E se la scuola restasse aperta? Prima installate i condizionatori

Sono passati cinquant’anni dagli anni Settanta, anni in cui le madri stavano a casa o alla meglio insegnavano, e nulla è rimasto uguale: sparito il lavoro dipendente e con esso pure le “ferie”, stravolta la società e pure il clima. Tutto cambiato tranne loro: le irriducibili vacanze della scuola italiana, oltre tre mesi di inspiegabile e ingiustificato vuoto, che i nuovi genitori si trovano a dover riempire. Inverosimile che nessuno parli del problema, acuito dal fatto che i nonni sono decrepiti e il lavoro di oggi non conosce pause. Ma, come al solito in Italia, il privato ha sopperito all’assenza del pubblico: ed ecco, spuntati come funghi, i famosi centri estivi, altrimenti chiamati, più pomposamente, summer camp. Ormai li organizza chiunque, dal baretto sotto casa all’associazione sportiva. Certo, va detto: molti intrattengono i bambini egregiamente, in un mix persino troppo affollato di sport, escursioni, visite guidate, gioco, lingue straniere. Ma tutti, benedetti oratori esclusi, veleggiano sui centocinquanta euro a settimana (quelli in città, perché fuori si parte dai cinquecento a settimana): per una famiglia che ha due figli e che magari deve “sfangare” un mese significa un vero salasso, anche se è sempre meglio pagare, certo potendo, che ritrovarsi nell’incubo di avere il ragazzino steso sul divano, in overdose digitale. Resta davvero il mistero sul perché le scuole non possano chiudere più tardi l’estate e riaprire prima, come fanno altrove. Un tempo la risposta era che in Italia faceva caldo. Oggi è un’argomentazione comica, che può fare caldo a maggio come ottobre, e comunque prima o poi il Ministero dovrà porsi il problema serio dell’aria condizionata nelle scuole, visto che l’Italia si va tropicalizzando. Ecco: a quel punto, si spera, non ci saranno scuse. E magari, paradossalmente, a scuola ci si resterà almeno un mese in più, se non altro per godersi il fresco.

Aiuto, dove porto la prole? Senza nonni e oratorio. Non c’è speranza

Italia polarizzata sugli opposti estremismi? Solo in tre stagioni su quattro. Tra giugno e settembre il Paese, almeno la parte, sempre più risicata, provvista di figliolanza da 0 a 16 anni, torna saldamente al centro. Centro estivo, ovviamente. Erede postmoderno delle vecchie colonie, benemerita istituzione grazie alla quale tanti bimbi proletari del secolo scorso riuscivano a passare un intero mese al mare o in montagna, assicurazione contro rachitismo e malattie polmonari. Era un lusso che le famiglie operaie non potevano permettersi, quindi erano le fabbriche a organizzare l’estate dei loro figli. Prima ci aveva pensato il fascismo e prima ancora le opere pie. Poi gli italiani si sono imborghesiti, mandare i figli in colonia faceva povero e comunque fino ai primi Ottanta un mesetto di vacanza con uno stipendio solo ci stava, e per il resto dell’estate c’erano il cortile, l’oratorio e nonni cinquantenni. Quarant’anni dopo, tutti questi corpi intermedi tra la famiglia e il lavoro – mese di vacanza, colonie aziendali, cortile, oratorio, nonni giovani – sono crollati, sostituiti da nugoli di centri estivi. Cioè, colonie, ma a portata solo delle tasche dei più ricchi – perché, non dimentichiamolo, in Italia il lavoro femminile è sempre considerato un capriccio: non vuoi stare a casa a fare la mamma? Allora paga. Ma guai a toccare i tre mesi senza scuola: che i minori si abituino subito al divano e al ciondolamento senza scopo, inframmezzato, se va bene, da qualche settimana in un costoso centro estivo con corso di hip hop o di ceramica. Sono il miglior allenamento in vista di una giovinezza fatta di costosi e inutili master fra un periodo di disoccupazione e l’altro. Intanto, a Strasburgo, una dottoressa con sette figli è diventata presidente della Commissione europea. Non un male: chi può guidare un continente meglio di una lavoratrice che per anni ha gestito l’estate di sette ragazzini?

Defibrillatore ovunque: la proposta in Aula

Entro il 2025 sarà obbligatorio per tutte le pubbliche amministrazioni, scuole e università, scali e mezzi aerei, ferroviari e marittimi, dotarsi di defibrillatori. Come già avviene per le società sportive dilettantistiche e professionistiche. Lo prevede un disegno di legge proposto da Mara Lapia (5S) e Giorgio Mulè (FI), licenziato giorni fa dalla commissione Affari sociali della Camera; in settimana arriverà in Aula. In Italia ogni anno le vittime di arresto cardiaco improvviso sono 60mila. In Europa, 400mila. Queste morti “nel 70% dei casi avvengono in presenza di altre persone – scrive l’Italian resuscitation council (Irc), il gruppo italiano per la rianimazione cardiopolmonare – ma solo il 15% delle volte le manovre di rianimazione iniziano subito. Se ciò avvenisse, si potrebbero salvare ogni anno decine di migliaia di persone: un intervento rapido aumenta di 2–3 volte le possibilità di sopravvivenza”. Tramite un’app si potrà geolocalizzare il defibrillatore più vicino e allertare i soccorritori registrati nei database del 118.

Cassette di sicurezza & autodenunce. Nulla vieta di custodire oro o soldi

Articoli di incompetenti e generalizzazioni infondate concorrono a preoccupare i risparmiatori italiani che hanno valori in una cassetta di sicurezza. Cosa per altro normalissima, perché è ben raro che uno l’affitti solo per conservarvi il testamento… o lettere di amori clandestini.

Come già nel 2016 si ventila l’introduzione di una nuova voluntary disclosure, cioè un’autodenuncia a sanzioni scontate per chi ha contanti o monete auree in cassetta, al fine di regolarizzarli. Ma si può regolarizzare ciò che è irregolare. Tenere banconote in cassetta, di per sé, è tanto vietato quanto tenere birra in frigo. Non c’è nessuna differenza giuridica o fiscale fra avere una mazzetta di euro o franchi svizzeri o un rotolo di sterline d’oro nel caveau di una banca oppure in casa, in una cassaforte o in fondo al contenitore della biancheria sporca. Nulla vieta di prelevare anche grosse cifre dal conto e conservarle, in cassetta, in casa o in giardino.

Non hanno certo contribuito alla chiarezza le parole, spesso riportate, del procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco: “Mi risulta che i contanti rinchiusi in cassetta di sicurezza siano […] circa 150 miliardi. Sempre denaro di provenienza illecita”. Un’affermazione apodittica, magari regolarmente valida per i soldi in cui s’imbatte un magistrato in indagini e processi. Ma non per quelli, di provenienza lecita, messi in cassette di sicurezza per prudenza da persone oneste.

Curiosamente in Germania la banca centrale, nel suo bollettino del marzo 2018 (pag. 50), stimava ugualmente in 150 miliardi i contanti tenuti dai tedeschi come riserva, lasciando trasparire una forte approvazione. Essa è infatti la prima a consigliare esplicitamente tale comportamento per difendersi dal rischio di insolvenza, bail-in ecc. della propria banca. Già, ma la Bundesbank bada agli interessi dei propri concittadini, non a quelli di banche e banchieri. In ogni caso il problema non risiede nelle mazzette di contanti, ma nella loro eventuale provenienza criminale o evasiva. Dovunque esse siano conservate.

Per le monete d’oro possedute poi è normale non essere in grado di documentarne la provenienza, tanto più se ereditate. Infatti per decenni si sono comprate pagandole in contanti. Lo pretendevano i cambisti e la cosa era perfettamente regolare.

Per altro il timore che venga introdotto un obbligo generalizzato di dichiarare il contenuto delle cassette di sicurezza è un incubo da fantascienza negativa. Alla Orwell, per intenderci.

 

Bollette telefoniche a 28 giorni: consigli per ottenere i rimborsi

L’ultima decisione, quella che chiude un contenzioso durato oltre due anni, è del 12 luglio scorso: il Consiglio di Stato ha definitivamente bocciato i ricorsi delle principali società di telefonia italiane e ha sancito che le bollette devono avere periodicità mensile. Finisce così il “giochetto” che per due anni ha consentito a gestori di tlc e di servizi tv di fatturare i loro servizi ogni 28 giorni con un aggravio medio delle tariffe dell’8% su base annua.

I rimborsi ai risparmiatori, per le cifre pagate in eccesso, dovrebbero essere automatici, a scalare sulle prossime bollette. Il Consiglio di stato ha anche confermato le multe comminate dall’Agcom Vodafone, Wind Tre e Fastweb, dimezzandole però a 580mila euro per operatore, mentre per Tim è attesa un analogo pronunciamento. Ma le società coinvolte potrebbero usare delle scappatoie: occorre fare molta attenzione ai conti.

La storia delle bollette telefoniche a 28 giorni inizia tra il 2017 e la primavera del 2018, quando tutti i principali operatori della telefonia (Tim, Vodafone, Wind, Tre, Fastweb), ai quali in seguito si aggiungerà anche Sky, cambiano la periodicità della fatturazione: le bollette non vengono inviate più su base mensile ma ogni 28 giorni. In un anno, così, le bollette passano da 12 a 13, con un rincaro dell’8% circa. Le associazioni dei consumatori interessano da subito l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) che il 24 marzo 2017 pubblica una delibera secondo la quale almeno per la telefonia fissa la fatturazione deve restare obbligatoriamente mensile. La delibera dell’Agcom dovrebbe essere recepita entro 90 giorni, con effetto retroattivo dal 23 giugno 2017, ma Tim, Vodafone, Wind Tre e Fastweb fanno orecchie da mercante e continuano a fatturare ogni 28 giorni. Così le associazioni dei consumatori il 14 novembre 2017 inseriscono nel decreto fiscale un emendamento che obbliga alla fatturazione mensile le imprese telefoniche, reti televisive e servizi web.

Il decreto, convertito con la legge 172 del 4 dicembre 2017, rende le bollette mensili obbligatorie dal 5 aprile 2018. A inizio 2018, però, operatori telefonici e Sky tornano a bollette mensili, ma rimodulano le tariffe con aumenti dell’8% e fanno ricorso al Tar del Lazio contro le delibere dell’Agcom sostenendo che i consumatori erano stati informati e che l’Agcom violerebbe la libertà d’impresa trasformando i prezzi liberi in tariffe regolamentate. Il 12 gennaio 2018 il Tar del Lazio respinge i ricorsi di Tim, Vodafone, WindTre e Fastweb contro la delibera AgCom ma sospende “in via cautelare” i rimborsi ai clienti fino al 31 ottobre 2018. A febbraio del 2018 parte anche un’istruttoria dell’Antitrust nei confronti di Tim, Vodafone, Fastweb, Wind Tre e dell’associazione di categoria Asstel per accertare se le imprese abbiano stretto un’intesa anticoncorrenziale coordinando le strategie commerciali. Ma alle società di Tlc ricorrono al Consiglio di Stato, che il 12 luglio ha messo la parola fine al braccio di ferro. Scatta così l’obbligo definitivo per gli operatori telefonici di restituire ai loro clienti i giorni “illegittimamente erosi” rispetto alla reale durata del mese.

I ristori per i clienti dovrebbero essere automatici: le società dovranno allungare le prossime scadenze mensili fino a restituire i giorni sottratti nel passato. Per ciascun cliente si tratta di cifre tra i 30 e i 60 euro. Ma, come previsto dalla stessa Agcom, le compagnie potranno restituire i “giorni erosi” anche in un altro modo: fornendo nuovi servizi ai clienti, a patto che abbiano lo stesso valore economico.

Una scappatoia che va verificata dai consumatori: i nuovi servizi dovranno essere accettati solo se sono davvero utili. In caso di dubbi, meglio avere il ristoro in bolletta. I servizi aggiuntivi che vengono proposti in bolletta si ritengono però approvati se non viene presentata disdetta entro una certa data. Ma l’associazione di consumatori Aduc contesta il metodo del silenzio–assenso: “Non va affatto bene, sia per la delibera Agcom che a suo tempo aveva rilevato l’illegalità e, a maggior ragione, per la sentenza del Consiglio di Stato” del 12 luglio. A chi non accetta i nuovi servizi, l’Aduc indica una strada: innanzitutto inviare con raccomandata a/r un’intimazione al gestore di sospendere i servizi non concordati e di rimborsare quanto dovuto chiedendo eventualmente anche i danni. Come secondo passo, se alla lettera riceve risposta negativa o se non si riceve risposta, fare un tentativo di conciliazione (obbligatoria) al Corecom della propria Regione.

Infine, se neanche la conciliazione va a buon fine, fare causa alla società davanti al proprio giudice di pace o presentare istanza di definizione della controversia al proprio Corecom regionale, se abilitato, o direttamente all’Agcom utilizzando il formulario GU14. In questo modo potranno essere stroncati eventuali escamotage.

Tutte le vie portano all’ambiente. Non in Usa

Siamo nati coi carburatori, moriremo con la scossa. Il problema è come e quando, perché anche l’elettrificazione ha le sue ragioni. E non sono le stesse a livello mondiale, per motivi politici e industriali. Prendete la nuova Corvette, qui a fianco: da sempre è l’icona del motorismo yankee tutto muscoli e cavalli, che poco si cura delle emissioni. Un po’ come Trump, che vuole congelare le multe previste da Obama per i costruttori che inquinano di più. Eppure anche la Corvette, magari tra un paio d’anni, potrebbe “ibridarsi”: le indiscrezioni d’oltreoceano parlano di una possibile evoluzione in direzione mild o full hybrid. Caso, quest’ultimo, in cui le unità elettriche aggiuntive le donerebbero anche la trazione integrale, con buona pace di chi già grida al sacrilegio. Dall’altra parte ci sono i cinesi (Geely possiede Lotus, che ha costruito il bolide elettrico qui sotto), che dopo aver inquinato a più non posso si fanno paladini del green spingendo il resto del mondo a combattere la guerra degli elettroni che loro già sanno di aver vinto, perché possiedono sia il know how che le materie prime. In mezzo l’Europa, che tentenna ma bastona sulle emissioni (dal 2020 scattano limiti e multe salate) e spinge per un maxi consorzio (per ora rimasto solo su carta) per le batterie che coinvolga tutti gli attori continentali. Poi c’è lo “splendido” isolamento del Giappone, arroccato sull’ibrido ma tentato dal saltare a piè pari l’età ancora immatura dell’elettrico puro per passare direttamente alle fuel cell a idrogeno. Chissà chi avrà ragione.

Ecocompatibile ma potente, sfida ai modelli occidentali

Nascere nel 1952 attorno al piccolo villaggio inglese di Hethel, per mano del genio assoluto di Colin Chapman, e poi rinascere nel 2017 come gioiello più prezioso nella galassia automobilistica del gruppo cinese Geely. Lotus come come tassello fondamentale per accelerare le sinergie con Volvo, l’altro marchio che il colosso guidato dal miliardario Li Shufu possiede nel Vecchio Continente, con l’intenzione di creare un nuovo polo dell’auto elettrificata che trasporti nell’alto di gamma le tecnologie che l’azienda di Hangzhou già esibisce con forza oltre la Grande Muraglia. Racconta tutto questo la nuova Evija, hypercar elettrica che alza in modo definitivo l’asticella delle prestazioni a zero emissioni, con una accelerazione 0-100 km/h in meno di 3 secondi e velocità massima a quota 320 orari, grazie a quattro i motori elettrici che contano una potenza complessiva di 2.000 Cv, autonomia di 400 chilometri e batterie ricaricabili al 100% anche in soli 18 minuti. Il segnale vero non è nella produzione limitata a soli 130 esemplari e neppure nel prezzo proibitivo, compreso tra 1,66 e 2,2 milioni di euro, ma casomai nella dichiarazione di intenti recapitata alla concorrenza europea. Lotus sta già svolgendo i primi collaudi del suo nuovo maxisuv che utilizzerà una piattaforma meccanica Volvo elaborata grazie all’utilizzo di materiali ultraleggeri e una motorizzazione ibrida plug–in ad alte prestazioni. Verrà costruito nella fabbrica ultramoderna di Wuhan. Quasi di sorpresa. E comunque l’ultimo posto dove gli europei si sarebbero aspettati di veder nascere auto ecocompatibili che parlano di lusso.

La Corvette di Trump. E l’auto europea diventa green

E se le supercar diventassero lo specchio della politica internazionale? Partiamo dall’ultimo bolide di turno, la Corvette Stingray: l’esordio dell’ottava generazione del coupé corrisponde con una rivoluzione della sua architettura, che per la prima volta nella storia sposa il layout a propulsore centrale (posto dietro la cabina passeggeri). Quest’ultimo, in barba ai moti planetari di elettrificazione e riduzione delle cilindrate, rimane saldamente ancorato ai valori tradizionali del motorismo yankee: no al turbo e alla tecnologia ibrida, sì al V8 di cilindrata monstre, cioè 6,2 litri per 500 Cv di potenza massima. L’unica concessione alla modernità meccanica è la trasmissione con cambio automatico doppia frizione a 8 marce, collegato alle ruote posteriori di trazione. Il tutto offerto, oltreoceano, a prezzi da discount: l’equivalente di meno di 54 mila euro. Quindi la “Vette”, che è fra le più iconiche auto Made in Usa, per il momento se ne infischia di concedersi una pur minima parvenza ambientalista, la stessa con cui da qualche tempo provano a imbellettarsi le concorrenti europee.

Il tutto appare in spietata sincronia con l’approccio (menefreghista) del Presidente Trump al tema ambientale: il tycoon è intenzionato a sospendere le sanzioni nei confronti delle case automobilistiche che non rispettano i limiti sulle emissioni inquinanti, volute dal suo predecessore, nel 2016. Un provvedimento, quello di Obama, che per ovvi motivi è rimasto assai indigesto ai costruttori. Se non altro la National Highway Traffic Safety Administration ha dichiarato che, nonostante la volontà trumpiana, seguirà fedelmente l’intenzione del Congresso di assicurare che le sanzioni previste restino valide.

In Europa, invece, dove dal 2020 entrerà in vigore il limite sulle emissioni di CO2 a 95 g/km, i fabbricanti di sportive stanno scegliendo approcci più virtuosi di quello della Corvette, proponendo modelli che fanno da manifesto tecnologico di una ritrovata coscienza ecologista: è il caso della Ferrari SF90 Stradale, prima ibrida plug–in – cioè con batterie ricaricabile anche dall’esterno – prodotta a Maranello.

Il powertrain sprigiona una potenza complessiva di 1.000 Cv, di cui 780 erogati da un inedito V8 biturbo di 4 litri e i restanti 220 Cv sviluppati da tre motori elettrici. In casa Porsche, piuttosto, sono quasi pronti a mettere sul mercato la Taycan, il primo veicolo 100% elettrico della marca, ma per la versione elettrificata della mitica 911 c’é ancora da aspettare. Approcci tecnologici e strategici all’automotive che sono esattamente a metà strada fra l’America degli ottani e la Cina degli elettroni.

L’ospizio di Serie A: record club anziani

Avete presente il cimitero degli elefanti, il luogo mitico, quasi magico, in cui leggenda vuole che gli elefanti, sentendo la morte avvicinarsi, vadano a morire separandosi dal gruppo per non essere di peso e non rallentare la mandria? Ebbene, anche nel calcio il cimitero degli elefanti esiste; e se quello della leggenda, a dispetto degli sforzi compiuti da esploratori e avventurieri alla ricerca del tesoro nascosto, le zanne fatte d’avorio, non è mai stato trovato, quello del calcio è invece noto e bene indicato su tutte le mappe; specie dopo che a ufficializzarlo è stato il CIES, il centro con sede a Neuchatel che studia ogni aspetto del calcio mondiale. Ebbene: volete sapere dove si trova il cimitero degli elefanti del Pianeta Pallone?

Tenetevi forte: in Italia. Non ci crederete, ma il rifugio dei vecchi, sdentati e spelacchiati predatori dell’intero mondo è qui, attorno a noi: lo chiamano Serie A ma se si chiamasse Cimitero degli Elefanti sarebbe, appunto, più calzante. Il CIES, in un suo studio appena pubblicato, ha analizzato l’età media dei calciatori, e quindi delle squadre, dei cinque più importanti campionati europei: la Premier League inglese, la Liga di Spagna, la Bundesliga di Germania, la Serie A italiana e la Ligue 1 francese. E ha scoperto che il cimitero degli elefanti si trova in Italia. Mentre il calcio si evolve in direzione di una sempre maggiore velocità, di corsa, di pensiero e di gioco, la notizia è che ai primi tre posti della classifica delle squadre più vecchie ci sono tre club italiani: il Chievo, medaglia d’oro con un’età media di 29,53 anni, poi il Parma, argento con 29,46 e quindi la Juventus, bronzo con 29,26. E dire che sarebbe bastato non disfarsi di Buffon, 41 anni, spedito a Parigi forse troppo affrettatamente, per permettere alla Juve di salire sul gradino più alto del podio. Buffon però è tornato. Riprovarci si può.

Dicevamo: la Serie A casa di riposo dei calciatori decotti che arrivano a frotte a svernare nel Belpaese da ogni parte del globo. Una specialità tutta di Casa Italia se è vero che nei primi 10 posti vantiamo ben 5 rappresentanti (ci sono anche la Spal, nona con 28,42, e la Roma, decima con 28,41), supremazia legittimata anche dal Genoa dodicesimo con 28,38, dalla Lazio sedicesima con 28,26 e dal Cagliari diciannovesimo con 28,08.

Presenze nei primi 10 posti degli altri paesi: Inghilterra due (Watford e Burnley) e un solo club per Spagna (Espanyol), Germania (Bayern) e Francia (Saint Etienne). Domanda: non sarebbe il caso di farci una riflessione? Tra le squadre che hanno preso parte all’ultima Champions League, le tre più vecchie erano la Juventus poco meno che trentenne seguita da Bayern (28,46) e Barcellona (28,09). Ebbene, a dispetto dell’indiscutibile classe dei loro campioni, alzi la mano chi non ricorda il modo in cui sono uscite di scena: prima il Bayern, arresosi all’Allianz Arena allo strapotere atletico del Liverpool (ottavi di finale, 1-3); poi la Juventus, annichilita a Torino (1-2) dagli scatenati ragazzi dell’Ajax (età media degli 11 scesi in campo dall’inizio: 24,63, cinque in meno dei bianconeri) e infine il Barcellona, spazzato via (0-4) nella notte più buia della sua storia dalla furia dei diavoli di Jurgen Klopp: meno virtuosi, forse, per classe pura, ma più giovani. E più forti. (E infatti gli altri sono morti).

Calciomercato miliardario: l’Italia guarda, la Premier vola

Più dei 100 milioni spesi dal Real Madrid per Eden Hazard, 28enne top–player del Chelsea, avevano colpito i 126 pagati dall’Atletico Madrid al Benfica per comprare Joao Felix – che a 19 anni è solo un progetto di campione – usando i soldi della clausola di Griezmann, approdato per 120 al Barça; ma quando si è saputo che lo United stava acquistando per 89 dal Leicester il 26enne difensore Harry Maguire, la tentazione di dire “fermate il mondo, voglio scendere”, è stata forte. E però: un anno fa c’era stata la gara a irridere il Liverpool per gli 84,6 milioni spesi per l’allora 27enne difensore del Southampton Virgil Van Dijk; con cui Klopp ha vinto però, al primo colpo battuto dal suo olandese, la Champions League.

E insomma, agli occhi della decaduta Italietta cifre così paiono forse spropositate: ma intanto va ricordato che l’Huddersfield, ultimo nel campionato inglese, di soli diritti–tv ha ricevuto più soldi (96,628 milioni) della Juventus prima in Italia (85,3 milioni); il che la dice lunga sui due diversi universi.

Diritti tv e champions. Detto questo, se è vero che il Liverpool acquistò dalla Roma due estati fa Momo Salah per 42 milioni più 8 di bonus (totale 50), e che l’Inter ha appena ingaggiato Nicolò Barella dal Cagliari per 49, allora sarà il caso di ritirarsi in buon ordine. Zitti e a cuccia, come si dice in questi casi. Il calcio è impazzito. Ma siccome continua a fare impazzire, e a volte delirare, il pianeta (l’audience della Premier League inglese ha toccato nell’ultima stagione i 3,2 miliardi di persone nel mondo, con un aumento dell’11% favorito dalla copertura free–on–air in nuovi paesi, specie Brasile e Sud Africa) con ritorni economici pazzeschi, né più né meno di quanto accaduto alla strepitosa Champions League 18–19; e visto che la Champions distribuirà da quest’anno ai club qualcosa come 2,04 miliardi (0,5 in più dell’ultima edizione) facendo ricchi molti, ecco spiegato il boom del mercato 2019, con più di 3 miliardi già spesi, 303 milioni solo dal Real Madrid, 233 dal Barcellona, 197 dall’Atletico, con la Serie A che trainata dalla Juve insegue la Liga e con la Premier che a dispetto della follia–Maguire aspetta ancora di piazzare i colpi da novanta.

Top 100 players. Il CIES, l’osservatorio del calcio mondiale con sede a Neuchatel, ha appena pubblicato uno studio sui 100 giocatori col più alto valore di mercato dei 5 paesi europei dominanti, classifica messa a punto grazie a un algoritmo che tiene conto di tutte le possibili variabili come età, ruolo, partite e minuti giocati, contratto in corso, palmares, gol, vittorie nei club eccetera. Ebbene, i valori indicati dal CIES sono in realtà molto vicini, se non superiori, a quelli di cui si comincia a sentir parlare e che a molti sembrano folli. Nonostante al primo posto figuri Mbappè, del PSG, con un valore di 252 milioni, è la Premier League a farla da padrona con 47 calciatori nei primi cento, praticamente la metà, con Salah (219,6 milioni) e Sterling (207,8) sul podio, 6 giocatori nei primi 10, addirittura 9 nei primi 13.

La serie A è presente con 14 nomi: CR7 20° con 118,1 milioni; e poi Dybala 23° (108,2), Piatek 44° (79,2), Bentancur 46° (77,8), Insigne 53° (75,1), Skriniar 64° (69,7), Cancelo 66° (69), Zielinski 68° (68,9), Zaniolo 74° (68,3), Fabian Ruiz 89° (63,8), Chiesa 92° (63), Milik 96° (61,5), Icardi 98° (61,3) e Donnarumma 100° (61). Per la cronaca: la Liga ci è davanti con 24 giocatori (e a dispetto dei suoi 32 anni, Messi è buon 4° con una quotazione di 167,4 milioni) mentre la Francia ne ha 8 e la Germania 7. Il portiere più quotato: Alisson del Liverpool, 24°, che vale 107,5 milioni; il difensore (con buona pace di Maguire e De Ligt) Alexander–Arnold del Liverpool, 13° con 130,2; il centrocampista (con buona pace di Pogba) Bernardo Silva del City, 11° con 136,9. Su tutti, come già detto, Sua Maestà Mbappè. Mica male no? Morale della favola: fermate il mondo, voglio salire!