I numeri per Aifa in tutto 101 mila segnalazioni

Il caso più noto è quello di Camilla Canepa, la 18enne di Sestri Levante stroncata lo scorso mese di giugno da una trombosi dopo aver ricevuto il vaccino AstraZeneca. Sempre una trombosi aveva ucciso l’insegnante siciliana Augusta Turiaco, morta il 30 marzo, anche lei dopo la somministrazione del siero sviluppato dalla casa farmaceutica anglo-svedese, e non più utilizzato da mesi. In realtà, però, il numero delle sospette reazioni avverse alla vaccinazione contro il Covid è decisamente limitato, e nella stragrande maggioranza dei casi (85,4 per cento) le reazioni non sono gravi. In base all’ultimo rapporto sulla sorveglianza di Aifa, l’Agenzia nazionale del farmaco, le segnalazioni sospette dall’inizio della campagna vaccinale sono state 101.110 (dato aggiornato al 26 settembre dello scorso anno). Vale a dire in media 120 casi ogni 100 mila somministrazioni. I casi riguardano soprattutto Comirnaty di Pfizer (69%) e Vaxzevria di AstraZeneca (24,7%). Per Spikevax di Moderna e Jannsen di Johnson&Johnson ci fermiamo rispettivamente al 5,2 e all’1,1%. Il più alto tasso di segnalazioni si è avuto in relazione all’inoculazione della prima dose.

“Anche senza obbligo per legge, allo Stato spetta indennizzare”

“Quelle contro il Covid sono vaccinazioni fortemente raccomandate, in un’ottica risarcitoria non vedo grande differenza con un obbligo tout court”, osserva Valerio Onida, giurista, ex giudice costituzionale e presidente emerito della Corte Costituzionale, a proposito della possibilità di richiedere un indennizzo allo Stato in caso di grave danno derivante dalla vaccinazione contro il Covid-19.

Presidente Onida, il ministero della Salute ha risposto a un’istanza, relativa a un grave effetto avverso di una vaccinazione anti-Covid, che la procedura di indennizzo prevista dalla legge 2010 del 1992 non è attivabile. Perché non si tratta di vaccinazioni obbligatorie.

Se è andata così temo che il ministero sbagli. Esiste una giurisprudenza che stabilisce il diritto al risarcimento in caso di danni conseguenti a vaccinazioni non obbligatorie, ma comunque raccomandate.

Lo dice, tra le altre, la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1998. C’era anche lei tra i giudici. Era il caso di una persona vaccinata contro la poliomielite nel 1964, prima che fosse resa obbligatoria. Lo stesso principio, sempre che sia riconosciuto il nesso di causalità, vale per i vaccini contro il Covid?

Penso proprio di sì, perché la vaccinazione realizza la tutela della salute pubblica. Se questo, sia pure in rari casi, porta a un grave danno per il singolo privato che si sottopone alla vaccinazione, è giusto che lo Stato lo risarcisca.

Rimane il fatto che non si tratta di vaccinazioni obbligatorie…

Sì, ma ripeto, sono vaccinazioni fortemente raccomandate. E poi va detto che il sistema del green pass rafforzato, di fatto, introduce nell’ordinamento l’obbligo vaccinale. Se voglio lavorare devo essere vaccinato. Più “raccomandato” di così…

Quindi non c’è grande differenza fra un operatore sanitario o scolastico per cui la vaccinazione è obbligatoria e un lavoratore del settore privato, che presto potrebbe essere tenuto a presentare il Green pass rafforzato e quindi a dimostrare vaccinazione o guarigione dal Covid.

No, secondo me non c’è alcuna differenza da questo punto di vista.

E quindi?

Ha ragione chi dice che in caso di danni spetta l’indennizzo. La Corte Costituzionale nella sua giurisprudenza è chiara. Per avere diritto ad avere un risarcimento è necessario che la vaccinazione sia quanto meno raccomandata.

L’articolo 32 della Costituzione permette l’obbligo, il governo lo evita per non pagare eventuali risarcimenti?

Non credo.

Quale può essere il motivo?

Il green pass risponde a una logica di controllo, il vaccino deve esserci dove serve, dove si lavora o si sta a contatto. E ripeto, dal punto di vista dell’indennizzo non cambia praticamente nulla.

Alcuni controlli si fanno, molti no.

Con l’obbligo, a norma di legge, anche l’eremita che sta sui monti dovrebbe essere vaccinato. Qui invece col green pass soltanto chi vuole lavorare e fare altre cose che comportano contatti. Se poi i controlli non vengono fatti è un altro discorso.

Tra poco più di due settimane si aprono le votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica. Potrebbero esserci grandi elettori positivi al Covid impossibilitati a partecipare. Al momento ce ne sono 15. Come si risolve il problema?

Dovrebbero essere le Camere a deciderlo, perché se uno viene convocato ed è a casa con 40 di febbre, anche con un’altra malattia, cosa succede? Si dovrebbe trovare il modo di far votare chi è in quarantena…

Il buco dell’Italia sui danni da vaccino

La strada che porta all’obbligo vaccinale contro il Covid-19 potrebbe avere un ostacolo in più. Introdurre questo vincolo significherebbe infatti per il governo archiviare il consenso informato che oggi chiunque deve firmare prima della somministrazione del vaccino, e aprire le porte al possibile riconoscimento di indennizzi in caso di reazioni avverse, per le quali è accertato il nesso di causalità. I casi, anche se limitati, non mancano. E iniziano a portarsi dietro azioni legali. Come quella avviata da Paolo Iacobucci, studente universitario di Roma. Suo padre Giuseppe è morto il 22 aprile dello scorso anno, diciotto giorni dopo essere stato vaccinato con AstraZeneca. “È stato stroncato da una trombosi intestinale, che si è propagata a tutto il corpo”, racconta il figlio Paolo. “A provocarla è stato il vaccino, come hanno scritto gli stessi medici del Policlinico Gemelli nella cartella clinica. E io, lo confesso, ho deciso di non vaccinarmi. Non solo perché sono traumatizzato ma anche perché per me è diventata una questione di principio. Le istituzioni mi hanno deluso: non siamo stati contattati da nessuno dopo quanto accaduto…”. Si è rivolta a un legale anche Ivana Mazzarella, insegnante 47enne di Albano Laziale (Roma), dopo aver sviluppato una miopericardite in seguito all’inoculazione della seconda dose di Pfizer. “Mi sono sentita male subito: parestesia ai piedi, pressione sul petto, tachicardia – racconta – e non sono affatto una No Vax, ci tengo a dirlo. Ma ho ancora problemi di salute e non farò la terza dose perché adesso ho diritto al certificato di esenzione. Nel frattempo ho avviato le pratiche per ottenere l’indennizzo”.

Anche Ivana Mazzarella, il 6 dicembre scorso, ha partecipato alla manifestazione di protesta davanti al ministero della Salute organizzata dall’avvocato partenopeo Erich Grimaldi, presidente del Comitato per le cure domiciliari precoci contro il Covid-19. E sarà lui, insieme al team di legali che lo affiancano, a presentare circa venti ricorsi, in altrettanti Tribunali, per accertamenti tecnici preventivi in base all’articolo 696 del codice di procedura civile. Atti che servono a ottenere la nomina di un medico legale e ad avviare l’istruttoria per accertare se i disturbi di salute manifestati sono da ricondurre proprio alla vaccinazione, e accedere così a tutto l’iter per la richiesta di indennizzo. “Per il momento hanno deciso di fare causa solo i casi in cui si sono verificati gli effetti avversi più gravi, fino alla morte” spiega Grimaldi. “Ma quello che serve è che sia la magistratura a stabilire se è lecita l’azione del governo: con tutte le limitazioni imposte a chi non ha il Green pass maschera di fatto l’obbligatorietà del vaccino, con una mano, ma con l’altra non riconosce indennizzi a chi sviluppa, in seguito, problemi di salute anche gravi”.

È la legge 210 del ’92 a prevedere infatti che i risarcimenti siano riconosciuti solo in caso di reazioni avverse in seguito alla somministrazione di un vaccino obbligatorio. E seppur ai primi posti nella classifica europea per copertura vaccinale contro la pandemia, l’Italia è agli ultimi per quanto riguarda la tutela delle vittime di effetti indesiderati.

Il nostro Paese è l’unico, insieme alla Spagna, tra i grandi Ue a escludere l’indennizzo pubblico per le vaccinazioni che il governo si limita a raccomandare, senza renderle obbligatorie. Come quella contro il Covid. L’obbligo vaccinale non esiste ufficialmente in nessuno dei Paesi Ue, sebbene sia quasi imposto de facto tramite il Super Green pass. Eppure alcune nazioni (Francia, Germania, Olanda, Svezia, Austria, oltre al Regno Unito, ormai uscito dall’Ue) hanno esteso le loro normative preesistenti o introdotto meccanismi ad hoc per l’immunizzazione Covid per consentire a chiunque di essere indennizzato dallo Stato. Basta presentare la decisione di un tribunale o altro organismo competente che comprovi il nesso di causalità tra vaccino ed effetto avverso. La legge italiana 210 del ‘92 (aggiornata nel 2005) prevede invece questa possibilità solo in presenza di obbligo vaccinale.

Nella sua sentenza del 2012 la Corte costituzionale ha giudicato questo vincolo illegittimo, riconoscendo il diritto all’indennizzo anche qualora il vaccino sia solo raccomandato. Questo principio generale, come chiarito dalla Consulta, va tuttavia interpretato caso per caso e non rende automatico l’indennizzo.

Il ministero della Salute ha finora respinto le richieste di compensazione presentate da coloro che hanno contratto patologie dopo l’inoculazione o dai familiari di chi è addirittura deceduto, adducendo la non obbligatorietà dei vaccini Covid. Ecco perché alla parte lesa non resta che la via legale, quella di tentare un ricorso giudiziario, sperando in una nuova favorevole sentenza della Corte costituzionale. Alternativamente, chi non si è ancora vaccinato può sempre iscriversi alla campagna di immunizzazione di uno degli Stati membri dell’Ue provvisto di schemi di indennizzo, a patto di trasferirvi provvisoriamente la propria residenza (condizione richiesta dalle autorità).

La Commissione Ue non intende proporre una uniformazione dei piani di risarcimento, nonostante abbia negoziato collettivamente per conto dei 27 governi i contratti con le cause farmaceutiche per l’approvvigionamento delle dosi. Proprio tali accordi scoraggiano gran parte dei governi dall’estendere ai vaccini Covid i loro programmi di indennizzo, generalmente limitati ai vaccini obbligatori. Infatti le clausole, parzialmente desecretate a inizio 2021, esentano i produttori dal risarcimento: lo Stato è tenuto a indennizzali per le somme richieste dai danneggiati. Il rischio che dovrebbero assumersi le casse statali è grosso considerando l’elevato numero di dosi somministrate e degli effetti collaterali che si stanno via via registrando.

Alle ripetute interrogazioni dell’Europarlamento, l’esecutivo di Bruxelles ha controbattuto che le modalità di indennizzo nel campo della salute pubblica sono di esclusiva competenza degli Stati. Nella sua ultima risposta del 22 novembre, ha scritto che “in linea con la Direttiva Ue sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi, la responsabilità rimane del produttore e che in caso di danni causati dalla somministrazione del vaccino, i pazienti hanno il diritto di chiedere un risarcimento al produttore”. Per ottenerlo, il cittadino dovrebbe affrontare spese legali e lungaggini processuali proibitive, facendo causa ai colossi farmaceutici che poi si farebbero eventualmente rimborsare dalle finanze statali. Tra le vie percorribili, è la più ostica. Ed è proprio per convincere gli scettici, rendendoli meno reticenti a vaccinarsi, i Paesi virtuosi hanno optato (col sostegno di diversi giuristi) per i programmi cosiddetti “no-fault” (senza colpa). Questi permettono di accordare l’indennizzo senza necessità che il richiedente dimostri la negligenza di chi ha prodotto (l’azienda) o somministrato il vaccino (lo Stato).

Oltre due milioni in isolamento. Trasporti e Sanità sono già in crisi

In Italia sono circa 2,5 milioni i lavoratori non ancora vaccinati, circa la metà degli over 12 no-vax. Fino a oggi la stragrande maggioranza ha potuto lavorare grazie al green pass da tampone. Ma in caso di super green pass obbligatorio, il rischio che le attività produttive possano risentirne non sono poche. Con la probabile estensione dell’obbligo al personale della Pa – che si affiancherebbe a quello del personale scolastico e delle forze dell’ordine – il Super green pass riguarderebbe subito 950 mila persone. L’obbligo potrebbe poi essere esteso gradualmente ad altre categorie. Con 1,25 milioni di positivi e il picco ancora da raggiungere, stime difficili da verificare parlano di almeno due milioni di lavoratori in isolamento (ma con l’autosorveglianza potrebbero essere ben di più), con alcune attività già in sofferenza. Gli operatori sanitari attualmente positivi sono 13 mila, con 20 mila medici non ancora vaccinati. Gli infermieri positivi sono 7.160, 6.000 i non vaccinati. E soffrono anche i trasporti: circa 300 i dipendenti dell’Atm a Milano in quarantena e oltre 300 corse dei treni Trenord sospese a causa di 170 dipendenti in quarantena. Anche a Roma l’Atac, la municipalizzata dei trasporti, comunica 160 dipendenti positivi e 2-300 in quarantena. Intanto le quarantene restano ancora una volta senza copertura: il governo non ha prorogato per il 2022 le norme che equiparano l’isolamento precauzionale alla malattia. Così chi è stato a contatto con un positivo ma è ancora senza booster o ciclo completo da oltre 4 mesi non si può mettere in malattia, ma non può neanche lavorare.

Nuovo pass per i guariti: la Salute corre ai ripari

Da oggi, probabilmente nel pomeriggio come assicurano dal ministero della Salute, lo sblocco del nuovo green pass per i positivi che si negativizzano dovrebbe funzionare in automatico. Appena arriva il tampone, ormai anche antigenico, che consente di uscire dall’isolamento, che ha durata diversa a seconda se non si è vaccinati o sia una sola dose (14 giorni), da più di 4 mesi con due dosi (10 giorni) o con tre dosi o anche due da meno di 4 mesi (10 giorni se sintomatici, 7 se asintomatici). Più complicato non poteva essere e ci si mettono anche i sistemi informatici. O forse no, al ministero sono convinti che spesso a sbagliare siano le Asl e i medici di famiglia, che non inseriscono correttamente i dati. Da oggi basterà anche il referto negativo di una farmacia, sarà trasformato in certificato di guarigione anche se è firmato da un farmacista e non da un medico.

Tanti ci hanno segnalato il problema, sollevato anche sul Corriere della Sera di ieri dal conduttore tv Nicola Savino: “Al bar vengo guardato con sospetto e vivere ‘da no vax’ è impossibile”, ha detto. A volte il sistema funziona, a volte no. C’è bisogno di un aggiornamento e lo faranno oggi.

L’ultimo riguardava il green pass dei contagiati che tuttora rimane spesso funzionante anche dopo il tampone positivo, obbligati all’isolamento, ma di fatto liberi di superare i controlli ed entrare in un ristorante, in un cinema, in uno stadio e infettare i presenti. Salvo naturalmente incorrere in sanzioni anche penali se qualcuno dovesse accorgersene. Ma quale poliziotto, vigile urbano, steward o controllore andrebbe mai a verificare un green pass che dà luce verde, corrispondente all’identità di chi mostra il qr?

Continua a succedere, le segnalazioni che ci arrivano non si contano. Da Roma a Milano e a Bari vediamo che dopo tre, quattro, cinque giorni dal tampone negativo il green pass funziona ancora regolarmente. Non sempre, certo. Può dipendere, ripetono al ministero, da errori nell’inserimento dei dati. Bisognerebbe andare a controllare caso per caso, ma il sospetto di un malfunzionamento della piattaforma, tecnicamente realizzata da Sogei, purtroppo resta.

C’è poi una certezza ed è l’assenza di una parere del Garante della Privacy sulla nuova modalità di controllo del green pass attraverso la app Verifica C 19 utilizzata in tutto il Paese. Adesso c’è una modalità “booster”, che si aggiunge a quelle “base” (guariti vaccinati o negativi al tampone, il “3g” dei tedeschi) e “rafforzata” (cioè super green pass: guariti o vaccinati, “2g” in tedesco) e dà luce verde solo se il titolare del pass ha fatto la terza dose o se, con due dosi o la guarigione, ha anche un tampone negativo. Serve, ad esempio, per andare a trovare gli ospiti delle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa). Il dato sanitario sembra un po’ esposto ai controllori. La Privacy aveva dato via libera alle prime due modalità, sulla terza non si è ancora espressa.

Il decreto a modo suo. Draghi ha ignorato i consigli degli esperti

La raccomandazione sui vaccinati entrati in contatto stretto con positivi era chiara: “Per i soggetti asintomatici che hanno ricevuto la dose booster, o che abbiano completato il ciclo vaccinale da meno di 120 giorni (…) è promossa l’autosorveglianza con abolizione della quarantena relativamente allo svolgimento dell’attività lavorativa, agli spostamenti a ciò finalizzati e alle altre attività non determinate da motivi di svago o ludici (quali frequenza delle attività didattiche e di formazione, accompagnamento di figli minori e persone non autosufficienti, assistenza a persone non coabitanti, approvvigionamenti alimentari e di farmaci non altrimenti assicurati, etc.), restando esclusa, per la sola durata di 5 giorni, la frequenza di locali ed esercizi per motivi di svago, ricreativi o ludici (quali ristoranti, bar, palestre, piscine, altri impianti sportivi, etc.), la partecipazione a eventi sportivi o di spettacolo e i relativi spostamenti. Al ministero della Salute è demandato di individuare le modalità idonee ad assicurare l’enforcement di tali divieti”.

Così si legge nel verbale del Comitato tecnico-scientifico n. 58 del 29 dicembre 2021, che il governo ha in parte disatteso. Nel decreto 229 del 30 dicembre, come nella circolare del ministero della Salute, non c’è alcun divieto per le persone asintomatiche che hanno contatti stretti con soggetti positivi al Covid dopo aver fatto tre dosi di vaccino o anche due o sono guariti da meno di 120 giorni. Né per i bar né per i cinema. La quarantena è abolita e basta: solo 5 giorni di autosorveglianza e 10 di mascherina Ffp2, pure raccomandati dal Cts.

Insomma, il rischio ragionato – di far circolare il virus, che certamente circola anche tra i tri-vaccinati – questa volta ha superato non solo le valutazioni di scienziati indipendenti come quelli dell’Associazione italiana di epidemiologia o del professor Andrea Crisanti, ma anche quelle dei consulenti scelti dal governo, che peraltro hanno discusso a lungo ma sono ben consapevoli di dover tutelare la salute ma anche la tenuta socioeconomica del Paese e quella del sistema sanitario: “L’urgenza si impone sia in ragione della dimensione e dell’impatto che sta assumendo il fenomeno delle persone in isolamento da contatto stretto, sia per le difficoltà che si riscontrano a livello territoriale nell’effettuazione di test diagnostici di massa”, scriveva il Cts nelle premesse, aggiungendo di dover valutare “senza poter disporre di un quadro compiutamente definito di evidenze circa l’impatto clinico della variante Omicron e, in certa misura, sulla protezione dall’infezione conferita dai vaccini, ma potendo comunque confidare su prime evidenze circa una buona protezione da sintomatologia grave garantita dalla somministrazione della dose booster o dal completamento in epoca recente del ciclo primario di vaccinazione”. Secondo fonti governative, la distinzione tra attività lavorative e ludiche è saltata anche per l’impossibilità di fare i controlli detto enforcement. Del resto il ginepraio delle norme su quarantene e green pass ha già reso molto difficile ogni tipo di enforcement.

Il governo ha messo da parte anche altre tre indicazioni del Cts. Sempre in relazione all’autosorveglianza, il Comitato suggeriva che fosse “promosso, nella maggior misura possibile, il cosiddetto smart working, sia per limitare l’affollamento nei luoghi di lavoro, sia per diminuire la pressione sul trasporto pubblico”. È il concetto, suscettibile di estensione più generale, a cui non si arrende il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, che vuole tutti in ufficio. Altro tema: il Cts raccomandava che in autosorveglianza “gli operatori e lavoratori che hanno stretto e ripetuto contatto con il pubblico siano sottoposti a un testing costante (ogni 48 ore)”. Una cautela in più per chi lavora in negozi, locali e uffici aperti al pubblico e nelle scuole. Di questa norma però non c’è traccia nel decreto e nella circolare. C’è invece la successiva raccomandazione, relativa ai soli “operatori sanitari”, di “tamponi su base giornaliera fino al quinto giorno dall’ultimo contatto”. Il Comitato riteneva “raccomandabile, ogni qualvolta operativamente possibile, l’esecuzione di un test diagnostico per SarsCov2 al quinto giorno”: il decreto sembrava averlo confermato, poi però nella circolare il tampone in uscita è scomparso per gli asintomatici in autosorveglianza. L’abbiamo già sottolineato, insieme al rischio che qualcuno, se contagiato da un ex autosorvegliato mai testato, possa far impugnare la circolare per violazione del decreto.

Scuola: Regioni contro il governo. Super certificato: oggi il via libera

Le Regioni e i presidi preoccupati dal dilagare dei contagi, alzano ancora i toni e chiedono di rinviare l’apertura delle scuole arrivando alla minaccia di “fare da sé”. Il governo però fa muro. “Non se ne parla”, ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi, incontrando ieri a Palazzo Chigi il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, quello della Salute Roberto Speranza e il Commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo. Il premier ha dato la sua parola nella conferenza stampa di fine anno e non può permettersi un passo indietro alla vigilia del voto del Quirinale.

La linea di Palazzo Chigi è quella di “preservare il più possibile la didattica in presenza”. E a confermarlo è lo stesso Bianchi nel pomeriggio incontrando i sindacati della scuola: “Nessun posticipo, si rientra il 10”. Come e con quali misure di sicurezza ancora non è chiaro. Tant’è che la Uil Scuola parla di “sgarbo istituzionale” perché nella riunione al ministero nulla è stato detto sulle misure che saranno decise nel Consiglio dei ministri di oggi.

Il governo è intenzionato ad accogliere molte delle proposte della Conferenza delle Regioni formalizzate ieri, almeno quelle che riguardano le quarantene in classe. Ieri mattina si sono riuniti gli assessori regionali in Commissione Salute e poi i presidenti di Regione che hanno mostrato preoccupazione sul rientro a scuola a partire dal 10: a guidare l’ala “chiusurista” è il campano Vincenzo De Luca (“riaprire le scuole è una follia con tutti questi contagi, se non si prendono iniziative faremo da soli”) che ha portato con sé Lombardia, Veneto e Toscana, mentre gli altri come Stefano Bonaccini e Nicola Zingaretti chiedono al governo di decidere in base a “un’analisi approfondita” degli scienziati. Tant’è che Luca Zaia e De Luca ne tirano in ballo il Cts: “Devono essere gli scienziati a prendersi la responsabilità, ci dicano se con questi numeri gli studenti sono al sicuro”. Le Regioni hanno anche formulato una proposta per modificare le regole su contagi e quarantene. È il principio “uno-due-tre” che differenzia le regole in base all’età. Per le scuole d’infanzia basterà un caso positivo per mandare a distanza gli alunni per 7 giorni, mentre alle elementari e fino alla seconda media serviranno due casi accertati per certificare la Dad. Dai 12 anni in su tutti in classe, possibilmente con le mascherine Ffp2, fino al terzo caso, poi tutti in quarantena per 7 giorni. Per rientrare in classe servirà un tampone antigenico o molecolare. Nel caso di un positivo (per gli studenti fino a 11 anni) e due per quelli dai 12 in su, si attiva l’autosorveglianza con la raccomandazione di non frequentare altri luoghi che non siano la scuola senza essersi testati.

Ma il vero scontro politico nel Cdm di oggi riguarderà il Super green pass per il lavoro. Il premier Draghi, viste le resistenze politiche, esclude un obbligo vaccinale generalizzato, ma vuole andare fino in fondo sul pass rafforzato per i lavoratori del pubblico impiego e del privato (dove però si procederà a scaglioni). Per andare a lavorare sarà obbligatorio immunizzarsi e il tampone non basterà più. Verrà dato un mese di tempo per fare almeno le due dosi e l’idea è quella di garantire le sostituzioni solo per le aziende sotto i 15 dipendenti. Il nodo politico, però, resta: se ne parlerà nella cabina di regia di questa mattina. Il M5S continua a essere contrario all’obbligo vaccinale (“Sarebbe una fuga in avanti” ha detto ieri Giuseppe Conte ai parlamentari chiedendo al premier un “confronto in Parlamento”) ma anche al pass per il lavoro. Ancora più dura la Lega. Se Matteo Salvini tiene un profilo basso per non rompere con Draghi in vista del Quirinale, Giancarlo Giorgetti ha fatto sapere al premier che il suo partito è contrario. Da via Bellerio non si esclude l’astensione in Cdm, ma la mancanza di unanimità sarebbe una macchia sulla strada di Draghi verso il Colle. I ministri si scontreranno anche sullo smart working nella Pa. Ieri, dopo l’attacco di Fabiana Dadone dalle colonne del Fatto, Brunetta ha visto Draghi e ha fatto un mezzo passo indietro dopo il “no” dei giorni scorsi: “Si ragiona su una maggiore flessibilità” fanno sapere fonti di governo. Ma Conte avverte: “Altre restrizioni solo se si tornerà allo smart working”.

Nuovo Cinema Paradosso

Come già col governo Monti, anche con quello di Draghi è bastato meno di un anno per scoprire che il problema dei governi tecnici, oltre alle maggioranze troppo ampie ed eterogenee, sono proprio i ministri tecnici. Nato sulle gambe corte della grande bugia del “fallimento della politica”, il Governo dei Migliori doveva fare faville e mirabilie proprio grazie al Dream Team dei ministri non politici, dunque competenti per scienza infusa. Che invece si sono rivelati paradossalmente i peggiori fra i Migliori. Di CingolEni e della sua transizione nuclear-petrolifero-gassosa già sappiamo. Della Cartabia e della sua schiforma della giustizia, pure. Di Franco e della sua disastrosa gestione della legge di Bilancio, idem. Di Colao e della sua transizione digitale invece poco si sa perché non lascia impronte digitali, se non sulla gara pilotata del Cloud di Stato. Come la ministra dell’Università che, per la cronaca e per Chi l’ha visto?, si chiama Messa.

Se ora ci ritroviamo 259 morti (due terzi di un anno fa, quando i vaccinati erano poche migliaia) e 170mila contagi in un giorno (record di tutti i tempi) non è solo perché Delta è la variante più letale e Omicron la più contagiosa. Ma anche perché i tecnici Bianchi e Giovannini hanno miseramente fallito sulla scuola e sui trasporti pubblici, il tecnico Draghi non ha afferrato per il baverino il fido Brunetta per rimandare la Pa in smart working, il tecnico Figliuolo annaspa tra vaccini mancanti e code chilometriche di gente in attesa di terze dosi, tamponi a prezzi di rapina e reagenti fantasma. E i veri tecnici del Cts mugugnano anonimamente sui giornali perché il governo abolisce le quarantene senza filarseli. È per occultare questa catastrofe “tecnica” che oggi Draghi, il Pd e quel che resta di Speranza (anche lui commissariato) tenteranno l’audace colpo dei soliti noti: il Super Green pass per lavorare, rendendo il vaccino obbligatorio senza dirlo. Funziona così. Chi vuole farsi la terza dose non ci riesce, perché le liste d’attesa sono infinite (siamo partiti a novembre anziché a giugno), mentre si obbliga a farsi la prima chi non vuole. Così i non vaccinati che si tamponano ogni due giorni e verosimilmente sono sani non lavoreranno più, mentre i vaccinati contagiati e contagiosi continueranno a lavorare col Super Green pass, che non s’è ancora trovato il modo di revocare ai positivi. E capita pure che venga annullato ai positivi appena diventano negativi e devono attendere lo speciale SuperGp per guariti: cioè possono lavorare quando sono infettivi, ma non quando non lo sono più. È la famosa transizione digitale di cui sopra. A questo punto, nelle migliori famiglie, qualcuno chiamerebbe un tecnico. Ma noi ne abbiamo già fin troppi.

Ecco “Barn”: a 76 anni il rock di Neil Young resta ancora limpido (e ispirato dalla Luna)

A 76 anni suonati, Neil Young è ancora la perfetta personificazione della rockstar orfica, con quella sua cupa visione del mondo che ha segnato generazioni di musicisti (che hanno poi dato vita al Grunge), e quella voce malinconica, talvolta lamentosa, che esplode la sua rabbia mentre mena fendenti con la chitarra elettrica. Nell’ultima decade, il musicista canadese oramai naturalizzato statunitense, ha pubblicato ben dodici dischi, aggiudicandosi per meriti conquistati sul campo, il titolo di uno degli artisti più prolifici del rock. Da qualche tempo è uscito il suo nuovo album, il quarantunesimo per la precisione, intitolato Barn, “fienile”. Dieci canzoni ispirate dalla Luna, registrate durante una settimana di luna piena, nel giugno del 2021, perché “i cicli lunari hanno un’influenza diretta sull’energia che attraversa le vicende degli esseri umani”. L’idea del titolo, Barn, invece, sarebbe venuta durante una gita in barca a remi, nel lago circostante al suo ranch in Colorado. Stava ascoltando il suo vecchio, celebre album, Harvest, in compagnia di Graham Nash, quando il producer Elliot Mazer gli chiede, urlando dalla riva, di come arrivasse l’audio che fuoriusciva dalle casse del fienile. La risposta di Neil: “More Barn!”… Già, perché Barn, come spiega lo stesso Neil Young nel lungometraggio che ha accompagnato l’uscita del disco, è influenzato fortemente dall’ambiente in cui è stato concepito, in questo fienile, appunto, ristrutturato dal rocker e la moglie Daryl Hannah, ai piedi delle Montagne Rocciose. Per l’occasione, “Uncle Neil” ha riportato in vita i Crazy Horse, orfani da tempo del chitarrista Frank Sampedro, degnamente sostituito da Nils Lofgren. E il disco è “il risultato del lavoro di un gruppo di vecchi amici in isolamento, che trovano conforto nel rumore che possono ancora fare”. Chitarre elettriche e acustiche, country e rock e la costante presenza dell’armonica: Barn da un lato presenta pezzi acustici sulla falsa riga di Harvest, come Tumblin’ thru the years, They might be lost o Song of the season; l’altra faccia della medaglia è rappresentata da pezzi più sporchi e blueseggianti, come Human race e Canerican, il brano in cui parla della recente acquisizione della cittadinanza americana, “I am American, American is what I am/I was born in Canada, came south to join a band/Canerican is what I am”. Menzione speciale per Welcome back, piccola gemma paragonabile ai suoi capolavori del passato: migliore augurio per un felice ritorno non poteva esserci.

“L’invenzione più bella” è raccontata in 150 film

Greta Garbo, il Lubitsch touch, l’anticomunismo americano avallato dal Patto Molotov-Ribbentrop, e quell’impareggiata ironia che eleva a potenza una delle migliori commedie di sempre: “Ci sono meno russi, ora, ma siamo i migliori”, quale risultato di un processo di massa. Per gustarvi Ninotchka, perla in bianco e nero del 1939 con Ernst Lubitsch alla regia, Billy Wilder alla sceneggiatura e la Divina in campo, non dovete cercare tra piattaforme e home video, bensì uscire di casa, accomodarvi in poltrona e lasciare che sia Cinema, il più grande. Si chiama “XX secolo. L’invenzione più bella”, ma è un ritorno al futuro: trenta campioni della storia del cinema, centocinquanta capolavori, sette mesi di programmazione.

L’iniziativa è del CSC – Cineteca Nazionale, con il sostegno del Ministero della Cultura e in collaborazione con Circuito Cinema, lo spazio il Quattro Fontane di Roma, l’appuntamento ogni lunedì, martedì e domenica mattina fino al 29 giugno: trenta settimane per altrettanti cineasti, di cui gustare i cinque titoli più significativi, selezionati dal cinéphile Cesare Petrillo, già fondatore con Vieri Razzini della benemerita Teodora Film. Dopo aver omaggiato in dicembre Robert Altman, Jack Nicholson, François Truffaut e Barbara Stanwyck, questa settimana tocca appunto a Lubitsch, con Ninotchka in programma oggi alle 18.00, la prossima a Carole Lombard, quindi al sommo e misconosciuto Valerio Zurlini, di cui segnaliamo almeno La ragazza con la valigia (lunedì 17 gennaio, ore 20.30). Tra Covid e paranoia, direte, ci vuole del coraggio per andare al cinema. Ammesso e non concesso, giacché la sicurezza della visione in sala è comprovata, perché dunque accontentarsi di una programmazione ordinaria sovente anche per qualità, e non rituffarsi nel passato più glorioso, con versioni all’altezza e in lingua originale? L’imbarazzo è solo della scelta, e invero non c’è divieto di cumulo, solo il dovere di approfittarne: se il theatrical laddove non è cultura e comunità è lungodegente, “XX secolo. L’invenzione più bella” tiene fede al titolo che s’è scelto, e confidiamo faccia proseliti. Sostiene Marta Donzelli, presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, “andare al cinema vuol dire ridere, piangere, sperare, gioire, spaventarsi, emozionarsi con gli altri nel buio della sala”. E, in questo caso, fare tesoro di pietre miliari della Settima Arte senza svenarsi: il carnet da venti ingressi costa come quattro tamponi, sessanta euro.