Grillo sfotte Di Maio sul mandato zero: “Di andarmene a casa non ho il coraggio”

Il motivetto deve avergli suonato in testa per tutta la mattina. Poi, subito dopo pranzo, l’ha buttato online. “Se mi lasci non vale”, canta Julio Iglesias. E a Beppe Grillo è venuto in mente che quel verso che fa “la valigia sul letto è quella di un lungo viaggio…”, si poteva facilmente adattare a quello che stava accadendo al “suo” Movimento: “Il mandato ora in corso è il primo di un lungo viaggio/ma di andarmene a casa non ho proprio il coraggio…”. Ebbene sì, Beppe Grillo trolla Luigi Di Maio. E come il resto del web lo prende in giro perché si è inventato il “mandato zero”, quello che “non vale” nel caso si siano fatti due giri da semplice consigliere comunale.

Lo fa con una certa perfidia, il garante. Perché tutto sta vivendo, Di Maio, tranne che un momento facile: i sondaggi che non risalgono, le litigate con Matteo Salvini e adesso pure il “sorpasso” mediatico del premier Giuseppe Conte. Finire nel mirino anche del fondatore, non dev’essere stato piacevole. D’altronde, era stato lo stesso garante, qualche settimana fa a dire al Fatto che i Cinque Stelle dovevano essere “biodegradibili” e a ribadire il suo no al Tav. Così, fa un po’ specie vedere l’affondo contro il capo politico proprio nel giorno in cui arriva il sofferto via libera del governo alla Torino-Lione. Di Maio non ha reagito, almeno pubblicamente. L’ultima volta in cui si era rivolto al fondatore, era stato solo l’altro ieri, in occasione del suo compleanno: “Grazie Beppe, tu mi hai insegnato a correre la maratona e non i cento metri. Ci saranno alti e bassi, ma se restiamo uniti e abbiamo ben chiaro l’obiettivo della nostra rivoluzione culturale, nulla ci fermerà”.

Le telefonate, poi il video. Così Conte ha deciso di “sminare” il Rubli-gate

Quel totem non era suo, questo governo sì, sempre di più. E va salvato, da sè stesso e dal caso Russia. Ecco perché Giuseppe Conte, l’avvocato che fa il premier grazie ai Cinque Stelle ma che i Cinque Stelle non li ha mai votati, all’ora di cena in un video su Facebook dice sì al Tav. “Non fare la Torino-Lione costerebbe molto più che completarla” scandisce. Ed è una verità aritmetica che brucia uno dei comandamenti attorno a cui il M5S si era formato, il no alla tratta.

Ma per il presidente del Consiglio conta altro. Quelle norme e quei numeri che pure sono un cappio, “e io devo gestire i soldi degli italiani come un buon padre di famiglia”. Ma soprattutto, conta la sopravvivenza della sua maggioranza, quindi non sprofondare oggi in Senato nelle sabbie del Rubli-gate, il pasticciaccio russo che è lo spauracchio di Matteo Salvini e un problema per i gialloverdi tutti. Su quella rogna, un pozzo di cui tutti ignorano la profondità, Conte riferirà oggi pomeriggio a Palazzo Madama, affrontando quei parlamentari da cui Salvini fugge senza fermarsi.

Ed è per questo che ieri sera annuncia il sì alla tratta, prima della data fatidica di venerdì, quando bisognerà inviare la lettera ufficiale all’Agenzia europea delle Reti (Inea) per confermare la volontà di usare i fondi europei. Ma soprattutto prima della sua apparizione di questo pomeriggio in Parlamento.

Innanzitutto alla Camera, dove alle 15 Conte dovrà rispondere al question time su vari temi. E non a caso la Lega voleva interpellarlo proprio sul Tav, infierire su un nervo scoperto. E l’interpellanza ci sarà ugualmente, assicurano in serata i leghisti Molinari e Roixi: “In Aula ci aspettiamo il definitivo sì all’opera”. Di certo alle 16.30 il premier riferirà sul caso Russia. E rimane quello, il primo motivo della mossa di Conte. Deciso a sminare un possibile incrocio letale per il governo, il confronto a distanza che si paventava tra lui e il senatore Salvini, pronto a parlare proprio in Aula magari per contraddirlo, e allora andare avanti per i gialloverdi sarebbe stato davvero difficile. Ma Conte, legale che ha imparato in fretta i tempi della politica, si muove prima. Per togliere uno dei suoi argomenti preferiti alla Lega, la protesta contro il M5S che blocca tutte le opere con la connivenza del premier. E affievolire la voce sempre troppo alta di Salvini.

Certo, di micce per darsele ne restano altre mille, un mare in cui la maggioranza quasi annega tutti i giorni: dalle autonomie, su cui la distanza rimane siderale (ieri i tavoli tecnici sono saltati e il Consiglio dei ministri apposito di giovedì ormai è un’ipotesi del terzo tipo) alle tasse più o meno piatte, fino ai porti chiusi, ai salari minimi, alla legalità. Ma bisogna andare per ordine di guai, e Conte sa scegliere.

Non a caso il ministro dell’Interno oggi non si presenterà in Senato, e se ne starà al comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Non può essere un mercoledì da fine del mondo, questo. Il sì alla Torino-Lione è l’anestetico che ci voleva, e Salvini lo sorbisce volentieri. Perché lo può presentare come una sua vittoria, e in fondo ha pure ragione. “La Tav si farà, come giusto e come sempre chiesto dalla Lega. Peccato per il tempo perso, adesso di corsa a sbloccare tutti gli altri cantieri fermi!” commenta subito con piglio virile.

Ma la sua informativa sul Rubli-gate, il testo con la spiegazione scritta sul caso che Conte gli aveva chiesto pubblicamente, fino a ieri sera non era arrivato a Palazzo Chigi. Solo mutismo, quindi la consueta fuga, da parte del vicepremier. Ma Conte ieri lo ha preavvertito del video, con un messaggio via telefono. Invece con Di Maio c’è stato altro, ci sono stati ripetuti contatti, forse una riunione. Perché sarà il capo del M5S a dover reggere tutto il peso dell’abiura, ma che si preparava all’evento da mesi. Da tempo aveva delegato “tutto il dossier” a Conte. Ed eccolo, il punto di caduta. Con Di Maio che lo anticipa al premier: “Io dovrò dire comunque no al Tav”. Ma Conte deve andare avanti, fare quello che non avrebbe mai voluto Beppe Grillo, il fondatore, il garante del Movimento, sgolatosi fino all’ultimo momento contro la Torino-Lione. Il presidente lo sa bene, e per questo telefona a Grillo, per informarlo e spiegargli le ragioni della decisione. Un passaggio per schivare una scomunica dal fondatore che sarebbe esiziale.

Ma la scelta di Conte resta pesante. Anche per questo il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, riguardo cui ieri pomeriggio circolavano forti voci di dimissioni in caso di sì al Tav. Quel sì arriva, ma Conte lo guarnisce con qualche sillaba dolce per il ministro, di cui Salvini chiede da tempo la testa e che il M5S non difende più come un tempo: “Ulteriori finanziamenti dell’Unione Europea saranno disponibili grazie all’impegno del ministro Toninelli. Per questo lavoro che lui ha compiuto, lo devo ringraziare pubblicamente”. E al Mit gradiscono, molto. “Resta la contrarietà all’opera” è la linea. Ma Toninelli può aggrapparsi alla mano che gli ha teso il premier, visto che non è convinto da un eventuale rimpasto. Nell’attesa, oggi Conte parlerà di Russia. Senza forzare, e giocando di sfumature. Perché non vuole dare a Salvini appigli o pretesti per far saltare un banco che già trema ogni santo giorno. E più che da avvocato dovrà parlare da equilibrista.

Confermato sciopero dei trasporti: ridotto solo quello aereo

A poco o nulla è servito l’estremo tentativo di mediazione messo in campo dal ministro Danilo Toninelli: oggi i lavoratori dei trasporti via terra e via mare sciopereranno per l’intera giornata, con fasce che varieranno da città a città. I sindacati del settore di Cgil, Cisl e Uil hanno apprezzato la disponibilità del governo a un incontro, ma non è bastato per accogliere la richiesta di posticipare la data dell’astensione per ridurre i disagi. Né è servita la preghiera del Garante degli scioperi: visto il polso fermo dei sindacati, chi oggi deve spostarsi sia su lunghe sia su brevi tratte dovrà prepararsi a vivere una giornata complicata, per uno stop che interesserà i treni, il trasporto pubblico locale, quello marittimo, i porti, le autostrade, i taxi, l’autonoleggio e anche gli addetti del comparto merci e logistica. Disagi che arrivano dopo l’incendio nelle centraline ferroviarie vicino Firenze che ha spaccato il Paese e sul quale puntavano Toninelli e il Garante per convincere le sigle a fare un passo indietro. “Premesso che gli scioperi sono stati proclamati nel rispetto delle vigenti disposizioni – ha detto il Garante – questi avverrebbero, a ridosso di giornate che hanno registrato rilevanti perturbazioni alla circolazione dei treni con grave sacrificio del diritto alla mobilità dei cittadini”. L’autorità si è quindi appellata a un gesto di responsabilità. Il ministro, invece, ha fatto leva anche sulla promessa di rivedersi e discutere di tutti i punti sollevati. Come detto, però, è stata confermata la mobilitazione, che tra l’altro prevede un sit-in di protesta sotto il ministero. Al centro delle contestazioni è sia il merito sia il metodo. Questo esecutivo, dicono i sindacati, “non ci ha mai convocato, e lo ha fatto solo per sporadici incontri per la gestione delle singole crisi” come Alitalia e simili, mai per ragionare su infrastrutture e politiche dei trasporti. Il riferimento, nemmeno troppo velato, è al dibattito interno alla maggioranza sulle grandi opere che, per le sigle, andrebbero sbloccate e a quello sull’eventuale revoca delle concessioni autostradali. Ora che il ministro si è detto pronto a incontrarli, Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti giudicano la convocazione “utile ma tardiva”. L’astensione inizierà alle 9 e terminerà alle 17. Dopodomani, invece, ci sarà lo sciopero del trasporto aereo, che – con provvedimento ministeriale – è stato ridotto tra le 10 e le 14.

L’ultima débacle: cade il tabù, M5S ci rimette la faccia

L’ultima bandiera è ammainata, la mutazione è completata, il blog trabocca dell’accusa peggiore: “Traditori”. Il sì al Tav pare una porta verso il non ritorno per il M5S. Anche se Luigi Di Maio, il giovane capo, prova a urlare un no “forte, convinto, deciso” alla Torino-Lione. Giura di “rispettare Conte” ma ribadisce “che per il M5S l’opera resta dannosa, un regalo alla Francia e a Macron”, e si aggrappa a un passaggio che sarà solo burocrazia: “Sarà il Parlamento a decidere sul Tav, a votare, il presidente del Consiglio lo ha detto”.

Ma quello è un presidente scelto dai Cinque Stelle, e questo è un governo dove la maggioranza l’hanno ancora i Cinque Stelle. E l’esito di questa sorta di sillogismo è che il M5S non ha potuto e voluto fermare la Torino-Lione, non ha salvato quello che era un codice di riconoscimento, un simbolo sotto cui ritrovarsi e ritrovare la propria storia. Tanti saluti, ora non resta che puntare il dito contro la Lega: “Fra non molto potremo vedere con i nostri occhi chi decide di andare a braccetto con Renzi, Monti, Calenda, la Fornero e Berlusconi. Il Parlamento restituirà a tutti la verità dei fatti. Noi non molleremo mai”. Promette quello che può promettere, Di Maio: “Il Movimento presenterà un atto per dire che le priorità sono altre”. Ma ormai è andata così. Il M5S voterà contro il Tav, tutti gli altri a favore, e la maggioranza spaccata come una mela rimerrà comunque dov’è “perché nel contratto di governo non c’è il no alla Torino-Lione” ripetono e si ripetono i 5Stelle. I comunicati ufficiali sono un abbozzo di colla, un tentativo di tenere assieme un Movimento che ha già problemi di identità. Ma nella pancia del M5S tira aria da fine di un’era, piovono chat e messaggi anonimi che grondano rabbia e infinita stanchezza. E c’è chi dice pubblicamente cosa prova. Per esempio il senatore torinese Alberto Airola, no Tav della primissima ora: “Non avete idea di quante email ho scritto a Conte dopo averlo incontrato e spiegato che potevamo sospendere tutto. Sono affranto. Una battaglia che facciamo da anni, non deve finire così”. E sulle agenzie tracima anche la rabbia del senatore Emanuele Dessì: “Oggi è una giornata di merda, questa non ci voleva, dopo anni di lotte questa è una sconfitta dolorosissima”. Mentre tace Roberto Fico, il presidente della Camera, l’ortodosso che c’è da sempre nel M5S, che per mesi aveva recitato a scadenza regolare il rosario del no alla Torino-Lione. “Eravamo no Tav prima di essere 5Stelle” era arrivato a dire. Ma in un afoso martedì di luglio il dogma è violato. Fico, pare, non era stato neanche avvertito del video. E in serata parlando ai suoi ripete la sua idea, ribadisce che era e resta contrario. Resta quello di prima.

Difficile che possa pensarla diversamente anche Alessandro Di Battista, anche lui zitto, anche lui meditabondo su rotta e fisionomia del Movimento. No Tav, sempre e comunque. Come il presidente dell’Antimafia Nicola Morra che oggi, assicurano, “si farà sentire”, dicendo la sua. “Siamo ridicoli” si macera nell’attesa un big della vecchia guardia. E poi c’è lui, c’è Grillo. In giornata aveva ironizzato sulla riorganizzazione. In serata, il sì al Tav, contro cui si era schierato anche nelle ultime settimane. E ufficialmente il garante non dice nulla. Girano indiscrezioni su una sua reazione furiosa, ma dal M5S smentiscono: “Di Maio ha sentito Grillo, ci ha espresso sostegno sul no al Tav”. E così sia.

Appendino rischia davvero. L’incubo rivolta in Val di Susa

“Pensavate che stavolta al governo l’avrebbero fermato? Scherzetto. Ve l’avevamo detto che non abbiamo governi amici”. Effettivamente sì, il movimento NoTav lo ha ripetuto più volte: sull’alta velocità non ci sono governi amici. E questo commento apparso in rete pochi minuti dopo l’annuncio del premier Conte che dà il via libera del governo gialloverde al completamento dell’odiatissima opera, non fa che confermarlo, nonostante il Movimento, fino all’ultimo, si fosse rivolto proprio a Conte per invocare “la sospensione del progetto, scelta semplice, inevitabile e unica”.

E invece la scelta pare essere, ancora una volta, un’altra. E i timori, adesso, si concentrano sul weekend in Valsusa, dove è in programma la chiusura del tradizionale campeggio “Alta felicità”, con annessa marcia e “gite al mostro” che – altrettanto tradizionalmente – equivalgono a visite non esattamente amichevoli (e nei giorni scorsi se ne sono avuti i primi assaggi) al cantiere di Chiomonte.

Ma il vero tema, a Torino, ora è politico. E rischia di essere un terremoto per la già affannata sindacatura di Chiara Appendino, alle prese con rapporti non esattamente distesi con parte della sua maggioranza “dura e pura”.

E il primo comandamento dei “duri e puri” è il credo No Tav, un totem che, cadendo, rischierebbe di essere la madre di tutte le sconfitte. E non solo per il Movimento 5 Stelle.

Un assaggio del clima che si respira lo ha dato Francesca Frediani, consigliera regionale valsusina, twittando: “Un governo di cui fa parte il #M5S dà l’ok al Tav? Inaccettabile. Il #tuttiacasa sarebbe per voi”.

Ma a rischiare, più che il governo, è la giunta Appendino. La sindaca, fino all’ultimo, ha provato a tenersi in disparte: “Il Tav – aveva detto ieri prima dell’annuncio del premier – è un tema su cui non abbiamo un aspetto decisionale, è in mano al governo. Io ho massima fiducia in Giuseppe Conte”. Non è dato sapere se la fiducia sia sopravvissuta, certo è che a grosso rischio sia la fiducia della maggioranza pentastellata alla sua sindaca, qualora Appendino scegliesse un profilo filogovernista in nome di un “non possumus” sul blocco dell’odiata opera inutile.

I rumors di Palazzo civico, tuttavia, sembrano escludere una rottura fatale. Nei corridoi si vocifera di una possibile frattura “concordata”, ossia un gruppo di “duri e puri” fuori dal M5S ma dentro la maggioranza, prodromo di una possibile lista civica da spendere alle prossime elezioni. Chi potrebbe avere qualche interesse a tramare per far cadere Appendino sul Tav, paventano alcuni, potrebbe essere l’ex vicesindaco Guido Montanari, durissimo e purissimo a cui la sindaca ha da poco ritirato le deleghe dopo l’annuncio del trasferimento del Salone dell’automobile (e dove se no?) a Milano. Ma l’eventualità, secondo i bene informati, non è data come probabile.

Chi gongola sono le “madamine”, le organizzatrici delle manifestazioni Sì Tav dello scorso novembre, ultimamente un po’ in disparte: “Il comitato ‘Sì Torino va avanti’ – scrivono – ha accolto con grande entusiasmo la dichiarazione del premier Conte che si è espresso esplicitamente a favore della Tav anche in anticipo rispetto alla data richiesta dall’Europa. Un successo per Torino, per il Piemonte e per l’Italia a cui noi del comitato, con i cittadini scesi in piazza, i sindacati e gli industriali abbiamo contribuito attivamente”.

Ora Conte diventa Sì Tav: “Fermarlo costa troppo”

Otto minuti e 36 secondi per archiviare la partita. E spazzare via le speranze riposte dai pentastellati nella conferenza del 7 marzo scorso, in cui Giuseppe Conte spiegò di essere contrario alla Torino-Lione (“se dovesse essere cantierata ora, non avrei dubbi a bloccarla”) vista la stroncatura dell’analisi costi-benefici che la bollava come un inutile spreco di soldi. Alle 7 e mezza di sera il premier sceglie un videomessaggio su Facebook per confermare quello che era nell’aria da mesi, diventato certezza negli ultimi giorni, con la scadenza di venerdì in cui il governo dovrà confermare l’impiego dei fondi europei all’Inea, l’Agenzia Ue che si occupa delle infrastrutture e delle reti.

Il premier spiega che rispetto a marzo “sono intervenuti fatti nuovi, di cui dobbiamo tener conto”. Il primo “è che l’Europa si è detta disponibile ad alzare il finanziamento della tratta transfrontaliera dal 40 al 55%”; il secondo è che per la tratta nazionale (da Orbassano a Bussoleno) “l’Italia potrebbe beneficiare di un contributo di Bruxelles del 50%. E ulteriori finanziamenti europei saranno disponibili grazie all’impegno del ministro Toninelli, e per questo lo devo ringraziare”. Il richiamo al ministro delle Infrastrutture serve a quietarlo, con le voci di sue dimissioni imminenti in caso di sì all’opera circolate per tutto il giorno. Lui incassa e tutto si chiude (“tengo duro”). Il terzo elemento “quello forse più rilevante – prosegue Conte – è che la Francia s’è espressa per la conferma dell’opera”, con l’approvazione all’assemblea nazionale il 18 giugno della legge sulla mobilità che ribadisce l’impegno. “Ne consegue che se volessimo bloccare l’opera, e, se fosse possibile, intraprendere un progetto alternativo, non lo potremmo fare condividendo questo percorso con la Francia. A queste condizioni solo il Parlamento potrebbe adottare una decisione unilaterale”, visto che l’opera è regolata da un trattato internazionale. Conte promette poi che i costi sbilanciati di un tunnel che l’Italia paga per due terzi pur essendo per due terzi in Francia saranno oggetto di un negoziato con Parigi, ma ammette che “allo stato, questo nuovo riparto non sarebbe ancora garantito”. E difficilmente arriverà. Tirate le somme, la decisione è quindi di dare il via all’opera: “Non realizzarla , comporterebbe non solo la perdita dei finanziamenti europei ma ci esporrebbe a tutti i costi derivanti dalla rottura dell’accordo con la Francia. Alla luce dei finanziamenti comunitari, fermare il Tav costerebbe molto più che completarlo”.

Adesso ai 5Stelle, da sempre No Tav, per evitare l’implosione resta solo la via parlamentare: andare in minoranza alle Camere renderà palese che esiste una maggioranza in favore dello spreco e lascerà traccia di una sua opposizione. E a settembre Telt, il promotore italo-francese dell’opera, darà il via libera alle gare.

Difficile dire se basterà a placare l’ala dura, soprattutto in Piemonte. Anche perchè le argomentazioni di Conte hanno assai poco di rassicurante. Il tunnel di base (57 km) costa 9,6 miliardi, che Bruxelles sia pronto a finanziarlo per 5,3 miliardi (il 55%) è improbabile visto che è una cifra superiore ai finanziamenti previsti per altri tratti transfrontalieri dei corridoi ferroviari Ue (il Connecting Europe Facility ). L’impegno ad aumentare i fondi, peraltro, è stato garantito da Iveta Radicova, coordinatrice europea del Corridoio mediterraneo, ma la decisione spetterà alla nuova Commissione, che non è neppure insediata, e con una procedura che dura anni. Improbabile anche che l’Ue finanzi al 50% i costi della tratta nazionale, visto che nei programmi per i corridoi europei sono esclusi finanziamenti per i tracciati in capo ai singoli Paesi. Sui costi dello stop vale la pena ricordare che il contratto (Grant agreement) non prevede penali e che la relazione giuridica del ministero delle Infrastrutture quantifica il danno massimo in 1,7 miliardi, una cifra “difficilmente raggiungibile”, a fronte di un costo per l’Italia di 3 miliardi (2,2 con l’aumento dei fondi Ue), quasi 5 con la tratta nazionale.

Si chiude così il grande equivoco su un’opera cara alla Lega e a quasi tutte le forze politiche, per cui il contratto di governo prevedeva l’impegno a “ridiscuterne integralmente il progetto”. L’idea di delegare la scelta ai tecnici non è servita: la commissione del ministero guidata da Marco Ponti ha concluso che l’opera ha un impatto economico negativo per 7 miliardi ma non c’è stata alcuna conseguenza politica. “Sono soldi buttati – commenta Ponti col Fatto – ma gli accordi scellerati dei governi precedenti rendono difficile uno stop. I 5Stelle potrebbero fermare altre opere inutili dalla Brescia-Padova alle ferrovie siciliane. Ma non lo faranno”.

La peggiore sconfitta per i 5 stelle e gli italiani

L’annuncio del premier Conte che dà il via libera alle gare d’appalto per il Tav Torino-Lione è la più cocente sconfitta mai subìta dai 5Stelle in dieci anni di vita. Molto peggio dei rovesci elettorali alle Europee del 2014 e del 26 maggio scorso. Molto peggio del voto suicida per salvare Salvini dal processo Diciotti. Perchè il Movimento era No Tav ancor prima di nascere, quando Beppe Grillo già negli anni 90 sposò la sacrosanta battaglia del popolo della Val Susa contro l’opera pubblica più demenziale, anacronistica, inquinante, dannosa e costosa d’Europa.

Ma, se fossero in ballo solo le sorti del M5S, potremmo allegramente infischiarcene. Qui sono in ballo una montagna di soldi pubblici; la sopravvivenza di quella Valle martoriata e militarizzata da 20 anni di cantieri “esplorativi”; e una questione di principio: la tutela dell’interesse nazionale contro gli sperperi in opere inutili, che questo governo aveva giustamente affrontato con l’analisi costi-benefici di un gruppo di esperti, ottenendone una stroncatura senz’appello: valore netto negativo tra i 6,1 e i 6,9 miliardi, anche considerando i fondi già usati ed eventuali, improbabili spese aggiuntive in penali e ripristino dei luoghi. Ora quel metodo viene platealmente disatteso, in nome di presunti aumenti dei fondi Ue (modesti e tutti da verificare) e di una presunta urgenza di decidere subito ciò che i nostri compagni di sventura seguitano a rinviare alle calende greche (l’Ue non ha stanziato neppure il 10% del dovuto e la Francia non ha messo a bilancio un euro, rinviando al 2038 le opere di collegamento).

Le difficoltà del fronte No Tav, che in Parlamento può contare solo sul M5S, erano stranote dinanzi allo strabordante Partito degli Affari, che abbraccia Lega, Pd, FI e FdI. Ma c’è modo e modo di perdere una partita così cruciale. Anche senza aprire una crisi di governo che porterebbe al voto e poi al trasloco di Salvini dal Viminale a Palazzo Chigi, i 5Stelle avrebbero potuto sostituire il vertice di Telt (la società italo-francese che vuol bandire le gare) per rinviare tutto a quando anche Parigi e Bruxelles avranno tirato fuori i soldi. Cioè a mai. E poi sfidare Salvini a far cadere il governo: probabilmente il Tav sarebbe finito sul binario morto. Ora, persa per persa, portino almeno la questione in Parlamento, con un ddl per revocare il trattato italo-francese. Così gli italiani saprebbero chi vuole sprecare i loro soldi e chi usarli per opere davvero utili e urgenti. Sarebbe sempre una sconfitta, ma onorevole e trasparente. Nascondersi dietro a Conte, capo di un governo a maggioranza M5S, è come perdere la partita senza neppure giocarla.

Formigodi

L’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Milano che scarcera Roberto Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione, dopo ben 5 mesi di galera e lo spedisce ai domiciliari a casa di un amico che lo manterrà per i restanti 65 mesi, inaugura un nuovo filone della letteratura umoristica: la satira giudiziaria. Com’è noto, da quest’anno vige la legge Spazzacorrotti, che estende ai reati di corruzione il divieto di concedere ai pregiudicati le misure alternative al carcere (già previsto per i delitti di mafia, terrorismo, droga, contrabbando, sequestro di persona, violenza sessuale, pedofilia, riduzione in schiavitù): cioè i servizi sociali e i domiciliari, previsti per i condannati a meno di 4 anni, ma anche a pene superiori per chi ha compiuto 70 anni. A meno che – precisa la legge Bonafede – uno non collabori con la giustizia per far scoprire altri reati. Ora, Formigoni ha 72 anni e non ha mai collaborato con la giustizia. S’è addirittura rifiutato regolarmente di farsi interrogare da pm e giudici. Non ha mai ammesso i suoi reati, nemmeno dopo la condanna definitiva. Infatti la Procura di Milano ha dato parere negativo ai domiciliari perché “non si può escludere l’utilità di sue dichiarazioni sull’ingente patrimonio transitato per i paradisi fiscali e mai recuperato”. Il processo ha accertato che, per dirottare 200 milioni pubblici alle cliniche Maugeri e San Raffaele, il trio Formigoni (per 18 anni presidente ciellino della Regione Lombardia)- Daccò (faccendiere ciellino suo amico)-Simone (ex assessore regionale ciellino alla Sanità) aveva movimentato uno spaventoso giro di tangenti sulla pelle dei malati: almeno 61 milioni, di 6,6 finiti al Celeste. In gran parte mai trovati.

Ma i giudici, col via libera del Pg, l’han mandato a casa anche se non ha mai collaborato. Motivo: anche volendo, “il presupposto della collaborazione è impossibile” perchè ormai il processo s’è chiuso e ha ricostruito i fatti “con pignoleria”. Sì, è vero, il pm ipotizza che Formigoni sappia in quali paradisi fiscali è nascosto il resto del bottino e l’ “associazione criminale” sia ancora in piedi per custodire quello e altri segreti. Ma queste sono “ipotesi” e “presunzioni”, mica di certezze. E per forza: se non parlano né lui, nè Daccò, né Simone, come si fa ad avere certezze? Bisognerebbe interrogare Formigoni, che però rifiuta da sempre. Com’è suo diritto. Ma allora lo Stato avrebbe il dovere di tenerlo dentro, come prevede la legge per chi non collabora. Invece lo mettono fuori dopo 5 mesi (su 70) perchè non collabora ma pensano che non possa più farlo (a proposito di “ipotesi” e “presunzioni”).

Ragionamento (si fa per dire) che ora dovrebbe valere per tutti i condannati: visto che il processo è finito, non possono più collaborare. Quindi solo un fesso, d’ora in poi, collaborerà con la giustizia: perchè mai confessare tutti i propri delitti, e pure quelli altrui, e restituire il maltolto, quando si possono nascondere tanti bei soldini tacendo al processo e poi, una volta condannati, andarsene subito a casa (di un amico) a godersi un’agiata vecchiaia? Se lo sragionamento vale pure per i mafiosi, siamo a cavallo: finora era proprio il carcere senza benefici a indurne alcuni a pentirsi. Ma ora basterà la condanna definitiva per tappare loro la bocca: anche se vogliono parlare, il giudice farà notare che il processo ha già ricostruito i fatti “con pignoleria”, ergo si stiano zitti e non rompano i coglioni. Il meglio però arriva a proposito del “percorso di recupero” che San Roberto, in soli 5 mesi, ha compiuto in cella riconoscendo “sbagli”, “atteggiamenti superficiali” e “disvalore delle sue condotte” (i colori delle giacche e delle cravatte erano troppo sgargianti), come “l’amicizia con Daccò e le vacanze sugli yacht ai Caraibi” (prossimo giro, solo Maldive).
E poi “non riveste più alcun ruolo pubblico” (essendo detenuto, sarebbe complicato persino in Italia), ragion per cui la pena fissata in sentenza sarebbe “afflittiva”. Povera stella. Tra l’altro, in carcere, il Celeste ha tenuto “uno stile di vita riservato”. Si temeva che desse dei party a ostriche, caviale e champagne nell’ora d’aria, o invitasse in cella ballerine dell’obaoba, o sfoggiasse anche lì giacche color salmone/aragosta. Invece niente: il detenuto modello teneva “basso profilo” e addirittura respingeva le richieste di favori degli altri detenuti, rispondendo lodevolmente “di non poter intervenire”. Quindi basta non continuare a delinquere in carcere per scontare la pena per i delitti precedenti fuori dal carcere. Eppoi il nostro ha mostrato “uno sforzo di adattamento, consolidato da elementi tra cui la fede” (se era ateo, erano cazzi) e “dal volontariato in biblioteca”. Decisiva l’ “accettazione delle sentenze”: l’altroieri i suoi avvocati gli han suggerito di fare il bravo e lui ha magnanimanente dichiarato in udienza: “Mi conformo alla condanna e comprendo il disvalore dei miei comportamenti”. Perbacco, che gentile: si conforma, anche perché se non si conformasse sarebbe esattamente lo stesso. Ma, se ti chiami Formigoni, basta accettare una pena di 70 mesi per uscire dopo 5. Già che c’era, Formigoni ha pure detto ai giudici: “Solo oggi comprendo che sarebbe stato meglio rispondere alle domande” (tanto non possono più fargliene). E s’è pure vantato di aver “deciso di costituirmi spontaneamente” dopo la condanna” e non -badate bene- perché altrimenti i carabinieri andavano a prelevarlo a casa, ma “per le mie convinzioni personali e culturali e per rispetto dello Stato”. La cosa deve aver commosso i giudici: anche evitare di darsi alla latitanza diventa un titolo di merito. É un nuovo principio giuridico: se vieni dentro, ti metto fuori. Si spera almeno che valga solo per lui e non per tutti gli altri delinquenti.

Pupi Avati torna alla regia con “Il Signor Diavolo”: splendidamente inattuale

Un colpo allo scudo, la Democrazia Cristiana, e uno alla croce, la sacrestia: è il Pupi Avati che (non) t’aspetti quello che il 22 agosto porterà in sala Il Signor Diavolo. La data lascerebbe supporre, eppure non è un horror balneare, bensì gotico, ovvero sacrale: l’ottantenne regista inquadra il grande rimosso contemporaneo, il male, e in barba a determinismo e libero arbitrio sceglie di giocare a zona ma marcare a uomo, giacché “il diavolo è ovunque e chiunque”. Con gli aviti Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Alessandro Haber e Massimo Bonetti, si ritorna alle Valli di Comacchio, dove le case hanno finestre che ridono e le notabili – Chiara Caselli, brava – le calze smagliate: la Balena Bianca impera, i religiosi non si toccano, gli infanticidi s’occultano, e tutti gli altri s’attaccano.

Avati non ha solo mestiere, ha qualcuno in cui crede e qualcosa da mostrarci: Il Signor Diavolo è splendidamente inattuale, non prevede bimbiminkia tra il pubblico, e nemmeno braccioli in cui lasciare le unghie, ma atmosfere e dubbi da portarsi appresso. Il diavolo probabilmente.

Quel sentire comune e il commissario salviniano

Venerdì scorso il Fatto ha pubblicato due articoli: i commissari televisivi che sarebbero sempre di sinistra e mai di destra e il trasloco da Rai 2 a Rai 1 del commissario Schiavone. In quel contesto Fabrizio d’Esposito ha riportato una mia frase:

prima o poi ci sarà un commissario salviniano.

La frase è tratta da una risposta ad una domanda dal pubblico a Libri come, domanda che mi sento ripetere sempre più spesso negli ultimi due o tre anni nei miei incontri pubblici:

come mai i commissari televisivi sono tutti di sinistra?

Più che la risposta è interessante la domanda e la frequenza sempre maggiore con cui mi viene fatta. È da questa domanda sempre più frequente che nasce la mia risposta “prima o poi ci sarà un commissario salviniano”.

Provo a spiegarmi, è un po’ tortuoso, come un giallo.

Per il mio lavoro per un’università internazionale mi capita spesso di viaggiare in giro per il mondo e di parlare con professori o genitori americani, cinesi, arabi (a Tunisi c’è un’intera generazione chiamata generazione Rai 1). Moltissimi hanno visto Montalbano o, più di recente, L’amica geniale (che non è un poliziesco, ma il tema sinistra-destra non cambia). Dalle loro opinioni ho ricavato una certezza: queste produzioni migliorano nettamente l’immagine dell’Italia agli occhi degli stranieri, elemento di cui ringraziare la Rai. Questo non significa negare l’esistenza di mafia, camorra eccetera, ma ogni tanto, meglio sempre più, produrre soggetti che esulino da questi aspetti negativi, non per occultarli ma perché l’Italia certamente è altro e molto di più e di meglio. Agli occhi di americani, cinesi ed arabi Montalbano e L’amica geniale hanno mostrato l’immagine di un paese che oltre ad essere bellissimo (è sempre meglio ricordarlo) è anche pieno di persone che non sono mafiose o camorriste bensì come Montalbano, Mimì, Fazio, Catarella o come il Nino di De Gregori: non hanno paura di sbagliare il calcio di rigore e sono piene di coraggio, altruismo e fantasia.

Direi che sin qui non c’entrano sinistra e destra. Quando chiedo ai miei interlocutori stranieri se trovano Montalbano di sinistra o di destra mi guardano sorpresi, sostanzialmente non comprendono il senso della domanda. In Italia invece, questa domanda ha una risposta quasi istintiva ed univoca.

Montalbano è di sinistra

Perché in Italia Montalbano lo definiamo di sinistra? Perché il suo meraviglioso inventore Camilleri era di sinistra? Perché l’eccellente attore che lo interpreta è il fratello di un politico di sinistra? Perché combatte spesso contro ricchi imprenditori e politici corrotti, a volte legati alla mafia?

Può anche essere, ma io non credo che siano questi i motivi. Credo invece che la questione divisiva riguardi l’atteggiamento di Montalbano verso i migranti, che alcuni definirebbero umano ed accogliente, ed altri invece eccessivamente buonista e permissivo. Oggi è questo l’argomento divisivo, qui in Italia.

È per questo che ho risposto all’ennesima domanda sui commissari di sinistra con la frase riportata da Fabrizio D’Esposito. Lui l’ha definita una profezia, ma questo non era il senso, non ho né la posizione né l’animo del profeta. Da ingegnere, era una previsione, come tutte le previsioni non è certezza ma ha un grado di relativa certezza. Questa previsione si basa su quanto segue.

Inevitabilmente, nel tempo, la letteratura e poi la fiction televisiva che vi attinge, finisce per riflettere i tempi e i gusti in cui vive il suo pubblico. Forse ce lo siamo dimenticati, ma Maigret, il tenente Sheridan e anche quel meraviglioso sceneggiato Il segno del comando (per chi non ricorda provate con Din Don) andavano bene nella prima Repubblica in cui si occupavano per lo più di delitti familiari e in cui la politica era totalmente assente e l’unico talk show politico era Tribuna politica (uno spettacolo serio e quindi noioso).

Poi il mondo è cambiato, la Tv è cambiata, sono arrivati i talk show, internet e i social network e la politica è entrata nelle case, nei cervelli e nei cuori in modo meno ideologico ma più collegato ad alcuni aspetti che sono diventati per molti giallisti (non sempre, non tutti) parte della trama, dei personaggi o almeno dello sfondo. Questo non è un bene o un male, semplicemente un dato di fatto.

È evidente e naturale che la maggior parte degli scrittori (non sempre, non tutti) tenda a riflettere quello che chiamerei il comune sentire del momento. Badate bene, non sto parlando di omologazione al potere, ma al comune sentire di chi ci circonda.

Se il momento del comune sentire si estende in durata oltre un limite che non conosco, si traduce anche in potere politico stabile.

In quel caso la mia previsione (non profezia, non auspicio né il contrario di auspicio) si avvererà.

 

La Scheda
Non “profezia” ma “previsione”
Venerdì sul “Fatto” la notizia dell’attacco della destra alla “promozione” di Schiavone su Rai1 e l’analisi di Fabrizio d’Esposito sull’assenza di un detective di destra dal panorama italiano. Oggi l’intervento di Roberto Costantini, che dell’avvento del “commissario salviniano” non fa una “profezia”, ma una “previsione”