Borrelli, il valore dell’esempio e il processo Alunni

Certo, il pool. Certo, la stagione di Mani pulite che tanto ha segnato la storia della Repubblica. Ma non solo. La figura di Francesco Saverio Borrelli è stata esemplare per molti versi, soprattutto perché – come molti hanno scritto – se quel passaggio politico aveva bisogno di un simbolo, Borrelli era senza dubbio uno dei migliori in circolazione. E dei più lungimiranti. Tra i ricordi della figlia Federica (al Corriere) c’è una frase che è quasi una profezia: ora ci chiamano eroi, tra poco ci accuseranno di avere rovinato il Paese. Ha colpito i cronisti la presenza ai funerali di Sergio Cusani, anche lui simbolo dell’inchiesta Tangentopoli, ma dalla parte degli imputati. Alla cerimonia ci è andato – ha scritto ieri Ferruccio Sansa sul nostro giornale – con in tasca una lettera consumata, poche righe in cui Borrelli gli esprimeva cordoglio e vicinanza per la perdita della sua mamma. Fuori dalla Basilica di Santa Croce c’era un signore con un cartello, sopra tre volte la scritta “Resistere”, per via di quell’appello all’indipendenza della magistratura che oggi non ha perso nulla della sua attualità e urgenza.

Quel resistere però non era solo uno slogan, e Borrelli nei suoi 47 anni di servizio lo ha dimostrato più di una volta. Opponendosi, per esempio, ai decreti Conso e Biondi, che tentavano di vanificare i risultati delle inchieste del pool. Il valore dell’esempio consiste anche nel mostrare che qualcosa può essere fatto concretamente e non solo a parole. In una vecchia intervista al nostro giornale lo aveva spiegato benissimo Piercamillo Davigo, raccontando una vecchia storia di resistenza che ha come protagonista proprio Borrelli. Nel 1978 era presidente della VIII Sezione penale del Tribunale di Milano. La procura mandò Corrado Alunni – brigatista fondatore di Prima linea – a giudizio per direttissima: era l’epoca in cui non si riuscivano a fare le Corti d’Assise perché i giudici popolari si davano malati. E perfino qualche magistrato lo faceva. “Borrelli era il presidente della sezione davanti alla quale Alunni fu tradotto per essere giudicato. Ma era a casa con una gamba ingessata. Rientrò in servizio, presiedette il processo, condannò Corrado Alunni a 12 anni. Una pena severa e a quei tempi una sovraesposizione”, spiegò Davigo. Che aggiunse: “Disse Borrelli: se si devono correre dei rischi, li deve correre il presidente di sezione e non qualcun altro al suo posto. Io pensai: questo è un uomo coraggioso e con il senso delle istituzioni”.

Leggendo i giornali di questi ultimi giorni – al di la delle polemiche dei soliti bastian contrari per principio, e nonostante l’innegabile italica tendenza al santino – non si poteva che provare nostalgia. Non solo, ma anche perché i giudici che in queste settimane sono al centro delle cronache sembrano così lontani da quegli esempi. Così poco consapevoli di esercitare una funzione costituzionale e così noncuranti dei danni che alcune disinvolte condotte possono procurare al sistema democratico… Sono venticinque anni che periodicamente si riaccende la polemica sulla presunta “guerra” tra politica e magistratura. Una sciocchezza che mette sullo stesso piano chi indaga e chi è indagato, come se l’azione penale non fosse obbligatoria. La classe politica ha dato più volte il cattivo esempio (a volte il cattivissimo esempio) e non sempre il sistema ha risposto con gli anticorpi che una democrazia dovrebbe avere. Oggi la situazione è più allarmante perché sono alcune toghe, con comportamenti inopportuni che in alcuni casi forse sono anche reati, ad aver rafforzato la posizione di chi vorrebbe essere più uguale davanti alla legge e fare a meno di una magistratura indipendente. Una colpa inemendabile.

Zingaretti amministra un condominio rissoso per brevità chiamato Pd

Se è vero che “Dio acceca chi vuole perdere”, come diceva (pare) il profeta Isaia, nella politica attuale, e segnatamente nel Pd, ci sono molti Ray Charles, purtroppo senza il senso del blues (e del ridicolo). Insomma, mentre il governo traballa, Conte va in Parlamento a parlare di affaracci russi al posto di chi dovrebbe andarci veramente (Salvini), si allarga il solco paraideologico della Tav, volano sberle, impera il battibecco e si fa la guerra a ministri del proprio stesso esecutivo, il principale partito d’opposizione non trova di meglio che prendersi a schiaffoni da solo, minacciare defezioni e scissioni, mandarsele a dire attraverso i giornali, i tweet, i selfie e magari addirittura, chi lo sa, si telefonano pure.

Ieri il derby era Franceschini contro Renzi. Uno a dire che per fare opposizione bisogna entrare nelle contraddizioni del governo, allargare le crepe nei muri della maggioranza, insomma accorrere con taniche di benzina dove le scintille tra Lega e 5Stelle producono incendi. L’altro, reduce da un viaggio in America dove è andato a parlare di futuro (e te credo, il passato non è entusiasmante), che risponde piccato con il solito #Senzadime, cancelletto più nove lettere, supporto teorico della luminosa strategia dei popcorn, quella che ha portato la Lega al governo, e poi al 36 per cento, e poi… Uno scontro tra titani, anche con colpi sotto la cintura, tipo Renzi che rimprovera a Franceschini i suoi insuccessi, che detto da lui è come se i tedeschi prendessero in giro i giapponesi perché hanno perso la guerra mondiale.

Guerriglia interna, dunque. Come la mozione di sfiducia per Salvini, lanciata senza concordarla con il segretario (cioè una corrente che prende un’iniziativa parlamentare), come il continuo stillicidio di dichiarazioni che vanno dall’ironico all’ostile. Aggiungiamo, più per dare colore alla scena che per sostanza politica, l’eterno penultimatum di Carlo Calenda, che anche lui minaccia di mettersi in proprio e uscire dalla ditta se si farà un accordo coi 5Stelle, ma è contrario alla mozione di sfiducia di Renzi e Boschi contro Salvini che ricompatterebbe la maggioranza (come dice anche Franceschini e come pensa Zingaretti). In ogni caso, si registra un grande risveglio dei troll di tutte le parti in commedia, che in confronto le guerre nei Balcani erano partite a bocce. Gente che recupera hashtag antichi e consunti (#senzadime, appunto), o che sberleffa il nemico di turno, o che elenca le malefatte grilline per dire che gli unici affidabili sono loro, con questo dettaglio, ahimé, che hanno solo il 18 per cento.

Ecco, l’aritmetica dirà l’ultima parola, chissà quando. Però pare davvero contro le leggi della fisica e della natura fare un governo Pd senza destra (la Lega) e senza 5Stelle, cioè immaginare di andare a palazzo Chigi soli e splendidi contando sul voto di un italiano (scarso) su cinque. Qualcuno ci riuscì anche con meno (il vecchio Bettino), ma in quel caso c’era un sistema di alleanze, mentre ora è tutto un “senza di me”, che significa: se si gioca io non gioco, l’ambizione di vincere una partita restando a cazzeggiare negli spogliatoi.

Nei fatti, si tratta di un mirabolante asse Renzi-DiMaio, alleati strettissimi, entrambi preoccupati che il governo regga, che non scivoli malamente, che non si faccia male. Si accusano a vicenda di inenarrabili nefandezze (non tutte inventate) per tenersi in piedi l’un l’altro, per sostenersi. Fuori di lì, la Lega fa quasi quello che vuole, Zingaretti fa l’amministratore di un condominio dove quelli del primo piano mandano a cagare quelli del secondo, che litigano con quelli del terzo e così via, ad libitum. Spettacolo piuttosto indecoroso, non il primo, non l’ultimo. Non resta che sedersi ad ammirare lo spettacolo, comodi, nel buio della sala. I popcorn li porta Renzi.

Da Carola a Meb i cari “amici” di Salvini

Sono ovunque, parlano sempre e non dicono nulla. Figure-ossimoro, vivono per togliere voti a Salvini ma in realtà glieli portano. Pascolano in tivù e hanno un talento innato nel disboscare consensi. Vivono e lottano in mezzo a noi, soccorrendo di continuo l’apparente nemico con commovente abnegazione: ecco a voi alcuni dei tanti (troppi) Salva-Salvini.

Andrea Romano. Ha ucciso politicamente D’Alema, Montezemolo, Monti e Renzi. Non appena dice che quel leader lì è il futuro, il (sedicente) leader smarrisce subito pure il presente. Ora ha giurato odio eterno contro M5S e Salvini, quindi possono dormire sereni. Soprattutto il secondo.

Federico Fubini. Apocalittico di professione ma solo quando gli conviene, oscura notizie a lui sgradite e da mesi garantisce che Salvini & soci ci condurranno verso l’Armageddon economico. Ipotesi tutt’altro che remota, essendo il Salvimaio un governo nato brutto e cresciuto peggio, solo che Fubini è l’ultimo a poter parlare. Le sue teorie sono state sin qui convincenti come Terim al Milan. E l’ultima volta che ci ha preso, se non ricordo male, tiranneggiava ancora Badoglio.

Nicola Fratoianni. Autoproclamatosi “Re dei Buoni”, ripete così tante volte che lui è Gandhi e Salvini Mengele che per contrasto ha reso quasi simpatica persino la Maglie. Ormai, più che un politico (senza voti), è un concentrato di retorica bolsa. Due palle. Fermatelo.

Luca Casarini. Il nemico ideale, perché se hai lui contro rischi di avere ragione anche se hai torto.

Santa Carola. Chi la attacca con toni becero-sessisti fa schifo. E chi, come Libero, la contesta per non aver messo il reggiseno in Vaticano dopo aver difeso per anni il maialaio del bunga bunga, fa pena. Il problema, però, è che a far pena è anche quella sinistra che l’ha trasformata a casaccio in eroina. Santa Carola, con quella sua “boria alternativa” da Fiorenza in Un sacco Bello (“Guarda fascio che io a mi’ padre gli ho già sputato in faccia du’ volte!”), è perfetta per convincere i già convinti ma – al tempo stesso – per esacerbare gli animi dei salviniani. Un altro “nemico perfetto” di Salvini, sebbene probabilmente in buona fede.

Maria Teresa Meli. Dopo l’anticipato trapasso politico della Diversamente Lince di Rignano, la piccola Mery si muove mesta e raminga negli studi televisivi. Quando può, lancia l’affondo contro 5 Stelle e Salvini. A volte ha pure ragione, ma con tutto quel suo colpevole pregresso da fiancheggiatrice invasata del nulla (cioè del renzismo) non toglierà mezzo voto alla Lega. Anzi.

I violenti No-Tav. Sono perfetti per disinnescare una protesta sacrosanta e regalare armi a chi, come Salvini, ieri era No-Tav e oggi ha cambiato idea un po’ per comodo e un po’ perché spesso non sa quel che dice. I No-Tav violenti sono doppiamente colpevoli: perché violenti, e perché col loro agire rendono ancora più forti gli hezbollah di quest’opera tanto idiota quanto inutile.

Emma Bonino. “Italiani intolleranti, Salvini imprenditore della paura”; “Abbiamo perso umanità”; “Salvini è imbarazzante”. Eccetera. E giù, altre vagonate di voti per la Lega.

Paola Nugnes. Non la conosce quasi nessuno, e questo è positivo. Incarna la dissidente grillina di professione, desiderosa d’espulsione per poi giocare alla martire quasi di sinistra. La guardi e non vedi nulla. Poi guardi meglio. E continui a non veder nulla. Men che meno sentire.

Laura Castelli. La “politica” ideale per far recitare alla Lega “quelli competenti al governo”. E in effetti, se l’alternativa è la Castelli, Fedriga è De Gasperi.

Carlo Sibilia. Idem come sopra. Però peggio. (Se possibile).

Matteo Orfini. Se un giorno Orfini dicesse che i Pink Floyd sono bravi, David Gilmour si dissocerebbe subito da se stesso e giurerebbe d’esser stato fino a qualche anno fa il chitarrista dei Pooh. Orfini dovrebbe stare sempre e solo zitto. E ciò nonostante avrebbe torto lo stesso. Così: ontologicamente.

Davide Faraone. Pretoriano invasato del renzismo, quando ti imbatti (disgraziatamente) in lui ti rendi conto che i cortigiani di Salvini son debolucci. Sì. Mai però quanto quelli di prima.

Maria Elena Boschi. La leader indiscussa dei Salva-Salvini. Tu sei lì che guardi Salvini, lo ascolti e pensi: “Cazzo, come ci siam ridotti male in Italia!”. Poi però incroci una frase qualsiasi della Boschi, e subito pensi: “Oh, ma lo sai che Salvini in confronto non è poi mica così male?”.

Matteo Renzi. L’anello di congiunzione tra il vuoto pneumatico e il brodo morto. Il punto più basso nella storia della politica italiana. Per distacco. Così basso, ma così basso, che per contrasto chiunque sembra più digeribile. Ma proprio chiunque. Persino Salvini.

Imperia. L’eterno ritorno di Scajola, il sindaco indagato per un’auto blu

 

Ancora lui: torna Claudio Scajola. Era ministro e fu coinvolto in inchieste giudiziarie. Ora, sparito dalla scena nazionale, è finito a fare il sindaco della sua Imperia, e lo ritroviamo di nuovo indagato per l’uso dell’auto blu. Possibile che Sciaboletta resti in sella? Agli italiani non interessa il curriculum delle persone che eleggono?

Marisa Leutari

 

La Procura di Imperia ha indagato l’ex ministro berlusconiano, oggi sindaco della sua città, per peculato d’uso. In pratica si vuole accertare se abbia utilizzato – come ipotizzato in un esposto giunto in Procura – l’Audi A6 del Comune per spostamenti compiuti come privato cittadino. In particolare i pm e la Finanza stanno compiendo indagini su un viaggio che Scajola avrebbe compiuto da Imperia all’aeroporto di Genova. L’ipotesi – che non ha ancora riscontro – è che il sindaco fosse diretto a Reggio Calabria dove è imputato in un processo per tentativo di procurata inosservanza di pena. Secondo i pm calabresi avrebbe cercato di favorire la latitanza di Amedeo Matacena.

Siamo all’inizio dell’indagine. I pm per acquisire in Comune il materiale necessario hanno dovuto iscrivere Scajola sul registro degli indagati. Un atto dovuto. Scajola si dice tranquillo: “C’è stata una richiesta di atti e abbiamo immediatamente fornito la documentazione richiesta. Sono fiducioso che verrà dichiarata l’infondatezza di questa segnalazione. Ho sempre avuto grande e manifesto rispetto per la Magistratura. Dimostrerò tutto con assoluta tranquillità”. E parlando con i suoi collaboratori aggiunge: “Lavoro dodici ore al giorno per duemilatrecento euro al mese. Mi sposto quasi sempre sul mio scooter. Ma sono finito sui giornali per i miei guai giudiziari più di dieci volte e sono sempre stato assolto”. Presto, quindi per dare giudizi sull’indagine di oggi. Resta la seconda domanda della signora Leutari. Un politico, appunto, va giudicato anche per le sue responsabilità politiche: Scajola ha già fatto il sindaco a Imperia decenni orsono. Lui e la sua famiglia dominano l’imperiese dagli anni ’80 del decennio scorso. Il bilancio è sotto gli occhi di tutti: una cementificazione selvaggia, l’operazione faraonica del porto finita con moli vuoti, edifici semi-abbandonati. Decine di milioni al vento. Mentre la ‘ndrangheta nel Ponente prospera nel disinteresse generale. Evidentemente è ciò che vogliono gli imperiesi.

Ferruccio Sansa

Mail Box

 

Bimbi in affido, ben vengano maggiori controlli

In merito alle inchieste in corso nel reggiano, sono 5 anni che mi sto battendo perché anche in questa provincia di Lecce si aprano indagini in questo settore dei servizi sociali. Un settore che tratta delle famiglie che soffrono, con grande difficoltà e sacrificio, disagi al loro interno. Il ministro Bonafede ha istituito una “Squadra speciale di giustizia per la protezione dei bambini” e ha spiegato che “La giustizia farà il suo dovere e sarà inflessibile. Tutti gli operatori dovranno sentire il fiato sul collo da parte della magistratura che effettuerà i controlli”. Spesso il lavoro di alcuni, non tutti ovvio, assistenti sociali appare agli occhi di molti come insindacabile e illiberale, in più autoreferenziale. Quasi una zona franca, dove può accadere di tutto ai danni di madri e bambini. Spesso quello dell’affidare o far soggiornare i bambini, ad es. più col padre che con la madre, non appare lavoro sociale meticoloso frutto di valutazioni attente dello stato delle capacità genitoriali. Ben venga dunque l’iniziativa del ministro, la auspicavo da tempo, e spero che si estenda anche nella nostra provincia.

Maurizio Maccagnano

 

Diritto di replica

Con riferimento all’articolo pubblicato il 19 luglio 2019 a firma di Gianni Barbacetto e dal titolo: “De Bustis e l’operazione maltese della Pop Bari” si precisa che Naxos SCA SICAV SIF non è legata in alcun modo a Muse Ventures Ltd, e nemmeno ha investito o mai preso in considerazione un investimento in obbligazioni emesse dalla Popolare di Bari stessa, smentendosi categoricamente l’esistenza di qualsiasi ipotesi di “operazione circolare”. Risulta invece corrispondente al vero che Banca Popolare di Bari si è obbligata a sottoscrivere le azioni del comparto “Capital Plus” ed il mancato versamento dell’importo corrispondente ha dato effettivamente luogo all’instaurazione di un giudizio civile innanzi all’autorità giudiziaria lussemburghese, teso appunto all’accertamento del diritto in capo a Naxos alla corresponsione del dovuto.

Avv. Biagio Sole

 

Scrivo a proposito dell’articolo apparso sul Fatto di sabato 20 luglio dal titolo “Concessioni tv, Lavitola si smarca da De Gregorio”. Lavitola è un bugiardo. Nella puntata televisiva della trasmissione Report del 16 giugno 2019, intervistato a proposito dei finanziamenti concessi a L’Avanti! dall’imprenditore Giuseppe Spadaccini – interessato a ingraziarsi il presidente del Consiglio Berlusconi per facilitare un appalto per l’acquisto dei suoi Canadair – Lavitola sostiene di essere stato il direttore del quotidiano ma di essere sottoposto alla linea politica dello stesso Berlusconi. Costui, quindi, oltre a finanziare a piene mani il giornale, ne disponeva l’orientamento politico-editoriale. Se ciò non bastasse, la circostanza che presso Tribunale penda una richiesta di rendicontazione presentata da Lavitola agli inizi di luglio, rende ancor più completo il “quadro di situazione”. Lavitola sostiene di essere stato un “dipendente” di Berlusconi per tutti gli anni di collaborazione prestati al suo fianco e gli chiede di partecipare alla pianificazione dei debiti contratti anche con L’Avanti!, chiamandolo a rispondere – per il momento – innanzi all’Organismo di Mediazione Forense di Roma. Questo “ruolo” da “dipendente” è anche documentato agli atti del processo intentato contro di lui dai Procuratori della Repubblica di Napoli. In una lettera sequestrata nel computer dello stesso Lavitola, indirizzata a Berlusconi, egli elenca tutti i “servigi” resi al politico, compreso l’utilizzo de L’Avanti! per “killerare” i nemici su sua precisa indicazione. Tutta storia già scritta nei processi, che attende soltanto una “volontà giudiziaria” da parte di chi – per ruolo e funzione – è in grado di riannodare i fili di questa intricata matassa di bugie e mezze ammissioni. Chi dispone la linea politico-editoriale di un giornale, lo finanzia con investimenti pubblicitari miliardari, utilizza le sue reti tv per promuoverlo – oltre a farlo distribuire dalla società di famiglia – non è altri che l’editore de facto del quotidiano. Silvio Berlusconi, per questo motivo, avrebbe dovuto rispondere della bancarotta fraudolenta della Cooperativa International Press scarl, editrice del giornale, in solido con lo stesso Lavitola. Io stesso, attraverso una mia società, detenevo il contratto di distribuzione de L’Avanti!, affidato alla Società Europea di Edizioni (quella della famiglia Berlusconi) per disposizione di Silvio Berlusconi, che mai aveva consentito ad alcun giornale di poter usufruire di quella massiccia rete distributiva. Ebbene, i fatti sono chiaramente incardinati anche agli atti dei vari processi intentati attorno a queste vicende. Io, dal canto mio, non posso far altro che aggiungere un contributo di verità alla storia presentando un documentato esposto alla Procura della Repubblica. Saranno, come sempre, i magistrati a chiarire. Chissà se la politica dei proclami, da sempre mobilitata sulle vicende dello “scandalo concessioni” e del cosiddetto conflitto di interessi, stavolta farà sentire la sua voce nello specifico di questi fatti circostanziati. Perchè se Silvio Berlusconi era, de facto, editore de L’Avanti!, non avrebbe potuto detenere le concessioni televisive che lo hanno reso l’imprenditore-politico più anomalo d’Europa… E la storia di questo Paese sarebbe andata diversamente…

Sergio De Gregorio

Le Corti: primo no al governo monocolore di Pedro Sánchez

Con 124 voti a favore, 170 contrari e 52 astensioni, il premier socialista spagnolo incaricato, Pedro Sánchez, ha fallito il primo tentativo di fiducia per formare il suo governo monocolore. A mancargli ieri al primo voto alle Corti – come previsto – è stato l’appoggio di Unidas Podemos, la formazione di sinistra guidata da Pablo Iglesias che ha deciso di astenersi, tranne per un voto: quello contrario di Irene Montero, compagna di Iglesias che con lui si alterna alla guida del partito. Il voto telmatico (la leader è in maternità) sarebbe arrivato prima che nella riunione con Iglesias la vicepresidente del governo, Carmen Calvo, offrisse la vicepresidenza del futuro esecutivo proprio a Montero. L’astensione di Podemos dunque è stata un gesto verso Sánchez in attesa che si concludano le altalenanti trattative che concilino la volontà del leader socialista di un appoggio esterno della sinistra e quelle di Podemos di far parte del governo. Ma a mancare a Sánchez sono stati anche i voti dei partiti locali, tra cui quelli baschi di Pnv e Bildu, che come i catalani hanno rinfacciato al premier di non aver “fatto nulla per convincerli a dargli la fiducia”. Tradotto: nel discorso di investitura di lunedì Sánchez non ha fatto cenno alle autonomie. Non a caso, visto il peso dei separatisti catalani, il cui “sì” potrebbe rivelarsi necessario per raggiungere la maggioranza semplice nella seconda votazione di domani. A parte i 4 leader in carcere e quindi assenti alle Corti (che abbassano il quorum), infatti, sia il Partido democratico catalano che Esquerra Republicana di Catalogna hanno detto “no” alla fiducia. Erc ha legato il sì di domani all’accordo tra Sánchez e Podemos. Scontato, invece, il voto contrario delle destre di Popolari, Ciudadanos e Vox, su cui niente ha potuto l’appello di Sánchez all’astensione in nome di quella socialista al governo Rajoy nel 2016 “per evitare il ritorno alle urne”. Appuntamento previsto per il 10 novembre nel caso in cui i socialisti non ottenessero domani neanche la maggioranza semplice.

La diplomazia secondo Boris: “Hillary, un’infermiera sadica”

Ultima viene l’aringa, o anche “il pesce puzza dalla testa”, come ha risposto il commissario europeo all’alimentazione Vytenis Andriukaitis all’ennesima gaffe del neo-premier inglese Boris Johnson. Gaffeur di lungo corso, dai giornali a Downing Street passando per il municipio londinese e il ministero degli Esteri, Boris il Brexiter, a pochi metri dell’arrivo alla premiership Tories, ci ha tenuto a prendere a pesci in faccia l’Europa brandendone uno. “Ecco vedete, questa aringa secondo le leggi europee e i burocrati di Bruxelles deve essere incartata con questa borsa del ghiaccio. Cosa costosa, inquinante e inutile! Ecco cos’è l’Unione europea!”, ha urlato in una delle sue sceneggiate durante il dibattito per la leadership. Peccato che non di legge europea si tratti, ma di pura norma britannica, come hanno subito precisato “gli eurocrati” con Andriukaitis a ricordare il vecchio adagio sul pesce marcio. Ma questa è solo la punta dell’iceberg di una lunga carriera da pasticcione iniziata per Johnson con il licenziamento dal quotidiano Times nel 1987. Motivo? In un articolo sulla scoperta del Palazzo delle Rose di Eduardo II, Johnson inventò una citazione dello storico Colin Lucas sulle cavalcate del re nella tenuta insieme a Piers Gaveston, ucciso però 13 anni prima della costruzione del palazzo. Roba da principianti certo, rispetto alle sue cronache zeppe di fake news da Bruxelles per il Daily Telegraph. Ma è con le questioni geopolitiche che Boris de Pfeffel Johnson – nato a New York 55 anni fa – ha potuto dare sfogo alle sue innate doti istrioniche ereditate da un padre molto estroverso e da una madre artista, che lo hanno trasformato nell’uomo che fa ridere il mondo, di cui nessuno si fida, eppure ultima speranza dei conservatori inglesi.

Per ricordare tutte le performance del nuovo giullare alla corte della regina Elisabetta l’Independent ha inventato anche un quiz. Si parte dall’epoca in cui come ministro degli Esteri descriveva in maniera “colorita” i leader mondiali: Hillary Clinton? “Un’infermiera sadica in un ospedale psichiatrico”; Tayyip Erdogan? “Fa sesso con una capra”, stando a una poesia con cui Johnson nel 2016 vinse il premio “peggior insulto al premier turco”; per non parlare del “parzialmente kenyota” Barack Obama. “E si sa che buona parte dei kenyoti ce l’ha con l’impero britannico”. Tra le performance fisiche, si narra la sua discesa aggrappato a un filo di metallo a Victoria Park per i “suoi” giochi olimpici di Londra 2012. “Sta andando tutto benissimo – dichiarò agli astanti terrorizzati – è tutto ben organizzato”, assicurò chiedendo una scala ai collaboratori. Storica è rimasta anche l’amichevole di rugby a Tokyo nel 2015, quando riuscì a schiacciare, letteralmente, l’avversario: uno studente giapponese di 10 anni. Indimenticabile – restando agli happening – quello in cui da ministro degli Esteri in visita in Myanmar in un tempio buddista declamò il poema coloniale inglese The Road to Mandalay: “Le campane del tempio dicono / Torna indietro, soldato inglese”. Che fa il paio con quando con tanto di copricapo indiano si mise a discettare di esportazione di whisky scozzese durante una visita a un altro tempio, quello sikh: “Ogni volta che andiamo in India, dobbiamo portare Johnnie Walker in valigia, perché come saprete c’è un dazio del 150% sulle importazioni del whisky scozzese”. Un urlo si levò dal tempio: “È scandoloso, l’alcol è proibito dalla nostra religione”. A rischiare la crisi arrivarono nel 2017 poi le dichiarazioni contro Nazanin Zaghari-Ratcliffe, iraniano-britannica in carcere a Teheran come spia: “Stava solo dando lezioni di giornalismo”, teorizzò Mr Boris, tesi questa poi usata dall’accusa contro la donna. Donne viste dal neo-premier in modo sui generis: da quelle malesi che “frequentano l’università per trovare marito”, come suggerì al ministro venuto dal Mali a un forum nel 2013, alle musulmane che “con il burqa sembrano delle cassette della posta”, al genere femminile tutto “più incline a piangere degli uomini”, fino a quelle che “avranno il seno più grande” se i mariti votano Tory. A proposito di mogli, Boris – riservato almeno sul fronte familiare – ha fatto parlare di sé per una lite casalinga che ha allarmato i vicini. Le premesse per un grande show ci sono tutte.

Trump caccia ancora i migranti. A Washington è il giorno di Mueller

Da ieri, gli immigrati privi di documenti regolari e che non possono dimostrare di trovarsi negli Usa da più di due anni rischiano di essere rispediti al Paese d’origine senza che il loro caso sia vagliato da un giudice. La misura, accolta con apprensione dalle organizzazioni umanitarie e dai vescovi cattolici americani, è un ennesimo ‘giro di vite’ anti-migranti dell’Amministrazione Trump.

Ieri, il magnate presidente ha anche minacciato sanzioni contro il Guatemala, Paese di provenienza di molti dei migranti che, venendo dall’America centrale e risalendo il Messico, si presentano alla frontiera con gli Stati Uniti: honduregni, salvadoregni e, appunto, guatemaltechi. Venivano proprio dal Salvador la piccola Angie Valeria e suo padre, morti annegati a giugno nel tentativo di guadare il Rio Grande: la loro foto è divenuta l’icona di questo dramma che il presidente Trump pretende essere un’emergenza nazionale.

Molte misure prese dall’Amministrazione sono state contestate dai giudici federali, arrivando fino alla Corte Suprema, o si sono rivelate dei ‘flop’. La scorsa settimana, ad esempio, raid effettuati nelle principali città dell’Unione dovevano ‘rastrellare’ migliaia di immigrati illegali. A conti fatti, ne sono stati intercettati appena 35. In queste ore la polizia preposta al controllo dell’immigrazione e delle frontiere, l’Ice, ha reso noto che l’Amministrazione Trump non ha costruito neppure un metro del muro al confine col Messico promesso in campagna elettorale, ma ha solo sostituito 80 km di vecchie recinzioni metalliche. Com’è nel suo stile, Trump, eccezionalmente criticato pure dalla Fox, non ammette l’insuccesso e, anzi, si vanta di quel poco che ha fatto: “Se abbattiamo e rimpiazziamo totalmente la barriera rotta e fatiscente al confine sud, che non serviva, i ‘fake-news media’ non ci riconoscono alcun merito … Abbiamo rimpiazzato molte miglia di vecchie barriere con nuovi muri robusti!”. Il presidente torna a mettere l’accento sui migranti, cavallo di battaglia di tutte le sue campagne, dopo avere raggiunto un compromesso con il Congresso sul bilancio 2020. L’intesa autorizza l’Amministrazione a sforare il tetto del debito e sposta, quindi, a dopo le elezioni 2020 il rischio d’un nuovo shutdown, cioè di una serrata dei servizi e degli uffici federali. Ma l’attenzione a Washington è tutta concentrata sull’attesa testimonianza al Congresso, oggi, dell’ex procuratore speciale sul Russiagate Robert Mueller.

Johnson leader dei Tories: “Il 31 ottobre sarà Brexit”

“Le notizie di oggi: Boris Johnson Primo Ministro; la Gran Bretagna verso il giorno più caldo della sua storia. O, messa in un altro modo: stiamo letteralmente entrando all’Inferno”. Il tweet è di un giornalista satirico ma inaugura al meglio la cruciale giornata di ieri: Londra tocca i 33 gradi, per giovedì se ne prevedono 38, e Boris Johnson succede a Theresa May come segretario del partito conservatore e 77° primo ministro del Regno Unito. In servizio da oggi, quando May andrà dalla Regina Elisabetta a rimettere il suo incarico.

A incoronarlo leader del paese erano stati chiamati i circa 160 mila iscritti Tories, circa lo 0.30% della popolazione totale, per lo più anziani, abbienti e concentrati in provincia. Al voto sono andati anche di meno, circa 140 mila, e per lui hanno votato in 92 mila, contro i quasi 47 mila che gli hanno preferito lo sfidante, il ministro degli Esteri Jeremy Hunt.

La vittoria democratica della minoranza, viene da dire, ma poi quello che conta sono le percentuali, e con il 66% di membri del partito che credono in lui, il team Boris può parlare di trionfo.

L’annuncio ufficiale viene fatto in tarda mattinata al Queen Elizabeth II Centre di Londra, di fonte a una platea di sostenitori: ci sono i familiari che aspettavano questo momento da 40 anni e quelli, fra i ministri in carica, che sperano di essere riconfermati o promossi nel nuovo governo da formare nei prossimi giorni. Johnson fa un breve discorso di accettazione intriso della retorica fiammeggiante che lo contraddistingue, come giornalista e come politico. Il succo: “Otterremo la Brexit entro il 31 e ottobre e approfitteremo di tutte le opportunità che Brexit porterà in un nuovo spirito di ottimismo. Torneremo a credere in noi stessi, e come un gigante addormentato ci alzeremo e ci libereremo dei lacci dell’insicurezza e della negatività”.

Più concretamente, la linea è quella delineata in campagna elettorale: Deliver Brexit, Unite the country, Defeat Corbyn. Portare a casa Brexit, Unire il paese, Sconfiggere Jeremy Corbyn. Vasto programma. In inglese l’acronimo è DUD, a cui ieri Johnson ha aggiunto la E di Energize, stimolare. Il risultato finale è DUDE, formula colloquiale per “amico”.

In concreto, punto per punto: il piano per portare a casa la Brexit è, per il momento, ripresentarsi a Bruxelles con un nuovo spirito bellicoso; o si riapre il negoziato o il Regno Unito è pronto a uscire dall’Unione senza accordo il 31 ottobre. Bruxelles ha ribadito alla nausea che non è disposta a riaprire il negoziato, se non per aggiustamenti cosmetici. Ieri il tweet del capo negoziatore dell’Ue Michel Barnier suonava come un richiamo alla disciplina: “Siamo ansiosi di lavorare in modo costruttivo con Boris Johnson, per facilitare la ratifica dell’accordo di recesso e ottenere una Brexit ordinata”.

E se davvero Johnson dovesse andare dritto verso il ‘no deal’ è pronta la rivolta di molti parlamentari britannici, compresi parecchi conservatori. Fra i pezzi grossi pronti a dimettersi per combattere l’ipotesi ‘no deal’, oltre al ministro della Finanze Philip Hammond e a quello della Giustizia David Gauke, anche quello dello Sviluppo internazionale Rory Stewart. La vera battaglia sarà a settembre, quando il Parlamento tornerà a sedersi dopo sei lunghe settimane di sacra pausa estiva.

Secondo punto, unire il paese: Johnson è apprezzato fra i Conservatori, ma detestato da quasi tutto il resto dello spettro politico. Laburisti, Lib-Dem, indipendentisti scozzesi, membri del Brexit Party, il cui leader Nigel Farage ieri ha salutato la sua nomina con queste parole: “Auguro il meglio a Boris Johnson, ma avrà il coraggio di attuare davvero la Brexit il 31 ottobre a tutti i costi?”.

Fanno eccezione solo gli unionisti irlandesi del DUP che hanno confermato l’appoggio esterno che aveva tenuto in piedi il governo May. Infine, sconfiggere Jeremy Corbyn. Molti osservatori si aspettano che un governo che parte su premesse tanto incerte sia costretto a nuove elezioni entro la fine dell’anno, e qui non è escluso che Boris vinca. Secondo un sondaggio YOUGov del 21-22 luglio, i britannici non vanno pazzi per nessuno dei due, con un 42% di incerti; ma alla domanda ‘Chi sarebbe il miglior primo ministro?’ Boris ha ottenuto il 34% contro il 20% di Corbyn, il cui consenso scricchiola perfino fra gli elettori laburisti. In ogni caso Corbyn ha rilanciato, dichiarando ieri che spetta agli elettori di tutto il paese, non a meno di 100 mila, scegliere il proprio primo ministro in elezioni politiche nazionali.

Intanto, le reazioni internazionali. Il presidente Usa Donald Trump, che di Johnson è da sempre il primo sostenitore, ha twittato: “Sarà grande!”. Più sfumate la congratulazioni dei leader europei. La cancelliera tedesca Angela Merkel si aspetta che Johnson “persegua una politica responsabile, e cioè impedisca ad ogni costo una Brexit caotica”. Il presidente francese Macron: “Non vedo l’ora di lavorare con lui, non solo su Brexit e i dossier europei ma anche su questioni internazionali come l’Iran e la sicurezza internazionale”. Salvini: “Buon lavoro a ‘Boris Johnson. Il fatto che da sinistra lo dipingano ‘più pericoloso della Lega’ me lo rende ancora più simpatico”.

Mihajlovic finisce il primo ciclo di chemio, seguirà il ritiro in ospedale

Sinisa Mihajlovic ha completato senza particolari complicazioni il ciclo di chemioterapia iniziato giovedì 18 luglio. “La risposta terapeutica è stata conforme alle aspettative dei medici del reparto di ematologia dell’Istituto Seragnoli del Policlinico Sant’Orsola”, scrive il Bologna sul proprio sito.

Mihajlovic continuerà ancora per almeno tre settimane il ricovero presso lo stesso istituto per monitorare i parametri ematici e clinici. Nel frattempo potrà interagire con il suo staff e seguire dall’ospedale il nuovo ritiro della squadra in Austria che inizierà domani.