L’audio: “Obbedite e sarete salvi”. Ma la petroliera non cambiò rotta

C’è un audio che dimostrerebbe l’ordine impartito da un ufficiale iraniano alla petroliera britannica Stena Impero, poco prima che fosse sequestrata dai Pasdaran: “Obbedite e sarete salvi”, si sentirebbe nel file diffuso dalla Dryad Global, un’azienda che si occupa di sicurezza dei mari. “Cambiate la vostra rotta di 360 gradi immediatamente”, avrebbe intimato l’ufficiale iraniano. Ma la risposta dell’ufficiale britannico sarebbe stata questa: “La nave sta passando in uno stretto internazionale”. La petroliera oggi è ancora “ostaggio” nello Stretto di Hormuz.

Exit poll, vittoria schiacciante del partito di Zelenskiy

Secondo i primi exit poll, realizzati nel corso delle elezioni parlamentari ucraine, il partito del presidente Volodymyr Zelenskiy dovrebbe ottenere il 43,9 per cento dei voti.

Il sondaggio, realizzato ieri dal Razumkov analytical center e dal Kiev International Institute of Sociology, mostra che secondo, notevolmente staccato, con l’11,5, si colloca il partito del tycoon Viktor Medvedchuk, ritenuto un intimo del presidente russo Vladimir Putin e sostenitore dell’autonomia per le aree controllate dai ribelli filo-russi nell’Ucraina orientale.

Guerra del cacao per mettere in salvo i piccoli produttori

Per la prima volta due paesi si sono uniti per imporre delle nuove regole all’industria del cacao. Con l’avvicinarsi delle elezioni, i due presidenti cercano di attirarsi i favori dei produttori e riempire le casse dello Stato. La cosa solleva numerose questioni, ma sembra soddisfare le Ong di difesa dei piccoli produttori.

Abidjan (Costa d’Avorio). Il 3 luglio 2019, nella hall dell’hotel Pullman che si affaccia sulla laguna di Abidjan, alcuni giornalisti stanno sprofondati sui sofà. Altri allungano le orecchie per sentire cosa si stanno dicendo nella stanza accanto i due responsabili statali della filiera del cacao – Yves Brahima Koné, direttore generale ivoriano del Consiglio caffè-cacao (Ccc), e Joseph Boahen Aidoo, responsabile del Ghana Cocoa Board (Cocobod) – e i principali attori del settore, industriali, produttori e commercianti. L’incontro è della massima importanza, in gioco c’è il futuro della produzione e della vendita di cacao nella regione. Alcune settimane prima, i due maggiori paesi produttori di chicchi di cacao – che si spartiscono il 65% della produzione mondiale – hanno deciso a sorpresa di sospendere la vendita del raccolto 2020-2021 fino a quando non sarebbe stato trovato un accordo su un “prezzo minimo” di 2.600 dollari (2.300 euro) alla tonnellata, indipendentemente dalla volatilità dei prezzi sui mercati mondiali. Il loro obiettivo: garantire che la manna finanziaria rappresentata dal cacao (100 miliardi di dollari – il 12% del Pil della Costa d’Avorio, il 9% del Ghana) sia più vantaggiosa per i produttori, a monte della catena. La riunione del 3 luglio doveva servire a presentare agli industriali il dispositivo per mettere in atto questa decisione “storica”. Dal comunicato diffuso dal Consiglio caffè-cacao e dal Cocobod emerge che, se il termine “prezzo minimo” è stato conservato, il dispositivo in realtà è stato abbandonato a favore dell’introduzione di una nuova tassa di 400 dollari (355 euro) imposta agli industriali per ogni tonnellata di cacao venduto. A dispetto del peso significativo che ha sul mercato del cacao, la produzione in Costa d’Avorio e Ghana si basa esclusivamente sul lavoro dei piccoli produttori: che possiedono solo tra due e quattro ettari e le cui rese – in media 400 chili per ettaro -, e quindi i redditi, sono basse. Con una media di otto persone a famiglia, più di dieci milioni di ivoriani e ghanesi dipendono dal cacao.

Secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale, il 55% dei coltivatori di cacao vive al di sotto della soglia di povertà con meno di un euro al giorno. Una tendenza che si è aggravata a partire dagli anni 70 con il calo dei prezzi internazionali. Nel 2016, la “crisi del cacao”, causata da una leggera sovrapproduzione e una feroce speculazione sui mercati, ha ulteriormente complicato la situazione dei coltivatori provocando un calo dei prezzi del 30%. Se fino a tre anni fa gli agricoltori ivoriani erano pagati 1.150 franchi Cfa (1,75 euro) al chilo, ora il prezzo è fissato a 750 franchi Cfa (1,15 euro): meno del 6% dei 100 miliardi di dollari generati ogni anno dall’industria del cacao. Un crollo brusco dei prezzi che il Ghana è riuscito a colmare acquistando le produzioni direttamente dai proprietari ghanesi al prezzo di 900 franchi Cfa (1,35 euro) al chilo, ma che ha anche generato un importante traffico al confine tra i due paesi. La nuova tassa ha lo scopo di pesare sui mercati azionari, ridurre il mercato nero del cacao grezzo e migliorare le condizioni di vita del milione di coltivatori della Costa d’Avorio e degli 800.000 produttori del Ghana, mentre le Ong ritengono che le entrate attualmente percepite bastino appena a compensare i costi di produzione sostenuti. Fortin Bley, un coltivatore di N’douci, nel sud della Costa d’Avorio, presidente della rete d’Africa occidentale di Fairtrade, denuncia l’ingiustizia della situazione, la mancanza di infrastrutture nelle zone rurali e i disagi degli agricoltori. “I produttori non possono curarsi né mandare i figli a scuola. La loro vita è legata al ciclo dell’alba e del tramonto. Ogni giorno si affidano a un dio o a uno spirito che possa garantire loro cibo a sufficienza – osserva – È drammatico che le forze vive del paese, coloro che lavorano per sfamare il mondo, vivano in estrema povertà”. Un documento della Federazione del commercio del cacao, che non è stato reso pubblico ma che Mediapart si è procurato, mostra il complesso meccanismo della tassa che il Ghana e la Costa d’Avorio vogliono far entrare in vigore: se i prezzi sono leggermente inferiori a 2.600 dollari alla tonnellata, i 400 dollari saranno versati, interamente o in parte, ai produttori per consentire loro di guadagnare il 70% del reddito minimo indicizzato su questo prezzo di riferimento. Se il mercato del cacao è compreso tra 2.600 dollari e 2.900 dollari, i produttori potranno ricevere degli “incentivi” o trarre vantaggio da “investimenti” nel settore agricolo. Infine, se i prezzi internazionali superano i 2.900 dollari alla tonnellata, i 400 dollari non andranno più ai produttori, ma alimenteranno un nuovo “fondo di stabilizzazione” che sarà istituito a breve termine dagli stati del Ghana e della Costa d’Avorio. Con questo sistema di gradazione, se i prezzi salgono, i due stati africani saranno i soli a ottenere reali benefici, dal momento che la tassa potrebbe fruttare 840 milioni di dollari alla Costa d’Avorio e 360 ​​milioni al Ghana. Resta da vedere come sarà gestito questo tesoretto. “La funzione di fondo di stabilizzazione di fatto non è mai rispettata”, avverte François Ruf, economista presso il Centro per la cooperazione internazionale nella ricerca agricola per lo sviluppo (Cirad). “La tendenza è storicamente di privilegiare una forma di distributore di finanziamenti, per remunerare i funzionari e pagare i lavori per le infrastrutture. Durante la fase più dura (la crisi politica del 2010-2011, ndr), il denaro del cacao è servito a pagare le armi e a finanziare le campagne elettorali”, ricorda. Altro motivo di opacità del nuovo dispositivo: se i prezzi dovessero crollare improvvisamente, come nel 2016, scendendo sotto la soglia dei 2.200 dollari, e rendendo quindi insufficiente la tassa di 400 dollari per garantire come minimo i costi di produzione del coltivatore, a quali strumenti si ricorrerà per sostenere i produttori? Il Ccc e il Cocobod non intendono rendere pubbliche le loro disposizioni. “Ricordiamoci che il mercato mondiale è tutta speculazione – sostiene Yves Brahima Koné -. Gli industriali sanno che è imperativo pagare meglio i produttori, se non altro per la sostenibilità della filiera”. Tutto sommato, il vantaggio per il produttore è piuttosto limitato. Questo nuovo dispositivo gli permetterà di guadagnare un massimo di 0,45 centesimi per ogni chilo venduto: cioè 450 euro in media su un anno. “È evidente che è poco”, ammette Christophe Boscher, ingegnere agronomo e direttore del programma Equity dell’organizzazione Agronomi e Veterinari senza frontiere (Avsf). “Ma fintanto che si va incontro ai coltivatori, noi siamo contenti, è già qualcosa” aggiunge.

Le multinazionali dovranno quindi mettere le mani al portafoglio per continuare a rifornisi di cacao ivoriano e ghanese. Pubblicamente, nessun industriale si dice contrario all’iniziativa. Un voltafaccia non sarebbe ben visto dal momento che tutti comunicano in abbondanza sui programmi messi in atto per garantire condizioni di vita migliori ai produttori. Contattato da Mediapart, il colosso del cioccolato Nestlé (91,4 miliardi di euro di fatturato) dice di “incoraggiare tutti gli sforzi ulteriori che si possono fare per migliorare le condizioni di vita dei produttori”. Lo stesso vale per Cargill, leader mondiale nella lavorazione del cacao grezzo, per il quale i “mezzi di sussistenza” dei produttori sono una “priorità”. Il gigante del cacao è l’unico, insieme a Mars, ad appoggiare la “volontà dei due governi a stabilire un prezzo minimo per i chicchi di cacao”. Sulla tensione diventata palpabile al termine dell’incontro di Abidjan, il responsabile della comunicazione di Cargill dice che “non ci sono attriti”, ma che “è necessario aspettare che i governi forniscano ulteriori dettagli per poter conoscere meglio gli aspetti più tecnici dell’operazione”. Secondo le confidenze raccolte da Mediapart, molti degli intermediari coinvolti nel processo di acquisto, vendita, lavorazione e produzione di prodotti a base di cioccolato, ritengono che gli sforzi non dovrebbero pesare solo sui produttori. Si aspettano che le autorità ivoriane e ghanesi, che prelevano anche circa il 25% del reddito dei proprietari delle piantagioni, facciano un gesto nei confronti dei coltivatori. Il meccanismo della tassa imposta agli industriali sarebbe, secondo un esportatore, ancora in discussione: gli industriali possono pesare sulle decisioni dei governi.

Ghana e Costa d’Avorio riprenderanno le vendite per il 2020-2021. Gli specialisti, però, sono divisi sulla capacità degli stati africani di imporre nuove regole e strappare i coltivatori alla povertà. Per due volte, nel 1977 e nel 1988, la Costa d’Avorio s’è ritirata dal mercato per pesare sull’offerta e far salire i prezzi. La scarsa preparazione e l’incapacità del paese a gestire lo stock di chicchi invenduti erano state all’origine del fallimento. Ma questa volta l’accordo tra Costa d’Avorio e Ghana e il basso rischio di sovrapproduzione, la situazione è ben diversa. Per Franck Koman, coordinatore dell’Ivorian Fair Trade Network (Rice), questi negoziati sono un test per le multinazionali, che si mostrano propense a difendere i produttori: “Ora che si entra nel concreto, capiremo se si preoccupano davvero dei proprietari”. Ma “il prezzo del cacao è una questione politica”, avvertono gli specialisti. In quest’anno preelettorale sia per il Ghana che per la Costa d’Avorio, dietro l’alleanza dei due paesi potrebbero esserci dei calcoli politici. “Non possiamo fare a meno di pensare che ci siano interessi elettorali – osserva Ruf – Bisogna attirare clienti, far sapere che si sta lavorando per loro, ma mantenendo una tassazione molto forte”. Una situazione che si è già verificata in Costa d’Avorio alle elezioni precedenti, quando le autorità avevano fatto pressioni per garantire ai proprietari una tassa di 1.000 franchi Cfa al chilo, iniziativa ben accolta ma che non è durata: i prezzi erano riscesi subito dopo il voto. “Ciò che importa – afferma Franck Koman – è che la misura entri in vigore”.

 

La sfida per la Von der Leyen è salvare la democrazia nell’Ue

La legittimità democratica è un tesoro politico prezioso e l’Europa sta cercando disperatamente di trovarlo. Ma la selezione del nuovo capo della Commissione europea avrà lasciato molti cittadini perplessi. Abbiamo già archiviato l’unica, piccola, riforma democratica degli ultimi anni, cioè la scelta del presidente della Commissione tra gli spitzenkandidat indicati dai grandi partiti europei. Siamo tornati ai governi degli Strati membri che decidono il loro nome in un mercato delle vacche opaco. Il Parlamento europeo protesta, ma non ha alternativa che adeguarsi. Come si è visto con la conferma di Ursula von der Leyen.

Il potere del Consiglio è sempre stato giustificato in termini democratici ricordando che i suoi membri rappresentano democrazie. Una tesi che vacilla se guardiamo ad alcuni Stati dell’Europa centrale. E anche i leader di alcuni Paesi occidentali, come Italia, Francia e Gran Bretagna si confrontano con una seria crisi di legittimità.

Il sistema di rappresentanza in Europa è sempre stato opaco perché non esiste un demos europeo. Invece abbiamo una lunga lista di demoi nazionali poco compatti e poco solidali. Inoltre, il Parlamento europeo non è mai stato autorizzato a controllare il governo europeo. Paradossalmente, questo potrebbe rivelarsi una benedizione per un’Europa integrata: in Parlamento ci sono molti politici determinati a riportare il potere da Bruxelles alle rispettive capitali nazionali.

Gli esperimenti europei di democrazia diretta sono stati ancora più imperfetti. Gran parte dei referendum si sono trasformati in festival del populismo, lasciando molto spazio alla demagogia e poco alla deliberazione.

Questi deficit democratici non sono certo colpa di Ursula von der Leyen, ma lei deve mettere la democrazia in cima alla sua agenda. La Von der Leyen ha prevalso su Frans Timmermans grazie al supporto di alcuni sovranisti (o populisti). Questi sperano forse che la Von der Leyen sia loro amica come lo è stato il suo collega di partito, Manfred Weber, lo spitzenkandidat del Ppe. Per questo la posizione della Von der Leyen sulla violazione dello stato di diritto in alcuni Paesi sarà il primo test della sua presidenza. Anche se è difficile per l’Ue dare lezioni di democrazia quando è essa stessa poco democratica.

La Von der Leyen dovrebbe partire con la trasparenza, senza la quale nessun popolo può controllare i suoi governanti. L’Ue ha relazioni più intime con i lobbisti che con i cittadini, si mostra molto più determinata nel contenere la spesa sociale “eccessiva” che l’evasione fiscale.

La Von der Leyen dovrebbe anche individuare modi concreti di coinvolgere i cittadini nel processo decisionale. Questo non significa più referendum, ma un sistema istituzionale solido di consultazione dei demoi europei sulle questioni più importanti che l’Ue affronta. Queste consultazioni devono essere in tutto il continente, non soltanto a Bruxelles.

Anche creare una seconda camera del Parlamento europeo per i rappresentanti di città, regioni, Ong e organizzazioni imprenditoriali può portare i cittadini più vicini all’Ue. Non può fare tutto la Von der Leyen da sola, ma può sostenere la proposta.

La questione più delicata riguarda i poteri della Commissione europea. La supervisione del Parlamento è importante, ma inadeguata. La decentralizzazione del potere lo rende più vicino ai cittadini e aiuta a renderlo trasparente. L’Ue ha già più di 40 agenzie di regolazione basate in vari Paesi: dovrebbero avere più risorse e competenze, sottraendole alla Commissione europea.

Con l’Ue che ottiene sempre più poteri, cresce la pressione per dare una legittimità alle sue decisioni. In passato il progetto europeo si legittimava nei suoi risultati: l’obiettivo principale era rendere l’Europa più prospera ed efficiente. Ma la crescita stagnante dagli anni Settanta e le ripetute crisi migratorie rendono necessario per l’Ue trovare anche una qualche forma di legittimazione democratica.

Il progressivo allargamento a nuovi Paesi ha anche reso sempre più difficile prendere decisioni per consenso e quindi il Consiglio europeo procede sempre più spesso a maggioranza. Se gli Stati membri perdono potere di veto, aumenta la necessità di legittimare decisioni prese a maggioranza in un contesto pan-europeo.

La democrazia è fatta di partecipazione, di protesta, di responsabilità e rappresentanza. Le elezioni e i Parlamento sono soltanto due tra i numerosi strumenti istituzionali che possono garantire una vera democrazia. L’Ue non è uno Stato quindi dobbiamo sforzarci di essere innovativi e tentare qualche esperimento. Il presidente della Commissione europea non può cambiare da solo i trattati. Ma può parlare con convinzione di democrazia e fare proposte su come rafforzarla. I predecessori della Von der Leyen non sono stati abbastanza convincenti e da questo deriva l’attuale crisi dell’intero progetto europeo.

Speriamo che la prima presidente donna della Commissione voglia passare alla storia non soltanto come una burocrate competente ma come un difensore del popolo europeo. O è da ingenui auspicarlo?

Frammenti di discorso antimafia: rivoluzione? È lavorare con amore

Una studentessa universitaria (e sua madre). E un capitano dei carabinieri. Estranei l’una all’altro, ma intrecciatisi nei miei pensieri questa settimana. Frammenti buoni dello stesso Paese. E vi spiego perché.

La studentessa, prima di tutto. Si chiama Chiara. Ha frequentato lo scorso autunno un mio corso. Due pomeriggi a settimana. La vedevo quasi sempre nelle prime file. Attenta, curiosa. A volte in certi passaggi delle lezioni gli occhi le si sgranavano, segno che quel che stavo dicendo le suggeriva questioni inaspettate o per le quali provava una particolare sensibilità. Superò l’esame orale con un voto d’eccezione: 30 e lode. Passò qualche settimana, il tempo delle vacanze di Natale, e giunse in ufficio chiedendo di fare la tesi di laurea con me. Gestione e comunicazione d’impresa: la interessava occuparsi della comunicazione delle aziende di ristorazione e in particolare della giovane catena Miscusi. Una scelta, mi spiegò, derivante dallo studio personale e molto empirico che lei riservava da tempo ai locali che frequentava e ai nuovi stili di comunicazione della gastronomia. Gliela accettai; per il suo valore e perché la motivazione di partenza prometteva già da sé buoni risultati. Non tradì le aspettative, destreggiandosi benissimo tra teoria e ricerca. Per mesi Chiara è arrivata al ricevimento studenti portandomi i capitoli via via scritti o per sentire le mie osservazioni. Solare, disponibile ai cambiamenti, propositiva. A fine giugno ha sostenuto il colloquio di valutazione finale. Punteggio massimo. E relativi saluti: grazie professore, buona fortuna Chiara.

Passano due–tre settimane e ricevo, per ragioni del tutto diverse, una lettera da una mia collega, con cui ho spesso collaborato e con la quale stiamo progettando un seminario in spagnolo sulla criminalità organizzata in America latina. Non un’estranea, insomma. Dice così: “Altra cosa… avevi una studentessa laureanda di nome Chiara Primavesi, che si è laureata in CES con il massimo del punteggio. È mia figlia e ti ringrazio per averla seguita”. Resto di stucco. Dunque Chiara è la figlia di Marzia. E nessuna delle due me ne ha mai fatto cenno. I giovani, lo so benissimo, sono più restii a dare questo tipo di informazioni. I migliori, quelli più gelosi della propria indipendenza, non amano vantare parentele di alcun tipo. Si farebbero sparare, piuttosto. Ma anche la madre non ha fatto un cenno. Nemmeno di quelli eleganti, del tipo “mia figlia sta frequentando il tuo corso, è entusiasta”, a cui segue breve e affettuosa richiesta di informazioni. Ecco, se il cancro del Paese, il binomio mafia–corruzione, passa dalle raccomandazioni, abbiamo la prova provata che, anche fuori dall’antimafia, ci sono dei punti da cui non passa.

E qui entra in scena il capitano dei carabinieri. Diversamente da Chiara, non lo conosco, ma solo immagino. E che mi è piaciuto intravedere dietro la brillantissima operazione dell’Arma che ha portato a scoprire la trama di mafia che stava riportando dagli Stati Uniti a Palermo gli “scappati”, i vecchi clan di Cosa nostra. Nomi di peso, i Gambino e gli Inzerillo, con una gran voglia di riconquistarsi Palermo e la Sicilia. Non sarà sfuggito ai lettori il livello di professionalità delle indagini. I boss adiposi in costume e camicia che vengono filmati in mare sopra un gommone mentre discutono dei loro progetti e delle loro sorti (essi sperano) magnifiche e progressive. Ascoltati, videoregistrati nei luoghi che ritengono più inaccessibili. Viene spontaneo domandarsi quanto lavoro ci sia dietro quei pedinamenti, quante accortezze e intelligenza, quanta abilità e coraggio abbiano contribuito a quello straordinario successo tra le due sponde dell’Atlantico. In genere il fulcro operativo di queste indagini sono un maresciallo e un capitano. Così penso per associazione mentale a quel capitano dell’Arma che collaborò decisivamente all’inchiesta “Infinito” (sfociata nei celebri arresti milanesi–brianzoli del 2010) dando al paese 800 ore di straordinario gratuite, e di cui non sapremo mai il nome. Ecco perché, nonostante tutto, mi sento meglio. Una studentessa figlia di una collega e amica che per un anno non fa trasparire, come la madre, nulla sulla sua parentela, per essere certa di guadagnarsi col merito il massimo dei voti. Investigatori che lavorano senza sciatteria ma con più ingegno dei mafiosi, senza chiedersi chi me lo fa fare e nemmeno che ore sono. Ma che cosa ci vuole ad avere un’Italia così?

Un paese dai mille colori: qui ogni parete è un quadro

San Sperate (Sardegna). Qui, a un’ora da Cagliari, il tempo è come sospeso. Il paese natale dello scultore Pinuccio Sciola (1942-2016), passato alla ribalta internazionale come l’artista delle pietre, è un village immerso e quasi disperso in un mare di vegetazione policromo tra il giallo della calendula, il viola della barlia, il rosso dell’alaterno, il verde della barba di giove. E ben si presta, qui la macchia mediterranea, a fare da cornice a quello che non a caso è definito “il Paese Museo” della Sardegna, altissimo esempio di muralismo italiano ed europeo.

Negli anni Sessanta era un comune di diecimila anime, decisamente rurale con le vie in terra battuta e le case in crosta. A partire dal 1968, l’allora ventiseienne Sciola ha coinvolto i ragazzi di San Sperate (Santu Sparau in sardo) per tingere di bianco tutti i muri delle case. Quegli anni, in molte interviste li ricorderà come “gli anni della calce”, erano preparatori a quanto sarebbe accaduto dopo. Con l’allarme tipico del genio, Sciola si appresta a ridefinire il concetto di “muro” proprio dopo poco che in Germania, agli albori della seconda metà del secolo appena passato, un altro muro divideva una città, e una civiltà. Il giovane artista e i ragazzi del paese si adoperano in un’azione che coniuga la street art con l’“arte relazionale”, o ancora meglio il “situazionismo”: insieme, prendono a disegnare e dipingere i muri bianchi, in modo da trasformare il volto della cittadina.

Non appena ci addentriamo sulla via maestra che ondivaga conduce dalle sparute case della periferia fino al centro, comprendiamo come abitare e visitare questi luoghi è coltivare l’abitudine alla meraviglia, e ancora di più alla memoria. Perché se è vero che per Sant’Agostino esiste un palazzo della memoria, ecco allora che per Sciola San Sperate era il paese della memoria: buona parte dei murales istoriati, infatti, racconta la cultura contadina della Sardegna: l’abitudine domenicale degli uomini al bar con i vestiti “buoni” – il gilet di velluto a costine sulla camicia bianca e la coppola in testa–, che sotto i portici di una piazza dividono un bicchiere di vino o leggono insieme il giornale; la processione del Santo Patrono Speratus del 17 luglio, celebrata insieme alla Sagra delle Pesche; la festa di San Giovanni connessa agli antichi rituali legati al solstizio d’estate; e ancora le vecchie attrezzature contadine e l’aratro nei campi trainato dall’asino.

Negli anni, tuttavia, mentre le opere di Sciola guadagnavano l’attenzione internazionale, quando cioè le sue Pietre Sonore – le sculture in cui il maestro sardo sfruttava la sonorità intrinseca e innata della pietra – salgono sul proscenio artistico internazionale (Biennale di Venezia nel ’76, Quadriennale d’arte a Roma nell’85, ecc.), l’artista invitò nel suo paese natale molti colleghi: lo scultore portoghese Paulo Neves, l’ingegnere-tagger italiano Andreco, i colleghi writer Federico Carta (Crisa) e Yama Ead; e poi ancora il fotografo argentino Pablo Volta, la performer situazionista brasiliana Raquel Fayad. Ognuno di loro lascia la propria traccia: ora è un rifacimento del Guernica, o un polittico di forme e figure ellenistiche ed etrusche, ora invece è un colorato cartoon, o un racconto dell’antica tradizione della tauromachia.

Tuttavia, oltre alla storia e alla memoria, l’arte di questo paese ha a che fare con il senso della generosità. Il murale che ritrae una vecchina seduta fuori al marciapiede con la porta della sua casa aperta, com’è uso nei piccoli centri, fa capire che non sta osservando la vita che le scorre davanti mentre il fresco conforta le sue stanze. Lei aspetta l’altro, l’estraneo, l’ospite, il migrante, il turista, il rifugiato, e la sua porta è aperta per accoglierlo.

La Cavallerizza a Torino: un “pezzo di città” ai privati?

“La retorica delle puttane”: viene in mente il titolo di un libretto dell’eroico dissidente del Seicento, Ferrante Pallavicino (arso vivo per ordine di Urbano VIII), quando si sente Luigi Di Maio tuonare contro i “nemici della contentezza”. Una retorica calcata su quella renziana, per cui chiunque si opponesse ai trafori degli affreschi di Vasari per trovare Leonardo inesistenti, agli Sblocca Italia pensati per cementificare l’Italia, alle riforme pensate per asfaltare la Costituzione era solo un gufo “non stupito dal mistero”, votato a fare “a pugni con la realtà e con l’innovazione”. Allora Di Maio e i suoi volevano cambiare tutto, disposti a mandare letteralmente affanculo il sistema. Ma oggi, arrivati al vertice del sistema, lottano contro i “nemici della contentezza”. Come Guido Montanari, l’ottimo vicesindaco di Torino licenziato in tronco da Chiara Appendino per una battuta corrosiva contro l’uso commerciale di un parco pubblico monumentale: quanto manca perché la giunta venga risucchiata quello che Maurizio Pagliassotti ha descritto come il ‘sistema Torino’?

Tra tutte le questioni per cui era una garanzia la presenza di Montanari, urbanista del Politecnico e attentissimo alla battaglia per i beni comuni, una preoccupa in modo particolare: la sorte della Cavallerizza Reale, il grande complesso del maneggio reale sabaudo. Un prezioso libro recente dei professori del Politecnico Giovanni Brino e Giovanni Maria Lupo (La Cavallerizza. Stato di conservazione e proposta di manutenzione straordinaria, Celid) ne illustra nel modo più autorevole l’eccellenza storica e architettonica (che si impenna in strutture monumentali come la Scala a tenaglia, ma anche in luoghi meno ovvi, come lo spettacolare sottotetto del Maneggio), ne analizza lo stato di conservazione e formula una serie di proposte per il suo futuro. La Cavallerizza non va pensata come un palazzo, ma come “un pezzo di città in forma di palazzi concatenati secondo uno schema ortogonale”: un pezzo di Torino progettato e costruito – tra Sei e Settecento – da architetti come Amedeo di Castellammonte, Filippo Juvarra, Benedetto Alfieri. E come un pezzo di città andrebbe trattata: essa “richiede una committenza – argomentano Brino e Lupo – che sia attenta all’uso pubblico di quei grandi spazi, interni ed esterni, e che condivida interventi di recupero leggero e di riuso compatibile: quindi di tipo non invasivo e, in definitiva, economico”. Questa la via maestra: chiusa, però, dalla demenziale “vendita della Cavallerizza, voluta dal sindaco Piero Fassino, al fondo di Cartolarizzazione della Città di Torino che ne può disporre in modo speculativo, come di un qualsiasi bene immobiliare” (così la prefazione al libro, firmata proprio da Guido Montanari).

In precedenza (2005) la Direzione regionale dei Beni Culturali aveva autorizzato – con un atto che il Mibac avrebbe il dovere di ritirare – il passaggio dal demanio al comune, senza imporre il mantenimento in proprietà pubblica. Nel 2017 l’Unesco, attraverso la sua agenzia Icomos, aveva osservato “che il Comune di Torino è un’amministrazione pubblica, pertanto il trasferimento di competenza, da statale a comunale, avrebbe dovuto mantenere il complesso di proprietà pubblica. Tuttavia, dato che l’autorizzazione alla vendita emessa dalla Direzione regionale non specifica che la vendita fosse autorizzata specificamente a favore della Città di Torino, pare che tale autorizzazione apra la possibilità che la Reale Scuola d’Equitazione sia venduta o trasferita a soggetti privati”. Sarebbe l’unico caso di un bene della lista italiana Unesco che rischia di diventare albergo di lusso o centro commerciale.

L’Unesco osserva ancora che le rassicurazioni che le erano state fornite non sono affatto sufficienti: “Pare quindi ci sia una significativa divergenza tra ciò che la parte Stato afferma si otterrà attraverso il Master Plan , in termini di accesso pubblico e coinvolgimento, e ciò che è stabilito nel Master Plan, che sembra suggerire che l’accesso sarà fortemente vincolato, e che il Piano sia principalmente orientato alla valorizzazione economica della proprietà attraverso una privatizzazione degli spazi piuttosto che alla sua valorizzazione per comprenderne il significato ed il valore aggiunto sociale e culturale che apporta alla società in generale”. Il fatto che il masterplan evidentemente inviato all’Unesco fosse quello realizzato dalla società privata Homers, su incarico della Compagnia di San Paolo, è un dettaglio rivelatore: non solo l’uso, e in futuro la proprietà, ma anche la progettazione del futuro di questo pezzo di città era stato privatizzata. Di fronte a questo disastro, la Giunta Appendino stava provando a “riqualificare la Cavallerizza e portarla nella piena disponibilità pubblica per farne un fulcro di elaborazione culturale … un processo lungo e irto di difficoltà che si situa sul margine incerto del rapporto tra proprietà privata e pubblica, tra gestione dall’alto e partecipata, secondo forme che mettono in discussione il diritto consolidato e si aprono a nuove pratiche ancora episodiche e caratterizzate da luci e ombre (penso all’Asilo Filangieri di Napoli, al Teatro Valle di Roma, all’isola di Poveglia a Venezia)”. Sono ancora parole dell’allora vicesindaco Guido Montanari: ora che è stato epurato in quanto ‘nemico della contentezza’, il destino della Cavallerizza sarà un termometro importante: per capire se c’è ancora qualche speranza, o se la ‘contentezza’ coincide col ritorno al ‘Sistema Torino’.

Diritti, istruzione: vivere con gioia non è per populisti

Non è uno stato d’animo passeggero, né un umore, né un sentimento che subiamo passivamente. Secondo Roberta De Monticelli, docente di Filosofia della persona all’Università San Raffaele di Milano e che spesso ha preso posizioni pubbliche sulla politica e la società italiane, la felicità permette di accedere ad una pienezza d’essere non volatile, ma stabilmente ancorata alla realtà. Il contrario delle labilissime emozioni dei social network.

Cosa non è la felicità?

Non è uno stato d’animo, come l’allegria o la malinconia, benché possa coesistere con molti stati d’animo e non solo con quelli lieti. Non è neppure una passione, come l’ambizione o la gelosia; né un sentimento. Infine, non è un’emozione, una risposta involontaria a eventi dotati di una qualche portata vitale.

E allora come definirla?

La felicità è una condizione oggettiva. Reale. Paradossalmente, toglie alle emozioni potere e peso sulla nostra vita: stabilizza. È il potere di risvegliare in noi una possibilità d’essere che è essenzialmente nostra, di attivare in noi un più profondo consenso all’essere e anche a ciò che siamo.

Però non siamo sempre felici.

Le gioie vanno e vengono, ma la felicità è diversa: siamo noi a decadere, magari irreversibilmente, da questa condizione. La felicità, in effetti, attinge a una pienezza d’essere – e a una vocazione a permanere – che fra i viventi è sempre minacciata.

E allora l’infelicità?

Solo il felice è buono: per converso il male è deficienza, incompletezza d’essere, infelicità. L’infelicità è l’opposto dell’essere di qualcuno – è il suo non essere. Non è dolore o vera tristezza, e neppure ansia, inquietudine, angoscia. È grado zero della vita: apatia, analgesia, aridità. Una specie di morte.

Come ha notato il “World Happiness Report”, però, la felicità dipende anche da condizioni esterne, salute, libertà, sostegno sociale.

Certo, io credo infatti che welfare e istruzione siano condizioni perché i più abbiano anche solo la possibilità di fiorire come persone. Ma è una condizione messa a durissima prova dall’involuzione in atto delle democrazie. Se la democrazia funziona, promuove la maturazione dei cittadini di cui ha un disperato bisogno. Ma se questa promozione si inceppa, le democrazie si suicidano.

Il Rapporto parla anche di corruzione e infelicità.

Il lungo suicidio democratico consiste nella rimozione da ogni coscienza di questa idealità, che accentua la corruzione di tutte le istituzioni, distrugge ogni pubblica fede e rende irrespirabile il mondo che abitiamo: è la condizione dei senza patria, senza una casa comune da amare. Ma senza poter partecipare a una “pubblica fede” si vive come in esilio. E l’esilio non è in generale una condizione felice.

Ma sono felici quelli che si trovano a loro agio nel populismo, da lei duramente criticato?

Li hanno spinti a barattare la libertà con la tranquillità. Ma la maggior parte delle persone non conosce le possibilità della vita umana e tenere lontani gli uomini da questa conoscenza, offrendogli come riparo una prigione, è criminale.

E della felicità obbligatoria dei social network cosa pensa?

Le rispondo così: la vera felicità significa anche potersi permettere il lusso di conoscere il dolore senza per questo disperare del mondo e di se stessi. Anzi oggi penso sia questa la miglior definizione della condizione felice. Il resto chiamiamolo altrimenti.

Che cosa possiamo fare?

Forse, potremmo risvegliare il Socrate della vita esaminata: che cosa abbiamo fatto, noi, perché l’aspetto ideale della democrazia non si perdesse?

Serve l’indignazione civile, di cui lei ha parlato? E si può essere indignati e felici?

Sì. L’indignazione è un sentimento diverso da rabbia o rancore. È la risposta, non a un’offesa, ma a un torto, a un’ingiustizia, come tali. È l’esperienza dolorosa di un disvalore. È un sentimento morale.

Non solo ricchezza, la felicità arriva aiutando il prossimo

Si può essere infelici pur avendo 17.500 dollari di reddito all’anno a testa (che è quanto risulta dividendo il reddito globale per i 7 miliardi e 700 milioni di persone sulla terra)? A quanto pare sì, visto che gli esseri umani non sono felici come invece ci si aspetterebbe se considerassimo unicamente la loro ricchezza. A spiegarci con chiarezza perché sono due poderosi rapporti sulla felicità globale usciti quest’anno: il World Happiness Report 2019, curato da John F. Helliwell (University of British Columbia), Richard Layard (London School of Economics) e Jeffrey D. Sachs (Columbia University). E il complementare Global Happiness and Wellbeing Policy Report 2019, curato dal Global Council for Happiness and Wellbeing (Gchw), un network globale di ricercatori e scienziati di varie discipline. Gli studiosi si affrettano a spiegare che se è vero che quell’ipotetico reddito non è equamente distribuito – 1.2 miliardi di persone arrivano a 47.000 dollari mentre 700 milioni solo a 2.000, ragion per cui la lotta alla povertà resta un obiettivo fondamentale – la vera discriminante del nostro benessere non è la ricchezza. Per essere felici serve soprattutto praticare la generosità, che produce benessere specie se “ci si sente connessi alle persone che si aiutano e si sente che il proprio aiuto fa la differenza”. E poi servono buona salute, soprattutto mentale, amici, buon sostegno sociale, fiducia nella società, governanti onesti e assenza di corruzione.

Ed è proprio utilizzando queste variabili che è stata stilata quest’anno la classifica globale della felicità che, sottolineano gli esperti, si può studiare esattamente come qualsiasi altra cosa, usando un rigoroso metodo sperimentale. Per i paesi al vertice le sorprese sono poche: vola in testa la Finlandia, seguita da Danimarca, Norvegia, Islanda. E poi Olanda, Svizzera, Svezia, Nuova Zelanda, Canada, Austria, mentre tra i primi 20 ci sono anche Costa Rica, Lussemburgo e Israele. A colpire nella classifica della felicità è soprattutto la distribuzione eterogenea di chi fa donazioni e attività di volontariato: in cima alla classifica dei paesi che donano di più ci sono Australia, Hong Kong, Islanda, Indonesia, Malta e Nuova Zelanda (l’Italia è al 38,4%), mentre per il volontariato spiccano la Liberia, Sri Lanka e Sierra Leone (Italia al 16,4%). Ma dove si piazza l’Italia nella classifica generale? Al 36esimo posto, recuperando 11 posizioni rispetto all’anno precedente. Una buona notizia a metà, perché nel Rapporto di quest’anno per la prima volta viene fatta una comparazione complessiva tra i dati del 2005-2008 e quelli del 2016-2018. Ebbene, su 132 paesi, 64 hanno migliorato il proprio status, 42 lo hanno peggiorato, tra cui non solo Venezuela, India, Ucraina, Yemen, Botswana, Venezuela, Siria – ultimi nelle classifiche – ma anche Grecia, Spagna e Italia (il paese che invece è risalito di più, di ben 50 posizioni? Il Benin).

Ma cosa causa tanta infelicità nei paesi con un reddito pro capite alto? Il Rapporto – che analizza anche l’infelicità degli IGen, gli adolescenti specie americani, caduta a picco a partire dal 2012 – parla chiaro: tutte le attività che prevedono l’utilizzo di uno schermo producono depressione e infelicità, contrariamente a chi invece legge di più, dorme di più e magari frequenta la parrocchia. Il professor Sachs parla di una società “di dipendenza di massa”: marijuana, alcol, tabacco, scommesse, eccesso di cibo, sesso-dipendenza distruggono la salute mentale e fisica. Per non parlare della corruzione, delle diseguaglianze crescenti soprattutto all’interno dei paesi e di un’economia che sta devastando l’ambiente.

Eppure su questi aspetti i governi potrebbero agire con politiche pubbliche efficaci. Che per essere tali, si legge nel Global Happiness and Wellbeing Policy Report 2019,dovrebbero porsi come scopo proprio quello della felicità. Parlare di felicità in ambito sanitario, ad esempio, significherebbe occuparsi soprattutto di salute mentale, terapia del dolore, specie nel fine vita, e famiglie dei malati. Un sistema scolastico finalizzato alla felicità svilupperebbe competenze alternative, ma complementari, a quelle accademiche, mentre le città dovrebbero essere disegnate in funzione della loro sostenibilità e diventare più verdi, sicure, tolleranti, inclusive e accessibili. Può bastare anche poco: ad Aarhus in Danimarca, il sindaco ha tappezzato d’erba la piazza principale, piantato centinaia di alberi, creato spazi sociali e di gioco. Il risultato? La criminalità della zona è stata azzerata. E magari quel sindaco sarà rieletto, visto che il Rapporto 2019 dimostra che chi è infelice è attratto da populisti e leader autoritari, chi è soddisfatto non solo è più impegnato politicamente, ma tende a votare i politici in carica. La felicità, insomma, conviene a tutti. Pure a chi governa.

Al polo oncologico romano i medici contro la Regione

Di qua i dirigenti medici, anche noti, che gridano allo “smantellamento” dell’istituto tumori di Roma e del Lazio, il Regina Elena, il più antico d’Italia. Di là il direttore generale Francesco Ripa di Meana che dice: “L’ospedale cresce, il cambiamento fa paura a tutti”. Il cambiamento però chiuderà la chirurgia dei tumori dell’apparato digerente, cioè del colon–retto e dello stomaco: il primario va in pensione e il reparto andrà ad “esaurimento”. La Neurochirurgia, dove è molto sentita la carenza di medici, viene declassata da unità complessa a semplice: meno risorse, meno autonomia, responsabilità a livello più basso. Le due unità complesse di Oncologia medica saranno disarticolate, germoglieranno tre unità semplici e questo, secondo i medici, “porrà problemi di coordinamento in assenza di un unico Dipartimento”: anche i tumori polmonari saranno affidati a un’unità semplice. C’è malcontento anche sul potenziamento della struttura amministrativa e sull’avvio di piattaforme a guida infermieristica per la gestione integrata delle prestazioni, che molti medici ritengono “inadatte ad attività ad alto contenuto specialistico come quelle richieste dai malati di tumore”.

Così a fine giugno a Mostacciano, nel complesso tra la via Pontina e il Raccordo appena fuori dall’Eur, sede degli istituiti fisioterapici ospedalieri (Ifo) Regina Elena (tumori) e San Gallicano (dermatologia), i sindacati dei medici hanno proclamato lo stato di agitazione. Tutto inutile. La Regione Lazio, guidata dal leader Pd Nicola Zingaretti, ha approvato il piano.

La tensione resta alta. I medici “dissidenti” chiedono l’anonimato. Per alcuni parla Giuseppe Lavra, primario internista al San Giovanni, segretario regionale del sindacato Cimo–Asmd, già presidente dell’Ordine dei medici di Roma e Provincia: “Quello che succede al Regina Elena – dice Lavra – è molto grave, lo smantellamento sembra voler favorire il settore privato convenzionato, in particolare il Policlinico Gemelli e il Campus Biomedico. L’oncologia non è solo chirurugica, l’oncologia medica è sempre più importante: il Regina Elena non può essere privo di un Dipartimento di oncologia medica. È in atto una privatizzazione strisciante che cancella il diritto alla tutela della salute riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della Sanità. La situazione del Lazio è gravissima, siamo la terza Regione dopo Campania e Calabria per il saldo delle spese della mobilità sanitaria passiva”, cioè per i trasferimenti alle Regioni in cui vanno a curarsi i cittadini del Lazio.

Il saldo, secondo i dati provvisori della fondazione Gimbe per il 2017, è negativo per 289 milioni di euro; 282 secondo Quotidianosanita.it. L’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato, sottolinea invece che il Lazio è l’unica Regione in piano di rientro il Lazio ad avere un saldo positivo dei ricoveri: “79.433 in mobilità attiva contro i 71.159 in mobilità passiva. Il Lazio ha nettamente invertito la rotta”, ha detto lo scorso aprile. Evidentemente, però, le prestazioni offerte nel Lazio ai non residenti costano meno di quelle richieste altrove dai cittadini del Lazio, più complesse come nel caso dell’oncologia.

Con la Sanità regionale commissariata dal 2007 almeno fino a tutto il 2019, il Regina Elena se la passa male da tempo: il turn over è rimasto bloccato per anni, gli infermieri sono sempre di meno, diversi medici promettenti hanno lasciato l’istituto non solo per andare nel privato o all’estero ma anche perché preferivano altre strutture pubbliche. “Un ridimensionamento c’è già stato nel 2015”, ricordano i medici. Ripa di Meana è arrivato alla fine del 2016 da Bologna, dove aveva diretto l’Azienda Usl e poi l’Istituto ortopedico Rizzoli. È presidente della Fiaso, la Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere. Agli Ifo le perdite sono scese dai 47 milioni del 2016 ai 21 del 2018. In questi anni, fa valere la direzione, sono aumentati i ricoveri (da 6.261 a 7.113 l’anno) e il loro indice di complessità medio (da 1,90 a 2,05), i pazienti (da 252 mila a 256 mila) e le prestazioni ambulatoriali (da 1.260.000 a 1.275.000), le radioterapie (da 91 mila a 166 mila) e le Pet (da 3.600 a 5.200). Ma gli Ifo sono indietro sui tempi d’attesa: a giugno la Regione ha rilevato che solo il 52,6 per cento delle prime visite e degli esami diagnostici è stato garantito nei tempi (già largheggianti) previsti, contro il 74 per cento della media regionale.

I medici vorrebbero un rilancio deciso, sottolineano che degli 11 Irccs (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) oncologici italiani il Regina Elena è l’unico a non avere un Dipartimento della ricerca. Ma il direttore generale replica: “Assurdo dire che chiudiamo o vogliamo favorire i privati – afferma –. Abbiamo finalmente potuto cominciare ad assumere: 224 le assunzioni autorizzate e 112 già eseguite tra cui 31 medici e numerosi infermieri e tecnici”. Su un organico di 1.145 persone al 31 dicembre 2017 non è poco. Ricoveri, interventi e posti letto, assicura la direzione, non diminuiranno. Ma perché chiudere la chirurgia digestiva e declassare la Neurochirurgia? “Non sono i settori in cui andiamo meglio – osserva Ripa di Meana –, abbiamo risultati più significativi per otorinolaringoiatria, urologia, senologia, ginecologia. Per i tumori del colon retto siamo in decima/undicesima posizione nel Lazio. Ma rinunciare a una specifica unità non vuol dire non che non faremo più quegli interventi: i chirurghi che li fanno restano, inquadrati nelle altre unità”. Perché smantellare unità complesse e preferire unità semplici che certamente non attrarranno medici del più alto livello? “Bisogna smettere di pensare solo a qualcuno da far venire da fuori a risolvere i problemi, vogliamo valorizzare le professionalità interne”. Ripa di Meana nega che serva soprattutto a risparmiare e minimizza la differenza tra unità semplici e complesse. E le piattaforme a guida infermieristica? “Funzionano nell’80 per cento degli ospedali del centronord. Qui hanno paura del cambiamento”. I medici hanno paura soprattutto dei tagli.