Una botta e via: besteller per una sola stagione

Famosi per una sola stagione. Non parliamo di meteore musicali ma di fantasmi di carta: scrittori di casa nostra premiati dalle classifiche e poi ripiombati più o meno nell’anonimato. Ci sono anche penne che conservano il favore del pubblico ma che indovinato un bestseller da primato non sono più riusciti con i titoli successivi anche solo a eguagliarlo.

L’occasione per questa disamina ce la fornisce una doppia ricorrenza. Proprio trent’anni fa, nel 1989, uscivano Due di due di Andrea De Carlo e Volevo i pantaloni di Lara Cardella. De Carlo è autore sempre popolare ma Due di due, con il suo milione di copie vendute, guarda da una vetta irraggiungibile tutti gli altri suoi romanzi successivi. Lara Cardella, oggi insegnante a Bergamo, resta forse il caso più emblematico di una fortuna effimera. Il suo romanzo di rivendicazione femminile contro il bigottismo della provincia siciliana fu allora la lettura più gettonata sotto l’ombrellone. Dopo due milioni di copie in Italia e all’estero, è calata implacabile la saracinesca.

Qualche anno più tardi, nel 1992, scala le classifiche la storia di una quarantenne milanese alle prese con le sue disavventure di donna non proprio avvenente: La bruttina stagionata. L’autrice Carmen Covito, dopo altri due libri, è scomparsa dai radar e ora si dedica a studi orientali. Andando avanti e indietro in questi trent’anni di bestseller, come non ricordare le peripezie erotiche di Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire? Nel 2003 per la giovanissima Melissa P fu una marcia trionfale: ospitate in tv, immortalata da Oliviero Toscani in pose da lolita, dispute sociologiche sui giornali. Dopo la cifra monstrum di due milioni di copie vendute, i lettori le hanno voltato le spalle. I suoi romanzi successivi sono precipitati a poche migliaia di copie.

Ecco, questa è una sorte che accomuna parecchi esordienti di successo. A ogni nuovo libro dopo il debutto i lettori si assottigliano sempre di più, in taluni casi fino all’irrilevanza. Enrico Brizzi è arrivato al ventesimo libro ma la sua fama resta inchiodata ai turbamenti adolescenziali sui colli bolognesi di Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Così come Paolo Giordano, il più giovane vincitore del premio Strega nel 2008 con La solitudine dei numeri primi, non è mai più tornato al vertice delle classifiche dopo avere conquistato due milioni di lettori acquirenti. Destino ancora più amaro per Silvia Avallone che due anni dopo sfonda le 500mila copie con Acciaio, storia di due adolescenti nella periferia industriale di Piombino e che con le due opere seguenti porta in dote al suo editore flop brucianti. Forse la parabola più clamorosa di ascesa e caduta è quella di Federico Moccia. Dopo avere aumentato gli introiti dei ferramenta con i lucchetti a Ponte Milvio e superato il milione di copie vendute con un esordio ormai di culto come Tre metri sopra il cielo, non solo non ha fatto il bis ma le ultime sue pubblicazioni apparse in libreria sono state ignorate persino dai suoi fans più irriducibili.

Una regola forse la possiamo trarre: se imbrocchi un megaseller capace di macinare milioni di copie è assicurato che non sarai più in grado di rinnovare il miracolo. Due casi clamorosi da antologia sono Susanna Tamaro e Giorgio Faletti. La prima, con Va’ dove ti porta il cuore ha dominato le classifiche per tre anni di fila e a oggi si annoverano 15 milioni di copie tra l’Italia e il resto del mondo, ma pur proseguendo la sua carriera letteraria la Tamaro è rimasta lontanissima dai fasti degli anni 90. Così come il nome di Faletti resta legato solo al thriller Io uccido del 2002: secondo le dichiarazioni dell’editore siamo addirittura a 4 milioni di copie smerciate.

Caso a sé ma rivelatore della fedeltà a intermittenza dei lettori sono quegli autori sempre sulla cresta dell’onda ma che non riescono a replicare la fortuna del titolo che li ha resi ricchi e celebri. Il record di vendite resta come pietra di paragone e ridimensiona le fatiche prossime in performance appena rispettabili. Pensiamo, tra gli altri, a Roberto Saviano (passato nel volgere di dieci anni dal trionfo targato 2006 di Gomorra con due milioni di copie alle 300mila per La paranza dei bambini nel 2016), Alessandro Baricco (Seta del 1996 ha superato il milione di copie ma il fondatore della Holden non ha più ricevuto diritti d’autore di quella portata), Michela Murgia (dopo il boom di Accabadora i numeri si sono considerevolmente ridotti), Alessandro Piperno (nemmeno il traino dello Strega vinto nel 2012 è riuscito a riportarlo alle 250mila copie del suo acclamato esordio Con le peggiori intenzioni), Niccolò Ammaniti (nulla di paragonabile nella sua bibliografia al record di un milione e mezzo di copie per Io non ho paura del 2001).

Forse a ciascun autore, almeno dentro i nostri confini, spetta un unico biglietto vincente della lotteria. Comunque sempre meglio azzeccare anche un solo grande bestseller che essere eternamente candidati alle presse da macero.

Un’avventura (con truffa e salame) in Jugoslavia

Più che un confine era un muro, non per nulla quello di Berlino era ancora saldamente in piedi. Noi – aveva statuito un consiglio di famiglia nella primavera del 1985 – per una volta non avremmo trascorso le vacanze nel solito paesino della Liguria. Saremmo andati all’avventura in Jugoslavia, paradiso del socialismo. Che poi avventura si fa per dire perché, all’agenzia viaggi, era stata prenotata sull’isola di Rab una nient’affatto economica villetta con giardino e discesa a mare privata. Il viaggio era stato, quello sì, un’avventura con l’interminabile fila alla frontiera (dove eravamo stati perquisiti, più che controllati) e l’altrettanto sudata coda al traghetto per l’isola. Una volta sbarcati le case e i paesi ci avevano fatto venire il dubbio che la casa prenotata non fosse proprio come nelle foto . In realtà non esisteva proprio, l’isola era tutta in costruzione e la gente dormiva in case senza il tetto. Dopo 16 ore di viaggio, intollerabilmente noiose per una decenne, all’ufficio turistico un impiegato aveva comunicato a mia madre che l’agognata villetta non esisteva e che sull’isola non c’era posto nemmeno per “come dite voi, una vacca”. Dopo aver minacciato di mettere una bomba, lei aveva passato il testimone delle trattative a mio padre. Il quale – avvocato comunista – aveva ben pensato di rivolgersi alla Polizia. Forse per la stanchezza, forse per scarsa conoscenza dei rapporti tra la Jugoslavia e il blocco sovietico, aveva tirato fuori la tessera del Pci: sciaguratissima idea, in seguito alla quale ci volevano arrestare tutti. Alle tre di notte, in un inglese stentato, mio padre aveva trattato con un tipo losco un alloggio di fortuna per la notte allungando qualche dollaro e un salame mantovano. Due giorni dopo eravamo in Liguria, dove ognuno è tornato alle proprie abitudini e mio padre ha scritto la citazione per una delle prime cause per danni da vacanza rovinata.

Sanremo è infestata dai gabbiani: quando il nemico diventa l’ambiente

Facile essere amici dell’ambiente, ma chiedete all’ambiente di esserci amico. I gabbiani, ad esempio, proprio carini e cari non sono, con buona pace di Anton Cechov e Richard Bach che hanno creato un falso mito e alimentato fantasie buoniste sui gracchianti uccelli dal becco lungo e le zampe palmate.

Da Nord a Sud, ormai sono diverse le città italiane infestate dai molesti pennuti, che spesso creano anche problemi igienico-sanitari: l’ultima è Sanremo, in Liguria. A quanto si apprende dalle cronache locali, oltre a banchettare in discarica e fuori da ristoranti e bar, i garruli gabbiani sono diventati molto aggressivi nei confronti di uomini, bambini e persino altri animaletti, come cani e gatti.

Le mamme sono preoccupate perché i rapaci rubano le merende ai figlioletti al parco; gli operatori ecologici si lamentano perché i sacchi della raccolta indifferenziata – specie se fatta male – sono facile desco degli affamati volatili; i ciclisti sono inviperiti perché le piste ciclabili sono sorvegliate da occhi alieni e indiscreti; persino le anziane signore sono terrorizzate: al cimitero non vogliono più andarci (a trovare i loro cari) perché vengono prese di mira da uccellacci e uccellini. Non c’è più pace: nemmeno al camposanto.

La beffa è che il Comune può fare ben poco: i gabbiani sono una specie tutelata – al mare, poi… – e quindi non si possono usare veleni o contraccettivi per limitarne la proliferazione. Restano i deterrenti: reti e cavi, dissuasori acustici, dentelli e punte su balconi e cornicioni. Per spaventarli c’è chi appende alle finestre anche cd o girandole a vento: loro sì amici dell’uomo più che dell’ambiente.

Bandite dalle spiagge sigarette e plastica (palloncini compresi)

Un bicchiere colmo di mozziconi di cicche in cambio di un bicchiere di birra. È questo il vantaggioso scambio che lo stabilimento Tibu-Ron Beach di Barcellona – in nome dello slogan “Limpiemos la playa, cuidemos el planeta!” – ha riproposto anche quest’anno per sensibilizzare i turisti. Ma tenere la spiaggia pulita conviene anche da noi, dove si moltiplicano le sensibilizzazioni intelligenti, come quella di un centro commerciale di Lecce, che dà buoni shopping in cambio della plastica raccolta in spiaggia. E che dire dell’idea di uno stabilimento di Focene, a Fiumicino, ma anche di 11 spiagge agrigentine, che hanno creato installazioni a forma di pesce nella cui pancia lasciare rifiuti?

D’altronde, diciamolo: manifestare sensibilità al problema della plastica in spiaggia – attraverso iniziative per pulire come il tour #plasticfree del Wwf – e magari bandirne proprio l’uso è il trend estivo di quest’anno. Una moda benedetta (nonostante il solito abuso di anglicismi) visto che, secondo l’indagine Beach Litter di Legambiente, sulle nostre spiagge ci sarebbero circa 620 rifiuti ogni 100 metri, l’80 per cento dei quali di plastica. Microplastiche, anelli e tappi di plastica residuo delle bottiglie – ne usiamo ben 8 miliardi all’anno – ma anche i non biodegradabili e non proprio indispensabili cotton fioc (per fortuna messi al bando dall’Italia prima di tutti gli altri Paesi, già nel 2019). E poi mozziconi e bicchieri, cannucce, posate e piatti.

Apripista nel divieto della plastica monouso in spiaggia – che sarà vietata del tutto nel 2021 – è la Puglia. Nei suoi stabilimenti si dovrebbero trovare solo materiali compostabili e carta. Niente bicchierino di plastica per il caffè, si torna alla vecchia tazzina o al bicchiere biodegradabile, sperando che non si sciolga in mano. La Regione ha pure stanziato fondi per le Ecofeste, manifestazioni a basso impatto ambientale. Non sono da meno Romagna, Molise e Toscana, che ha bandito la plastica dai suoi 900 stabilimenti balneari, mentre la Regione Lazio ha lanciato “Plastic Beach Free” per sostenere progetti anti-plastica in spiaggia. Non si contano davvero, poi, i Comuni che hanno emesso ordinanze antiplastica: tra i tanti Lampedusa, Tarquinia, Ischia, Capri, le Isole Tremiti, Sperlonga, numerosi Comuni sardi, l’Isola d’Elba. E c’è chi ha voluto essere filologico, come Sassari, e ha vietato persino di liberare palloncini nel cielo, a meno che non siano biocompatibili e gonfiati ad aria. Da ricordare anche la legge Salvamare, voluta dal ministro Costa, che ora consente ai pescatori di raccogliere e portare a riva la plastica trovata.

Gli esperti, però, avvisano: non si può pensare di sostituire tout court la plastica con la bioplastica, il problema è anche la massa di rifiuti. Perciò se pensate di essere à la page bevendo un cocktail con la cannuccia compostabile vi sbagliate, la vera etichetta ecologica suggerirebbe di berlo dal bicchiere. E poi certo, la plastica è un nemico, ma non il più grande.

Ne ha avuto un assaggio Jovanotti, che quest’anno ha lanciato i suoi Jova Beach Party all’insegna della lotta alla plastica, in tandem con il Wwf e Coop (che ha creato per l’occasione la nuova bottiglia di plastica ecologica special edition). Ad Albenga, però, il concerto è saltato. La causa? Erosione costiera, causata anche dall’aumento della temperatura dei mari, ovvero dal riscaldamento globale; un tema su cui c’è un’enfasi inversamente proporzionale a quella sulla plastica. Combatterlo è molto più complesso e pure meno politicamente corretto della sacrosanta battaglia alla plastica. C’è da sperare che diventi la eco-tendenza dei prossimi anni.

Povero “Pou”: è stato il più Grande Perdente del Tour

Tour de France 1964. Ventidue tappe, dal 22 giugno al 14 luglio, la gran festa nazionale. Per i francesi, il Tour è la rappresentazione della Francia. Dei suoi valori più profondi e popolari. Una Marsigliese a pedali. Per gli scrittori come Maurice Blondin, cantore del Tour, chi indossa la maglia gialla indossa “la tunique de lumière”. Si porta addosso la luce. Quella del sole.

Rennes mette in scena le Grand Départ. La sfida annunciata è tra Jacques Anquetil, che il Tour l’ha già vinto quattro volte, e il ventiseienne Raymond Poulidor, l’idolo dei tifosi transalpini per la sua irruenza e generosità in corsa. Il biondo e raffinato Anquetil contro il ruspante e ardimentoso Poulidor, che nel 1961 ha vinto la Milano-Sanremo nonché il titolo nazionale e che l’anno successivo aveva conquistato per la prima volta una tappa del Tour, la diciannovesima, da Briançon ad Aix-les-Bains. Vincere il Tour è il massimo per un corridore francese. Portare la maglia gialla, un onore.

L’obiettivo di Poulidor è ambizioso. Scalzare l’onnipotente Anquetil e terremotare le sue alleanze – una me l’ha confessata lo stesso Vittorio Adorni, “Anquetil faceva di tutto per non far vincere Poulidor”. Perché? “Perché era lui il patron del gruppo. Non voleva che qualcun altro lo usurpasse”. Jacques ha nel mirino Fausto Coppi: vincere come il Campionissimo Giro e Tour nello stesso anno. La prima parte del progetto è andata in porto. Ha battuto Italo Zilioli e si è preso la corsa rosa, lunga più di 4100 chilometri, sfruttando le rivalità degli avversari italiani. Ora lo aspetta un Tour difficile, con grandi avversari e un percorso di altri 4.504 chilometri. Più il nemico numero uno, Poulidor.

Il biondo normanno sfreccia primo a Monaco, il 30 giugno. Il giorno dopo s’impone nella sua specialità, la corsa contro il tempo, di cui era il numero uno mondiale. Anquetil domina la Hyères-Tolone di 21 chilometri. La maglia gialla resta però sulle spalle di Georges Groussard, il “petit” (era alto appena un metro e 59 centimetri) che l’anno prima quasi vinceva la Sanremo. Ad Anquetil fa comodo Groussard, in funzione anti Poulidor. L’alleanza è palese.

Ma Raymond reagisce nell’unico modo che conosce. Attaccando. È primo nel tappone da Tolosa a Luchon che vince alla grande. Ormai il duello è alle strette. Nuova crono. Favorito d’obbligo è Jacques. Ma è provato. Il percorso è impegnativo, 42 chilometri e mezzo ondulati, da Peyrehorade a Bayonne. Poulidor è in testa nei passaggi intermedi. Sta tirando fuori l’anima, pedala con l’impeto che lo ha reso popolare. Per Roland Barthes, il grande semiologo strutturalista (scomparso nel 1980), Poulidor è il “fiero ragazzo della campagna del Limousin”, il campione di un mondo arcaico che sta scomparendo.

A un certo punto, Poulidor fora. Per la fretta, il concitato meccanico Louis Billard, spiazzato dallo stop improvviso dell’ammiraglia di Antonin Magne, direttore sportivo di Poulidor, cade con la bici di scorta sulle spalle. La bici finisce in un fosso. Ricorda Pou-Pou: “Gli dico, a Louis: vado io a pigliarla. Ma le racchette sotto la scarpa mi rallentano. Quando torno sulla strada, scopro che il manubrio è piegato. Allora lo raddrizzo. Ma intanto, salta la catena. Così la riparo. Però devo fissare il fermapiedi. Non ci riesco. Neanche al secondo tentativo”. Perde almeno un minuto. Era il 17 luglio. Vorrà pur dire qualcosa?

La tappa la vince Anquetil che strappa la maglia gialla a Groussard. L’insaziabile Anquetil fa suo il quinto Tour, battendo per 55 secondi lo sfortunato Poulidor. Quanti quelli persi cinque giorni prima.

Raymond diventa il “Grande Perdente” del Tour. Lo ha corso quattordici volte. L’ultima, aveva quarant’anni, nel 1976. Non l’ha mai vinto. Otto volte sul podio: tre da secondo, cinque da terzo. Non ha mai indossato la maglia gialla. Cosa riuscita a 85 corridori francesi (l’ultimo, Julien Alaphilippe). I suoi sono i Tour delle “occasioni perdute”. È diventato un’icona: quella del campione beffato dalla sorte. Umiliato dal destino. Crudele come quando nel Tour del 1973, al prologo, dovette cedere 80 centesimi di secondo all’olandese Joop Zoetemelk, in quel di Scheweningen (Olanda). Si ritirerà alla tredicesima tappa (ancora un numero fatidico…).

Altra delusione cocente, nel prologo del Tour 1967, ad Angers, 5,8 km tirati alla morte: addirittura lo stavano festeggiando, pensando che non ci sarebbero state più sorprese. Macché. Pure stavolta, lo sgambetto della sfiga: piomba sul traguardo lo spagnolo José Maria Errandonea che lo batte di 6 secondi.

Nel pantheon delle sventure poulidoriane non può mancare la celebre tappa del Puy-de-Dôme (sempre il malefico Tour 1964), quando recupera ad Anquetil 42 secondi ma non gli basta. Ce ne volevano altri 14. Il Tour è davvero stregato per Poulidor. Antonin Magne, lo scaramantico direttore sportivo, ingaggiava i corridori dopo aver consultato il suo pendolino magico: “Era il 1962. Il verdetto mi preoccupò moltissimo. Mi aveva rivelato che Raymond stava attraversando un brutto periodo tra giugno e luglio”. Poulidor si presentò infatti con una mano ingessata. Si era rotto un dito durante uno degli ultimi allenamenti. Pagò subito il conto nella prima tappa, perdendo 8’11” da Anquetil. Poulidor salirà lo stesso sul terzo gradino del podio.

La gloria senza il feticcio giallo. Pochi mesi fa, alla presentazione del Tour 2019, lo chiamano con Eddy Merckx, Bernard Hinault e Miguel Indurain. Tutti vincitori di cinque Tour: “In quattro, facciamo 15 Tour”, si è schernito. Il pubblico lo ha acclamato: “Pou Pou, sei il cuore del Tour!”.

 

Londra, Johnson neanche arriva ed è già in crisi

Dopo settimane di campagna elettorale interna il successore di Theresa May alla guida del partito conservatore e quindi del paese sarà annunciato oggi: domani la May andrà dalla Regina Elisabetta a rassegnare le dimissioni e il nuovo Pm annuncerà il nuovo governo, quello che dovrà risolvere, ed è buio fitto sul come, la grana Brexit.

Salvo sorprese clamorose (ma la politica britannica degli ultimi anni è stata una sequenza di cigni neri) i 160mila iscritti al partito conservatore dovrebbero aver preferito il favoritissimo Boris Johnson rispetto al più anonimo ministro degli Esteri Jeremy Hunt: e se il nuovo Pm è Boris le cose si complicano parecchio. La sua campagna si è basata su una premessa di facile presa elettorale ma dalle conseguenze imprevedibili: il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea il 31 ottobre, do or die, cioè a tutti i costi. Il piano Johnson prevede una rapida rinegoziazione dell’accordo di divorzio già firmato con Bruxelles con la riapertura di questioni già definite come la controversa backstop al confine fra le due Irlande. L’Ue non è intenzionata a riaprire i negoziati, e quindi aumenta molto la possibilità di una uscita di Londra senza accordo: lo scenario più temuto, quello del no deal.

Prospettiva che spacca il partito conservatore, stavolta non in correnti ideologiche ma in fronti parlamentari contrapposti e pronti a tutto. Ieri si è dimesso il sottosegretario agli Esteri Alan Duncan: vuole avere le mani libere per opporsi al no deal. Con lui due pesi massimi: nel caso di vittoria di Johnson, il ministro dell’Economia Philip Hammond e quello della Giustizia David Gauke si dimetteranno domani, come hanno annunciato provocatoriamente a mezzo stampa.

Entrambi Remainers, si tolgono di mezzo prima di essere licenziati, certo. Ma soprattutto vogliono essere liberi di unirsi alla fronda che si sta creando fra i Tories moderati, con sottosegretari e parlamentari pronti, questi i rumours, perfino a sostenere una eventuale mozione di sfiducia contro un governo che dovesse davvero ignorare, per ragioni ideologiche, l’impatto catastrofico di un no deal sull’economia del paese. Di cui Hammond, fra tutti, ha la misura più precisa: nei suoi tre anni da responsabile delle finanze pubbliche ne ha compreso profondamente i rischi, ed è significativo che un uomo compassato come lui abbia scelto il popolare Andrew Marr Show, sulla Bbc, per annunciare in diretta la sua intenzione: “La condizione per far parte del governo di Boris Johnson è di sostenere un no deal, cosa che non sono disposto a fare”.

Un caso non frequente di servizio al paese prima che al partito, o meglio alle proprie ambizioni nel partito: molti altri esponenti di punta dei Tories, perfino ex Remainers influenti come la ministra del Lavoro Amber Rudd, si sono messi in fila per i ministeri principali, fra cui proprio l’ambito dicastero economico, dichiarando pubblicamente il loro sostegno a Boris Johnson.

Ma di fronte a un bivio tanto cruciale per il futuro del regno c’è da aspettarsi nuove dimissioni di sottosegretari o parlamentari in posizioni di rilievo pronti ad ingrossare le fila della resistenza. Come dire: un governo Johnson potrebbe non durare a lungo, e il caos della politica britannica rischia di complicarsi presto con nuove elezioni.

Zelensky non fa prigionieri: suo pure il Parlamento

Per la prima volta da quando l’Ucraina è diventata indipendente 28 anni fa, il governo entrante sarà monocolore. Ossia verde, il colore del partito “Servitore del Popolo”, fondato dal neo presidente Volodymir Zelensky, che nelle elezioni anticipate di domenica scorsa per il rinnovo del parlamento ha ottenuto 248 seggi su un totale di 450.

La rabbia e frustrazione diffusa in Ucraina a causa della corruzione endemica, dei salari bloccati, della disoccupazione e della guerra del Donbass che in 5 anni ha fatto più di diecimila vittime, hanno convinto gli ucraini, specialmente i giovani, a giocare il tutto per tutto e mettere la croce sul simbolo di un partito inesistente fino a pochi mesi fa, ovvero prima delle elezioni presidenziali dello scorzo marzo. Un partito che ha preso il nome dall’omonima serie televisiva in cui l’attuale presidente Zelensky interpretava la parte di un professore impegnato contro la corruzione che, alla fine, viene eletto presidente della Repubblica.

Una formazione che non ha una classe dirigente e che porterà in Parlamento e al governo persone che non hanno mai avuto esperienze politiche. I candidati provengono soprattutto dall’entourage professionale di Zelensky: produttori televisivi, pubblicitari, fotografi, tecnici. Dalla fiction alla realtà dunque, dall’essere fuori dal Parlamento ad invaderlo in pochi mesi fino a conquistarlo. Quella dell’Ucraina post indipendenza è una parabola che non può non richiamare alla mente la celebre frase di Marx secondo cui la “storia si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa”. Anzi, numerose tragedie e una farsa finale. Dopo cinque anni dalla sanguinosa rivolta di EuroMaidan avvenuta per defenestrare l’allora corrotto presidente filo russo Yanukovich – che aveva deciso con un dietro front repentino di impedire l’avvicinamento del paese all’Unione Europea – un partito senza radici sponsorizzato dall’ambiguo oligarca Igor Kolomoisky e il Blocco d’Opposizione pro-Vita, sostenuto apertamente dal presidente russo Putin amico del leader Medvedchuk, domineranno la scena politica, teoricamente per cinque anni. Nelle scorse politiche del 2014, i filo russi avevano raggiunto quasi il 10 per cento, mentre domenica hanno ottenuto il 13,4 per cento dei voti. Certo, rispetto al vincitore che dovrebbe attestarsi intorno al 43 per cento, rimane una netta differenza in termini di seggi. Ma la nuova ascesa dei filo russi e la contemporanea scomparsa dei partiti nazionalisti, che non sono riusciti a superare lo sbarramento, mostrano che la maggior parte dei quaranta milioni di ucraini preferisce dare credito a un partito di volti sconosciuti e lontani dall’ambiente politico o a un partito filo russo guidato da uno dei più inseriti oligarchi del vecchio establishment, piuttosto che ridare il mandato a coloro che sono stati al potere dopo la rivolta di Maidan come Poroshenk e Yulia Timoshenko, il cui partito è rimasto nelle ultime posizioni.

Da parte sua Medvedchuk, ha dichiarato che farà di tutto per impedire alla maggioranza di approvare le riforme. Zelensky ha promesso di mantenere l’Ucraina su un percorso pro-occidentale e di cercare un nuovo programma di aiuti per le riforme con il Fondo Monetario Internazionale. Si è anche impegnato a trovare una pace duratura nella regione orientale del Donbass e a far tornare la Crimea in Ucraina. Un sondaggio pre-elettorale condotto dal National Democratic Institute con sede a Washington ha detto che il 45% degli elettori si aspetta che Zelenskiy negozi una pace nel Donbass entro 12 mesi, la più grande priorità tra gli elettori. Il 57% non accetterebbe la pace al costo di permettere alla Crimea di diventare una parte riconosciuta della Russia e il 62% non accetterebbe la pace se il Donbass non tornasse al pieno controllo di Kiev.

Teheran: “Prese 17 spie Usa”. Trump: “Sono solo bugie”

S’allarga lo spettro delle tensioni tra Iran e Usa: le sanzioni, il nucleare, i droni, le petroliere e ora la guerra delle spie. Teheran fa sapere d’avere catturato 17 spie della Cia e d’averne già condannate diverse a morte. L’Iran dice che le spie lavoravano separatamente l’una dall’altra: la Cia affidava a ciascuna un compito diverso. In primavera, Teheran disse d’avere smascherato una rete mondiale di 290 agenti americani, fornendone i dettagli ai Paesi amici. Donald Trump reagisce a caldo smentendo via twitter: quella delle spie è una notizia “totalmente falsa, zero verità, solo bugie e propaganda di un regime religioso che sta malamente fallendo… La loro economia è morta e andrà peggio… L’Iran è un caos totale”. Più cauto, ma sempre diffidente, il segretario di Stato Usa Mike Pompeo. Più tardi, il magnate presidente risponde a una domanda nello Studio Ovale, mentre riceve il premier pachistan Imran Khan: “Sta diventando più difficile” volere negoziare con l’Iran, dice. Le relazioni tra Teheran e Washington sono peggiorate dopo che Trump denunciò l’accordo sul nucleare del 2015 e ripristinò, anzi inasprì, le sanzioni che erano state levate.

La guerra delle spie si apre mentre è in corso quella delle petroliere tra Teheran e Londra. Per l’Iran, il sequestro, venerdì, della petroliera britannica Stena Impero, definito “illegale” dalla premier di Londra Theresa May, era “legale e necessario alla sicurezza regionale”. “A chi ci chiede di rilasciare la Stena Impero, chiediamo che dicano di fare la stessa cosa alla Gran Bretagna”, un riferimento alla petroliera iraniana Grace I sequestrata a Gibilterra il 4 luglio. Londra chiede all’Ue una missione navale a tutela della libertà di navigazione nello Stretto di Hormuz: una misura che può essere complementare o alternativa alla coalizione navale proposta dagli Stati Uniti ai loro alleati con lo stesso obiettivo.

Hong Kong, le Triadi cinesi contro la rivolta democratica

Nel 2014 era toccato ai protagonisti di Occupy Central, che avevano messo le tende sotto i palazzi del potere di Hong Kong e chiedevano di poter scegliere il governatore attraverso elezioni democratiche. Dopo gli scontri di piazza la polizia ammise che molti fermati avevano precedenti penali ed erano aderenti alle Triadi, la mafia cinese. La rete inglese Channel 4 propose una intervista a un anziano affiliato che confermò: le organizzazioni erano state pagate dal Partito comunista cinese (Pcc) per creare disordini e rovinare l’immagine di Occupy.

Domenica sera la scena si è ripetuta ma in un diverso contesto, nella stazione Yuen Long; a differenza di cinque anni fa, stavolta la polizia non è arrivata. Molti partecipanti alla protesta che si era svolta durante la giornata contro la governatrice Carrie Lam, sono stati aggrediti e picchiati; 45 i feriti, di cui uno grave. Lam è stata costretta ad ammettere che il pestaggio è stato “scioccante”, ma un minuto dopo ha puntato il dito contro gli autori della marcia anti-governo: “Una sfida alla sovranità nazionale”.

Il funzionario cinese più importante inviato a Hong Kong, Wang Zhimin ha affermato che vi sono stati “atti vandalici” dei manifestanti antigovernativi contro la sede del governo centrale; un insulto “contro tutto il popolo cinese”.

Sul raid della mafia cinese, la governatrice si è limitata a una dichiarazione di rito quasi a dire che erano stati i dimostranti a provocare: “La violenza non è la soluzione ai problemi e chiama altra violenza. Faremo le dovute indagini”.

Il movimento Occupy Central, quello che si era sviluppato con la “rivolta degli ombrelli” e più di recente con la marcia per bloccare la legge sull’estradizione verso la Cina, ha un tratto comune non solo nella richiesta di democrazia, ma nella forza antagonista che trova per le strade; oltre alla polizia, si tratta delle squadre delle gang criminali. L’accusa è sostenuta dal parlamentare dell’opposizione Lam Cheuk-ting: “Hong Kong sta permettendo alle Triadi di fare quello che vogliono, picchiando le persone per strada con le armi?”. Incalza un altro parlamentare, Ray Chan, ricordando che in proporzione ad altre metropoli del mondo, Hong Kong ha un cospicuo numero di poliziotti rispetto al numero dei residenti: “Ma gli agenti l’altra sera dov’erano?”. Il sospetto è che non appena il livello dello scontro con il governo pro-Pechino si alza – mettendo in difficoltà anche altri aspetti come commercio, finanza, affari gestiti dai tycoon orientali – ai “soldati” delle Triadi venga lasciata mano libera: cinque anni fa non vi furono solo pestaggi in piazza, ma l’accoltellamento di un giornalista, Kevin Lau; ex direttore del giornale Ming Pao – la testata aveva pubblicato articoli scomodi per Pechino – fu prima allontanato, e poi aggredito all’uscita di un ristorante. Fu colpito con una mannaia. Per il suo tentato omicidio furono arrestate 11 persone. La polizia ammise che erano vicine alle Triadi. I mandanti sono rimasti sconosciuti.

In questo momento a Hong Kong la mobilitazione sociale anti-governo è massiccia: per gli organizzatori hanno sfilato 430 mila persone (per la polizia erano 138 mila). La mafia cinese, sui numeri, offre manodopera in quantità; 30 mila sarebbero gli affiliati e 120 mila quelli che ruotano attorno alle organizzazioni criminali.

I clan hanno le mani sugli appalti, controllano persino le assunzioni nell’edilizia, il racket dell’usura e le estorsioni sotto forma di protezione degli esercizi commerciali. La cosca Sun Yee On, una delle più potenti, conterebbe da sola 55 mila aderenti. In vista dell’handover, il passaggio dell’ex colonia britannica ad un governo autonomo (1 luglio 1997), le Triadi avrebbero cambiato atteggiamento verso il Dragone che li aveva osteggiati, cercando un punto d’incontro sin dalla metà degli anni ‘80. Illuminante la dichiarazione del 1993 di Tao Siju, all’epoca ministro della Sicurezza cinese che da un lato confermava di non avere intenzione di concedere amnistie agli studenti ribelli di piazza Tienanmen e dall’altra diceva: “I membri delle Triadi non sono tutti gangster. Se saranno dei buoni patrioti, se assicureranno la prosperità di Hong Kong, noi dobbiamo rispettarli”.

I mutui ai minimi, la casa di Barbie, lo spread e altre storie estive

Lo ammettiamo: avendo in banca il necessario per comprare al massimo la casa di Barbie, non abbiamo esperienza diretta di mutui. Conosciamo, però, i sacri timori di amici e parenti e, per quanto il dolore degli altri sia dolore a metà, anche noi da un anno in qua partecipiamo della psicosi dei mutui e dei perversi effetti dello spread sulla rata mensile. Difficile, dunque, immaginare la nostra sorpresa quando ieri, parcheggiata in garage la macchina di Ken, abbiamo letto che – secondo il report mensile Abi – i tassi d’interesse sui mutui per la casa a giugno hanno toccato il record negativo. Ma com’è possibile? Non avevamo letto a settembre scorso “Mutui, lo spread presenta il conto” (Affari italiani)? E a ottobre non scoprimmo che “La corsa dello spread spinge al rialzo i mutui” (La Stampa)? E a novembre non si disse “Mutui a tasso fisso più cari causa spread” (Il Giornale)? E a dicembre non ci fu il “secondo mese di rialzo dei tassi per la crescita dello spread” (la Repubblica)? Più civilmente, lavoce.info spiegò che lo spread non ha effetto sui vecchi mutui, ma quelli da stipulare “potrebbero risentire del rialzo”: “È vero che i tassi dei mutui sono ancora su livelli molto bassi e lo scostamento è minimo, ma è pur sempre un’inversione di tendenza certificata (e non un’opinione)”. Ora pare che l’inversione si sia invertita e a giugno, con lo spread tra 240 e 250 punti, i tassi sono ai minimi storici. Forse è davvero colpa dello spread, ma di un altro tipo: quello tra la realtà e il modo in cui la racconti se il tuo obiettivo è terrorizzare il pubblico.