Terzo mandato, si parte dai Comuni. Di Maio si inventa quello “zero”

C’era una volta l’uno vale uno, ora è arrivato il due vale tre. È il sistema aritmetico parallelo di casa Cinque Stelle: quando i conti non tornano, si fa prima a cambiare metodo di misurazione. Il “mandato zero” è l’invenzione con cui Luigi Di Maio risponde all’annoso problema del Movimento, che con l’aria di crisi s’è fatto più urgente: mancano le truppe, figuriamoci la classe dirigente. E ogni volta che c’è un’elezione tocca imbarcare i primi che passano. Colpa della regola sul doppio mandato, un caposaldo M5S: serviva a scongiurare il rischio di creare politici di professione, è finita per produrre un discreto numero di dilettanti. Così, al compleanno numero dieci, il M5S si ritrova con la vecchia guardia già esaurita, consumata tra le due infornate in Parlamento e le consiliature di Comuni e Regioni. La regola dei due mandati è diventata stretta. E se non la puoi sconfiggere, fattela amica: “Abbiamo deciso di introdurre il cosiddetto mandato zero – spiega Di Maio agli attivisti chiamati a votare le nuove regole – È un mandato, il primo, che non si conta nella regola dei due mandati, cioè un mandato che non vale”.

L’artificio è suggestivo, va detto. E consapevole degli sfottò a cui si espone, Di Maio l’ha ammantato di una certa virilità. Vale solo per “i coraggiosi” che si sono ricandidati nei consigli comunali pur senza avere chance di diventare sindaci. Quelli che “con le regole attuali” – dice un Di Maio sconcertatissimo – rischiano di “segnare la fine” della loro “esperienza da portavoce”. Non riguarda chi il sindaco lo ha già fatto o lo farà – Raggi e Appendino, insomma, sono escluse – ma si rivolge ai soldati semplici che poi sono il pane che manca al Movimento, costretto in più di una occasione a non presentarsi alle elezioni locali perché nessuno voleva sprecarsi la fiche, chessò, per fare il consigliere a Bagno a Ripoli. Di Maio lusinga loro e quelli che verranno: “Non solo puoi completare il tuo secondo mandato e alla fine di questi cinque anni ti puoi candidare altrove – spiega il capo politico – Ma puoi decidere di candidarti anche durante il mandato”. Questo, a dirla tutta, è il vero totem che viene giù: il precetto grillino per cui, se hai chiesto fiducia da una parte, non puoi andartene e presentarti agli elettori da un’altra. Ma “l’esperienza di quel consigliere comunale è preziosissima”, dice adesso il leader 5 Stelle. Evidentemente consapevole che se si dovesse andare al voto, oggi, girandosi indietro, non troverebbe nessuno.

Il sistema intasato, basta poco per il tilt

Come si dice in questi casi, saranno gli inquirenti a stabilire se l’incendio nella cabina elettrica di Firenze è un attentato. Sfortuna o dolo, però, il sistema è andato in tilt. Anche se non nella dimensione eccezionale di ieri, la circolazione ferroviaria in Italia è sempre in affanno, e ormai da tempo. Come i cittadini di Konigsberg che rimettevano gli orologi sui tempi della passeggiata di Immanuel Kant, così in Italia fino a non molti anni fa si potevano regolare gli orari sui passaggi dei treni ad Alta velocità tra Roma e Milano. Ora non è più così. Anzi, fino a un anno fa i ritardi delle Frecce Rosse erano la regola, tanto che per mascherarli un po’ sono stati aumentati a tavolino i tempi di percorrenza. Negli ultimi mesi, da quando alla guida delle Fs c’è Giancarlo Battisti, la situazione è un po’ migliorata, ma i ritardi, anche se più contenuti, permangono. La causa è semplice: ci sono troppi treni, soprattutto ad Alta velocità, sia delle Fs sia di Ntv (Italo). Il sistema boccheggia e ogni giorno gira con il rischio del blocco.

Per una volta tanto non si tratta di negligenza o cattiva manutenzione. Quel che sta succedendo sui binari è il risultato inatteso e negativo dell’ottima salute di cui gode il traffico ferroviario passeggeri e della risposta che alla domanda viene data dalle società ferroviarie sia pubbliche sia private. È un caso di bulimia ferroviaria. La richiesta dei passeggeri cresce, le aziende ferroviarie chiedono più slot, cioè più tracce a disposizione, l’Agenzia di regolazione dei trasporti (Art) le concede perché non ci sono motivi per negarle e perché aumentare la circolazione è nell’interesse di tutti. Il risultato finale, però, è che il complesso ferroviario nazionale è sempre più fragile. Soprattutto nei quattro nodi nevralgici: Milano e Roma in testa e poi Firenze e Bologna. Basta un nonnulla perché il sistema impazzisca. Basta che capiti qualcosa a un treno veloce, a un merci, a un regionale e si rischia grosso. Le conseguenze ieri sono state pesanti: ritardi tra le 3 e le 4 ore; una quarantina di Frecce e Italo cancellati a metà giornata. Un putiferio ferroviario molto simile a quello capitato il 9 settembre scorso sulla Roma-Firenze quando il pantografo di un treno recise poco fuori Roma un cavo e bloccò la linea.

Ntv, la società dei treni Italo, per esempio, da quando è partita sette anni fa, ha quasi raddoppiato la flotta ad Alta velocità: i treni erano 25 a metà del decennio, ora sono 47. Nella logica della concorrenza, per non restare indietro, Trenitalia sta aggiungendo altre Frecce Rosse a quelle già in circolazione (ma non ha voluto fornire i dati al Fatto) e considerando che la domanda cresce, ha pure aumentato i prezzi: 2 euro in più nel caso il viaggiatore voglia scegliersi il posto. Italo non pretende un supplemento, ma consente la scelta solo ai passeggeri che hanno optato per la classe di prezzo più elevata. Secondo gli esperti ci vorranno almeno 3 o 4 anni perché la condizione di stress ferroviario venga superata. La parola magica del cambiamento è Etcs (European Train Control System), il nuovo sistema di segnalamento europeo che in teoria dovrebbe consentire all’Italia di raddoppiare in sicurezza il numero dei treni. È in corso il costosissimo adeguamento tecnologico sia delle linee che dei treni. Ma servirà tempo.

Toninelli attaccato da tutti: Salvini, ma anche i 5 Stelle

La graticola per i ministri a 5Stelle, ovvero l’esame di fronte ai parlamentari schierati, è rimasta un’ipotesi. Ma Danilo Toninelli, il responsabile delle Infrastrutture, è lì che frigge per conto proprio: rosolato da fuoco amico e nemico con uguale intensità, perché ora la sua testa la chiedono anche dal M5S. Ovvero a volerlo cacciare non è più solo, si fa per dire, Matteo Salvini. E il ministro lo sa benissimo, tanto che ormai parla e agisce da ultimo giapponese che vende cara la pelle. Così per tutto il giorno azzanna il capo della Lega, e nel contempo conferma di aver licenziato dal Mit Pierluigi Coppola, uno degli esperti della commissione per l’analisi costi-benefici sul Tav, che si era dissociato dal no all’opera. “Coppola ha violato la riservatezza rilasciando interviste non autorizzate e resta un’ombra su di lui, in merito al falso contro-dossier sulla analisi costi-benefici che gli è stato attribuito” dicono dal ministero.

Ma il suo licenziamento è anche un segnale interno, cioè la conferma che Toninelli non ritratterà il no alla Torino-Lione: e il M5S, in via di rassegnazione al sì e pronto a sacrificarlo in un rimpasto, facesse come crede. Proprio come spera Salvini, che ieri mattina torna a picconare Toninelli: “Ci sono troppe infrastrutture bloccate dal ministero dei trasporti. Non è questione di rimpasto: se uno fa il ministro ai blocchi stradali, noi siamo al governo per sbloccare le strade, non per bloccarle”.

Però il colpo più duro gli arriva nel pomeriggio da un veterano del M5S come Max Bugani, membro dell’associazione Rousseau, vicecapo della segreteria di Luigi Di Maio econsigliere comunale a Bologna. E proprio dall’Aula del Consiglio cittadino Bugani invoca la rimozione del ministro e del suo sottosegretario, Michele Dell’Orco: “rei” di aver dato il via libera al Passante di Bologna, il tratto autostradale a doppia carreggiata composto da tre corsie per senso di marcia che dovrebbe collegare l’autostrada A1 alla A13 e alla A14.Eresia per i 5Stelle locali, che combattono l’opera da anni. Non a caso già tre mesi fa Bugani aveva rinfacciato a Dell’Orco il sì: “Cosa si festeggia? Ricordiamo ancora la sua foto con in mano il cartello ‘No al Passante di mezzo’ e riguardarla ci dà un po’ di stupore”. Ma ieri il consigliere alza l’asticella: “Si potrà ancora fermare tutto, si potrà, chissà, cambiare un ministro e un sottosegretario, che pare abbiano perso di vista il motivo e gli obiettivi per cui eravamo lì”. E la chiosa è una condanna: “Ci sono state pressioni enormi da Lega e Pd ma si poteva dire di no. Abbiamo perso 4-0, questa è una palata di merda per il Movimento”. Parole che stupiscono anche i parlamentari. Alcuni si chiedono se siano frasi concordate con Di Maio, e la risposta è no. Anzi, il capo politico è molto irritato, perché in queste ore la linea è negare il rimpasto. E dal M5S confermano come la distanza tra lui e Bugani, già segnata dall’intervista al Fatto in cui il consigliere auspicava unità con Alessandro Di Battista, sia ormai un fossato. “Si può morire politicamente in vari modi, io ho deciso di morire così” scrive Bugani in serata su Facebook. E suona quasi come un addio dall’eletto, da tempo critico. Invece dal Mit precisano: “Abbiamo migliorato il Passante per quanto possibile, e stiamo già puntando sul trasporto sul ferro per Bologna”. Il principale bersaglio rimane Salvini. E Toninelli lo morde sin dalla mattina: “C’è tanto da fare sulla sicurezza e sull’immigrazione”.

Poi va nel dettaglio: “A chi dice che dico sempre di no rispondo che ogni tanto ho il coraggio di dire di no ad alcune cose che non vanno bene, così evitiamo altri Ponti Morandi”. In serata il duello riprende, con Salvini che accusa: “Se l’unico atto del ministro Toninelli sul Tav è licenziare l’unico professore a favore, non mi sembra che ci siamo proprio”. E il 5Stelle ccontrattacca: “Dire a me che sono il ministro che blocca i cantieri è come dire a Salvini che è il ministro che non blocca le Ong”. Come si diceva da ragazzi, specchio riflesso.

Caos treni in tutta Italia: “Sabotaggio anarchico”

Ore 5 di ieri mattina: la sala operativa di Ferrovie dello Stato improvvisamente avverte un buco alle porte di Firenze. I dati sulla circolazione dei treni in uno dei maggiori snodi del Paese si interrompono bruscamente. L’Italia, come in un film di fantascienza, si blocca. Spaccata in due, come spesso avviene quando si verificano guasti o scioperi a Firenze. Ma stavolta è diverso: non c’è nessun errore tecnico o addetti ai lavori che incrociano le braccia. Stavolta qualcuno lo ha fatto di proposito: “incendio doloso” è la sentenza lapidaria degli uomini della Digos di Firenze, arrivati alla stazione di Rovezzano alle prime luci dell’alba insieme alla Polizia ferroviaria.

Gli autori del gesto alle cinque di mattina hanno dato fuoco a tre centraline (una cabina elettrica e due pozzetti) che contengono le canalette di trasmissione dei dati sulla linea tra Rovezzano e Campo di Marte (est della città), un tratto dell’alta velocità che collega Firenze con Roma. Bastano i primi accertamenti per capire chi possa essere stato: “Sono gli anarchici” sibila a mezza bocca un investigatore.

Ed è proprio questa pista che la Digos e i pm battono per tutta la giornata: il reato ipotizzato nel fascicolo aperto dalla Procura di Firenze, per adesso a carico di ignoti, è attentato alla sicurezza dei trasporti (con pene da uno a cinque anni di carcere). La versione ufficiale è che per il momento “non si può escludere niente” ma per tutto il giorno sono gli stessi investigatori a credere nella matrice anarchica. E, come a seguire la celebre massima di Agata Christie (“un indizio è un indizio, due indizi sono due indizi, tre indizi sono una prova”), i motivi sono almeno tre.

In primo luogo ieri è stato il giorno della sentenza contro 28 anarchici rinviati a giudizio a Firenze per diversi atti violenti, tra cui lo scoppio di una bomba artigianale piazzata a Capodanno 2017 davanti alla libreria del Bargello (vicina a Casapound) che ferì pesantemente il carabiniere Mario Vece. All’alba in città sono apparse scritte sui muri ricollegabili alla sentenza (“la carta è solo carta, la carta brucerà”) e secondo gli investigatori l’incendio serviva come atto “dimostrativo” in vista del verdetto, che poi è arrivato nel pomeriggio: 26 dei 28 imputati sono stati condannati dalla Corte d’Assise di Firenze con pene da pochi mesi a 9 anni e mezzo. Per tre dei quattro accusati del ferimento dell’artificiere Vece è arrivata la condanna tra 9 anni e 9 anni e 10 mesi ma il reato è stato riqualificato da tentato omicidio a lesioni personali gravissime.

Il secondo motivo è la somiglianza dell’incendio di ieri con altri due gesti che risalgono a cinque anni fa proprio a Rovezzano: il tentativo (fallito) di bruciare un pozzetto e la molotov contro la caserma dei Carabinieri, reato che rientrava nel maxiprocesso andato a sentenza ieri. Terzo e ultimo indizio, un post apparso all’ora di pranzo sul sito Finemondo.org, che ruota da sempre nel mondo anarchico fiorentino: “Sarà stato un caso? – si legge – Una coincidenza? Una ‘vile provocazione’? Oppure, più semplicemente ed umanamente, un gesto di amore e rabbia?”. E ancora: “Non riusciamo a trattenere la nostra emozione nel vedere come sia sufficiente accendersi una sigaretta all’aria aperta in campagna sotto la luna per mandare in tilt questo gigante coi piedi d’argilla”.

Se non è una rivendicazione, sostengono gli investigatori, poco ci manca. L’incendio e il blocco dei treni in tutta Italia sono diventati subito anche un caso politico. Seppur con toni diversi i vertici del governo concordano sul fatto di “assicurare i colpevoli alla giustizia” perché “migliaia di lavoratori sono stati messi in difficoltà” (il premier Conte). Matteo Salvini, già a Firenze per firmare il protocollo sul numero di emergenza europeo, accusa i “delinquenti” che meritano “anni di galera” perché hanno “rovinato la giornata a molti italiani” mentre Luigi Di Maio parla addirittura di “attentato contro lo Stato”.

Salvini, poi, non si fa mancare l’occasione per innescare l’ennesima polemica sull’alta velocità contro Danilo Toninelli: “Il ministero dei Trasporti deve aiutare la gente a viaggiare e non bloccare porti, aeroporti, ferrovie, tunnel e autostrade – ha attaccato – Il problema è il blocco di centinaia di opere pubbliche”. Al veleno la risposta di Toninelli: “Dire che sono il ministro dei blocchi stradali è come dire che Salvini è un ministro che non blocca le ong”. L’incendio di ieri ha provocato per almeno due ore l’interruzione del trasporto ferroviario sulla linea Milano-Roma (ripartita a pieno solo intorno alle 13.30) ma anche sui treni regionali della Toscana e per tutto il giorno ritardi medi di tre ore – con annesse code e inevitabili proteste – in tutta Italia.

Il ddl Pillon torna in Senato, protestano le associazioni

Nel giorno in cui la commissione Giustizia al Senato torna a occuparsi del ddl Pillon, diverse associazioni scendono in piazza contro il provvedimento. Da questa mattina fino al pomeriggio saranno decine le sigle in protesta – tra cui la Casa internazionale delle donne, Arci, Cgil, Uil e Amnesty International –, tutte schierate contro il disegno di legge avanzato dal ministro per la famiglia leghista Simone Pillon che introdurrebbe novità come  la mediazione obbligatoria – nel caso di figli minorenni – per separazioni e divorzi o la cosiddetta “biogenitorialità condivisa”, ovvero il vincolo di pari divisione del tempo passato con mamma e con papà e di pari costi di mantenimento. “Ancora una volta – scrivono nel testo di presentazione della manifestazione le associazioni – non si presta ascolto alle richieste delle donne e di organismi di rilevanza istituzionale. Se qualcuno pensa che lasceremo approvare una legge lesiva delle libertà e pericolosa per la vita di donne e bambini, si sbaglia”. In Parlamento il ddl, contrastato dal Pd, gode del sostegno della Lega e dei parlamentari 5 Stelle in commissione, nonostante altri esponenti del M5S – su tutti Vincenzo Spadafora – avessero espresso la propria contrarietà.

Franceschini apre ai 5 Stelle, Renzi lo insulta

Volano gli stracci, anzi gli schiaffi in casa Pd e non solo, dopo l’intervista al Corriere di Dario Franceschini che ha aperto al Movimento 5 Stelle proprio alla vigilia delle attese comunicazioni di Giuseppe Conte al Senato sul caso dei presunti fondi alla Lega. Una informativa fortemente voluta dal segretario Nicola Zingaretti che, grazie ai buoni uffici con Roberto Fico, torna a chiedere che sia Matteo Salvini in persona a riferire alla Camera su una vicenda che potrebbe aprire una crepa tra i gialloverdi.

La stessa crepa su cui pare puntare Franceschini, mentre dalla segreteria dem fanno sapere che “non esistono divergenze” tra lui e Zingaretti e sottolineano l’obiettivo: evitare che gli alleati della maggioranza continuino a fare blocco. Con un occhio al dialogo che potrebbe innescarsi in casa 5 Stelle dopo le parole di Conte a Palazzo Madama. Nonostante la netta chiusura di Luigi Di Maio: “Noi siamo orgogliosamente diversi da certe forze politiche che non hanno avuto il coraggio di prendere una posizione ben precisa dopo lo scandalo sugli affidi dei minori di Bibbiano e che vedono propri esponenti coinvolti in questa drammatica vicenda. Noi siamo orgogliosamente diversi da certe forze politiche che quando hanno avuto la possibilità di governare invece di tutelare il nostro Paese hanno pensato bene di svenderlo all’Europa e di portare avanti politiche d’austerità che hanno prodotto povertà e disoccupazione. Noi siamo orgogliosamente diversi da certe forze politiche che invece di risolvere il problema dei migranti hanno fatto business tramite false cooperative”.

Parole che sembrano liquidare l’offerta di dialogo che però tra Pd e pentastellati, almeno tra i banchi di Camera e Senato, prosegue da settimane proprio grazie al lavoro dei pontieri dem che temono l’irrilevanza almeno come i 5 Stelle il ritorno alle urne.

La parola d’ordine è evitare il “fattore k”, ossia che il Pd si autoinfligga, a sistema elettorale invariato, l’autoesclusione, come ha teorizzato Antonello Giacomelli meno di un mese fa. Lorenzo Guerini è convinto che “sia giusto incunearsi nelle contraddizioni della maggioranza, che comunque terrà”. E allora “forse Franceschini – è la versione di Guerini – parla ad uso interno del Pd: vedremo cosa dirà Zingaretti alla direzione di venerdì”.

Resta il fatto che negli ultimi 30 giorni è esploso il caso fondi russi e le fibrillazioni in seno alla maggioranza hanno toccato vette altissime. Ma soprattutto è venuto in evidenza il profilo istituzionale di Giuseppe Conte anche nella trattativa con le cancellerie europee, sublimato dall’appoggio del Movimento alla presidente della Commisione europea Ursula von der Leyen, negato dal Carroccio. E prima ancora si è concretizzato nell’approccio laico degli europarlamentari 5 Stelle rispetto al presidente del Parlamento europeo del Pd David Sassoli.

Segnali di fumo che non sono passati inosservati. Nè a Salvini, che sull’asse Pd-M5S in Europa ha aperto una polemica con Di Maio che ancora non è chiusa. Nè a Matteo Renzi, che ieri ha risposto a muso duro a Franceschini: “Ha perso nel proprio collegio e poi consegnato la propria città alla destra dopo settant’anni, eppure è sempre lì a spiegarci come va il mondo”. “Analisi raffinata”, ha ironizzato l’interessato, che però ha lasciato a qualcun altro il compito di affondare il colpo dell’ironia: “E per fortuna che Matteo Renzi dice di non volersi occupare più di Pd ora che, non essendo più segretario, può volare in Montana a parlare di futuro. Ci avrà ripensato data la delusione di non trovare a Yellowstone gli eroi della sua infanzia, gli orsi Yoghi e Bubu…”.

Formigoni lascia il carcere: “Ha compreso gli sbagli”

Non si è mai fatto interrogare dai magistrati, non ha mai collaborato con la giustizia in alcun modo, la legge Spazzacorrotti impone – anche agli ultrasettantenni condannati definitivi per corruzione – di andare in carcere, ma da ieri pomeriggio Roberto Formigoni, dopo 5 mesi passati nel penitenziario di Bollate, è agli arresti domiciliari.

A febbraio era stato condannato dalla Cassazione a 5 anni e 10 mesi per corruzione dato “l’imponente baratto corruttivo” attorno al sistema di finanziamento della clinica Maugeri e dell’ospedale San Raffaele, attraverso delibere della Regione Lombardia guidata dal “Celeste” per vent’anni.

La decisione dei domiciliari è stata presa dal tribunale di Sorveglianza di Milano (collegio Di Rosa, La Rocca e due esperte). Ma la Spazzacorrotti non conta? I giudici non entrano nel merito del punto che sarà affrontato dalla Corte Costituzionale sulla retroattività o meno della legge, ma passano alla questione della collaborazione con la giustizia, essenziale per avere i domiciliari secondo la legge Bonafede.

Poiché per Formigoni “il presupposto della collaborazione è impossibile”, ragionano i giudici, allora si passa ad altri parametri di valutazione, come l’età – ha 72 anni – e il suo “percorso di recupero”. Non a caso gli avvocati Mario Brusa e Luigi Stortoni avevano chiesto i domiciliari o per l’irretroattività, a loro avviso, della Spazzacorrotti o per impossibilità della collaborazione. I giudici hanno optato per la seconda richiesta, con l’assenso anche della Procura generale. Inascoltato il Procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio, che in una memoria aveva scritto di non avere “elementi certi per ritenere, ma nemmeno per escludere” che “fosse ancora in atto” l’associazione criminale, di cui facevano parte il faccendiere e amico di Formigoni, Pierangelo Daccò, e l’ex assessore Dc Antonio Simone, considerati i collettori delle regalie al Celeste.

La Pedio, inoltre, scriveva di “non poter escludere” neppure “l’utilità di dichiarazioni” di Formigoni “proprio per il suo ruolo nella vicenda” in merito “all’ingente patrimonio transitato per paradisi fiscali e mai recuperato”. Ma per i giudici, anche se è “pacifico” che Formigoni non abbia collaborato, ormai non ci sono più “spazi” per farlo: i processi hanno ricostruito i fatti “con pignoleria” e la procura ha parlato di “presunzioni” e non di elementi “per fondare una possibilità” di collaborazione.

Dunque, la misura domiciliare è “adeguata per molteplici fattori, a partire dall’età”. Formigoni ha riconosciuto “il disvalore” dei suo comportamenti , “ha capito gli sbagli”, come “l’amicizia con Daccò e le vacanze sugli yacht ai Caraibi”. Giovedì scorso, in udienza, Formigoni aveva pronunciato la frase fatidica per avere i domiciliari: “Mi conformo alla sentenza di condanna”. E aveva aggiunto: “Comprendo il disvalore dei miei comportamenti, la mia riflessione sui fatti del processo si è accresciuta in carcere”.

Importante per i giudici pure “lo stile di vita riservato, la resipiscenza” in carcere, i “buoni comportamenti”, “il basso profilo” tenuto con i detenuti che gli hanno fatto molte richieste, in quanto ex politico. Inoltre, Formigoni non riveste più alcun “ruolo pubblico”, secondo i giudici, pertanto la detenzione in carcere non è rieducativa ma solo “afflittiva”.

Ora sconterà la pena, fino al 2023, al netto dei benefici, a casa di un suo amico, Walter Maffenini, docente di statistica a Milano. Il professore si è detto disponibile a sostenerlo anche economicamente dato che Formigoni ha sostenuto in udienza di essere povero in seguito al sequestro di tutti i suoi beni, compreso il vitalizio. I numeri della corruzione relativi ai casi San Raffaele-Maugeri, sono impressionanti: 61 milioni di euro, di cui circa 6 milioni arrivati “in vari flussi e forme” proprio a Formigoni.

“La flat tax fa emergere il nero”

Al netto dei guai giudiziari, ieri l’ex sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri si è fatto notare per un pensosa e lunga intervista a La Verità, in cui ha spiegato il suo famoso piano per la Flat tax. Il nodo principale, quello delle coperture della misura, è stato in gran parte liquidato dall’intervistato così con la convinzione che l’imposta piatta si finanzierebbe quasi da sola grazie “all’emersione di nuovo imponibile”. “E poi – ha chiarito – la flat tax funzionerà anche come lotta all’ evasione, facendo emergere tanto sommerso”. È la famosa “curva di Laffer” dell’economista Arthur Laffer (più bassa è l’aliquota, maggiore il gettito) una teoria molto popolare negli anni 80, il decennio in cui i Paesi anglosassoni hanno sperimentato massicci tagli delle tasse a beneficio delle classi più ricche, e in parte tutt’ora, benché sia assai poco provata. L’idea che i tagli si coprirebbero da soli grazie all’aumento del gettito dovuto alla riduzione fiscale (molti contribuenti che oggi evadono saranno spinti a pagare) non è supportata dai dati. È, per dire, un evento che non si è mai verificato in nessuno dei Paesi che ha sperimentato modelli di flat tax studiati dal Fondo monetario internazionale.

Di Maio: “Pressioni sul governo, va fatta massima chiarezza”

La notiziaarriva per Luigi Di Maio nel momento di massima tensione nei rapporti con l’alleato e il capo del Movimento 5 Stelle non si lascia scappare l’occasione di usarla contro la Lega: “Ho sentito attraverso alcune notizie di stampa che c’è stato un momento, mentre si stava formando il governo, in cui qualcuno come Paolo Arata (vicino alla Lega, indagato per corruzione a Palermo nell’inchiesta sull’eolico, ndr) ha dichiarato, telefonicamente, di volermi controllare nominando un sottosegretario o uno nel mio gabinetto al ministero degli Esteri – perché, si diceva, Di Maio doveva andare a fare il ministro degli Esteri -. Qualcuno ha provato a pilotare la mia nomina da ministro. Io credo che questo sia un fatto gravissimo”, ha detto il vicepremier grillino in un video postato su Facebook. “Se qualcuno esterno al governo ha provato in qualche modo a orientare e manipolare scelte dell’esecutivo, su questo si deve fare la massima chiarezza. Chiederò alla magistratura la massima chiarezza, anche se ci sono stati altri tentativi di intervento nei nostri riguardi”, conclude Luigi Di Maio.

Così lo manovravano: “Nel programma c’è”

Sono i giorni in cui il Movimento 5 Stelle e la Lega trattano i punti da inserire nell’accordo di programma del nuovo governo. Sullo sfondo, l’imprenditore Paolo Arata è interessato a far inserire una parte sugli “impianti di biometano”, visto che a Calatafimi Segesta, in provincia di Trapani, aveva in progetto di realizzarne uno insieme al “signore del vento” Vito Nicastri, tramite la Solgesta Srl. Sull’impianto però c’è la forte opposizione dell’ex deputato Massimo Funsarò e dei deputati siciliani pentastellati Giuseppe Trizzino e Valentina Palmeri.

Arata avrebbe però sfruttato Armando Siri come “grimaldello”. Con lui avrebbe scambiato diversi sms per arrivare al tavolo delle trattative. “Voglio vedere se è riuscito ad inserire il biometano – dice Arata –, perché gli avevo detto di mettere il biometano ad Armando, ma era già chiuso quello dei rifiuti, speriamo che ce l’ha messo, non mi ha detto più niente”. Qualche giorno dopo arriva la conferma.

“Che ha detto Armando?”, chiede il figlio Francesco. “Ha detto che il programma l’hanno, c’ha inserito il biometano nel programma”, risponde Arata. In effetti, al punto 4 dell’accordo tra Lega e M5S, “ambiente, green economy e rifiuti zero”, si fa riferimento a possibili valutazioni di “sperimentazioni sul ciclo vita di impianti a biometano”.

Dagli atti d’inchiesta della Dia di Trapani, emerge come Arata sfrutti il suo rapporto con Siri per ottenere quello che vuole in campo energetico. Era stato così tra fine marzo e i primi di aprile dello stesso anno, quando desiderava bloccare un decreto interministeriale, tra il ministero dello Sviluppo economico e l’Ambiente, che avrebbe “penalizzato i suoi affari siciliani, condivisi con Vito Nicastri, nel settore delle energie rinnovabili”.

Agli atti c’è una “chiacchierata” tra Siri e Arata “sul tema” il 4 aprile 2018, in cui l’imprenditore informa il futuro sottosegretario che avrebbe chiamato anche Raffaele Tiscar, all’epoca capo di gabinetto del ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. “Ah, sulle rinnovabili! Eh, ma noi abbiamo già dato il concerto”, dice Tiscar ad Arata, spiegandogli che dal dicastero di Galletti avevano dato il benestare al testo del decreto promosso dal Mise guidato da Carlo Calenda. Testo che “avrebbe danneggiato – scrivono gli investigatori – gli interessi dei proprietari di piccoli impianti di produzione di energie rinnovabili a fronte di vantaggi a favore dei proprietari di grossi impianti”.

A quel punto Tiscar “suggeriva ad Arata di far intervenire la Lega”, tramite “una agenzia stampa”, per manifestare “la sua contrarietà politica” sul contenuto del testo del decreto, in modo che venga presa una netta “presa di posizione politica”. “Benissimo, allora lo faremo senz’altro”, risponde Arata.

Il giorno dopo la conversazione, gli inquirenti spiegano che la prova del “messaggio voluto da Arata e condiviso da Siri”, appare nel comunicato di cui si fa portavoce lo stesso consigliere economico di Matteo Salvini, in cui si spiega la posizione della Lega intenzionata a fermare l’emendamento e apparso su alcune testate web.

Arata tenta anche di far inserire nel testo del decreto “mille proroghe” un apposito “emendamento”, che gli avrebbe consentito ad alcuni suoi impianti eolici di ottenere dei vantaggi di maggior tariffa negli incentivi. L’imprenditore, si legge negli atti, “faceva naturalmente pieno affidamento sulla disponibilità del senatore Siri”, che a sua volta “si prodigava nel proporre la norma voluta” da Arata, senza però riuscirci. L’obiettivo era quello di poter ottenere una “sanatoria” degli impianti eolici per il trenta settembre, e nello stesso tempo “ridurre il numero dei beneficiari della stessa”, in modo che gli incentivi venissero suddivisi solo tra poche aziende.

Anche se Siri si sarebbe prodigato, l’operazione non va in porto. “Io ho provato a portare nel mille proroghe, l’emendamento generale non è passato – spiega Arata a colloquio con Manlio Nicastri, figlio di Vito – è fatto male, m’ha detto”. Il riferimento è proprio a Siri.