Celati, disertore del romanzo

Irrequieto e solitario, appartato ed eclettico. Nelle ore che seguono la scomparsa a 84 anni di Gianni Celati, il tenore delle definizioni che circolano sul Web cercando di sintetizzare il carattere di uno scrittore tra i più grandi nel Novecento, convergono verso il paradigma dell’inclassificabile. E non a caso, perché incongruo rispetto ai parametri letterari dominanti, c’è da dire, Celati lo è stato senz’altro.

Traduttore di Joyce, Céline e Swift tra gli altri, critico e saggista tra i più acuti, regista di documentari stranianti, narratore sperimentale e sempre altrove. Quel che è certo è che in oltre cinquant’anni di attività Celati non ha mai curato la propria “carriera”, non è mai stato compiacente rispetto alle logiche del mercato editoriale e non si è mai fatto trovare là dove lo si attendeva. Solo di recente, nel 2016, quando i suoi contributi si erano fatti più radi, gli era stata tributata l’attenzione meritata con la pubblicazione di un Meridiano che raccoglie parte della sua vastissima e variegata opera.

Ma già da una trentina d’anni Celati viveva in una specie di volontario esilio in Inghilterra, a Brighton, dove si era trasferito dopo aver abbandonato, alla metà degli anni Ottanta, la cattedra di Letteratura angloamericana all’Università di Bologna in polemica con la casta professorale e il conformismo accademico. Eppure già allora si trattava di un autore relativamente riconosciuto, con all’attivo libri di narrativa che avevano segnato una generazione e aperto la strada alle novità giovanili degli anni Ottanta, da Palandri a Tondelli.

Tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta Celati aveva cominciato la propria esperienza letteraria sotto gli auspici di Italo Calvino, che lo tenne a battesimo nel 1971 con una postfazione a Comiche, il suo primo libro che solo con grandi giravolte sofistiche si può far rientrare nella categoria romanzesca. Si trattava infatti di una scrittura sperimentale che cercava nella dimensione manicomiale e nella logica della gag, una via d’uscita dalla gabbia romanzesca, come confermerà nel seguente e mirabolante Le avventure di Guizzardi.

Contrariamente a quanto accade nei romanzi tradizionali, con trame realistiche e morale della storia, nelle gag linguistiche del primo Celati non c’era infatti nessun tentativo di persuasione, nessuna economia utilitaria, ma solo un travolgente “parlamento”. Cadute, capriole, schiaffi, sberleffi, bagarre: tutti gli elementi di un gran circo lunare, dove non contava più la misura della frase ben scritta, quanto il guizzo inatteso che sottrae alla meccanica del senso deviando in una direzione presso cui può solo scoppiare una grassa risata.

Si trattava della diserzione dal ruolo un poco sacerdotale di Autore che forse stava stretto anche a Calvino. La via di Celati infatti era quella della letteratura minore, del rifiuto, dello scarto, della sperimentazione della possibilità di una dislocazione del soggetto e del raziocinio suo proprio, alla ricerca di una letteratura che cada più dalla parte dell’esperienza. Di una via cioè, che fuggendo dalla Letteratura portasse alla vita.

Dopo i romanzi degli anni Settanta, infatti, Celati sperimentò altre strade, e in particolare dopo l’incontro con Luigi Ghirri, scrisse libri dai moduli narrativi completamente mutati, quasi “quaresimali”, in cui si percepisce l’eco di un’idea originaria del raccontare storie come pratica quasi rituale, legata a momenti precisi di condivisione; un’idea di cerimoniale in cui la libera parola del racconto produce visioni e tempi altri senz’altra finalità che passare il tempo, o scacciare la noia come stato di indigenza immaginativa.

Sono tutte idee, queste, che si ritrovano espressamente in molta della riflessione critica di Celati sulle pratiche narrative – della novella in particolare – e nei racconti che dagli anni Ottanta, con Narratori delle pianure (1985), fino agli ultimi di Selve d’amore (2013), è andato scrivendo cercando di attingere a quel fondo comune che sono le conversazioni, là dove si esercita l’uso quotidiano della parola narrativa per andare verso gli altri, e da dove viene l’istinto immaginativo di raccontare come proprietà antropologica.

Lì Celati trova una concezione del narrare come parola a vanvera per consumare il tempo, non per capitalizzarlo in verità di cui il linguaggio sarebbe il muto specchio, la pietra tombale. Attraverso la perdita delle parole, la scrittura non media più il rapporto con una verità metafisica (Realtà, Ragione, o altro), come nella Letteratura da cui Celati sembra in fuga continua, ma trasforma la pagina in una scena viva in cui è possibile sentire sottili modulazioni di voce, intensità non riferibili alla coscienza, la grana delle tonalità affettive che originano dall’incontro con le apparenze del mondo.

L’immersione nel banale quotidiano, nel circolo routinario dove la vita tiene insieme il mondo cucendolo con reciprocità immaginativa, è stato per Celati, e per i suoi lettori, l’antidoto non solo alla macchina romanzesca, ma soprattutto a una realtà dominata dall’avidità di un Capitale senza patria e senza lingua e da un’Attualità fatta solo di attesa ed eccezionalità. Pur senza prese di posizione didascalicamente engagé, la letteratura di Celati, in tutte le sue forme, è stata ed è una critica del presente e una sua messa a distanza che riconcilia con una vitalità profonda e materiale.

Riecco donna Mestizia collezionista di smalti, poltrone&Bat-caverne

Mai lieta fu Letizia. Figuriamoci noi a dovercene occupare, causa Quirinale, locazione quanto mai vacante che (forse) l’attende nella possibile emergenza politico-psichiatrica dei maschi Alfa costretti infine a sottomettersi alle quote rosa.

Come molte figlie d’alta borghesia milanese con padri dominanti (“il mio fu severissimo, ultimo ceffone a 21 anni”) anche Donna Letizia Maria, nata Brichetto Arnaboldi, ramo broker assicurativi, è cresciuta gravata da multipli complessi di inadeguatezza che ha nascosto dietro la superficie metallica del suo permanente sorriso che non sorride, stile signora Thatcher, cui pure si ispira. Insieme con la distratta prepotenza che esercita guardando gli umani sottostanti, più di quanto le consentirebbero i suoi modesti meriti professionali, ma al netto della superiorità di censo ereditata, tanto più ora che s’è fatta papabile e persino bionda.

Prima della recente sostituzione del sempre sorridente Giulio Gallera, prezioso assessore alla Sanità lombarda, giubilato in pieno disastro Covid-19 “perché un po’ stanchino”, l’avevamo persa di vista dopo i disastri alla Pubblica Istruzione, secondo governo Berlusconi, anni 2001-06, dove rispettò la tradizione di smontare le riforme della scuola appena varate dal ministro precedente e marcare il territorio con la propria. Ne fece le spese l’intera Università italiana, ma pazienza.

In premio nel 2006 ebbe Palazzo Marino, prima sindaca donna di Milano, città medaglia d’oro di infinite resistenze, dove si segnalò ai cittadini e alla Corte dei Conti per l’assunzione di 91 dirigenti e/o consulenti a tempo determinato, danno erariale stimato in 6 milioni di euro, “per totale disinteresse dell’interesse pubblico”, ridotto in sentenza a un milioncino tondo. Operando sempre coadiuvata dal suo fido Paolo Glisenti, detto “il Rasputin della Bovisa”, suo personale consigliere, con un ufficio stampa di 20 persone, appena più sobrio di quello che occorre alla Regina Elisabetta per cambiarsi d’abito e cappello.

Il cappello più prezioso di Letizia è il cognome del marito scelto a vent’anni e per sempre, Gian Marco Moratti, dinastia di petrolieri, che a Milano vuol ancora dire Angelo, il Commendatore padre, proprietario della grande Inter di Helenio Herrera, di un pezzo del Corriere della Sera, collezionista d’arte, di pietre preziose, di ville e terreni. Nonché fondatore della più grande raffineria del Mediterraneo, la Saras, 15 milioni di tonnellate di greggio raffinato all’anno, a 25 chilometri da Cagliari, davanti al mare smeraldo di Sarroch, dove le ciminiere eruttano fumo nero e miasmi da mezzo secolo, ma garantiscono stipendi regolari agli inquinati che qualche volta persino protestano.

Quando convola a nozze, Gian Marco è già sposato e ha due figli, ma per la Sacra Rota nessun matrimonio pregresso è un problema: si prega, si paga, si annulla. Segue cerimonia sontuosa. Poi basta: vita quotidiana riservatissima e compassionevole, secondo tradizione giansenista milanese, nonostante l’attico in San Babila, il giardino pensile con orto botanico, i dieci camerieri con divisa adeguata, gli altrettanti bodyguard con l’auricolare.

Tutto li unisce. Per prima cosa la devozione per San Patrignano, la comunità per tossicodipendenti fondata da Vincenzo Muccioli, che Letizia difenderà fino all’indifendibile, dove trascorrono le vacanze in camper, pianificando ogni anno donazioni milionarie. E naturalmente la dedizione per i figli diventati quattro. Specie quando si mettono nei guai, come capitò al più piccolo, Gabriele, che trasformò la sua dimora, una ex fabbrica di 447 metri quadri, periferia Ovest, nella celebre Bat-caverna con botola motorizzata per accedere al poligono di tiro sotterraneo, la piscina con ponte levatoio, i saloni, la palestra, la sauna, il garage per le quattro Harley Davidson e il gippone Cherokee.

Quattro milioni d’euro di lavori in tutto, ma dimenticandosi di chiedere i permessi edilizi, poverino. Nulla ne sapeva la sindaca: “Sono andata a casa di mio figlio solo un paio di volte”, dichiarò. Generando una tale ondata di buon umore a Milano, da perdere seduta stante la rielezione in favore di Giuliano Pisapia. Che non contenta provò a diffamare all’ultimo minuto dell’ultimo confronto televisivo, negli studi di Sky, accusandolo di avere rubato un’auto negli anni 70, “usata per organizzare un pestaggio”. Bufala che recitò con lo sguardo pio a lei consueto dai tempi del suo voto di castità. Lo stesso voto, lo stesso sguardo, assunto dal suo amico Roberto Formigoni, che se ne vantava, ogni estate, finito di masticare l’aragosta sulle barche altrui, attribuendosi anche il voto di povertà.

Persa Milano, Letizia incassa la poltrona di presidente di Ubi Banca. La quale ha tra i suoi clienti privilegiati proprio la Saras di casa Moratti che attinge dai suoi forzieri cospicui finanziamenti non segnalati agli organi di controllo, al punto da meritarsi una multa di Banca d’Italia per illecito amministrativo. E Donna Letizia una indagine supplementare, appena conclusa dalla Procura di Cagliari che nel frattempo aveva scoperto ingenti importazioni di petrolio della Saras, a prezzi stracciati, dal Kurdistan iracheno, negli anni 2015-16, governato all’epoca dall’Isis, lo Stato islamico di Daesh che finanziava la sua scia di sangue con il contrabbando.

Si vedranno prossimamente gli esiti dell’inchiesta. Ma intanto, visto che anche Letizia è azionista della Saras ci sarebbe da considerare il conflitto di interessi, a essere pignoli. Cosa che in Forza Italia non fa impedimento, ma curriculum. Non per caso lei è la tessera numero due del partito. Omaggio fattole personalmente da Berlusconi che ha un debole per lei da tempi non sospetti, avendole affidato nientemeno che la presidenza Rai negli anni d’oro, 1994-96. Gentilezza che lei ricambiò definendo il servizio pubblico “complementare alla Fininvest”.

Quando Banca Intesa conquista il controllo di Ubi Banca, anno 2020, Donna Letizia viene accompagnata alla porta. Passa dagli avvocati. Cambia colore allo smalto delle unghie e in un amen si ritrova al piano nobile di Regione Lombardia, non solo assessore alla Sanità, con 50 miliardi di euro in portafoglio, ma anche vicepresidente, accanto al celebre Attilio Fontana. In un anno esatto la Lombardia passa dalla padella di ieri, alla brace di oggi, code chilometriche per i tamponi, ospedali di nuovo in emergenza. “Ci metterò tutta me stessa”, aveva detto accettando l’incarico. Lo ha fatto. I corazzieri sono avvisati.

Ecco i 2 euro dedicati a Falcone e Borsellino

È entrata in circolazione la moneta da 2 euro dedicata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il Poligrafico dello Stato ne ha coniati tre milioni di pezzi, per un valore complessivo di 6 milioni di euro. Sulla faccia della moneta è incisa la celebre fotografia scattata da Tony Gentile in cui i due magistrati che trent’anni fa persero la vita nelle stragi di Capaci (23 maggio) e di via D’Amelio (19 luglio) assieme agli uomini e alle donne delle loro scorte sono ritratti insieme e sorridenti il 27 marzo 1992, pochi mesi prima della loro morte: Falcone e Borsellino si trovavano in un evento pubblico, al palazzo Trinacria di Palermo, nel rione della Kalsa, per la presentazione della candidatura alla Camera dei deputati del collega Giuseppe Ayala.

“Preti pedofili, soldi e potere nella Gomorra di Varsavia”

Gomora, una erre sola, è il titolo del libro che decine di migliaia di polacchi, in queste settimane, non hanno avuto paura di leggere. Del “volto oscuro della Chiesa” nel loro Paese hanno scritto l’avvocato Artur Nowak, che ha difeso negli ultimi anni centinaia di vittime dei preti pedofili nei tribunali, e l’ex gesuita Stanislaw Obirek, oggi professore all’Università di Varsavia. “In comune abbiamo due cose: siamo entrambi stati abusati da religiosi durante l’infanzia. Entrambi abbiamo sentito l’urgenza di descrivere l’immoralità dell’establishment ecclesiastico polacco, cieco davanti alle prove di migliaia di bambini violentati. È una casta che protegge se stessa, e che ha il solo scopo di tutelare i suoi interessi e rimanere impune, proprio come un sistema monarchico. La Chiesa polacca esercita il suo potere incutendo terrore alla popolazione, facendola vivere nella paura”.

In un Paese profondamente cattolico, tradizionalista e conservatore avete rotto un tabù: quello sulla pedofilia nei seminari e nelle sacrestie.

Della massiccia presenza di peccati mortali in ogni palazzo vescovile polacco tutti sapevano, ma nessuno ne parlava. Scrivere Gomora non è stato un atto di coraggio, ma di onestà. Poiché manca un archivio ufficiale nel Paese, possiamo solo affidarci alle stime: in Francia, per esempio, negli ultimi 70 anni ci sono stati 300mila casi di abusi. In Polonia, società molto più arcaica e clericale di quella francese, si deve parlare di cifre molto più alte. Molte vittime moriranno nel silenzio della vergogna e non verranno mai allo scoperto. I preti pedofili, inoltre, spesso mantengono posizioni di prestigio nelle istituzioni. Un esempio è Andrzej Dymer, prete della chiesa di Szczecin, che ha abusato ragazzi, nel silenzio delle gerarchie, per 25 anni, ma faceva fare molti soldi al suo istituto religioso. Un prete domenicano della diocesi di Wroclaw era convinto di purificare, con il suo pene, le ragazzine che violentava. Poi c’è il caso di Eugeniusz Makulski, un chierico che ha violentato centinaia di ragazzi.

Makulski gestiva il Santuario di Nostra Signora di Lichen, il più grande della nazione, dove c’era una statua che lo raffigurava con Wojtyla, “il polacco” per eccellenza.

Le prove che Wojtyla sapesse degli abusi, a oggi, sono moltissime e alcune sono nel libro. Quando Ratzinger provò a parlargli di materiali e denunce pervenuti negli Uffici vaticani, Giovanni Paolo II disse esplicitamente che non se ne doveva parlare. Promuoveva individui dalla moralità ambigua se sostenevano i suoi dogmi. Ha promosso la teologia dell’oppressione, non ha ascoltato le voci di migliaia di vittime, ma ha avuto una popolarità straordinaria, assicurata dal grigiore di quel mondo diviso in blocchi che lo aveva formato. Quando i polacchi hanno riavuto la loro libertà nel 1989 per lui è stato un trauma.

Con Papa Francesco le cose sono cambiate?

S. O.: In Polonia c’è una forte resistenza al suo modo di essere pontefice, ma Francesco conosce bene il gioco dei media: sembra aperto e spontaneo, ma prende decisioni perché è costretto a farlo, cerca di rispondere alle pressioni dei media, ma difende comunque le sue strutture.

La Polonia sta comunque sta cambiando: dal silenzio durato decenni, oggi ci sono denunce pubbliche.

A. N.: Conosco le strutture ecclesiastiche da avvocato e so quanto è difficile arrivare alle informazioni per ottenere giustizia: le istituzioni religiose non collaborano con gli ex bambini abusati, intralciano la giustizia, non sono capaci di fare ammenda. La Chiesa continua a perdere processi, ma preferisce non fare accordi con le vittime e continuare a compromettersi. C’è avidità di denaro e in molti temono di finire come negli Usa, dove molte diocesi sono finite in bancarotta.

La Chiesa polacca gode anche dell’appoggio dei nazionalisti del Pis, il partito al potere.

Siamo una teocrazia cattolica, l’Iran d’Europa. L’alleanza tra governo e strutture religiose è fortissima, come il servilismo dei politici verso il clero. Ignorano le proteste di piazza dei giovani e i richiami della Corte europea, si spalleggiano nelle dichiarazioni omofobe in pubblico, ma i vescovi, per esempio, le tollerano in privato.

Per esempio?

L’arcivescovo di Cracovia, Marek Jedraszewski, parla della ‘peste arcobaleno’ quando si riferisce ai membri della comunità Lgbt, ma vive a un centinaio di metri da un cardinale che intrattiene evidenti rapporti omofili con un suo collaboratore.

Il ministero Talib vieta alle donne di usare anche i bagni pubblici

Nella provincia settentrionale di Baji, in Afghanistan, le autorità religiose hanno deciso di vietare l’accesso ai bagni pubblici a donne e ragazze. La scelta dei clerici è stata appoggiata dai funzionari del Ministero per la Promozione della virtù e prevenzione del vizio ed approvata in maniera unanime.

“Poiché in molte case mancano i bagni moderni”, hanno comunicato i nuovi padroni in tunica e kalashnikov, “gli uomini hanno il permesso di usare i bagni pubblici. Alle donne è concesso usare solo quelli privati, ma sempre tenendo addosso l’hijab”, si legge nella dichiarazione riportata dall’agenzia afghana Jaama Press. Per le ragazze, ma anche per i minorenni, nessuna pulizia nella provincia dove, per la povertà profonda e diffusa, gli abitanti non possiedono servizi igienici nelle case.

La questione toilette torna di nuovo nei titoli dei media occidentali, da quando, a settembre scorso, poco dopo la presa della Capitale dopo l’avanzata talib, il “sindaco” di Kabul, Hamdullah Nomani, aveva riferito che non c’era spazio per le donne da nessuna parte, – specialmente non al municipio dove, all’epoca, speravano ancora di tornare -, a meno che non volessero “pulire i bagni pubblici”.

Solo pochi giorni fa, ad Herat, lo stesso Ministero per la Protezione della Virtù ha emesso una direttiva imponendo a tutti i commercianti di eliminare le teste dei manichini femminili nei loro negozi perché “offendono l’Islam: sembrano statue da adorare” e questo, nella religione di Allah, è proibito, ha detto Aziz Rahman, a capo del dipartimento locale del dicastero musulmano.

Il 29 dicembre scorso i talebani hanno però permesso che le afghane scendessero in strada a Kabul per manifestare contro il blocco delle riserve valutarie del Paese, congelate da quando gli americani hanno lasciato il territorio: “I nostri figli vogliono mangiare”, “Sbloccate i nostri soldi”, c’era scritto sui loro manifesti. La stretta su diritti e libertà peggiora per tutti, da un lato all’altro nel Paese, e si estende anche a cibi e bevande: pochi giorni fa tremila litri di alcol sono finiti nei fiumi afghani dopo un blitz delle forze di sicurezza del governo talebano. Si vede in un video diffuso dagli “studenti di religione” che hanno scritto su Twitter che “i musulmani devono astenersi dal produrre alcolici”.

Malta e i fondi per il gas. Daphne, soldi Ue al mandante

Una ricompensa. Così Matthew Caruana Galizia, figlio della giornalista maltese Daphne – fatta saltare in aria con la sua auto nell’ottobre del 2017 – ha definito la proposta della Ue di voler finanziare con soldi pubblici il gasdotto Melita. “È inaccettabile: sarà una ricompensa per persone accusate di omicidio”, sono state le parole ripetute nelle ultime settimane dal figlio della reporter. Secondo lui, giornalista d’inchiesta come la madre, tra i beneficiari dei fondi europei ci sarà infatti anche Yorgen Fenech, l’imprenditore in attesa di essere processato con l’accusa di complicità nell’omicidio della reporter maltese.

Che c’entra Fenech con il progetto Melita? “Il gasdotto – spiega Caruana Galizia al Fatto – alimenterà la centrale elettrica gestita dalla società Electrogas. La risoluzione dell’attuale contratto di fornitura di gas con Electrogas, necessaria per la costruzione del gasdotto, comporterebbe un pagamento di decine di milioni agli azionisti di Electrogas, come previsto dalla clausola di recesso dell’accordo firmata il 30 novembre 2017 (di cui ci fornisce copia, ndr). Visto che è uno dei beneficiari finali di Electrogas, Fenech trarrà vantaggio da questo pagamento e anche dalla vendita della stessa centrale elettrica, come ha confermato la ministra dell’Energia di Malta”.

La vicenda di Melita s’inserisce nell’accordo raggiunto di recente a Bruxelles. Lo scorso 14 dicembre, Parlamento europeo, Consiglio e Commissione Ue hanno fissato le nuove regole del Ten-E, la rete dell’energia europea, proponendo lo stop ai finanziamenti pubblici per nuovi gasdotti e oleodotti. Nel documento ci sono però due eccezioni: Eastmed e, appunto, Melita. Hanno in comune due aspetti. Collegheranno alla rete europea del gas due isole, Malta e Cipro, e avranno come punto di unione l’Italia. Melita dovrebbe infatti partire dalla Sicilia e arrivare a Malta, mentre Eastmed punta a trasportare il metano estratto nel Mediterraneo Orientale – tra le acque di Cipro e Israele – fino a Otranto, sulle coste del Salento. Sono queste le uniche due eccezioni previste dall’intesa che per entrare in vigore dovrà essere ora approvata dal Consiglio della Ue e dal Parlamento.

La proposta di Bruxelles ha ricevuto molte critiche da parte di chi crede che bisognerebbe smettere di incentivare con denaro pubblico infrastrutture pensate per trasportare combustibili fossili. Se questo vale sia per Melita sia per Eastmed, con l’aggravante che il secondo costa molto più del primo (7 miliardi contro 400 milioni), il tubo progettato per unire Gela a Malta è finito al centro delle polemiche soprattutto dopo la denuncia di Matthew Caruana Galizia. Le proteste hanno portato la Commissione europea ad aggiustare il tiro. Nel testo finale della proposta è stato inserito un passaggio che sembra scritto appositamente per spegnere le polemiche: dice che nemmeno un euro pubblico dovrà arrivare “direttamente o indirettamente” a chiunque sia coinvolto in attività criminali. Sarà sufficiente per evitare che Fenech – il quale si è sempre definito innocente – incassi denaro dei contribuenti? “La proposta – risponde il figlio di Daphne – garantisce che la Commissione Ue non finanzierà alcun progetto senza adeguate assicurazioni legali da Malta sul fatto che nemmeno un euro pubblico vada, direttamente o indirettamente, a entità implicate nella corruzione. Spetta alla Commissione europea assicurare che il governo di Malta fornisca tali garanzie legali. E spetta al governo di Malta far sì che tali garanzie legali siano efficaci e non fittizie”.

In ultima istanza, insomma, la palla sarà in mano al governo di La Valletta. Lo stesso che, dice Matthew Caruana Galizia, ha fatto pressioni affinché il gasdotto Melita fosse inserito nei progetti finanziabili con denaro pubblico: “La ministra dell’Energia di Malta ha scritto e chiamato i negoziatori prima dell’accordo finale per far sì che il gasdotto fosse definito ‘pronto per l’idrogeno’, dunque considerato un progetto a energia pulita”. L’idrogeno verde, quello prodotto solo grazie a energia rinnovabile, ha però un problema di prezzo. Fino all’ultima impennata del gas di questi mesi, è sempre stato più costoso rispetto al cosiddetto ‘idrogeno blu’ (derivato da combustibili fossili) e a quello ‘grigio’ (ripulito con sistemi di cattura dei gas serra). Motivo per cui – se non verrà incentivato pubblicamente – il combustibile green che dovrebbe riempire in futuro Melita rischia di rimanere un’opzione fuori mercato.

Epstein pagò 500mila dollari all’accusatrice del principe

Il nome di Andrea non figura sul documento, ma i suoi legali hanno deciso di utilizzarlo per tenere il principe lontano dai tribunali. La carta bollata in questione, venuta fuori nelle ultime ore, è il patteggiamento con il quale nel 2009 Jeffrey Epstein pagò 500mila dollari a Virginia Giuffre, la ragazza che accusa il membro della Royal family britannica di averla stuprata quando era minorenne. E questo accordo, sostengono i legali del duca di York, vieterebbe alla Giuffre di procedere contro il terzogenito della regina Elisabetta II d’Inghilterra.

Il testo del patteggiamento fra Epstein e Giuffre, che oggi ha 38 anni, è stato reso pubblico alla vigilia dell’udienza di oggi, ritenuta cruciale, prevista nell’ambito dell’azione legale avviata dalla donna contro il principe Andrea, uno degli uomini – è l’accusa – a cui Epstein l’avrebbe concessa. Un procedimento distinto dal recente processo contro Ghislaine Maxwell, ritenuta colpevole di traffico sessuale di minori a favore del defunto Epstein, arrestato il 6 luglio 2019 trovato morto in carcere a New York il successivo 10 agosto. I legali del principe Andrea ritengono che l’accordo vieti alla Giuffre di fare causa contro il membro della famiglia Windsor in quanto il documento firmato dalla donna fa riferimento anche a “qualunque altra persona o entità” che avrebbe potuto essere un “potenziale imputato”. A ottobre proprio i legali del duca di York avevano messo in evidenza come il patteggiamento avesse schermato Epstein e molti altri da tutte le accuse: “Per evitare di essere trascinato in future dispute legali, Epstein aveva negoziato un accordo che – avevano spiegato – copriva le altre persone identificate da Giuffre come potenziali target di altre azioni legali a prescindere dal loro merito”. Da parte sua, il team di legali che rappresenta la donna sostiene che l’accordo, che venne siglato in Florida, non può applicarsi al principe Andrea, che avrebbe abusato della giovane a New York, a Londra e alle Isole Vergini.

Trump convocato dalla Procura di New York “Gonfiò il valore dei suoi beni e frodò il fisco”

A un anno dalla presa del Campidoglio – il 6 gennaio 2021 migliaia di facinorosi suoi sostenitori, da lui sobillati, invasero il Congresso –, Donald Trump deve fare i conti con la giustizia ordinaria, oltre che con quella politica (una commissione della Camera sta indagando sulle sue responsabilità in quella sommossa). Il procuratore di New York, Letitia James, che da anni spulcia i conti dei Trump cercando le prove di frodi ed evasioni fiscali, vuole interrogare l’ex presidente e i due suoi figli maggiori, Donald jr e Ivanka, per verificare se la Trump Organization, la holding di famiglia, abbia davvero gonfiato il valore dei suoi beni a fini fiscali. James è una che non fa sconti: sua l’inchiesta che ha indotto alle dimissioni Mario Cuomo, governatore democratico dello Stato di New York. Trump contesterà il mandato di comparizione, invocando, come già fatto con la Camera, i privilegi dell’esecutivo. Più difficile per i figli sottrarsi al confronto.

Malgrado i guai giudiziari, Trump resta l’opzione preferita dagli elettori repubblicani per Usa 2024.

Blair nominato Sir, in 400mila contro: “Toglietegli titolo”

La Regina Elisabetta lo ha nominato Sir e membro dell’Ordine della Giarrettiera, il più alto grado di cavalierato del Regno Unito. Ma in molti, e non solo oltremanica, non hanno dimenticato i “crimini di guerra” in Iraq e Afghanistan, né le bugie con cui venne giustificata l’invasione irachena. E in un paio di giorni oltre 400mila persone hanno firmato una petizione online per togliere a Tony Blair le insegne concesse all’ex premier laburista fra le tradizionali onorificenze di Capodanno.

L’iniziativa, senza precedenti in queste dimensioni contro l’assegnazione di una decorazione reale, è stata partorita da un attivista di sinistra, Angus Scott. Tra i firmatari non mancano reduci e familiari di militari uccisi sul fronte iracheno e su quello afghano, indignati per il riconoscimento attribuito all’ex artefice del New Labour, che per quelle vicende non ha mai voluto scusarsi, malgrado il pesante verdetto pronunciato su di lui e sulla sua amministrazione dalla commissione indipendente Chilcot nel 2016. Oltre a detrattori e pacifisti che piuttosto invocano per il neo baronetto un processo dinanzi al Tribunale internazionale dell’Aja.

Secondo alcune interpretazioni, la 95enne Elisabetta II si sarebbe risolta a decorare Blair come gesto di gratitudine per l’aiuto che l’allora premier diede a una monarchia in crisi di popolarità dopo la morte della principessa Diana. In realtà la sovrana ha atteso molto più del consueto per elevare al rango di Sir l’ultimo capo di governo laburista mai eletto nel Regno, rispetto ai tempi tradizionalmente rapidi con cui questo titolo viene concesso di norma agli ex premier. Non si può quindi escludere che la decisione sia stato il frutto di sollecitazioni dell’establishment di corte, verso un uomo impopolare fra la gente comune anche per le sue lucrose attività post governative di consulente d’affari (a beneficio di regimi autoritari in giro per il mondo), ma sempre gradito da vasti settori delle élite e dei media mainstream.

Kiev contro Netflix “Emily in Paris offende l’Ucraina”

Kiev insorge. Non per le truppe russe al confine est del Paese, ma per la serie tv Emily in Paris distribuita da Netflix. Il ministro della Cultura, Oleksandr Tkachenko, ha inoltrato ieri agli uffici del gigante dello streaming una lettera di lamentele per essere stato “offensivo” verso il popolo ucraino. Ha poi ribadito il suo sdegno su Telegram: “È un’inaccettabile caricatura di una donna ucraina. È anche offensiva. È così che gli ucraini sono visti all’estero?”.

Al centro della diatriba c’è la serie tv prodotta dall’autore di Beverly Hills e Sex and The City, Darren Star, visibile su Netflix dall’ottobre 2020. Protagonista della fiction è la 28enne americana Emily Cooper, che, per lavoro, si trasferisce nella Capitale francese, dove incontra – al quarto episodio della seconda stagione – l’ucraina Petra. La bionda, che abitualmente ruba abiti costosi e borse nei magazzini di lusso, adora vestirsi in maniera eccentrica e ha paura di essere deportata nel Paese d’origine. A interpretarla è Daria Panchenko, attrice nata a Kiev che ha deciso di trasferirsi a Parigi all’età di 17 anni. La zizzania è poi proseguita sul fronte dei social slavi. Al ministro Tkachenko ha tenuto testa la produttrice della Film.Ua, Natalka Yakymovych: “I personaggi negativi possono essere tutto tranne che ucraini? Ovviamente, tutti vorremmo che fossero moscoviti”.

La produzione di Emily in Paris aveva già promesso, al termine della prima stagione, di incrementare diversità e profondità nella galleria dei suoi personaggi, ma non ha mantenuto la parola. L’Ucraina, infatti, non possiede il primato delle critiche al telefilm, ma il programma detiene un vero record di lamentele, arrivate da più latitudini per le montagne di cliché che ammassa da una scena all’altra. I primi a contestarla sono stati proprio i parigini, tutti dipinti come traditori seriali, fumatori incalliti, indossatori ossessivi di berretti e incontrollabili mangiatori di croissant.