È stata respinta, con 16 voti contrari espressi dalla maggioranza di centrodestra e 10 a favore – di Rete a Sinistra e gruppo LiberaMente Liguria, Pd e M5S – la mozione presentata in consiglio regionale che impegnava la giunta ligure, entro fine mandato, “ad attivarsi presso gli uffici preposti per intitolare una strada del Comune di Genova a Stefano Cucchi, vittima di eccesso di potere, come dichiarato da testimonianze rilasciate da protagonisti della vicenda”. La proposta era stata presentata dal consigliere regionale Gianni Pastorino (del gruppo Rete a Sinistra-LiberaMente Liguria) e sottoscritta dal collega di gruppo Francesco Battistini.
La missione di Salvatore: tenere aperto il carcere
Salvatore non ce la dovrebbe fare, ma ce la fa. Di cognome fa Schiano di Colella, di mestiere è la memoria culturale del carcere borbonico di Santo Stefano, di fronte a Ventotene. Ritrovo di prigionieri politici per oltre duecento anni, sede di figure più che illustri come Luigi Settembrini, Gaetano Bresci e l’ex presidente Sandro Pertini a cui è intestata la targa poco prima di entrare, il carcere sta venendo giù a pezzi.
L’isola è immacolata, come il mare intorno e quindi a chi dovrebbe interessare del carcere?
Le persone che vengono in visita non sono poche, ma soprattutto interessa a Stefano, che del carcere è la voce parlante e spiega perché i borboni fecero dell’isola una colonia penale per politici, di come lo ricalcarono sulla pianta del teatro San Carlo nel segno del panopticon – dal palco si vedono tutti gli spettatori, solo che sul palco ci stanno le guardie e gli spettatori sono i carcerati -, dei mutamenti avvenuti con il Regno d’Italia e poi ancora durante il regime fascista e poi nella Repubblica fino alla chiusura del 1965.
Salvatore racconta la storia di Gaetano Bresci sepolto anonimo sull’isola, quella del direttore Eugenio Perucatti, un Brubaker antesignano che rivoluziona le condizioni di vita dei carcerati. E poi Pertini, che dal carcere si sposterà a Ventotene in quel confino che raccoglie le migliori menti dell’epoca.
Salvatore racconta tutto questo ma con un mano aiuta i turisti a saltare dal gommone sugli scogli, con l’altra chiude a chiave le porte, poi toglie una carta da terra, stacca i biglietti, richiama i gommoni per il viaggio di ritorno accertandosi che il moletto, improvvisato, sia quello giusto. Lo fa senza sostegno dello Stato che ha stanziato 70 milioni di euro e che ancora non li ha spesi. Salvatore lo fa, ma per quanto ancora?
Vietato girare in costume da bagno: in fondo sei a Tropea, mica al mare
Il bikini in città è vietato. Lo hanno deciso alcuni sindaci. In Puglia come in Friuli. Ma anche a Rimini e a Viareggio. Ed ora tocca a Tropea. Nella località, tra le più visitate della Calabria, è fatto divieto di circolare in costume e a torso nudo. Si può farlo in spiaggia, ma non nel centro cittadino. Pena una multa che va dai 125 ai 500 euro. L’ordinanza emessa dal sindaco del Comune in provincia di Vibo Valentia, Giovanni Macrì, vieta anche di camminare scalzi. La polizia locale potrebbe anche intervenire, allontanando i trasgressori, qualora il decoro della cittadina fosse compromesso. La decisione del primo cittadino è giunta dopo numerose segnalazione da parte dei residenti, in nome del decoro e della decenza. Stessa cosa è successa in Puglia, a Margherita di Savoia, Andria e Barletta. In Campania, a Baia Domizia. In Toscana, a Viareggio. E a Riccione, dove il costume è consentito solo in alcune zone. Altrimenti si rischiano 50 euro di multa. A Trieste, invece, sono in atto trattative accese. La giunta leghista al momento ha invitato pubblicamente la cittadinanza a indossare “un abbigliamento adeguato”, affiggendo cartelli sul lungomare di Barcola. A insorgere è stato il sacerdote don Ettore Malnati, che su Twitter ha scritto: “Scandaloso non è attraversare la strada in costume da bagnante per fare una consumazione al bar, ma gettare nell’immondizia gli indumenti di un senzatetto”, riferendosi al gesto che a gennaio il vicesindaco leghista, Paolo Polidori, aveva compiuto e raccontato sui social. Si era detto soddisfatto di aver gettato nel cassonetto “un ammasso di stracci”, che in realtà appartenevano a un senzatetto.
Spiaggiarsi con Ian, Thomas ed Elsa: i classici balneari
Coerenza impone che d’estate, in spiaggia, si leggano romanzi da spiaggia, lo dice pure il New York Times: per non essere da meno, abbiamo selezionato un bouquet di classici ambientati sulla sabbia, tra le dune, in questo o quel lido.
Temptation Island. Che le isole siano set privilegiato di avventure, più o meno piccanti, lo sapeva già William Shakespeare, ancora non pervenuto su Canale 5 benché i suoi intrecci, amorazzi e intrallazzi somiglino molto a Temptation Island. La tempesta è il modello di riferimento, ovvero la storia di un padre (vedovo) che fa di tutto per maritare la figlia ingenuotta, più fattucchierie varie per riconquistare il potere e il ducato. Per il travestitismo meglio spupazzarsi La dodicesima notte, ambientato perlopiù a corte, ma i cui protagonisti sono due naufraghi sulle coste dell’Illiria, Adriatico lato Balcani. Chi alla temptation preferisce il treasure può seguire le più muscolari avventure di Long John Silver ne L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson e di Robinson Crusoe nell’omonimo romanzo di Daniel Defoe. Il mare d’Italia ha fatto, invece, la fortuna di due signori autori, Elsa Morante e Mario Soldati, entrambi insigniti del Premio Strega per due opere isolane: L’isola di Arturo – alias Procida – del 1957 e Le lettere da Capri del 1954.
Costa Azzurra a luci rosse. Si commenta da sé, oppure prendere ripetizioni da Truman Capote, che dietro un titolo rubato a santa Teresa (Preghiere esaudite) cela aneddoti pornografici, tipo Cecil Beaton a Greta Garbo: “La cosa più penosa dell’invecchiare è la scoperta che i miei genitali stanno rimpicciolendo”. E lei: “Ah, potessi dire lo stesso anch’io!”. Laggiù, in Francia, Tenera è la notte, chiosa Francis Scott Fitzgerald, ma a Rimini gozzovigliano ben altri libertini, “come a Hollywood, come a Nashville, dove i sogni si buttano a mare, la gente si uccide con le pasticche, ama, trionfa o crepa”, almeno nell’immaginario lubrico di Pier Vittorio Tondelli. Decisamente più casto – leggasi: coniugale – l’amore tra due novelli sposini spiaggiati in luna di miele nella Chesil Beach di Ian McEwan. Romanzo breve, non così appassionante, regala però una delle più seducenti citazioni della letteratura contemporanea: “L’albergo di Edward e Florence, situato a poco più di un miglio a sud di Abotsbury, nel Dorset, su un’altura erbosa, alle spalle del parcheggio della spiaggia, non esiste”.
Corpi al sole. Più che abbronzati, morti: Agatha Christie docet, ma non è l’unica regina del delitto da spiaggia. Anche il mansueto Albert Camus – cioè Meursault nello Straniero – spara all’arabo in riva al mare, mentre il mite Fernando Pessoa mette in scena un suicidio nella baia chiamata La bocca dell’Inferno, che dà il titolo a un suo inedito ritrovato recentemente. Persino “il Simenon giapponese”, Seicho Matsumoto, gioca coi cadaveri in località balneare: non sulla sabbia, ma in una caletta rocciosa di Hakata nell’isola di Kyushu, da dove si dipana il thriller Tokyo Express. Se sadico è Il signore delle mosche di William Golding, masochista – ai limiti del patetico – è l’Aschenbach de La morte a Venezia di Thomas Mann. E amen.
Il mare col binocolo. A dispetto del titolo, Kafka sulla spiaggia non parla di spiaggia, né di Kafka, se non tangenzialmente: il titolo del romanzo di Haruki Murakami è mutuato da una canzone d’amore e altri fantasmi citata nel libro. Anche Gita al faro di Virginia Woolf è un po’ uno specchietto per le allodole, un pretesto narrativo per registrare le fluviali pippe dei protagonisti, volgarmente dette interior monologue e stream of consciousness. Però basta: è l’ora del pisolino sotto l’ombrellone.
Gli sputi veneziani a “Salomè” consacrarono il Bene comune
Dire di Carmelo Bene, di quel che lo riguarda, e dunque dello scibile, è ostico. Per un giornalista, di più: “I giornalisti sono impermeabili a tutto. Arrivano sul cadavere caldo, sulla partita, a teatro, sul villaggio terremotato, e hanno già il pezzo incorporato. Il mondo frana sotto i loro piedi, s’inabissa davanti ai loro taccuini, e tutto quanto per loro è intercambiabile letame da tradurre in un preconfezionato compulsare di cavolate sulla tastiera. Cinici? No, frigidi”.
Diremo, comunque, del suo penultimo lungometraggio di finzione, Salomè, presentato nel 1972 alla trentatreesima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Annata superba, zeppa di grandi nomi: Charlie Chaplin e Billy Wilder Leoni d’Oro alla carriera; Stanley Kubrick, Nagisa Oshima, Rainer Werner Fassbinder, Jean-Luc Godard, Marguerite Duras, tra gli altri, in selezione. E grandi scandali: dopo l’uscita negli Stati Uniti e nel Regno Unito, Arancia meccanica approda al Lido, perpetuando polemiche e strali per l’iper-violenza, anche a sfondo sessuale, di Alex (Malcom McDowell) e i suoi Drughi. Bene non è da meno, ed è pure recidivo: l’eco di Nostra Signora dei Turchi, premio speciale della giuria alla ventinovesima Mostra, quella del ’68 diretta da Luigi Chiarini e vastamente contestata, non s’era ancora dissipata. In quel suo primo film, il carnefice si convertiva con dispendio di clownerie: il martirio, di un cristiano di Otranto, poteva attendere, lo scandalo no. Bene è l’uomo ovunque, il suo “benaltrismo”, quello vero, impazza fuori dal Palazzo del Cinema: offre cene nel proverbiale miglior ristorante e fa il vento; schiaffeggia critici stroncatori (Carlo Mazzarella) all’Hotel Excelsior; deride studenti; difende Gabriele D’Annunzio nel confronto con Pier Paolo Pasolini; beve, beve ancora, s’ubriaca; si rifiuta di interloquire con i giornalisti italiani; preferirebbe un altro premio, quello munifico alla “qualità”: il suo, non bastasse, lo fa cadere. Il pubblico s’incazza, Bene si bea del caos e contesta i contestatori: “La contestazione io la faccio dalla culla. Qui ci vorrebbe una barbarie, fortune che non capitano più”. L’esperienza/esperimento di Nostra Signora dei Turchi, insomma, è ancora oscenamente dispotico quando Bene – nel frattempo in Mostra con Don Giovanni nel ’70 – riapproda in Laguna con Salomè e, dalla sua opera teatrale già ispirata a Oscar Wilde, fotografa “l’impossibilità del martirio in un mondo presente, non più barbaro, ma esclusivamente stupido”. Che è esattamente quel che Venezia ha in serbo per lui.
Bene firma soggetto, sceneggiatura, regia, coordinamento musicale, produce e interpreta, al fianco di Lydia Mancinelli, Alfiero Vincenti, Donyale Luna, Veruschka, Piero Vida. Salomè, dice, è “una specie di Salambô multirazziale, tecnologicamente avanti di almeno trent’anni. La scommessa del colore. Della luce. Salomè non colora più gli oggetti, li illumina. Anticipai di vent’anni la tecnica dei videoclip”.
Ha ragione, non millanta, però fa la ruota: “Ho sufficiente autocritica per riconoscere al mio cinema l’importanza che merita, universalmente riconosciuta come la più indiscussa rivoluzione copernicana del Novecento cinematografico e teatrale”. Il suo quarto lungometraggio nutrirà di lì a breve immagini e immaginario di Mtv e strappandoci la pelle/pellicola di dosso – il corpo lo offre Erode nel finale – istruirà il contemporaneo homo videns. Ma c’è chi non capisce, anzi, eccepisce. Di fronte a quella tabula rasa solarizzata, ornata di rose fluorescenti, luci sibilline e pop art diffusa – con la collaborazione dello scenografo Gino Marotta Bene s’era servito dello scotch-light a uso rifrangente e consumo straniante – lo spettatore autoctono elude l’opera e punta il genio dietro la macchina da presa: “Ma chi xeo quel mona?”. Nel 1998 il Nostro scrisse, a quattro mani con Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, senza trascurare l’excursus cinematografico, e quindi l’indignazione deflagrata in Mostra per Salomè: “Alla prima al Palazzo del Cinema, stipato da più di tremila bestiacce, accadde l’inverosimile. I veneziani in frac mi sputavano addosso, li benedicevo e loro s’incazzavano ancora di più. Evitai il linciaggio grazie alla barriera umana dei celerini, per una volta dalla mia parte”. Il martirio poteva attendere, non la santificazione di Carmelo: il Cristo vampiro, la Salomè nera Donyale Luna, tutto era destinato a sublimarsi nel Bene comune. Gli sputi sopra sono per lui, ancora oggi.
Marche, sfiducia M5s al governatore per lo scandalo sanità
L’indaginedella Guardia di Finanza sui presunti appalti truccati nella sanità marchigiana mette in difficoltà anche il governatore Luca Ceriscioli (Pd). Il gruppo consiliare regionale 5s ha formalizzato ieri una mozione di sfiducia nei suoi confronti, che hanno firmato in 9 tra cui anche alcuni consiglieri della Lega, di Fdl e Fi. Nell’inchiesta sono coinvolte 10 persone, tra cui Alessandro Marini, direttore generale di Asur Marche, l’agenzia sanitaria regionale. Il 16 luglio scorso la Guardia di Finanza di Ancona, coordinata dal pm Andrea Laurino, ha eseguito perquisizioni e sequestri. Le ipotesi di reato vanno dalla turbata libertà degli incanti al concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, turbata libertà di scelta del contraente e abuso d’ufficio. Gli indagati avrebbero favorito una specifica azienda nella gara pubblica per l’appalto da 200 milioni di euro per i servizi di pulizia negli edifici di Asur Marche e negli ospedali pubblici. “A me – ha detto Ceriscioli all’Ansa dopo la mozione di sfiducia – sembra una scelta politica, si vuole ingigantire questo fatto a tutti i costi. Applicassero questi principi dove governano”.
Di Matteo: “Ingiusto estromettermi” Cafiero: “Disponibile a una soluzione”
Sono rimasti sulle loro posizioni Federico Cafiero de Raho e Nino Di Matto, ascoltati ieri dalla Settima commissione del Csm. Il procuratore nazionale antimafia ha difeso il provvedimento con il quale ha estromesso dal pool stragi il pm: con l’intervista rilasciata al La7, in occasione dell’anniversario di Capaci, avrebbe “rotto la fiducia” all’interno del pool, rivelando particolari riservati sulle valutazioni in corso di elementi di indagini, anche noti. Cafiero non avrebbe neppure gradito di non essere stato avvertito dell’intervista. Dal canto suo, Di Matteo, ha ribadito che il provvedimento “è ingiusto” e che, non avendo in realtà rivelato nulla, non ha rotto alcun rapporto di fiducia. D’altronde anche altri colleghi antimafia hanno rilasciato interviste dello stesso tenore. Il pm spera che la decisione del Csm “arrivi presto”, ma sarà a ridosso, se non dopo, le elezioni suppletive del 6-7 ottobre, per i due togati del Csm in quota pm. E Di Matteo è tra i candidati. Cafiero, dopo l’audizione, ha dichiarato “massima disponibilità a trovare una soluzione per la migliore composizione della vicenda e per il conseguimento dei risultati dell’ufficio”. Un’apertura a rivedere, magari dopo una riflessione, la propria decisione?
Tutti uniti per salvare il forzista Sozzani
E ora è il momento della “attenta” riflessione. Perché a Montecitorio si è alle prese con un affare che scotta: una richiesta di autorizzazione all’utilizzo delle captazioni attraverso lo strumento micidiale del trojan, ormai famoso per aver rivelato i dialoghi sulle future nomine in importanti uffici giudiziari italiani a partire da Roma, tra Luca Palamara, alcuni togati del Csm e i due parlamentari dem, Luca Lotti e Cosimo Ferri. Ma la giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera oggi non si occuperà di loro. Ma di Diego Sozzani, deputato forzista per cui i magistrati di Milano non solo vorrebbero utilizzare alcune intercettazioni ma chiedono pure il via libera all’arresto. Nell’ambito nella maxi indagine della Dda (Direzione distrettuale antimafia) di Milano sulle tangenti in Lombardia e in Piemonte ribattezzata “Mensa dei poveri”, in cui all’onorevole viene contestato un presunto finanziamento illecito ai partiti, oltre ad essere indagato per corruzione. Per Eugenio Saitta del Movimento 5 Stelle “è urgente che Montecitorio su Sozzani si esprima al più presto, prima della pausa estiva. Noi voteremo per dare semaforo verde ai magistrati”.
La strada, però, non è così spianata. A parte il voto contrario scontato di Forza Italia, tutti gli altri schieramenti paiono prudenti. “Vediamo che tipo di proposta farà la relatrice in Giunta. Noi del Pd siamo abbastanza perplessi, perché ci sono circostanze che rendono le captazioni discutibili sotto il profilo delle garanzie delle prerogative parlamentari. Sulla richiesta di arresto valuteremo poi: si tratta di due partite diverse e non è detto che appaia ingiustificata, anche se si decidesse di negare l’uso delle intercettazioni”, spiega Alfredo Bazoli del Pd.
Dell’arresto comunque si parlerà come minimo la prossima settimana mentre oggi il voto è sulla questione pregiudiziale dell’utilizzabilità di quattro blocchi di captazioni telematiche in modalità spyware, e su un altro blocco di conversazioni intercettate con una cimice piazzata su un’autovettura. Ma ovviamente l’attenzione è tutta sul trojan perché, per dirla con la relatrice della pratica Sozzani, la leghista Ingrid Bisa, qualcosa dovrà essere fatto per “perfezionare” la legge e pure a livello operativo da parte delle procure in modo che fissino criteri specifici sul trojan quando ci sono di mezzo i parlamentari. “Le captazioni mediante spyware pongono problematiche nuove, in sede di applicazione dei criteri individuati dalla Corte costituzionale (per le intercettazioni ordinarie, ndr). La sostanziale indeterminatezza dei limiti di tempo e di luogo per tali captazioni che, attraverso il cellulare, sostanzialmente seguono ovunque e senza interruzioni l’intercettato. Diventa difficoltoso formulare un giudizio di casualità dell’ingresso del parlamentare nell’area di ascolto di un soggetto che potenzialmente è oggetto di un monitoraggio costante”. Taglia corto Catello Vitiello del gruppo Misto che nel caso di Sozzani evoca il fumus persecutionis.
Rottura finale Anac-governo: Cantone torna in Cassazione
E adesso cosa resterà dell’Anac, l’Autorità anti corruzione? Raffaele Cantone, nel più prevedibile dei colpi di scena, lascia con nove mesi di anticipo. L’addio era atteso da quando, con parecchio anticipo sulla scadenza del suo mandato, a febbraio si era candidato per la guida di tre Procure il cui vertice sarebbe rimasto vacante a breve: Pescara, Torre Annunziata e la cruciale Perugia che è competente sui reati commessi dai magistrati di Roma.
Gli scandali e le inchieste sulla spartizione delle poltrone che hanno travolto magistratura e Csm nelle scorse settimane hanno dilatato i tempi. E così Cantone torna là dove Matteo Renzi lo aveva preso nel 2014, al massimario della Cassazione, dove si fanno i riassunti delle sentenze della Suprema corte. Un esilio assai poco dorato per un magistrato che in questi anni si è trovato sulla prima linea della politica e che, per un po’, è sembrato candidato a tutto, da Palazzo Chigi al Quirinale.
I cinque anni di Cantone all’Anac sono stati una esperienza “entusiasmante ma ormai conclusa” e l’Autorità rappresenta, nella sua lotta alla corruzione, un “patrimonio del Paese spesso meno riconosciuto di quanto meriterebbe”. Non è stato un singolo episodio a determinare la rottura tra Cantone e il governo gialloverde, quanto una progressiva distanza tra l’esecutivo e la filosofia dell’Anac, cioè l’idea che una agenzia indipendente e flessibile potesse essere utile a prevenire la corruzione invece che lasciare alla magistratura il compito di intervenire a posteriori, quando il danno è fatto.
“In questo momento non abbiamo dall’Anac i risultati che ci attendevamo, forse abbiamo investito troppo”, le parole del premier Giuseppe Conte il 6 giugno di un anno fa hanno certificato il nuovo clima. Poi tra cose serie e sgarbi la sintonia tra Cantone e governo non è mai nata.
La Lega ma anche un pezzo dei Cinque Stelle attribuiscono al Codice degli appalti ispirato dall’Anac una paralisi dei lavori pubblici che determina effetti negativi sull’economia e dunque rappresenta un pericolo elettorale. Numeri alla mano, l’Anac argomenta che i problemi ci sono stati soltanto in una fase di assestamento (nel 2015) e che ora la politica agita un blocco inesistente come scusa per ridurre i controlli e favorire imprese amiche. Cantone ha perso e il governo ha vinto, il decreto Sblocca cantieri riduce i controlli anti-corruzione e perfino quelli anti-mafia e non recepisce le richieste di Cantone, che è stato anche escluso dalle audizioni parlamentari sul provvedimento, per la prima volta.
Lo strappo più forte è stato sul decreto Genova: l’Anac prima viene coinvolta per una specie di controllo preventivo sugli appalti della ricostruzione dopo la tragedia del ponte Morandi. Poi, però, il governo attribuisce tutti i poteri al sindaco di Genova e commissario alla ricostruzione, Marco Bucci, in una deroga totale che rende il ruolo dell’Anac di mera foglia di fico. E Cantone rompe il rapporto.
Il magistrato napoletano ha collaudato un metodo ai tempi di Expo 2015, quando fu chiamato a intervenire dopo la prima fase di scandali, mazzette e arresti: una piccola squadra della Guardia di Finanza lavora per l’Anac in un controllo rapido ma approfondito degli appalti in fase preventiva, per segnalare fin da subito i casi sospetti. Questo sistema ha funzionato a Milano ma pure a Napoli dove l’Anac è stata cruciale per far partire in tempo le Universiadi di cui già si temeva lo slittamento al 2021. I finanzieri della squadra di Cantone hanno controllato in un anno 150 appalti di lavori su impianti sportivi per un controvalore di 200 milioni di euro. I tempi sono stati rispettati e, per ora, non si registrano scandali anche se la manifestazione è in una zona dove la camorra riesce spesso a infiltrare tutto.
Cantone da settembre torna in panchina. Dalla scelta del suo successore, che spetta in prima battuta al premier Conte, si capirà cosa resterà dell’Anac.
Frasi omofobe su Fb, Giuseppe Cannata indagato a Vercelli
Istigazione a delinquere, aggravata dalla commissione del fatto attraverso strumenti informatici e telematici. È l’accusa a cui è chiamato a rispondere Giuseppe Cannata, vicepresidente del Consiglio comunale di Vercelli, al quale la procura ha inviato un avviso di garanzia a seguito del post pubblicato domenica sera dall’esponente politico e medico su Facebook. “E questi schifosi continuano imperterriti. Ammazzateli tutti ste lesbiche, gay e pedofili”, aveva scritto Cannata sui social a commento di un post del senatore Simone Pillon del 2018 sul Gay pride. La frase era poi stata cancellata dopo numerose segnalazioni ma l’Arcigay Rainbow Vercelli Valsesia ha fatto in tempo a riprenderla e a rilanciarla. Il medico chirurgo in pensione nonostante la bufera che lo ha investito ha assicurato di non essere omofobo e di “avere molti amici gay”. Ieri intanto la Digos della questura di Vercelli, insieme alla polizia scientifica, ha dato esecuzione a due decreti di perquisizione personale e informatica per la ricerca del post sulla pagina personale del profilo Facebook di Giuseppe Cannata. La perquisizione informatica ha dato esito positivo.