Irrequieto e solitario, appartato ed eclettico. Nelle ore che seguono la scomparsa a 84 anni di Gianni Celati, il tenore delle definizioni che circolano sul Web cercando di sintetizzare il carattere di uno scrittore tra i più grandi nel Novecento, convergono verso il paradigma dell’inclassificabile. E non a caso, perché incongruo rispetto ai parametri letterari dominanti, c’è da dire, Celati lo è stato senz’altro.
Traduttore di Joyce, Céline e Swift tra gli altri, critico e saggista tra i più acuti, regista di documentari stranianti, narratore sperimentale e sempre altrove. Quel che è certo è che in oltre cinquant’anni di attività Celati non ha mai curato la propria “carriera”, non è mai stato compiacente rispetto alle logiche del mercato editoriale e non si è mai fatto trovare là dove lo si attendeva. Solo di recente, nel 2016, quando i suoi contributi si erano fatti più radi, gli era stata tributata l’attenzione meritata con la pubblicazione di un Meridiano che raccoglie parte della sua vastissima e variegata opera.
Ma già da una trentina d’anni Celati viveva in una specie di volontario esilio in Inghilterra, a Brighton, dove si era trasferito dopo aver abbandonato, alla metà degli anni Ottanta, la cattedra di Letteratura angloamericana all’Università di Bologna in polemica con la casta professorale e il conformismo accademico. Eppure già allora si trattava di un autore relativamente riconosciuto, con all’attivo libri di narrativa che avevano segnato una generazione e aperto la strada alle novità giovanili degli anni Ottanta, da Palandri a Tondelli.
Tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta Celati aveva cominciato la propria esperienza letteraria sotto gli auspici di Italo Calvino, che lo tenne a battesimo nel 1971 con una postfazione a Comiche, il suo primo libro che solo con grandi giravolte sofistiche si può far rientrare nella categoria romanzesca. Si trattava infatti di una scrittura sperimentale che cercava nella dimensione manicomiale e nella logica della gag, una via d’uscita dalla gabbia romanzesca, come confermerà nel seguente e mirabolante Le avventure di Guizzardi.
Contrariamente a quanto accade nei romanzi tradizionali, con trame realistiche e morale della storia, nelle gag linguistiche del primo Celati non c’era infatti nessun tentativo di persuasione, nessuna economia utilitaria, ma solo un travolgente “parlamento”. Cadute, capriole, schiaffi, sberleffi, bagarre: tutti gli elementi di un gran circo lunare, dove non contava più la misura della frase ben scritta, quanto il guizzo inatteso che sottrae alla meccanica del senso deviando in una direzione presso cui può solo scoppiare una grassa risata.
Si trattava della diserzione dal ruolo un poco sacerdotale di Autore che forse stava stretto anche a Calvino. La via di Celati infatti era quella della letteratura minore, del rifiuto, dello scarto, della sperimentazione della possibilità di una dislocazione del soggetto e del raziocinio suo proprio, alla ricerca di una letteratura che cada più dalla parte dell’esperienza. Di una via cioè, che fuggendo dalla Letteratura portasse alla vita.
Dopo i romanzi degli anni Settanta, infatti, Celati sperimentò altre strade, e in particolare dopo l’incontro con Luigi Ghirri, scrisse libri dai moduli narrativi completamente mutati, quasi “quaresimali”, in cui si percepisce l’eco di un’idea originaria del raccontare storie come pratica quasi rituale, legata a momenti precisi di condivisione; un’idea di cerimoniale in cui la libera parola del racconto produce visioni e tempi altri senz’altra finalità che passare il tempo, o scacciare la noia come stato di indigenza immaginativa.
Sono tutte idee, queste, che si ritrovano espressamente in molta della riflessione critica di Celati sulle pratiche narrative – della novella in particolare – e nei racconti che dagli anni Ottanta, con Narratori delle pianure (1985), fino agli ultimi di Selve d’amore (2013), è andato scrivendo cercando di attingere a quel fondo comune che sono le conversazioni, là dove si esercita l’uso quotidiano della parola narrativa per andare verso gli altri, e da dove viene l’istinto immaginativo di raccontare come proprietà antropologica.
Lì Celati trova una concezione del narrare come parola a vanvera per consumare il tempo, non per capitalizzarlo in verità di cui il linguaggio sarebbe il muto specchio, la pietra tombale. Attraverso la perdita delle parole, la scrittura non media più il rapporto con una verità metafisica (Realtà, Ragione, o altro), come nella Letteratura da cui Celati sembra in fuga continua, ma trasforma la pagina in una scena viva in cui è possibile sentire sottili modulazioni di voce, intensità non riferibili alla coscienza, la grana delle tonalità affettive che originano dall’incontro con le apparenze del mondo.
L’immersione nel banale quotidiano, nel circolo routinario dove la vita tiene insieme il mondo cucendolo con reciprocità immaginativa, è stato per Celati, e per i suoi lettori, l’antidoto non solo alla macchina romanzesca, ma soprattutto a una realtà dominata dall’avidità di un Capitale senza patria e senza lingua e da un’Attualità fatta solo di attesa ed eccezionalità. Pur senza prese di posizione didascalicamente engagé, la letteratura di Celati, in tutte le sue forme, è stata ed è una critica del presente e una sua messa a distanza che riconcilia con una vitalità profonda e materiale.