Certo, il pool. Certo, la stagione di Mani pulite che tanto ha segnato la storia della Repubblica. Ma non solo. La figura di Francesco Saverio Borrelli è stata esemplare per molti versi, soprattutto perché – come molti hanno scritto – se quel passaggio politico aveva bisogno di un simbolo, Borrelli era senza dubbio uno dei migliori in circolazione. E dei più lungimiranti. Tra i ricordi della figlia Federica (al Corriere) c’è una frase che è quasi una profezia: ora ci chiamano eroi, tra poco ci accuseranno di avere rovinato il Paese. Ha colpito i cronisti la presenza ai funerali di Sergio Cusani, anche lui simbolo dell’inchiesta Tangentopoli, ma dalla parte degli imputati. Alla cerimonia ci è andato – ha scritto ieri Ferruccio Sansa sul nostro giornale – con in tasca una lettera consumata, poche righe in cui Borrelli gli esprimeva cordoglio e vicinanza per la perdita della sua mamma. Fuori dalla Basilica di Santa Croce c’era un signore con un cartello, sopra tre volte la scritta “Resistere”, per via di quell’appello all’indipendenza della magistratura che oggi non ha perso nulla della sua attualità e urgenza.
Quel resistere però non era solo uno slogan, e Borrelli nei suoi 47 anni di servizio lo ha dimostrato più di una volta. Opponendosi, per esempio, ai decreti Conso e Biondi, che tentavano di vanificare i risultati delle inchieste del pool. Il valore dell’esempio consiste anche nel mostrare che qualcosa può essere fatto concretamente e non solo a parole. In una vecchia intervista al nostro giornale lo aveva spiegato benissimo Piercamillo Davigo, raccontando una vecchia storia di resistenza che ha come protagonista proprio Borrelli. Nel 1978 era presidente della VIII Sezione penale del Tribunale di Milano. La procura mandò Corrado Alunni – brigatista fondatore di Prima linea – a giudizio per direttissima: era l’epoca in cui non si riuscivano a fare le Corti d’Assise perché i giudici popolari si davano malati. E perfino qualche magistrato lo faceva. “Borrelli era il presidente della sezione davanti alla quale Alunni fu tradotto per essere giudicato. Ma era a casa con una gamba ingessata. Rientrò in servizio, presiedette il processo, condannò Corrado Alunni a 12 anni. Una pena severa e a quei tempi una sovraesposizione”, spiegò Davigo. Che aggiunse: “Disse Borrelli: se si devono correre dei rischi, li deve correre il presidente di sezione e non qualcun altro al suo posto. Io pensai: questo è un uomo coraggioso e con il senso delle istituzioni”.
Leggendo i giornali di questi ultimi giorni – al di la delle polemiche dei soliti bastian contrari per principio, e nonostante l’innegabile italica tendenza al santino – non si poteva che provare nostalgia. Non solo, ma anche perché i giudici che in queste settimane sono al centro delle cronache sembrano così lontani da quegli esempi. Così poco consapevoli di esercitare una funzione costituzionale e così noncuranti dei danni che alcune disinvolte condotte possono procurare al sistema democratico… Sono venticinque anni che periodicamente si riaccende la polemica sulla presunta “guerra” tra politica e magistratura. Una sciocchezza che mette sullo stesso piano chi indaga e chi è indagato, come se l’azione penale non fosse obbligatoria. La classe politica ha dato più volte il cattivo esempio (a volte il cattivissimo esempio) e non sempre il sistema ha risposto con gli anticorpi che una democrazia dovrebbe avere. Oggi la situazione è più allarmante perché sono alcune toghe, con comportamenti inopportuni che in alcuni casi forse sono anche reati, ad aver rafforzato la posizione di chi vorrebbe essere più uguale davanti alla legge e fare a meno di una magistratura indipendente. Una colpa inemendabile.