“Il nostro uomo è dentro grazie a Letta, B. e Burke”

Si è sempre detto che Giancarlo Giorgetti è “il Gianni Letta della Lega”. L’inchiesta su Siri conferma questo assunto. Paolo Arata, ex parlamentare di Forza Italia poi diventato imprenditore di area leghista, intercettato il 17 maggio 2018 spiega al figlio Francesco: “Pensa un po’ che Armando (n.d.r. Siri), l’ho fatto chiamare io da Berlusconi… cazzo non c’era riuscito… devo dire che Letta è sempre un amico. Sono andato lì e gliel’ho detto: chiama Armando perché Armando… dice: ‘sai se non mi sostiene Berlusconi, Salvini non so…. si poi mi garba… poi capace che… allora devo dire che subito dopo l’ha chiamato. Ha detto che interviene anche su Giorgetti per Federico (il figlio, Federico Arata, ndr) così Giorgetti è stato mezzora con Federico: proprio ‘ah ma tu sei una persona brillante, un ragazzo bravo’…. mi conosce da quindici anni Giorgetti”.

Il sistema di potere che fa riferimento a Giorgetti si rivela simile a quello di Letta anche per le sponde in Vaticano e negli Usa. Scrive la Dia: “Già dal mese di aprile, Paolo Arata ‘spingeva’ la candidatura di Siri per un importante incarico governativo”. Siri era strumentale ai disegni di Arata e l’ex politico di FI passato all’impresa si spendeva Oltretevere e Oltreoceano.

“A tal fine oltre ad interessare ripetutamente il suddetto Gianni Letta – prosegue la Dia – Arata ricorreva all’aiuto del cardinale Raymond Leo Burke, un importante esponente della Chiesa Cattolica con addentellati nell’Amministrazione statunitense; di Steve Bannon giornalista, politico e produttore cinematografico statunitense, ex banchiere d’investimento, già capo stratega del presidente degli Stati Uniti Donald Trump dal 20 gennaio al 18 agosto 2017”.

Il 6 aprile 2018 Arata chiama il cardinale neo-conservatore, legato alla destra americana e riferimento dell’ala Vaticana ostile a Papa Francesco, e gli dice: “Chiamo per ricordarle se può fare quel famoso intervento su Giorgetti dagli Stati Uniti”. La Dia ipotizza che Arata stia invocando l’intervento di un politico americano, Paul Ryan, che è stato addirittura la terza carica degli Usa, come presidente dell’Assemblea statunitense fino al 2019.

Al cardinal Burke Arata chiede anche una raccomandazione per il figlio Federico. Lo vorrebbe addirittura “viceministro agli esteri”. Poi Giorgetti affiderà a Federico Arata una consulenza. Il 9 giugno 2018, quando Giorgetti fissa il primo incontro al figlio, Arata ringrazia così Burke: “Sua eminenza (…) grazie di tutto per quello che ha fatto per Federico, grazie”. Poi aggiunge “un passo alla volta”. In realtà il passo che per lui conta è la nomina di Siri. Il 15 maggio Arata incontra Gianni Letta. Il giorno dopo arriva la telefonata di Berlusconi a Armando Siri, non registrata dalla Dia ma commentata da Arata.

Il 28 maggio 2018 poi Arata chiama la segretaria particolare di Giorgetti, Rita Trinci, per chiedere di fissare un incontro con Steve Bannon, in quel periodo in tour in Italia. Arata passa il telefono al figlio Federico, che tiene i rapporti della Lega con i teocon americani. Il rampollo spiega: “Non è per incontrare me è perché più che altro poi l’americano venerdì riparte e per questo che ha incontrato Salvini, ha incontrato Siri non ha incontrato a Giancarlo che è lui il responsabile degli esteri quindi per questo ci tenevo”. Arata coinvolge Burke e Giorgetti nelle manovre per la nomina di Siri a sottosegretario. Poi coinvolge Siri nel suo tentativo di ottenere un emendamento su misura per incassare incentivi maggiori per i suoi impianti. Il 18 settembre 2018, nel pieno delle manovre per ottenere l’emendamento in suo favore, dice al presidente delle imprese del minieolico, Carlo Buonfrate, che ha incontrato anche Giorgetti ma non gli riferisce particolari al telefono.

Il 28 maggio 2018 Arata, poco prima della formazione del governo, fa anche il nome del ministro dell’Interno. “Salvini non sa dove mettere Armando (Siri, Ndr), poi io gli ho detto che deve fare il viceministro con la delega dell’energia e lui lo ha chiesto a Salvini e Salvini ha chiamato anche casa nostra”. Al massimo ci sarà stata una chiamata di Salvini a Siri (non intercettata) intervenuta mentre Siri era a casa di Arata. La Dia precisa: “Questa Dia non ha registrato interlocuzioni telefoniche tra Arata e Salvini”.

Arata a Nicastri jr: “Tuo padre conosce Armando”. È Siri?

Vito Nicastri, nel periodo in cui era un uomo libero, prima di finire ai domiciliari nel marzo del 2018 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, ha incontrato – secondo quanto sembra dire Paolo Arata mentre è intercettato – il teorico della flat tax Armando Siri?

Questo è il dubbio che sorge leggendo l’informativa di 309 pagine depositata a fine maggio scorso dalla Direzione investigativa antimafia nel procedimento di Roma che vede indagato il senatore della Lega ed ex sottosegretario alle Infrastrutture insieme ad Arata con l’accusa di corruzione. A pagina 166 è trascritta una conversazione nella quale Arata dice che Nicastri conosce un soggetto che, dal contesto, sembra essere Siri. Arata fa la confidenza al figlio di Nicastri, che invece di stupirsi conferma.

Questo passaggio della conversazione non viene valorizzato dalla Dia e gli interlocutori non fanno espressamente i nomi. Inoltre gli avvocati di Nicastri e Siri negano che sia mai stato contestato un incontro. Il giallo probabilmente sarà chiarito il 25 luglio quando si svolgeranno, nel corso dell’incidente probatorio, gli interrogatori dei Nicastri. Lì pm e avvocati potranno chiedere il senso della conversazione tra Manlio Nicastri e Paolo Arata alla presenza del figlio Francesco Arata. Certo se Nicastri avesse incontrato Siri con Arata, prima dell’arresto di quest’ultimo nel 2018, la questione sarebbe politicamente delicata. Nicastri, anche se non è mai stato condannato per mafia, era già chiacchierato per i suoi presunti legami con Matteo Messina Denaro. I giornali avevano parlato dei suoi presunti legami con la mafia e la Rai nel 2014 aveva trasmesso un’intervista all’imprenditore sui suoi sospetti legami col boss. Era noto che Paolo Arata, l’imprenditore delle energie rinnovabili, ex parlamentare di Forza Italia poi passato alla Lega, si vantasse con Manlio Nicastri di poter contare sul sottosegretario Siri, dicendo che lui lo voleva pagare 30 mila euro per far passare un emendamento a favore delle loro imprese. Non era noto il contenuto della conversazione in cui si accenna ai soldi e alla precendente conoscenza tra un soggetto, che sembra Siri, e Vito Nicastri.

Il 10 settembre del 2018 la Dia intercetta la conversazione grazie al trojan inserito nel telefonino di Paolo Arata. All’inizio l’imprenditore parla delle sue strategie per ottenere l’incentivo più elevato a lui non spettante: “La grande soluzione di tutti i problemi nostri è il fronte incentivi”. Arata vuole un emendamento che permetta agli impianti come i suoi, aperti nell’estate 2017, di accedere ai più remunerativi incentivi 2012. Per questo si era affidato a Siri ma il sottosegretario (per lui “viceministro”) lo ha appena chiamato: “L’emendamento che non è stato fatto bene mi ha detto il vice ministro, che mi ha chiamato prima, CHE GLI DO 30 MILA EURO TANTO PERCHÈ SIA CHIARO TRA DI NOI… IO AD ARMANDO SIRI VE LO DICO GLI DO TRENTAMILA EURO”. Questo passaggio è riportato in stampatello dalla Dia e così lo abbiamo trascritto. Il figlio, Francesco Arata, 29 anni, ribatte per nulla sorpreso: “Sì l’hai già detto”. Papà Arata poi prosegue a parlare di Siri con il figlio e con Manlio Nicastri, figlio di Vito: “È un amico come lo fossi tu, però gli amici mi fai una cosa io ti pago e quindi è più incenti…”. Il senso è chiaro: se vuoi che un amico, come Siri, si muova per te, è meglio pagarlo, così sarà più incentivato. Poi Arata prosegue: “lui è molto amico del capo gabinetto delle Attività Produttive… perché lui non è lì… (incomprensibile) guarda Paolo … gli ho detto … Armando questo … l’ha conosciuto anche tuo papà è venuto a pranzo anche a casa mia”. La frase detta da Arata al figlio di Nicastri sembra riferirsi a Siri: “Armando questo … l’ha conosciuto anche tuo papà è venuto a pranzo a casa mia”. Manlio Nicastri, mostra di esserne già a conoscenza: “Sì si lo so”.

Subito dopo Arata ricomincia: “Però le cose come io… la gente va pagata, è inutile che ti fa un piacere”. Arata sembra sostenere che i 30 mila euro da dare a Siri per loro valgono un milione di euro. Un buon investimento. Ecco le parole testuali riportate dalla Dia: “A noi ci costa un milione di euro quel piacere, non è che sono 30 mila euro”. Poi Arata passa a spiegare a Manlio Nicastri le scuse di Siri sull’emendamento: “Lui mi ha detto: ‘io ci ho provato a portare nel milleproroghe l’emendamento generale … non è passato, è fatto male, m’ha detto e quindi io devo trovare adesso uno bravo che mi faccia l’emendamento bene (…) anche stasera … mi ha detto: ‘stai tranquillo che quello te lo faccio passare’. Io mi devo fidare è la persona più amica che io ho dentro lì”.

L’avvocato di Siri, Fabio Pinelli, precisa: “La circostanza di un incontro tra Siri e Nicastri non emerge da nessun atto e non è mai esistita”. Anche l’avvocato di Vito Nicastri, Sebastiano Dara, conferma: “Non c’è nessuna traccia di un presunto incontro tra Siri e Nicastri né ci è mai stato chiesto da nessuno nel corso delle indagini”.

Benvenuti fra noi

Non passa giorno senza che qualche big del giornalismo e della politica dica ciò che noi scriviamo da sempre, ovviamente senza riconoscercelo né versarci almeno un piccolo copyright. Eugenio Scalfari, su Repubblica, riabilita Giuseppe Conte dalla black propaganda che lo ritraeva come la marionetta e lo zimbello suoi vicepremier, soprattutto di Salvini. Macchè “burattino”, Egli è il “burattinaio”. Anzi, di più: “Valutando il Conte di oggi non è affatto escluso pensare che ripeta in qualche modo le idee di Aldo Moro”. Ma non solo: “A me sembra che Conte sia oggi l’uomo del giorno e che possa creare un’Italia europea degna di poter essere positivamente valutata dai suoi alleati e soprattutto dai suo abitanti”. Quali alleati? I 5Stelle e il Pd, in un nuovo compromesso storico come quello moroteo fra Dc e Pci. E, per curiosità: chi si era azzardato a dare del “burattino” allo statista di Volturara Appula? Scalfari, naturalmente: “Conte è un gentile e ben rappresentato burattino, i cui fili sono mossi dai due burattinai che se lo sono inventato” (8.7.08). Fino all’altroieri Repubblica e i suoi derivati facevano a gara a ritrarlo come “uno studentello impreparato” (Sebastiano Messina, 7.6.08), “il Conte Zelig. Il presidente esecutore. Il premier fantasma. L’uomo invisibile. Pinocchio tra il Gatto Di Maio e la Volpe Salvini. Il primo presidente del Consiglio di cui non si conosce un’idea” (Espresso, 10.6.08), “il burattino che non riesce a diventare Pinocchio”, reo di “ricorrenti piccole-grandi truffe curriculari”, “figura ben più drammatica che ridicola”, “il pupazzo di Di Maio&Salvini, il vice dei due vice… una finzione giuridica dell’Italia a 5 stelle, l’Agilulfo di Calvino, che non era un cavaliere ma una lucida armatura vuota” (Francesco Merlo, 12.9), “Conte non esiste, parla pochissimo, non decide nulla” (Espresso, 16.9), è l’“azzeccagarbugli nazionale” (Mario Calabresi, 23.9), “tra Conte e Casalino il vero uomo forte non è il presidente ma il suo portavoce” (Messina, 23.9). Condanne senz’appello pronunciate in base al Pregiudizio Universale, prim’ancora di vederlo all’opera e farsene un’idea positiva o negativa alla luce di quel che fa o non fa. Siccome l’ha scelto il M5S, deve per forza essere una nullità, ma anche un poco di buono.

Ieri sul Corriere Paolo Mieli, uomo saggio e prudente, che mai s’era lanciato in scomuniche preventive, ha raccontato come Conte, zitto zitto, si sia ritagliato un ruolo da protagonista dopo le Europee a scapito di Salvini, così nervoso anche perchè il premier ha reso inutile il suo trionfo elettorale di due mesi fa: “C’è un vincitore, il Conte, e uno sconfitto, il suo vice Salvini”.

E ancora: “Conte con grande agilità ha preso le redini di un M5S in stato confusionale dopo lo shock elettorale” e “offre ai grillini una prospettiva di tenuta della legislatura” con “la garanzia di restare a lungo in Parlamento e persino al governo”, avendo costruito ben “due maggioranze” (quella giallo-verde e quella di “salute pubblica” in caso di crisi) che alla lunga logoreranno Salvini, complici i casi Rubli e Siri, mentre Conte “potrà presentarsi al Paese e all’opinione pubblica internazionale come capo di un governo che per ben due volte ha evitato la procedura d’infrazione”. E, “dovessero esserci degli inciampi, verrebbero messi per intero sul conto del ministro dell’Interno”. Immaginate la faccia dei lettori del Corriere, abituati a leggere che “il professor Conte non ha alcuna esperienza di amministrazione. Niente, nada, nothing, nichts, rien… È come se la Marina militare affidasse la portaerei Cavour a un caporale degli alpini, magari bravissimo. Si può fare, ma è da incoscienti… In Europa vedono tutto, e capiscono abbastanza bene” (Beppe Severgnini, 27.5.08) e che “il vero presidente del Consiglio è Salvini”, mentre “a Conte non resta che lanciare un appello: se ci sei batti un colpo” (Luciano Fontana, 9.7.08). Senza contare l’ultimo sondaggio di Pagnoncelli, che dà a Conte un indice di gradimento record del 58%, 4 punti sopra Salvini.
Sempre ieri, sul Corriere, Dario Franceschini, azionista di maggioranza del Pd e politico di lungo corso, sostiene che “è un errore mettere Lega e grillini sullo stesso piano. Senza la ricerca di potenziali alleati difficilmente il Pd potrebbe arrivare col proporzionale al 51%”. Non solo: “La strategia renziana dei pop corn ha portato la Lega dopo un anno al 35%. Abbiamo buttato un terzo dell’elettorato, quello dei 5Stelle, in mano a Salvini”. E poi “Conte non è Salvini: quando nel campo avversario si vedono delle differenziazioni l’opposizione deve valorizzarle”. Come “il comportamento diverso di 5Stelle e Lega sull’elezione di Sassoli e di von der Leyen, le cose su Europa e autonomia di Conte, alcune prese di distanza di Fico o quello che sostiene Spadafora sui diritti civili”. Quanto basta non per un inciucio M5S-Pd (in questa legislatura, sarebbe il governo degli sconfitti contro il vincitore delle Europee), ma per “difendere insieme i valori umani e costituzionali che Salvini calpesta ogni giorno”. Parole ragionevoli, infatti subito bersagliate dai bombardamenti del Bomba. Peccato che un anno fa, quando il Pd poteva accettare il contratto con Di Maio, Renzi lo prese in ostaggio e tutti tacquero. Anche Franceschini e i giornaloni, salvo quelli che applaudivano Renzi.
Prima di montarci la testa e organizzare per questi ritardatari una festa di benvenuto fra noi, con l’inginocchiatoio per la penitenza, domandiamoci se avevamo visto giusto da soli per merito nostro o per demerito degli altri. La risposta, purtroppo, è che non siamo più intelligenti. Solo più fortunati. Gli altri vedono le stesse cose che vediamo noi, ma non possono scriverle. Almeno finchè Salvini non va al 35% e la paura a 90. Si dirà: meglio tardi che mai. Il guaio è che forse è troppo tardi.

La fabbrica dell’aria: made in Italy green, Chef Rubio dice sì

Talvolta la cura è peggio della malattia. È quello che accade quando si accendono i condizionatori per combattere l’afa: respiriamo aria fresca, ma contribuiamo al riscaldamento globale. Alcune delle menti più brillanti sono a lavoro per risolvere il problema: la soluzione non è a portata di mano, ma la “fabbrica dell’aria” avvicina la meta. È un depuratore e condizionatore naturale: piante e alberi, nient’altro. Quando si dice “tecnologia pulita”: ficus, banani e selci dentro una teca di vetro. L’aria viene aspirata nella serra e torna in circolo pulita (col 98% di agenti inquinanti in meno) più fresca e con meno umidità. Le piante a foglie larghe sono le migliori per pulire l’atmosfera.

L’idea è di un’azienda italiana con base a Firenze, dal nome difficile: Pnat (ma si legge ‘pinat’) acronimo di “Project Nature”. La start-up è germogliata all’ombra del laboratorio Internazionale di neurobiologia delle piante (Linv) diretto dallo scienziato Stefano Mancuso. Il neurobiologo ha appena dato alle stampe un libro dal titolo visionario: “La nazione delle piante”. In tempi di crisi sociale, perché non copiare le regole di convivenza della vegetazione? Intanto, sfruttiamone il valore ecologico.

La “fabbrica dell’aria” oggi è un prototipo. Si trova a Firenze, nell’ex Manifattura Tabacchi, uno stabile industriale in disuso, tornato in vita grazie a Cassa Depositi e Prestiti. Un complesso enorme, su quattro piani, 16 edifici e 100.000 mq. È la moda di oggi: spazi abbandonati, dove c’erano operai alla catena di montaggio, convertiti allo svago e al design, perché tra i pochi settori che tirano. Tra ex magazzini e stanzoni aperti, trovano ospitalità artisti e scienziati. Non è un caso: le nuove idee fioriscono col concime della differenza; guardare il mondo dallo stesso spioncino non aiuta l’innovazione.

Pnat infatti include rami diversi: esperti di botanica ed agronomia (Elisa Azzarello, Ccamilla Pandolfi ed Elisa Masi) e due architetti (Antonio Girardi and Cristiana Favretto di Studiomobile). Il Fatto Quotidiano li aveva già presentati ai lettori, per via dell’orto galleggiante Jellyfish. Chef Rubio invece è già un fan di Pnat: il cuoco e conduttore ha promosso una raccolta fondi sul web per misurare gli effetti benefici degli alberi nel parco Cavallo Pazzo, a Roma, rione Garbatella. Stefano Mancuso e il suo team hanno fornito le stime: 50 chili in meno di agenti inquinanti l’anno; 3500 KwH di risparmio energetico; vantaggi economici per il quartiere da 1.300 euro l’anno. “La vegetazione urbana fa bene al portafogli e alla salute, l’ho scoperto grazie ai libri del professor Mancuso”, dice Rubio. L’idea del censimento arboreo, a Garbatella, è maturata per evitare i disboscamenti. “Ho letto che a Roma e in altre città i sindaci preferiscono segare i tronchi invece di potare i rami, per risparmiare – racconta lo Chef – Volevo bestemmiare: poi ho lanciato il crowdfunding per Stefano Mancuso. Qualcuno vuole contribuire?”.

Con la Occhini se ne va un pezzo di storia del cinema italiano

È morta a Firenze Ilaria Occhini, una delle ultime dive dell’Italia del Dopoguerra. Per lei cinema, teatro e televisione hanno perennemente intrecciato la carriera, e ha lavorato con i più grandi registi, da Visconti, a Ronconi, fino a Patroni Griffi.

Il suo debutto nel cinema è a soli 19 anni, con Terza liceo e lo pseudonimo di Isabella Redi, diretta da Luciano Emmer; in seguito si diploma all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma; accademia frequentata grazie al nonno, lo scrittore Giovanni Papini, e un contributo di 250 lire al mese.

All’Accademia i suoi compagni di corso sono: Luca Ronconi, Gian Maria Volontè e Mario Missiroli.

Il grande successo popolare arriva con Jane Eyre (1957), sceneggiato televisivo della Rai diretto dal regista Anton Giulio Majano che la afferma come icona di bellezza; lì viene notata da Luchino Visconti che la lancia in teatro nel 1957 con L’impresario delle Smirne di Carlo Goldoni e a seguire in Uno Sguardo dal ponte a fianco di Paolo Stoppa e Rina Morelli.

Grande maestro di Ilaria Occhini è Orazio Costa suo insegnante all’Accademia che con lo sceneggiato televisivo Graziella (1961) la conferma al grande pubblico. Da questo momento la sua carriera è in salire e la vede a fianco di attori come Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Alain Delon, Jean Gabin e molti altri. Tra i film Il tiranno di Siracusa di Curtis Bernhardt (1962), I promessi sposi di Mario Maffei (1964), I complessi di Dino Risi (1965), Gli uomini dal passo pesante di Albert Band e Mario Sequi (1965), L’uomo che ride di Sergio Corbucci (1966).

Proprio nel 1966 sposa lo scrittore Raffaele La Capria, che così la descrive: “L’intelligenza del cuore è rara, ma lei ce l’ha”. Il loro rapporto era iniziato nel 1961, l’anno in cui La Capria vince il Premio Strega con il romanzo Ferito a morte (Bompiani). “Ci innamorammo perdutamente e perdutamente siamo stati insieme”, ha raccontato la stessa Ilaria Occhini.

Le caratteristiche attoriali l’hanno portata a recitare quasi sempre in ruoli da non protagonista, ma con i quali dava comunque la sua impronta e la sua caratterizzazione. E negli anni successivi al matrimonio si afferma di nuovo con gli sceneggiati Puccini del 1973 e L’Andreana del 1982, ma è Alessandro Benvenuti a rilanciarla nella commedia con Benvenuti in casa Gori del 1992, grazie al quale vince il Nastro d’Argento alla migliore attrice non protagonista.

Nel 2005 ha il ruolo della madre nelle quattro stagioni della popolare fiction di Rai 1 Provaci ancora prof! con la regia di Rossella Izzo e nel 2008 è protagonista di Mar Nero, film di Federico Bondi che le vale vari riconoscimenti, come la candidatura ai David di Donatello e la vittoria del Pardo d’Oro alla miglior attrice al Festival internazionale del film di Locarno. Nel 2010 è suo il David come migliore attrice non protagonista con Mine vaganti di Ferzan Özpetek.

Sexy Fenech. Voce e corpo da dea italica

“Sono stata sempre molto diversa dall’immagine di femme fatale che il mondo dello spettacolo mi ha dipinto addosso. Spogliarmi davanti a gente che non conoscevo era terrificante. Io sono sempre stata una persona discreta, anche nel modo di vestire. Sono sempre stata minimalista, mai in giro scollata o trasparente. Mai un topless”. Ascolto alla radio la voce dell’attrice più desiderata d’Italia. Edwige Fenech. Considerata da molti, uomini e donne, una dea mediterranea di una bellezza senza pari. Mi rendo conto che anche la sua voce è bella! È cristallina, solare e leggera come una bambina francese della costa Azzurra, con quella erre moscia che la rende ancora più sexy. Eppure è stata doppiata, e le attrici che si sono avvicendate sono le migliori, Maria Pia di Meo, Rita Savagnone, Angiola Baggi e voci scorrendo, per altro, tutte, straordinarie. Ma nessuna era la sua. Le Ubalde e le Giovannone, le soldatesse e le professoresse che alimentano le pulsioni di tanto cinema e tante platee maschili, non s’avvicinano di un semitono alla sua. Chissà, forse era una voce troppo aggraziata per i personaggi che dovevano incarnare un sogno erotico. Allora, qual è la voce che si adatta a un corpo come il suo? Più calda? Più sensuale? Per me la sua voce cosi bambinesca e garbata è molto più interessante e seducente, forse perché in contrasto con il suo aspetto fisico. Un po’ come la voce roca di Claudia Cardinale, che all’inizio della sua carriera non era accettata, poi hanno capito che faceva parte della sua personalità e hanno smesso di doppiarla. Io penso che dovremmo rivedere qualcosa nel nostro cinema erotico Italiano. La migliore doppiatrice di Edwige Fenech è se stessa.

 

La “sicurezza”per Salvini: imputato? “Vai in galera”

Nella vita di molti di noi ci sono state due stagioni in cui le carceri, immaginazione e realtà, hanno occupato la nostra attenzione: dopo il fascismo e adesso. Dopo il fascismo filtravano e circolavano le storie di coloro che ne erano usciti vivi e potevano raccontare. Parlo delle prigioni che ti facevano vedere dal bus andando in campagna, degli strani edifici bassi e scuri che notavi da lontano senza sapere o capire, mentre partecipavi alla gita in uno sciame di biciclette; nomi che in ogni città sono incrostati dal tempo e dal frequente ripetere (“Le Nuove”, “San Vittore”). C’era un mistero lì dentro, sapevamo da bambini, il mistero della non libertà fisica, dell’essere trattenuto da porte di ferro, sbarre di ferro e mura.

I sopravvissuti al fascismo ce le hanno narrate, anche a scuola (alcuni erano insegnanti ritornati ) e in quel punto e momento si è formato una consapevolezza, limitata ma forte, del “dentro” e “fuori” che i regimi stabiliscono sulla vita delle persone. Ha cominciato a profilarsi l’idea dell’assurdità, sia pure a confronto con quella del delitto.

Comincia il dibattito sulla giustizia, che si è evoluto fino a diventare “radicale”, nel senso del partito che per questa consapevolezza si è battuto e nel senso del durissimo scontro fra “dentro” come la sola espiazione possibile e “fuori” nel senso dell’immenso valore delle persone, persino se colpevoli. Questo è il tema, grande e impossibile, del libro Uomini come bestie di Francesco Ceraudo (Edizioni ETS) medico per decenni nelle carceri italiane, medico appassionato che però si domanda: si può curare un essere umano in prigione, dove la malattia è la prigione? Ceraudo arriva con la straordinaria memoria dei suoi pazienti in catene in un periodo della storia italiana in cui il carcere torna ad essere protagonista di vita sociale e di militanza politica. Da giovanissimo, nel momento della distruzione del fascismo, ho partecipato alla grande festa della apertura delle carceri e al diffondersi delle storie su ciò che accade in prigione. Adesso, come tanti concittadini scossi e stupiti, sono spettatore di un’epoca italiana in cui un ministro ti dice che un imputato “può marcire in prigione”, e un bel po’ di altri tuoi concittadini pensano che il carcere lungo e duro sia (insieme con la chiusura delle frontiere) l’unica soluzione per riportare “sicurezza” (una parola che copre qualunque invocazione di repressione).

E che “buttare via la chiave” sia la vera soluzione. Il medico di prigione Ceraudo ha provato, in un libro forte e appassionato, a raccontare che cos’è la prigione se sei malato o ferito, e perché un Paese civile non può dividersi fra “dentro” come soluzione e “fuori” come sicurezza. La cura che con competenza prescrive al “paziente” non compare nel “contratto” di questo governo.

La Russia non è il regno del terrore. Ma il destino d’Occidente dopo il ’900

Non è certo la Mafia, la Russia. Per come se ne parla – qualcuno addita il tradimento dell’Italia, manco a dirlo, nell’averci rapporti – sembra che Mosca sia la centrale del terrore nel cui fondo fumiga l’inferno e non, invece, l’approdo di un destino dell’oltre Novecento.

È anche il romanzo mai letto di un martirio immane: oltre 100 milioni di morti in 70 anni di socialismo realizzato. Ed è il rimosso – il non detto – nella cattiva coscienza occidentale: quella stessa che ieri s’imponeva attraverso gli utili idioti fiancheggiatori alloggiati nelle caserme dell’egemonia culturale. Quella stessa che, oggi – basti leggere i fondi di qualunque testata del tazebao unico liberalborghese – per tramite dei russofobi. Le insurrezioni dei contadini e degli operai sono sullo sfondo di una rivoluzione bolscevica permanente ma tutta quella fornace d’Asia, arroccata oltre gli Urali, è in realtà – se si pensa al suo lascito umanistico, spirituale e tecnologico – Europa. Ed è l’altra testa di una stessa aquila, quella il cui sangue corre ancora tra i popoli del continente indoeuropeo.

Anche da incubo – luogo del totalitarismo compiuto – è stata un magnete, la Russia. E con lei quell’orda irrimediabilmente abbagliante di vessilli, sciabole e marchingegni. Quello dello Schiaccianoci. C’è Konstantin Ustinovic Cernenko al vertice dell’Unione Sovietica – segretario generale del Pcus – quando per la prima volta, partendo da Catania, mi ritrovo a Mosca. Una seconda volta ci arrivo, facendo tappa a Leningrado, con Jurj Vladimirovic Andropov al vertice dello stato guida dei lavoratori e del materialismo scientifico. Andropov è anche un uomo del Kgb. In tutte e due le partenze si sovrappone in me una doppia immagine. Una è quella dell’ammonticchiarsi dei tomi di Storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat. Ed è una sorta di obbligato viatico – ateo ed epistemologico – per il mondo nuovo. L’altra è quella di Boris Pasternàk che si affaccia dalla finestrella del solaio di casa sua e da lì, ai bambini che giocano in cortile, fa la stessa domanda di sempre: “Qual è il millennio adesso?”.

Ed è l’ossessione di sempre se alla Guardia Rossa che scruta il mio passaporto – con tanto d’incartamento Intourist, l’agenzia di viaggi del PCI – con la paura di essere smascherato per quel che sono (nientemeno che un militante del partito diametralmente opposto al comunismo internazionale, il MSI di Giorgio Almirante) mi viene da dichiarare, nel transito della dogana, la stessa domanda di Juri Zivago: “Qual è il nuovo millennio adesso?”. Il soldato geometricamente nemico possiede il riverbero di questo mondo tutto nuovo. E in quel lontano anno della mia giovinezza – e così per tutto il tempo a venire, con sempre nuovi soggiorni – la Russia in sorda guerra con quel resta del nostro orizzonte, capovolge l’ostilità facendo di quel suo essere “nuovo”, il “sempre”.

Tornandoci, nel frattempo che ritorna “San Pietroburgo” in luogo di “Leningrado” – vedendo scorrere i fotogrammi di Arca Russa, l’emozionante film di Aleksandr Sokurov – con il Bolshoi restituito a se stesso, resta Pasternàk e non serve più l’ingombro del Geymonat. Una sola riga di Pavel Florenskij – matematico, teologo e scienziato – ravviva nello spazio oltremondano universale quello che i letterati definiscono “lo spirito russo”. Quello in corso, dunque, quale millennio è?

Smartphone al concerto. “Tutti Kubrick, video orribili. Protesti? Sei rompicoglioni”

Cara Selvaggia, ti scrivo dopo una settimana di bellissimi concerti al Summer Festival di Lucca per sottolineare l’uso secondo me insensato e smodato dello smartphone da parte di molti spettatori che non si limitano alla foto o al breve video a ricordo dell’evento, ma che filmano intere parti di un concerto o, in alternativa, producono decine di brevi video in corrispondenza delle hit dell’artista di turno. So che non sono il primo a dirlo, ma non avevo mai assistito a questo delirio personalmente. Questi spettatori se ne stanno tutto il tempo col cellulare a braccio teso e a smanettare su zoom e filtri manco fossero Kubrick o Orson Welles per ottenere video tutti uguali e impietosamente orrendi (immagini mosse di primi piani, nuche che si muovono, audio dei vicini che cantano e parlano e sullo sfondo l’artista o la band che suona) per postare in modo compulsivo sui vari social o le chat di amici e dei parenti; e poi rispondere per ripetere le stesse operazioni lungo l’intera durata del concerto. Il fatto di stare nelle prime file coi Tears for Fears a meno di 5 metri (e due maxischermi), dopo aver tra l’altro pagato profumatamente, non influisce. Se uno protesta perché vorrebbe assistere ad un concerto senza le luci dei cellulari sparate sugli occhi a meno di un metro viene guardato come un alieno e con delle facce inebetite come a dire: “E che sarà mai?”. Ho letto che molti artisti si ribellano o cercano dei sistemi per arginare questo fenomeno invadente. Nel frattempo spero che aumenti anche il numero di chi non vuole più subire, ai concerti come al cinema o a teatro, queste forme di cafonaggine e di ineducazione. E spero che sempre più persone protestino, a costo di passare da rompicoglioni.

Stefano

 

Caro Stefano, mi trovo in un hotel di fronte al deserto del Sahara e le dico solo che qui c’è una tizia orientale che si sveglia all’alba ed esce dalla sua stanza perfettamente truccata e vestita con abiti da sera per posare sulle dune in solitudine, col marito fotografo costretto a immortalarla. Il famoso asteroide è sempre l’ultima delle opzioni possibili, a quanto pare.

 

“Ho lasciato mia moglie per l’amica: embè? Naturale”

Cara Selvaggia, perdona questa parentesi di gossip estivo ma ho letto un po’ ovunque di questa tragedia sentimentale in cui tal Sarcina di professione cantante (che io non conosco) viene tradito dalla moglie di professione star dei social (che non conosco) con il migliore amico di lui Riccardo Scamarcio (che conosco perché era il compagno di un mio antico sogno erotico, ovvero la signora Golino). Leggo di questa delusione amplificata dal fatto che, appunto, i due maschi della situazione erano “fratelli”, ovvero inseparabili amici di vecchia data. Dico la mia perché ho attraversato una cosa simile. Ho lasciato mia moglie tredici anni fa per la sua migliore amica. Amica di studi, di vita, di passioni. Avevano anche aperto una lavanderia insieme, mia moglie era stata madrina al battesimo di sua figlia. Come è potuto succedere? Beh cara Selvaggia, io non ci vedo nulla di strano, anzi. Certo, sarà più difficile da accettare, ma ad essere razionali è abbastanza sano e normale che una donna che piace a mia moglie con cui io ho un’evidente sintonia di vedute, piaccia anche a me. A me e mia moglie piacevano gli stessi film, le stesse storie, gli stessi paesi del mondo, lo stesso partito, lo stesso clima, le stesse abitudini di vita, ci piacevano anche le stesse persone. Non c’erano miei amici che non fossero anche suoi e viceversa. Lei, la sua amica della vita Luisa, mi è piaciuta fin da subito ma non sentimentalmente parlando. Eroticamente, lo confesso, ho provato sempre attrazione, ma i primi tempi del matrimonio ero innamorato e sapevo ignorare certi segnali. Poi non ti sto a fare il sunto della nostra esistenza insieme ma in un momento di mia evoluzione personale e lavorativa ho sentito che Luisa mi comprendeva di più di quanto non facesse mia moglie. È come se mia moglie fosse rimasta lì dove eravamo all’inizio e invece io e Luisa fossimo cresciuti. La nostra relazione è stata segreta per un po’, poi ci ha scoperti suo marito. Oggi stiamo insieme dopo isterie e battaglie legali sfinenti. Ho perso soldi e energie ma ma non ho mai avuto sensi di colpa. La vita è imprevedibile.

Luciano

 

Sì. La vita è imprevedibile. E lei è un po’ stronzo.

 

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La giustizia riparativa e il perdono: Agnese Moro, Faranda e il vescovo

Non è la prima volta che si confrontano, ma il loro prossimo incontro ha una cornice ben precisa e molto significativa. Parliamo di Agnese Moro, una delle quattro figlie dello statista democristiano, e di Adriana Faranda, ex brigatista delle colonna romana che gestì l’operazione Moro nel 1978, fino al tragico epilogo del 9 maggio. Faranda fu contraria alla sentenza di morte per lo statista dc ma ebbe un ruolo attivo nel rapimento e nella prigionia.

Le due donne saranno protagoniste dell’undicesima edizione del Festival Francescano che si terrà a Bologna dal 27 al al 29 settembre, organizzato dal movimento francescano dell’Emilia Romagna con la collaborazione del Comune e della Chiesa locale. E con loro ci sarà, presenza non secondaria, l’arcivescovo della città Matteo Zuppi.

Tema: la giustizia riparativa. Che cos’è? Gustavo Zagrebelsky riassunse così il concetto: “Il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa”. E l’aspetto “riconciliativo” dell’evento mette a fuoco la valenza religiosa del percorso seguito da Agnese Moro, che aveva appena 25 anni nel 1978. La donna, infatti, è giunta alla prospettiva del perdono grazie all’opera del padre gesuita Guido Bertagna che raccolse l’invito del cardinale Carlo Maria Martini sul cammino di riconciliazione tra ex terroristi pentiti e familiari delle vittime. Un perdono che scaturisce da qualcosa di duro e profondo. Vale la pena rileggere cosa disse un anno fa Agnese Moro: “Tu puoi anche non dire una parola – e io non la dicevo – ma quei sentimenti che hai dentro, rabbia odio, si trasmettono a chi ti sta intorno e coinvolgono persone che neanche c’erano all’epoca dei fatti. Allora ti rendi conto che questo male colpisce innocenti, mentre tu finisci per dare di più a che non c’è più invece che a chi c’è. A questo punto ti nasce dentro un salutare vitale meraviglioso basta! Voi lo chiamate molto romanticamente perdono, io lo chiamo basta”. Una decisione, più che un sentimento.