsi e non del fatto che, a quanto pare, alcune scuole sono troppo poco esigenti verso i loro alunni.

Mentre noi ci arrovelliamo su questi assurdi dibattiti (e del valore legale del titolo di studio vogliamo ancora parlarne?), il mondo del lavoro si è già evoluto. Per molte professioni, specie quelle tecnologiche, non contano laurea o diploma ma certificazioni standardizzate e internazionali come quelle di Salesforce (la piattaforma di gestione dei clienti) o Agile (per il project manager). Non sapete cosa sono? Il problema è vostro, le aziende lo sanno benissimo. E del voto della maturità, o di quello di laurea, se ne fregano. A differenza dei giornali e del chiacchiericcio web.

Unicredit, la “cura” di Mustier la pagano solo i dipendenti

Vendere i gioielli della Corona per fare cassa; tagliare pesantemente il personale e cedere a più non posso sofferenze e incagli per pulire il più possibile il bilancio dalle scorie. Con un grande assente: i ricavi, che languono. Se si analizzano i poco più di 1000 giorni della gestione di Jean Pierre Mustier alla guida di UniCredit la fotografia che emerge è questa.

L’ex parà francese ed ex capo dell’investment banking di Société Générale ha appena chiuso il blitzkrieg in due tappe della cessione del 35% di Fineco, la regina dell’asset management portando a casa oltre 2 miliardi cash. Appena insediato sulla tolda di comando della banca, nel 2016, fu lui a concretizzare l’uscita dai gioielli Pekao e da Pioneer. Altri due pezzi pregiati che hanno portato nelle casse di UniCredit un bottino di 7,4 miliardi. In fondo, dopo oltre 4 aumenti di capitale e perdite cumulate dal 2008 per oltre 20 miliardi, la banca tornava a incassare denaro anziché chiederlo ai suoi stremati soci. Con un prezzo da pagare però. Privarsi per sempre di asset redditizi. Ma evidentemente Mustier ha sempre pensato ad altro.

Il suo obiettivo principe era ridare solidità finanziaria al gruppo, rendere UniCredit una banca di nuovo appetibile per il mercato sul piano della forza patrimoniale. Obiettivo certo riuscito con le agenzie di rating che hanno di recente alzato la pagella di affidabilità del gruppo. Obiettivo che ne portava con sé un altro strettamente correlato: pulire il più possibile il bilancio dalla zavorra dei crediti malati. Anche qui vendendo a più non posso, a prezzi anche molto bassi cumuli di sofferenze. UniCredit come riporta Moody’s “ha abbassato lo stock di Npl, scesi a 37,6 miliardi di euro del primo trimestre 2019 dal picco del 2014, pari a 84,4 miliardi”. Il tutto condito con un recupero di redditività. Dopo il buco da oltre 11 miliardi del 2016, Mustier è riuscito a riportare in utile la banca con profitti netti cumulati nel biennio 2017-2018 per oltre 9 miliardi. E con un ritorno sul patrimonio che per la prima volta dopo anni supera il costo del capitale. Tutto bene per il mercato finanziario. Musica per le orecchie degli investitori.

Ma la rivoluzione dell’ex parà è davvero tutta e solo finanziaria. La banca infatti è dimagrita pesantemente sotto la sua guida, che non fatto altro che proseguire, acuendola, la cura dimagrante dei suoi predecessori. A pagare il prezzo sono stati i lavoratori. Solo con il suo piano triennale Transform, Mustier ha già lasciato a casa 14.700 dipendenti con 950 sportelli chiusi a livello globale. Oggi i dipendenti sono 86mila (di cui almeno 40mila in Italia); erano 100mila al suo arrivo e addirittura superavano i 140mila nel 2013. E ora come se non bastasse le indiscrezioni rivelate da Bloomberg su un nuovo taglio secco di 10mila dipendenti (soprattutto in Italia) previsti nel nuovo piano industriale che sarà presentato a dicembre. La banca ha reagito con un “no comment”, ma se così fosse sarebbe l’ennesima conferma che il modello di Mustier è quello di fare risultati più con il taglio dei costi che con lo sviluppo dei ricavi.

I sindacati, Fabi in testa, hanno reagito con vigore a questa nuova doccia fredda. Ne hanno ben donde. La banca ha oggi un rapporto tra costi e ricavi poco sopra il 50%, un livello quasi di eccellenza non solo in Italia ma anche in Europa. Non c’è nessuno squilibrio sul lato ricavi-costi. Piuttosto è qui che Mustier, che pare ossessionato solo dall’efficienza (peraltro già conseguita), non ha dato grande segno di sé. I ricavi della banca sono oggi lontani anni luce da quelli pre-crisi. Nel 2009 quelli totali erano di oltre 27 miliardi, oggi sono poco sotto i 20 miliardi. Del resto la banca ha tirato il freno sui prestiti. I volumi di credito erogato sono scesi di oltre 30 miliardi dal 2013. E se non presti fai meno margine d’interesse e rimangono solo i tagli.

Il risultato di gestione industriale è stato ottenuto dai vari Mustier, Ghizzoni e predecessori grazie al taglio dei costi, mentre i ricavi calavano. Solo negli ultimi 6 anni i costi operativi sono scesi di oltre 4 miliardi. Il costo degli 86mila dipendenti vale oggi solo 6 miliardi, il 30% del monte ricavi, certo non una cifra insostenibile. In più va detto che la pulizia di bilancio ha portato e porterà a sempre minori svalutazioni dei crediti che consentono a Mustier, che conta su 9 miliardi di margine industriale, di portare a casa un utile netto che a fine 2019 replicherà in meglio il già buon risultato del 2018 (3,9 miliardi di utili) con 4,7 miliardi di profitti netti stimati. Vista così non si capisce tutta questa voglia di tagliare dell’ex parà. Tra l’altro l’accetta sarà rivolta all’Italia, che oggi vanta, dopo anni di crisi, una profittabilità migliore delle attività in Germania o in Russia. Forse l’obiettivo recondito di Mustier è un altro. Sottaciuto, sminuito, minimizzato ma sempre presente: fare di una Unicredit snella sui costi, forte patrimonialmente e ripulita dalle sofferenze il deus ex machina di una fusione paneuropea (leggi Commerzbank e/o Société Générale) dove la banca di Piazza Cordusio non sia preda ma predatore. In fondo Mustier viene dalla finanza e della grande finanza vuole essere il protagonista. Tanto il costo lo pagheranno, come hanno finora pagato, i lavoratori.

La Guardia Costiera della Libia sequestra peschereccio italiano

Abbordato al largo delle coste libiche, fermato e quindi sequestrato. Un peschereccio italiano, partito dalla Sicilia, è stato sequestrato da una motovedetta libica nel Golfo della Sirte. Lo ha reso noto la Farnesina, che ha spiegato di essersi subito interessata al caso. “Appena appresa la notizia il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ha dato istruzioni all’ambasciatore d’Italia, Giuseppe Buccino, di adoperarsi prontamente con la massima efficacia al fine del corretto trattamento e di un rapido rilascio dei membri dell’equipaggio e dell’imbarcazione, costretta a dirigersi verso il porto di Misurata”. Non sono ancora chiare le ragioni del sequestro, “verosimilmente legate ad attività di pesca, in acque peraltro definite ad ‘alto rischio’ e dunque sconsigliate”, aggiunge il Ministero. Dopo un primo momento di preoccupazione in cui si erano perse le tracce dell’imbarcazione, si è saputo che il motopesca si è diretto verso il porto di Misurata, scortato dalle motovedette libiche. A quanto spiegato dal sindaco di Mazara del Vallo (Trapani), Salvatore Quinci, queste fanno capo al governo riconosciuto come interlocutore con cui la Farnesina ha già avuto contatti.

Lo scandalo della coop Cmc Il Kenya: “Arrestare l’Ad”

Il 14 luglio 2015 l’allora presidente del Consiglio Renzi arrivò tardi, alla residenza dell’ambasciatore italiano a Nairobi. Ad aspettarlo, una nutrita delegazione di connazionali, tra cui Claudio Descalzi, presidente Eni, Francesco Venturini, ad di Enel Green Power, e Francesco Macri, ad di CMC. Quella sera, Renzi annunciò la firma di un contratto di circa 300 milioni di euro tra la Cmc di Ravenna e il governo del Kenya per la costruzione di tre dighe: a Itare, Kimwarer e Arror. Tre impianti che avrebbero dovuto migliorare la distribuzione di risorse idriche di una regione che ospita il 40% della popolazione keniota.

Dopo quattro anni, e lunghe indagini, sono stati arrestati il ministro delle Finanze keniota Henri Rotich e il suo braccio destro Kamau Thugge, con l’accusa di tentata frode e abuso d’ufficio. Emesso anche un mandato di arresto per corruzione – secondo i media locali e Reuters – per il nuovo ad di Cmc Paolo Porcelli, al tempo direttore costruzioni Estero e direttore per l’Africa australe per il colosso delle cooperative. Nonché per i responsabili italiano e keniota della joint venture Itinera, siglata da Cmc con il gruppo Gavio. La Cmc in una nota precisa di “non essere stata informata né di aver ricevuto alcuna comunicazione ufficiale dalle autorità keniane sulle decisioni assunte e riportate dalla stampa”. E aggiunge: “Cmc è certa della correttezza dell’operato dell’azienda e dei suoi rappresentati”.

Secondo le accuse, il progetto delle dighe, sostenuto dal vice presidente William Ruto, avrebbe visto sostanziosi movimenti di fondi dal Kenya verso l’Italia, per il versamento della garanzia di Stato sottoscritta tramite la Sace, la quale poi, tramite Banca Intesa e Bnp Paribas Fortis, avrebbe fatto transitare verso il Kenya i fondi necessari per l’inizio dei lavori. Ma finora nemmeno un piccone ha scalfito il terreno. Mentre l’ammontare della commessa – all’origine di 304 milioni di euro – è lievitata sino a circa 600 milioni.

Parte dei fondi – secondo i media locali – pare sarebbe servita in parte per l’acquisto di circa 50 veicoli, in maggioranza Suv d’alta gamma, e di generi alimentari, dal vino agli alcolici. Circa 20 milioni di euro sarebbero quindi rimasti nelle tasche di numerosi esponenti politici kenioti e, secondo la pubblica accusa rappresentata da Noordin Haji, anche nelle mani di italiani rappresentanti la Cmc in Kenya, Sudafrica e altrove.

Dal momento in cui i fondi erano stati approvati nel 2015 verso Sace, Cmc ha stanziato parte dei fondi necessari secondo il piano di finanziamento (e di fatturazione) stabilito: fondi che sarebbero solo “transitati” dal Kenya verso un percorso tracciato dalle autorità italiane e inglesi verso il Regno Unito, e poi di nuovo in Italia. Si parla di circa 200 milioni di euro che avrebbero preso questo tortuoso e inspiegabile cammino.

La costellazione di imprese affiliate a Cmc che hanno avuto un ruolo nell’esecuzione del contratto è anche interessante: Cmc South Africa Ltd. risponde alla gara d’appalto, il consorzio Cmc-Itinera firma il contratto, Cmc Itinera JV Kenya Branch emette le fatture, e Cmc Ravanna incassa gli anticipi versati dal Tesoro kenyota.

In parallelo, in Italia, nel 2018 Cmc avviava in Italia la procedura di concordato preventivo. I torbidi movimenti finanziari venuti alla luce dall’inchiesta potrebbero lasciar presagire lo spettro di una bancarotta fraudolenta, laddove mediatori inglesi e altri presenti sul territorio africano, operanti per conto della Cmc, potrebbero aver “unto” molti ingranaggi dell’amministrazione keniota per trarre un vantaggio personale, senza muovere un solo camion di terra. Il capo della polizia keniota George Kinoti, intanto, ha affermato che i pubblici ministeri hanno chiesto aiuto alle autorità britanniche e italiane. Proprio a margine dell’incontro che si è svolto a Roma il 12 luglio scorso – il vertice tra autorità italiane e keniote sul rapimento della giovane Silvia Romano – si sarebbe discusso dell’inchiesta per corruzione a Nairobi.