Stava sorvolando sulle acque della Toscana, all’altezza di Livorno, diretto verso la Sardegna, quando qualcosa all’improvviso è andato storto e il velivolo è precipitato. Un elicottero è caduto ieri in mare, davanti all’isola della Gorgona: a bordo ci sarebbero state due persone, entrambe di nazionalità russa. La donna è morta e il suo corpo è stato già recuperato, dopo essere stato liberato dai resti del velivolo : l’uomo, 37 anni, probabilmente proprietario del mezzo, a ieri sera tardi risultava ancora disperso. Sul posto stavano operando gli uomini della Capitaneria di porto di Livorno e i vigili del fuoco, e fino a quando la luce lo ha consentito, anche un elicottero della Guardia costiera partito dalla base di Sarzana. L’elicottero ultraleggero era decollato ieri da Como, e aveva fatto scalo a Montignoso, da dove si era rialzato intorno alle 16.00, diretto in Sardegna. Intorno alle 20 però l’incidente: ancora da accertare le cause. Nell’area dell’incidente, appena la Capitaneria di Livorno ne ha avuto notizia, sono state dirottate anche alcune unità della marina mercantile che navigavano nella zona.
Così il boss sgridò Andreotti “Comandi a Roma, non qui”
Il boss di Cosa Nostra e il sette volte presidente del Consiglio faccia a faccia, rappresentanti dello Stato e dell’Antistato uno di fronte all’altro in una villetta di via Pitrè, a Palermo, nella primavera del 1980, in una riunione carica di tensione per le “urla che si udivano da fuori”, come ha raccontato il pentito Francesco Marino Mannoia. Fino alla frase, secca e inequivocabile: “A Roma comandi tu, qui comandiamo noialtri, e se prendi provvedimenti contro di noi ti ritiriamo il sostegno elettorale, non solo in Sicilia ma in tutto il Meridione”. Parole di Stefano Bontate, ucciso l’anno dopo dai kalashnikov corleonesi, riferite ai giudici da uno dei testimoni di quell’incontro, Marino Mannoia, e a distanza di quasi 40 anni ripetute da uno dei boss, Tommaso Inzerillo, cugino di Totuccio, socio del principe di Villagrazia nel business internazionale della droga, ucciso dai corleonesi un mese dopo.
Intercettato dalla squadra mobile di Palermo il 17 gennaio di quest’anno, Inzerillo non ha fatto nomi, ma il riferimento al faccia a faccia tra Bontate e Giulio Andreotti è apparso chiaro: “È arrivato un politico qua e lui gli ha detto: a Roma comandi tu, qui comandiamo noialtri”. E a quasi 40 anni dall’omicidio Mattarella, le parole di Inzerillo confermano quelle di Mannoia ormai coperte dal giudicato della Cassazione che ha ritenuto Andreotti colluso con Cosa Nostra proprio fino alla primavera del 1980, riportando l’orologio delle indagini a quell’anno, uno dei più oscuri della lotta alla mafia. Nell’arco di pochi mesi, tra il ‘79 e l’80, Cosa Nostra (e chi se n’è servita) spazza via un presidente della Regione (Mattarella), un segretario politico della Dc (Michele Reina), un capo della squadra mobile (Boris Giuliano), due ufficiali dei carabinieri (Russo, nel ´77, e Basile), un procuratore della Repubblica (Gaetano Costa), un giudice istruttore (Cesare Terranova), e un giornalista (Mario Francese). Delitti seriali, proprio mentre in Sicilia piomba il bancarottiere Michele Sindona, protagonista di un falso rapimento concluso con un vero ferimento autolesionistico per mascherare un ricatto condotto con il sostegno degli uomini del clan Gambino-Inzerillo: il “postino” delle sue missive era Vincenzo Spatola, arrestato davanti il portone dello studio dell’avvocato Guzzi, legale di Sindona, ritenuto trait d’union con il mondo politico. E il 1980 è anche l’anno dell’omicidio Mattarella, governatore fratello dell’attuale capo dello Stato, che si era messo in testa di moralizzare la gestione della cosa pubblica in Sicilia, troppo legata alla mafia, legami in fase di ristrutturazione per l’ascesa dei corleonesi. “Mattarella voleva rompere con la mafia ed intraprendere una azione di rinnovamento della Dc in Sicilia, andando contro gli interessi di Cosa Nostra – racconta Mannoia – entrando in violento contrasto con l’on. Rosario Nicoletti, che riferì l’intendimento al Bontade e, attraverso l’on. Lima, del nuovo atteggiamento di Mattarella fu informato anche l’on. Andreotti”. Il quale venne in Sicilia nell’autunno del 1979 promettendo una mediazione politica per “calmare” le lamentele dei boss, che però decisero lo stesso di fare fuori Mattarella. Così Andreotti fu costretto a tornare in Sicilia, nella primavera dell’80, nella villetta di via Pitrè, “intestata ad uno zio di Salvatore Inzerillo”: lui andò “con Stefano Bontade e Salvatore Federico detto pinzetta, dove trovarono l’on. Lima, Salvatore Inzerillo, Michelangelo La Barbera, Girolamo Teresi e Giuseppe Albanese (cognato di Giovanni Bontade) e forse anche Santino Inzerillo. E dopo un’ora arrivò un’Alfa Romeo blindata di colore scuro, e con i vetri pure scuri, da cui scesero i due cugini Salvo, Nino e Ignazio, e l’on. Andreotti. Federico, La Barbera, Mannoia e Santino Inzerillo rimasero fuori, ma udirono chiaramente le urla provenienti dall’interno”.
Se i mandanti sono stati condannati, sui killer il buio è fitto: Falcone incriminò due Nar, Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, poi assolti definitivamente dalla Cassazione. E quelli mafiosi non sono mai stati trovati, anche se “la pista nera” (fatto salvo il divieto di doppio giudizio per gli assolti) sembra riprendere quota negli accertamenti preliminari avviati da un anno dalla Procura di Palermo su cui il segreto è totale. Di recente, invece, il collaboratore di giustizia Franco Di Carlo ha addebitato l’omicidio Mattarella a Vito Ciancimino: “Si era trovato in difficoltà per l’operato di Mattarella, quest’ultimo si era lamentato con il governo della rete mafiosa” di don Vito. Da Roma, poi, “qualcuno aveva chiesto informazioni all’allora Procuratore di Palermo Vincenzo Paino” che era “amico dei cugini Salvo, esponenti di alto potere politico e finanziario siciliano”. Il Procuratore, però, “non poteva immaginare che i Salvo fossero anche uomini d’onore”. Così “avvisarono Cosa Nostra dell’iniziativa di Piersanti Mattarella contro Ciancimino”. E partì la condanna a morte.
Trattativa, sarà sentito anche B.
Silvio Berlusconi sarà chiamato a deporre su quanto accaduto nel dopo-stragi, sul ruolo dell’amico Marcello Dell’Utri e sulle minacce mafiose pervenute al suo governo nel 1994. Comparirà come testimone nel processo di secondo grado sulla trattativa Stato-mafia. Lo ha deciso ieri la Corte d’assise d’appello di Palermo presieduta da Angelo Pellino che ha disposto la rinnovazione del dibattimento, ammettendo anche l’esame dell’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro, convocato per illustrare il colloquio avuto con Paolo Borsellino dopo il “botto” di Capaci. Berlusconi e Di Pietro saranno sentiti il 3 ottobre.
Sono stati i legali di Dell’Utri (condannato in primo grado a 12 anni) a chiedere che Berlusconi, mai sentito in aula, fosse chiamato a deporre, considerando il suo esame “una logica conseguenza della qualità di persona offesa… in quanto destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione di Cosa Nostra”. La Corte, inoltre, ha citato, tra gli altri, Luciano Violante e i direttori dei penitenziari di Tolmezzo e Milano Opera, mentre ha respinto la richiesta di sentire l’ex 007 del Sisde Bruno Contrada, i boss Filippo e Giuseppe Graviano e l’ex ministro Dc Calogero Mannino.
Quest’ultimo, proprio ieri, è stato assolto dall’accusa di essere l’ispiratore del dialogo tra i carabinieri del Ros e Cosa nostra nel processo “parallelo” di secondo grado sulla Trattativa che lo vedeva unico imputato per minaccia a corpo politico dello Stato. “Questa sentenza proclama la mia innocenza e adesso merito pace”, ha detto lo stesso Mannino, commentando la decisione della Corte d’Appello presieduta da Adriana Piras, che ha confermato in toto la sentenza del gup Marina Petruzzella con la quale nel 2015 l’ex ministro Dc era già stato assolto “per non aver commesso il fatto” con il rito abbreviato.
Nella requisitoria, i sostituti pg Giuseppe Fici e Sergio Barbiera avevano chiesto per Mannino la condanna a 9 anni, precisando come l’accusa contro il politico fosse “stata accolta a carico dei coimputati nell’altro processo in Corte d’assise”: il riferimento era al processo ordinario sulla trattativa, concluso in primo grado nell’aprile 2018 con la condanna di quasi tutti gli imputati, tra cui l’ex ufficiale del Ros Mario Mori. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici hanno sottolineato tra l’altro come “le preoccupazioni di Mannino non fossero estranee alla maturazione degli eventi poi definiti come trattativa Stato-mafia”. E se per l’ex pm Antonio Ingroia oggi “il bilancio dell’accusa è positivo” (“Mannino è assolto – ha detto – per non aver commesso il fatto, quindi ‘il fatto’, la trattativa, c’è stata”), ora l’attenzione si concentra sulla nuova istruttoria dibattimentale del processo che, con la citazione di Berlusconi, in autunno entrerà nella fase più calda. Ieri Mori ha sottolineato che “per i pm oggi si pone un problema serio: dovranno trovare il suggeritore che ci avrebbe ordinato di contattare Riina. Se non è Mannino, chi?”.
Inchiesta Lega-Russia. Anche Vannucci non risponde
L’ex bancario Francesco Vannucci, uno degli indagati nell’inchiesta milanese su presunti fondi russi alla Lega con al centro l’incontro all’hotel Metropol di Mosca, ha fatto sapere ai pm che non intende rispondere alle loro domande in un interrogatorio. È la stessa strategia già adottata dal leghista presidente dell’associazione Lombardia-Russia, Gianluca Savoini, e dall’avvocato d’affari Gianluca Meranda, anche loro indagati per corruzione internazionale e perquisiti dalla Gdf nei giorni scorsi. Gli inquirenti, nel frattempo, hanno trovato “tracce interessanti” della presunta trattativa al Metropol, a cui hanno partecipato anche tre russi, tra cui Ilya Yakunin, vicino all’avvocato Vladimir Pligin, anche legato a Putin. Un presunto accordo su una compravendita di petrolio, un affare da 1,5 miliardi di dollari, che avrebbe dovuto garantire, stando a una registrazione audio, soldi alla Lega (65 milioni di dollari) per la campagna elettorale e ‘stecche’ a funzionari russi (da qui l’ipotesi contestata di corruzione internazionale). La procura di Milano sta cercando di ricostruire, anche attraverso rogatorie all’estero, gli eventuali flussi di denaro legati alla trattativa.
Di Matteo al Csm: “Mortificati 28 anni di impegno”
Si entra nel vivo oggi pomeriggio della estromissione del pm Nino Di Matteo, decisa dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho dal pool stragi della Dna. Proprio lui che è stato in prima fila nelle indagini e al processo sulla trattativa Stato-mafia. La settima commissione, nel pomeriggio ascolterà sia il pm che il procuratore.
Cafiero de Raho lo ha estromesso a maggio per un’ intervista a La7, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, durante la quale, in verità, il pm non ha rivelato alcun elemento segreto d’indagine, ma secondo Cafiero ha provocato la fine del “rapporto di fiducia all’interno del gruppo e con le direzioni distrettuali antimafia”, perché avrebbe fatto delle considerazioni che erano oggetto di valutazioni all’interno del neo pool. Affermazioni che hanno molto amareggiato il pm, tanto che nella memoria inviata al Csm si parla di “un giudizio grave, che mortifica 28 anni di impegno professionale speso sul fronte stragi e delitti eccellenti di mafia”.
Di Matteo ha messo in rilievo che ha parlato solo di atti pubblici, depositati in diverse sentenze e che pure le sue considerazioni, fatte durante l’intervista ad Andrea Purgatori, non possono “aver recato alcun pregiudizio all’attività della Dna o di altri uffici” perché, in sostanza, non erano in discussione all’interno del pool o durante confronti con altri magistrati.
Il riferimento agli altri uffici è alle direzioni distrettuali antimafia coinvolte nelle inchieste sulle stragi e i mandanti esterni: Palermo, Caltanissetta e Firenze.
Il procuratore Cafiero, secondo quanto risulta al Fatto, ha deciso l’estromissione di Di Matteo senza neppure avere un confronto con il pm. Dall’oggi al domani il magistrato si è ritrovato fuori dal neo pool della Dna, di cui fanno parte i pm Francesco del Bene, anche lui pubblica accusa al processo sulla Trattativa, e Franca Imbergamo.
Non prima dell’autunno, il Csm stabilirà se la decisione di Cafiero sia legittima o meno. Sono 130 finora i magistrati che hanno sottoscritto una lettera, inviata al capo dello Stato Sergio Mattarella e al vicepresidente del Csm David Ermini e a tutti i consiglieri, per “esprimere il forte turbamento” per la cacciata di Di Matteo. “Forte turbamento, non solo per la stima e l’ammirazione che riponiamo nei confronti del collega, per lo spirito di abnegazione, i sacrifici personali e familiari, l’elevato senso delle istituzioni, l’eccelso grado di professionalità e l’equilibrio, che lo hanno contraddistinto in tutta la sua carriera e che ne fanno uno dei magistrati più in grado di trattare la materia in questione, ma soprattutto perché temiamo che tale estromissione possa delegittimarlo agli occhi della criminalità e del potere mafioso, acuendo ulteriormente i già elevatissimi rischi per la sua incolumità”.
Recentemente, Di Matteo al Book Festival di Taormina ha parlato di “provvedimento profondamente ingiusto e immotivato”.
Oggi la sua audizione, così come quella del procuratore Cafiero sarà a porte chiuse. La Settima commissione ha votato no, all’unanimità, alla richiesta dei giornalisti che seguono le cronache consiliari di poter ascoltare i due magistrati, “per il rilievo pubblico della vicenda”, trincerandosi dietro il segreto istruttorio. Ma i giornalisti avevano proposto di togliere l’audio durante i passaggi che hanno a oggetto indagini in corso. Speriamo che all’ultimo i consiglieri cambino idea.
Eni contro Amara. Chiesti 30 milioni all’accusatore
Danni per 30 milioni. È la richiesta avanzata da Eni nei riguardi di Piero Amara, suo ex legale esterno, l’uomo che nei giorni scorsi ha accusato l’amministratore Claudio Descalzi di aver fatto pressioni nei riguardi dell’ex manager Vincenzo Armanna affinché ammorbidisse le accuse nei suoi riguardi. Accuse rivoltegli nel processo che li vede entrambi imputati, per corruzione internazionale, a causa della presunta maxi tangente – circa 1 miliardo – versata in Nigeria per l’acquisto del giacimento Opl 245.
La richiesta dei danni in questione però non riguarda l’accusa rivolta da Amara – e confermata da Armanna – a Descalzi. Eni vuole essere risarcita per i gravi danni patrimoniali e all’immagine scaturiti da un’altra vicenda: quella sul fascicolo farlocco del finto complotto contro Descalzi, istruito a Siracusa, proprio su impulso di Amara.
Ma andiamo con ordine. Amara è un avvocato penalista siciliano specializzato in diritto penale dell’ambiente. E ha difeso Eni in più di un processo: dal 2005 al febbraio 2018, per quanto risulta al Fatto, gli sono state corrisposte parcelle per circa 16 milioni. È però anche l’autore degli esposti “anonimi” depositati presso la Procura di Trani che denunciavano – continua Eni – l’esistenza di un “preteso ‘complotto’ finalizzato a destabilizzare i vertici di Eni”. Del complotto avrebbero fatto parte anche alcuni membri del cda dell’epoca: Katrina Litvak e Luigi Zingales, che Eni nell’atto non menziona. Ma non è finita. “Nell’agosto 2015 – scrive sempre Eni – Amara decide di orchestrare anche l’apertura di un analogo procedimento” presso la Procura di Siracusa, che veniva istruito dall’ex pm Giancarlo Longo, il quale “percepiva somme per condurre le indagini secondo le istruzioni” di Amara.
Tutto vero. E tutto ormai noto da un bel po’. Quanto meno dal febbraio 2019, quando le dichiarazioni di Amara diventano pubbliche, un anno dopo l’arresto su richiesta delle Procure di Roma e Messina, con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. Amara e Longo confessano. Quest’ultimo ha già patteggiato una pena di cinque anni di reclusione. Sul finto complotto contro Descalzi indaga da tempo ormai la procura di Milano – Eni s’è costituita parte offesa – che ne ipotizza gli scopi: delegittimare i consiglieri “scomodi” di Eni, Litvak e Zingales, e soprattutto indebolire l’inchiesta sulla presunta maxi tangente nigeriana che vede imputato Descalzi. Secondo Eni, che riporta dichiarazioni dello stesso Amara, lo scopo del suo ex legale era un altro: “accreditarsi” con i vertici dell’ufficio legale del colosso petrolifero. Considerata la decina di milioni ricevuti in parcelle, tra il 2005 e il 2016, ovvero il momento in cui organizzava il fascicolo sul falso complotto, Amara doveva già essere piuttosto “accreditato”.
Il rapporto di lavoro s’interrompe nel febbraio 2018, quando Amara viene arrestato e inizia ad ammettere quel che ha combinato. Ma Eni ha aspettato circa cinque mesi prima di chiedergli il risarcimento da 30 milioni di euro. L’ente petrolifero ha ovviamente il dovere, oltre che il diritto, di vedersi risarcito qualsiasi danno abbia subìto. Ed è altrettanto ovvio che ne sceglie legittimamente la tempistica. Resta il fatto che l’atto cita fatti noti dal febbraio 2018 ma segue di appena 24 ore l’udienza del 17 luglio scorso. Quella in cui Armanna, nel processo sulla presunta maxi tangente, dichiara di essere stato avvicinato da Claudio Granata, braccio destro di Descalzi, proprio attraverso Amara, affinché ammorbidisse la sua posizione accusatoria sull’ad di Eni. Nello stesso giorno Il Fatto Quotidiano rivela che, in una memoria depositata alla procura di Milano, Amara dichiara che Descalzi in persona, con una videochiamata, dimostrò di essere al corrente delle operazioni da concludere con Granata nei riguardi di Armanna. Eni smentisce tutto. E annuncia che si rivolgerà in tribunale. E gli chiede 30 milioni di danni. Ma non per questo. Per la storia del complotto. Che conosceva già da 16 mesi.
L’autonomia divide pure Confindustria: le note incrociate
La cosiddettaautonomia chiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna non divide solo la maggioranza gialloverde. Anche Confindustria è spaccata e ieri le diverse sensibilità sul tema sono emerse plasticamente. Ieri la Confederazione ha diffuso una nota frutto del “dialogo” tra gli industriali delle varie regioni: “L’autonomia differenziata può rappresentare un fattore di efficienza e competitività per i territori interessati e per l’intero Paese, nel rispetto dell’unità nazionale”, dice la nota, che invita le forze politiche a “valorizzare il ruolo del Parlamento” nel raggiungimento delle intese. Una posizione, all’ingrosso, simile a quella del premier Conte e dei 5 Stelle, ancor più chiara nelle parole del presidente Vincenzo Boccia, secondo cui l’autonomia “non può andare contro il Sud e la politica di coesione”. Peccato che i suoi associati di Lombardia e Veneto siano invece sulle posizioni di Luca Zaia e Attilio Fontana: “Qui non si tratta di nord o sud, ma si tratta di risparmi importanti che si possono fare anche al sud”, mette a verbale un’ora dopo Matteo Zoppas, presidente degli industriali veneti. Icastico il collega lombardo Marco Bonometti: “O l’autonomia passa o è meglio che questo governo vada a casa”.
Ultimo addio a Borrelli, angelo custode della Milano smarrita
“Sono venuto al funerale di Borrelli per questa”, Sergio Cusani tira fuori dalla zaino una lettera consumata. È di Francesco Saverio Borrelli: “Caro Cusani, so che le mie parole non possono lenire il Suo dolore per la perdita della madre. Ma le scrivo avendo vissuto la stessa esperienza”. Dieci righe con la grafia minuta, aguzza, che in 47 anni di carriera ha riempito migliaia di fascicoli. Ma stavolta termina così: “Un abbraccio”. Sì, tra il magistrato che ha guidato Mani Pulite e uno degli imputati simbolo. Questo spirito forse ha spinto Cusani a sedersi accanto ad Antonio Di Pietro nella navata di Santa Croce. A porgergli un fazzoletto per il sudore, tipo Coppi e Bartali che si scambiano la bottiglietta all’attacco della salita. “Sono stati giorni dolorosi, ma ogni passaggio della vita ha un senso. Io non vorrei essere l’uomo che ero prima di Mani Pulite. È andata bene così”, sussurra Cusani mentre stringe le mani a magistrati e finanzieri.
È stato lungo l’addio a Borrelli. Ieri mattina c’era stata la camera ardente in Tribunale; al culmine di quello scalone ripido dominato da una scritta a caratteri cubitali: “Iustitia”. Borrelli lo saliva ogni mattina dopo essere arrivato in bici. E ieri intorno a lui, come nelle riunioni al grande tavolo del suo ufficio, c’erano tutti: Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Paolo Ielo, quelli di Mani Pulite. Poi Armando Spataro, Alberto Nobili sempre con quell’aria da moschettiere, e Maurizio Romanelli con gli occhi lucidi. È arrivato anche Antonio Di Pietro, terreo. Davanti al feretro si è inginocchiato, la faccia tra le mani. Per un attimo rieccoli insieme con la toga (Di Pietro se la fa prestare). Manca qualcuno? C’è chi nella folla cerca i capelli rossi di Ilda Boccassini, ma non li trova. A salutare Borrelli ci sono il sindaco Beppe Sala e i predecessori Giuliano Pisapia e Gabriele Albertini. Poi Mario Monti e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Borrelli è un esempio nella lotta alla corruzione”.
E sono loro, i sostituti di Borrelli, a portare sulle spalle il Capo nell’ultima uscita dal suo tribunale. Quell’edificio squadrato, scuro, quasi disumano come si suppone debba essere la giustizia. Non quella di Borrelli. Ai lati della scalinata due ali di folla: tanti magistrati, di ogni età, e qualche avvocato. Parte un applauso interminabile. Minuti.
Sarà difficile ripercorrere i passi di Borrelli, un uomo – ricorda nell’omelia don Lidio Zaupa – “che ha speso la vita per il bene comune, l’onestà, la giustizia” e “la lotta alla corruzione”. Leggi, codici, certo. Ma il suo ultimo messaggio è arrivato dalle letture scelte per il proprio funerale: il Vangelo di Matteo. “Fu detto occhio per occhio e dente per dente, ma se uno ti percuote la guancia, tu porgigli l’altra; a chi ti porta in tribunale per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello”. Fino a quel passaggio: “Amate i vostri nemici… non giudicate perché con il metro che usate per giudicare sarete giudicati”. Il pensiero di Borrelli è anche qui: la giustizia dei tribunali è necessaria, ma non è la sola.
La chiesa è piena, non gremita. Riconosci volti che incontri ogni giorno a Palazzo di Giustizia, ma c’è anche gente comune, come Anna Bertotti, professoressa in pensione: “Ero davanti al Tribunale la sera che manifestammo a migliaia per il Pool. Borrelli è stato un angelo custode per Milano negli anni dello smarrimento”. Ma oggi in chiesa i giovani sono una manciata. Non è un bagno di folla. Quando il feretro esce sulla piazza le auto per un attimo si fermano: “È Borrelli, quello di resistere, resistere, resistere”. Ma subito il traffico riprende a scorrere. Milano e l’Italia resistono ancora?
Domani e venerdì sciopero dei trasporti: “Regole e sicurezza”
Settimana nera per i trasporti alla vigilia di due giorni di sciopero, quello nazionale il 24 luglio in tutti i settori dei trasporti e il 26 luglio nel trasporto aereo. Sono le iniziative di protesta proclamate da unitariamente Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti “per dare sostegno alla piattaforma unitaria di proposte ‘Rimettiamo in movimento il Paese’ indirizzata al Governo, per avviare un confronto su trasporti, infrastrutture per renderle efficienti ed efficaci, su regole chiare che impediscano la concorrenza sleale tra le imprese e che diano priorità alla sicurezza dei trasporti e sul lavoro, nonché alla tutela ambientale e sul diritto di sciopero”. Per venerdì Anpac, Anpav e Anp hanno proclamato uno sciopero di piloti e assistenti di volo di 24 ore di Alitalia. Per oggi, intanto, il Mit ha convocato un tavolo sul trasporto aereo che, oltre alla questione dell’astensione dal lavoro, punta ad intraprendere un confronto sulle problematiche del settore. Domani la protesta interesserà tutti i settori, il trasporto pubblico locale, ferroviario, merci e logistica, il trasporto marittimo e i porti, le autostrade, i taxi, l’autonoleggio. Venerdì, invece, durerà 4 ore nel trasporto aereo, ad esclusione dei controllori di volo di Enav, dalle 10 alle 14.
Macron a Salvini: “Spartiamo i migranti ma sbarcano da voi”
Non si è presentato alla riunione convocata a Parigi sui migranti. E Matteo Salvini finisce nel mirino del presidente francese Emmanuel Macron. Che sostiene di aver raccolto l’adesione di 14 Stati Ue ad un “meccanismo di solidarietà” per ripartire le persone salvate in mare. Ma solo dopo che lo sbarco sia avvenuto “nel porto più vicino”. Tradotto, l’Italia, al massimo Malta. “Noi non prendiamo ordini da Macron”, gli replica a distanza il ministro dell’Interno, contrarissimo “ad essere l’hotspot dell’Europa”. Un concetto che aveva già espresso annunciando la sua assenza: il Viminale ha infatti inviato a Parigi una delegazione di tecnici, con il preciso mandato di affondare i tentativi di arrivare ad un documento condiviso. Alla fine invece Macron porta a casa l’accordo di 14 Stati “volontari” pronti a ripartirsi i migranti soccorsi in mare, fermo restando che “quando una nave lascia le acque della Libia e si trova in acque internazionali con rifugiati a bordo deve trovare rifugio nel porto più vicino. È una necessità giuridica e pratica – ha detto il presidente francese – Non si possono far correre rischi a donne e uomini in situazioni di vulnerabilità”.