“Addio mezze stagioni: lo Stato ci aiuti. Noi, come l’agricoltura”

“Non esistono più le mezze stagioni” è forse il prototipo delle frasi fatte, ma quando si realizza per davvero sono guai seri per i negozi di moda: le vendite – e quindi i guadagni – crollano a picco. Chi comprerebbe una t-shirt a manica corta o un paio di sandali a maggio, se fuori ci sono ancora dieci gradi? La primavera del 2019, che fino a maggio inoltrato è sembrata molto più un inverno – ha infatti portato danni molto grossi. Federmoda, che aderisce a Confcommercio, li ha pure calcolati: “Il clima meteorologico – ha detto il presidente Renato Borghi – ci ha fatto saltare la stagione, con un calo medio delle vendite nei negozi di moda italiani del 7% in aprile e dell’8% in maggio, con punte del 20 o 30% in meno rispetto all’anno precedente. Una circostanza che, ahinoi, si ripete sempre più spesso in questi ultimi anni provocando ingenti danni economici e marginalità sempre più risicate”. Il risultato è che buona parte della collezione primavera–estate sarà svenduta con i saldi di luglio, perché solo a giugno il caldo ha spinto le persone a rifarsi il guardaroba.

Prezzi stracciati, quindi profitti più bassi. Succede talmente spesso, a quanto raccontano i commercianti, che ormai l’associazione di categoria ha chiesto al governo di assimilare questo settore a quello dell’agricoltura, e quindi di poter invocare lo stato di calamità tutte le volte che le condizioni meteo influiscano pesantemente sugli affari.

Marco Sperati, titolare di un’azienda che distribuisce calzature, ha provato a rendere l’idea: “Per noi in genere la stagione inizia ad aprile, che è un mese di alto fatturato, ma quest’anno ci siamo trovati a rincorrerla a giugno, perché quasi tutti eravamo in difficoltà nei primi tre mesi. Questo ha spostato tutto verso i saldi e ora stiamo vendendo quello che avevamo comprato per la stagione, con problemi di marginalità”. Solo un reparto che ha retto l’urto e limitato i danni, le scarpe sportive: “Per fortuna – ha aggiunto Sperati – quelle le vendi 365 giorni all’anno”. In questo caso, non si subiscono gli impatti della temperatura. I modelli casual leggeri hanno dovuto aspettare le belle giornate che si sono fatte particolarmente attendere.

Il problema sembra dipendere anche dalle nuove abitudini degli italiani: prima si comprava per il gusto di farlo, oggi più per necessità. “Un tempo – racconta Andrea Pastore, imprenditore nel campo dell’abbigliamento – l’acquisto era istintivo. Passeggiavi, vedevi una maglia di un bel colore in vetrina, entravi e la prendevi. Oggi invece la gente ha tutto e di nuovo compra solo ciò che serve. Quindi quando salta la stagione ci sono commercianti che si ritrovano con l’intero magazzino da dare ai saldi. A noi per fortuna non è successo, ma parlando con i fornitori ho sentito di molte storie di questo tipo”.

L’associazione di categoria ha una serie di idee per provare a uscirne: un aiuto pubblico per recuperare le annate magre come questa, come avviene dopo le gelate nei campi agricoli, potrebbe essere una. Un’altra sarebbe quella di rimandare di qualche settimana l’avvio dei saldi, per mantenere ancora un po’ la merce a prezzo pieno. Ma secondo Sperati bisogna coinvolgere anche le industrie che producono vestiti, scarpe e accessori: “Dobbiamo metterci al tavolo con loro per trovare una soluzione”.

Il commercio online, poi, è sì un’opportunità per le aziende ma anche una minaccia. Ecco perché l’associazione propone una forma di web tax, “per evitare fenomeni di elusione”, sostiene la Federmoda.

Crisi griffe: fuori moda l’abito made in Italy

Siamo nell’era di Instagram, quella in cui i fashion blogger fanno il botto di follower e affari milionari creando tendenze, consigliando stili e promuovendo vestiti, giacche, pantaloni e scarpe. Eppure sembra che la moda italiana sia da poco piombata in una nuova crisi. A raccontare di questo paradosso sono per prime le storie delle varie aziende in difficoltà: La Perla, Stefanel, Roberto Cavalli e Calvin Klein. Marchi molto famosi, alcuni hanno fatto la storia del lusso, eppure in queste settimane, nel nostro Paese, stanno tenendo con il fiato sospeso migliaia di lavoratori che rischiano di finire a casa. E a confermare che questo non è un buon momento è l’indagine interna condotta a maggio da Confindustria Moda, secondo la quale quasi un’impresa ogni tre sta chiedendo la cassa integrazione. A pesare sono i risultati negativi del primo trimestre, quando il tessile ha segnato meno 0,7% e l’abbigliamento ha perso il 4%. E se chi produce abiti e accessori è con l’acqua alla gola, le conseguenze ricadono a cascata anche su tutta la rete vendita, tanto che a giugno la Federmoda, aderente alla Confcommercio, ha lanciato l’allarme invocando addirittura lo stato di calamità, perché a penalizzare i fatturati è stata anche l’assenza della mezza stagione. Insomma, il clima ha spinto i consumatori a non comprare abiti di mezzo peso: una sciagura per i negozianti che per questo ora chiedono l’aiuto pubblico.

Da Nord a Sud, ogni territorio ha la sua crisi. E ognuna ha radici diverse: c’è quella che nasce da problemi di mercato, quella che è conseguenza di una delocalizzazione, quella che invece ha una natura strettamente finanziaria. Anche perché durante gli scorsi anni sono molti i fondi stranieri che hanno messo le mani sulle aziende del made in Italy. Questo però non sempre ha portato fortuna, tanto che oggi più di una è a un passo dal baratro. A Bologna, 126 lavoratori del gruppo La Perla, marca di intimo, stanno per essere licenziati. Un anno e mezzo fa, a febbraio 2018, l’azienda è stata acquistata dal fondo olandese Sapinda Holding che l’ha strappata a una concorrente cinese e a Calzedonia. “In 18 mesi – spiega Sonia Paoloni della Filctem Cgil – non hanno mai presentato un piano industriale né lanciato nuove collezioni. Hanno continuato a confezionare le linee che già producevano ma utilizzando molti materiali di magazzino. È ovvio che oggi il bilancio sia in perdita, non c’è stata nemmeno una politica di marketing. Ora ci dicono che vogliono licenziare 126 persone che sono impegnate nelle produzione delle collezioni. Ma se tu mandi a casa questo tipo di maestranze, è un’operazione di smantellamento”. Ora i sindacati sperano almeno di riuscire a strappare un anno di cassa integrazione, per dare il tempo a una possibile ristrutturazione, altrimenti tutti quegli addetti perderanno il posto di lavoro nel giro di poche settimane. E all’Emilia Romagna sarà sottratto un marchio del lusso nato nel 1954.

Spostandoci più a Ovest c’è un altro fronte molto caldo: la Stefanel. Questa azienda di maglieria rischia di dover dire addio alla sua sede centrale, quella di Ponte di Piave in provincia di Treviso. In quello stabilimento che nel 2000 dava lavoro a 600 persone, oggi sono rimasti in 73. E per giunta potrebbero essere messi a breve alla porta, un guaio che poi si riverserebbe anche sui quasi 200 lavoratori della rete distributiva sparsi in tutta Italia. Oggi c’è un commissario nominato dal governo che il 3 dicembre deciderà se ci sono i requisiti per ammettere l’azienda all’amministrazione straordinaria. A questo si è arrivati dopo che a settembre 2017 sono entrati nell’azionariato i fondi Oxy e Attestor. Un passaggio cui ha fatto seguito una grossa ristrutturazione, con circa 60 negozi chiusi, e soprattutto un cambio di impostazione: non più lusso, ma qualità a prezzi relativamente contenuti. Le cose però non sono andate bene, perciò nel 2018 si è provato a stipulare un accordo sul debito con i creditori. Tentativo culminato con un nulla di fatto tanto che ora si aspetta la risposta sull’amministrazione straordinaria. “Il problema – dice Tiziana Basso, segretaria della Cgil Veneto – è che spesso i fondi sono interessati ai marchi, che hanno molto valore, ma non al mantenimento del made in Italy”. Treviso potrebbe presto vedere chiusa un’azienda nata nel 1959 come Maglificio Piave.

La lotta per la sopravvivenza coinvolge anche la Roberto Cavalli. Nel 2015, mentre attraversava una fase complicata, è stata acquisita dal fondo Clessidra, società italiana di gestione del risparmio. Un’ottantina di esuberi sono usciti con gli incentivi. Ma il peggio doveva ancora venire: a fine 2018 i risultati si sono rivelati peggiori rispetto alle attese e questo ha convinto la proprietà a tirare il freno sugli investimenti. Ad aprile è stato chiesto il concordato e l’azienda è finita di nuovo sul mercato. Con tutte le incognite del caso: chi la comprerà? E quanti posti di lavoro saranno salvati? Nel frattempo sono arrivate quattro offerte ed è stata preferita quella presentata dalla Damac di Dubai. La promessa di mantenere l’attuale livello occupazionale – sono 300, con la maggior parte che è in servizio a Firenze – infonde un cauto ottimismo. Entro il 3 agosto bisognerà presentare al Tribunale un accordo per la ristrutturazione del debito, documento che dovrà ottenere il via libera dai giudici. La soluzione potrebbe essere vicina, in questo caso, ma è meglio aspettare che si ufficializzi il passaggio.

Le brutte sorprese del 2019 sono state davvero tante nel settore moda. Lo sanno bene anche gli 84 dipendenti della sede milanese di Calvin Klein, che la società ha deciso di chiudere. E lo sanno bene anche i 100 lavoratori della Brandamour di Biella, società che nel 2016 aveva compiuto una scalata acquisendo i lanifici Botto Fila e Ormezzano. A febbraio hanno scoperto che l’azienda non era in grado di pagare gli stipendi, e da allora sono rimasti a mani vuote. I tempi per attivare gli ammortizzatori sociali sono stati lunghi, e così in questi mesi sono state necessarie iniziative di solidarietà sul territorio che hanno portato un po’ di ossigeno a queste persone. “L’azienda doveva rilanciare questi marchi – racconta Filippo Sasso della Filctem Cgil –, ma a due anni da quelle dichiarazioni ci ritroviamo con una scatola vuota e professionalità per strada. Fintanto che non arriverà l’ammortizzatore siamo in grandi difficoltà”. Un paio di settimane fa, si è riusciti ad anticipare la cassa grazie a un accordo con Intesa San Paolo. Un sospiro di sollievo per l’immediato, ma il problema è nel lungo periodo, quando servirà una strategia per evitare che l’area biellese venga privata di un pezzo importante di una tradizione ultracentenaria.

Vicissitudini societarie turbolente hanno portato scompiglio anche nella Tessitura del Salento, con sede a Melpignano. L’azienda appartiene alla Canepa, a sua volta finita un anno fa nelle mani del fondo Dea. Ma anche qui le grandi aspettative sono state deluse, perché poco dopo l’acquisizione i nuovi proprietari hanno depositato una richiesta di concordato. Negli ultimi mesi del 2018 sono iniziati gli scioperi dei lavoratori che non ricevevano gli stipendi. E pure questa volta è stato necessario un nuovo passaggio di mano per dare qualche prospettiva. A intervenire è stato lo stesso Michele Canepa che ha deciso di ricomprare l’azienda di famiglia per salvarla; le incertezze per i 115 lavoratori leccesi non sono ancora finite. Sono in attesa di scoprire i piani della società per capire quando tutti potranno tornare all’opera con regolarità.

Nelle Marche non è una sola azienda ma un intero distretto a essere decimato da una crisi infinita. Quello calzaturiero è storicamente stato costituito da piccole e medie aziende, con una media di otto dipendenti ciascuna: prima gli addetti impegnati in questa filiera erano 40 mila. Ora ne sono rimasti 25 mila. “Il distretto – fa notare Sonia Paoloni della Filctem – ha subito una profonda scrematura, molte piccole imprese che lavoravano in conto–terzi o su prodotti di qualità medio–bassa sono fallite. Altre sono state acquisite”. Da un lato, c’è la concorrenza della manifattura dei Paesi in via di sviluppo, dall’altro c’è la Russia che, in risposta alle sanzioni, ha contratto la domanda. Il risultato è che l’intera area ha chiesto al ministero di aprire un tavolo. Un altro territorio in cui si lotta affinché un settore che nei decenni ha portato crescita, tradizione e stabilità nel lavoro non passi di moda.

“Ma Salvini non è Mussolini. Certe passioni sono morte”

La bottega dell’antiquario. Non è Charles Dickens a parlare, ma Enrico Mentana. Il direttore del Tg La7, tra i protagonisti del mainstream, descrive i ninnoli lussuosi dell’anticaglia chiamata Novecento. Eccoli. Tutta la sinistra possibile, l’élite e la stessa informazione che ogni giorno racconta a se stessa un’Italia che non esiste: “E così anche il mondo, che è soltanto una grande Italia”.

Nell’epoca dell’e-commerce, dunque, incombe l’antiquario.

Un negozio bellissimo dove i giovani non entrano; e dove – pur danarosi ­ i clienti sono sempre più pochi e comunque presenti all’appello dell’antiquario solo per tramite dei necrologi.

Necrologi?

O sondaggi che dir si voglia, le due poetiche si sovrappongono ormai; provocano la stessa voluttà di lettura.

Cominciamo bene.

Il Pd, l’erede di un doppio lascito, quello del Pci e della Dc, è la maturazione di quel che fu l’Arco costituzionale nella fondazione della Repubblica; è oggi il grande partito della sinistra ma come il grande romanziere si accorge di essere sparito dalle librerie così il Pd – che è il partito della politica – ha capito di non essere presente nei quartieri popolari e strilla: dobbiamo tornare nelle periferie.

Le librerie ormai sono cimiteri, ma le periferie sono ben vive.

Nei talk, infatti – io che pure sono un novecentesco – troverò modo di ripetere quello che dico qui: nella situazione in cui ci troviamo a vivere Matteo Salvini è Maradona.

Quella dell’informazione è il Sotheby’s delle idee più collezionabili.

Per una clientela esclusiva.

L’establishment.

Le leggi non le fanno i ministri ma i burocrati, si sa, e tutta la grande burocrazia cresciuta nell’alveo della Repubblica….

Il deep state, per dirla col linguaggio di Sotheby’s.

…O si adegua o sparisce, come accadde al ceto dirigente dell’Ottocento quando dovette cedere il passo ai tempi nuovi; una transizione come questa non è propriamente quella di 80 anni fa, quando le diverse forze politiche – col superamento della dittatura – si confrontavano per il bene comune mentre oggi, con lo svuotamento delle idee politiche, è solo un sistema per cui chi vince governa e chi perde aspetta e rosica.

I giornali, l’informazione. Ai tempi di Silvio Berlusconi c’erano almeno due campane, la sua e quella di tutti gli altri contro di lui.

C’è solo da preservare la riserva indiana; e c’è un solo progetto industriale: tenersi quei telespettatori e quei lettori – e questi, poi, sono sempre meno… – e alimentare in loro la nostalgia, quella stessa che alimenta la fornace della grande stampa.

Finché dura.

La visione orizzontale dei social ha piallato l’esigenza rappresentativa e ci si divide tra presentisti e nostalgici.

Quest’ultimi sono la destra, gli altri sono la sinistra.

Proprio no, i nostalgici sono quelli dei partiti, il Novecento che se ne va si porta nella tomba la politica.

Caro lei, quando c’era Lui.

Quando c’ero io, piuttosto, come Matteo Renzi che adotta come suo unico stilema l’esserci stato lui, al governo, nel Pd finché gli è durato, giusto lui che per l’Italia è stato come una bella moldava per un anziano: tre anni di pazza giostra e poi, d’un colpo, l’inferno dell’abbandono….

Ma la politica comunque non è un prodotto del Novecento.

La mobilitazione delle masse, sì; il secolo delle ideologie è il Novecento mentre l’esaurirsi della memoria – oggi – agevola l’emergere degli interessi primari, quelli che portano al crollo della sovrastruttura per precipitarci nell’odio, nei nazionalismi: il caso Iugoslavia fa testo.

L’epoca compiuta della tecnica conferma, anche per via della rete web, la mobilitazione totale di queste masse.

Dove però un Salvini, non è un Benito Mussolini, non è – insomma – un ideologo, anzi: è a-ideologico; il Duce prende il proprio Psi e ne fa una cosa nuova….

Restando intimamente socialista, comunque e sempre…

Anche il leader della Lega fa del Carroccio di Umberto Bossi un soggetto a sua immagine e somiglianza – è vero – solo che un dato inedito ci impone un altro schema: il sorpasso delle pulsioni sulle passioni.

Una forma di dongiovannismo applicato alle dinamiche elettorali?

La morte delle passioni, questo è il vero dato; quel Mussolini di cui parliamo si muove dentro il recinto della politica, ovvero l’arte suprema del Novecento che offre alle masse la prospettiva di un futuro: siano essi i suoi Colli Fatali o – per i comunisti – il Sol dell’Avvenire, mentre Salvini, con le pulsioni di oggi, è costretto al presentismo.

I Colli Fatali sono stati sconfitti dalla storia.

Appunto, sì, cancellati, ma qualcuno oggi sta indicando un qualunque Sol dell’Avvenire? La mia è la generazione dell’uomo sulla Luna, tutta la nostra storia di ieri si è costruita nel sogno di un cambiamento: una società da cambiare, i diritti da acquisire, una dittatura da abbattere, il muro di Berlino che non c’è più; tutte le ideologie si sono attuate: l’economia di mercato e la democrazia anche Vladimir Putin deve farle proprie; e il sogno, dunque, è dietro le spalle.

Il tono lascia dedurre in lei un’affezione nostalgica, sento di averla punto sul vivo.

Caro lei, quando c’era Lui, messer Novecento….

Fiamme e cortei: riparte l’assedio No Tav

Un principio di incendio, o un “grande falò” come lo chiamano gli attivisti No Tav, ha venerdì riacceso la notte di Chiomonte, avamposto dei lavori per la linea ferroviare alta velocità Torino-Lione in val di Susa.

Le cronache parlano di circa duecento persone partite in corteo dall’abitato di Giaglione. Per sbarrare loro il passo lungo la pista nota come sentiero Gallo-Romano le forze dell’ordine hanno eretto una cancellata metallica rinforzata che gli attivisti, dopo avere acceso il fuoco, hanno tentato prima di sfondare con un grosso tronco, e poi di aprire con un flessibile elettrico. La polizia ha reagito con un idrante. In seguito una quindicina di No Tav si sono resi autori del lancio di pietre, petardi, bombe carta e razzi di segnalazione nautica.

Fonti delle forze dell’ordine riferiscono che si è verificato per l’appunto un principio di incendio nel bosco che ha richiesto l’intervento di personale specializzato del cantiere. Una ventina di manifestanti sono stati poi identificati dalla Digos e verranno denunciati per violazione dell’ordinanza della prefettura di Torino sul divieto di transito nella “zona rossa” intorno al cantiere.

La notte prima era successo ad altri 50 dopo aver appiccato un fuoco sempre vicino alle barriere del cantiere. I manifestanti, infatti, sono accampati in Valle di Susa per l’annuale “Campeggio studentesco No Tav”, che quest’anno si protrarrà fino al 24 luglio e a cui prendono parte circa 200 attivisti. Il primo a commentare la notizia è stato il ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Chi attacca la polizia e il cantiere della Tav in Valsusa attacca tutta l’Italia: le divise sono il simbolo di chi difende la sicurezza dei cittadini perbene, l’alta Velocità è l’emblema di un paese che vuole andare avanti e non indietro”. Ma non solo. “Nessuna tolleranza per i criminali – ha aggiunto – mi aspetto condanne inequivocabili da tutti gli schieramenti politici. Basta ambiguità: ora controlli a tappeto, arresti e accelerazione dei lavori”.

E mentre sulla denuncia dei violenti c’è stato un coro unanime, sul tema dei lavori da “velocizzare” si riaccende lo scontro tra i partner di governo. Con i leghisti Edoardo Rixi, Riccardo Molinari e Fabrizio Ricca (oltre allo stesso ministro Salvini) a spingere perchè l’opera si faccia in fretta “senza se e senza ma”, con il capogruppo M5S in Senato Francesco D’Uva che porta la posizione ufficiale del Movimento e la condanna dei violenti (senza sbilanciarsi sull’opera sulla quale si attendono le mosse di presidente Conte), e con il senatore 5s Airola, No Tav convinto, che chiude: “Salvini vuole arrestare i manifestanti No Tav. Se arrestasse i lavori della Torino Lione, non dovrebbe arrestare più nessuno”.

“Sulla scuola tutti d’accordo: andava cambiata”

Autonomia sì, ma senza la scuola. O per lo meno senza alcuni elementi – come la regionalizzazione del reclutamento o della gestione del personale – che se da un lato sembrano aver fatto arrabbiare Veneto (Zaia) e Lombardia (Fontana), dall’altro sono stati condivisi in più vertici con gli esponenti di governo e con lo stesso premier. “Abbiamo avuto un vertice di maggioranza sulle autonomie – spiega il sottosegretario all’Istruzione, Salvatore Giuliano (M5s) -. Si è parlato di scuola e degli altri temi. Il giorno precedente c’era stato un vertice ristretto con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, la ministra per gli affari regionali Erika Stefani, il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti ed io”.

Sottosegretario Giuliano, di cosa si è discusso?

Abbiamo lavorato sugli articoli che riguardavano la scuola. Poi le nostre proposte sono state portate al vertice e illustrate. Non c’è stato nessun colpo di mano: è stata una decisione del tavolo governativo, nessuna imposizione. Conte ha presieduto con professionalità, ma tutti i partecipanti si sono rapportati in maniera costruttiva, non sono volati stracci, non c’è stata nessuna lite. La decisione è poi stata presa dal tavolo.

Quel era il problema?

Le nostre perplessità erano basate su motivi tecnici, politici e anche giuridici. Dal punto di vista tecnico c’erano serie difficoltà attuative come, ad esempio, la coincidenza di organici differenti. Dal lato giuridico, temevo che su alcuni contenuti potessero esserci principi anticostituzionali. Più volte è stata citata la sentenza 76 del 2013, firmata dall’allora giudice della Corte Costituzionale Sergio Mattarella, in cui si dichiarava l’illegittimità della legge regionale della Lombardia che prevedeva forme aggiuntive di reclutamento del personale. E poi c’erano perplessità politiche: in quella proposta si parlava anche di far sorgere sistemi educativi regionali che andavano a coesistere, e forse anche a confliggere, con il sistema scolastico nazionale. La scuola è strategica, bisogna evitare di creare disuguaglianze.

Cosa è rimasto?

Le regioni potranno autonomamente intervenire sull’alternanza, sul diritto allo studio, sull’edilizia scolastica ed eventualmente, in fase di emanazione del bando di concorso di reclutamento si potrà prevedere, per determinate regioni – sulla base di parametri oggettivi – una permanenza dopo il primo incarico per un periodo maggiore.

La reazione della Lega?

Ripeto, al tavolo c’è stato un clima di collaborazione. Poi ho letto dopo di reazioni più forti. Ma non è stata una proposta varata a porte chiuse da un solo schieramento politico.

Resta il nodo risorse…

Si affronterà questa settimana. Sono stati fatti passi avanti nella prima riunione del vertice, con la proposta di cambiare alcuni articoli delle bozze che prevedono il principio secondo cui il fabbisogno sarebbe definito sulla base dei costi storici dei servizi e poi, se nei tre anni successivi non ci fossero i fabbisogni standard, si passerebbe al costo medio procapite nazionale. Questo potrebbe portare nel tempo un aumento o una diminuzione sensibile di trasferimenti a seconda delle Regioni.

Il segretario Zingaretti punzecchia Anzaldi: lite (e pure pace) via Twitter

Botta e risposta via social tra il segretario del Pd Nicola Zingaretti e il “renziano” Michele Anzaldi, membro della Vigilanza Rai. Sabato sera, il leader dem era intervenuto nella polemica su Twitter tra il deputato Pd e il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri: Gasparri aveva detto di voler “tappare la bocca” ad Anzaldi e lui si era appellato al “suo segretario” affinché lo difendesse. Zingaretti lo ha fatto, ma non senza ricordare che con Anzaldi, “a parte i saluti”, i rapporti sono inesistenti e che gli faceva “piacere che oggi” il deputato si ricordasse “che sono il suo segretario”. Ieri, sempre via social, è arrivato il segnale di distensione: Anzaldi ha denunciato on line il conflitto di interessi del Tg1 che ha pubblicizzato un libro del senatore M5S Gianluigi Paragone e Zingaretti lo ha condiviso, come a dire che apprezzava il suo tweet. Ma una telefonata, no?

“Arata disse: io do 30 mila euro a Siri, sia chiaro tra noi”

C’è un testimone di peso e una intercettazione chiave nell’inchiesta sulla presunta promessa di denaro dell’ex parlamentare forzista Paolo Arata per l’ex sottosegretario leghista alle Infrastrutture Armando Siri. La testimonianza è quella di Manlio Nicastri, figlio di Vito, il “re dell’eolico” finito in carcere lo scorso marzo e di nuovo indagato il mese dopo nell’ambito di un’inchiesta su mazzette ed energie rinnovabili in Sicilia. L’intercettazione è quella citata nelle carte depositate dai pm romani in vista dell’incidente probatorio, fissato in settimana: “Gli do 30mila euro perché sia chiaro tra di noi, io ad Armando Siri, ve lo dico…”, direbbe Paolo Arata.

Davanti ai pm romani Paolo Ielo e Mario Palazzo, Manlio Nicastri (32 anni), prima ha negato, poi dopo diverse domande dei magistrati ha raccontato di essere stato presente durante quella conversazione tra Paolo Arata e il figlio di lui, Francesco.

Manlio Nicastri ha precisato anche che l’accordo prevedeva l’approvazione di un emendamento che Siri avrebbe dovuto spingere, ma che in realtà non fu mai approvato. Il racconto del giovane Nicastri è de relato, ma per i pm è fondamentale, tanto che hanno chiesto e ottenuto l’incidente probatorio.

Così questo venerdì Manlio dovrà ripetere il suo racconto. Con lui sarà risentito anche il padre Vito, l’uomo che i pm palermitani ritengono essere vicino all’entourage del boss di mafia, da anni latitante, Matteo Messina Denaro. E proprio su Vito Nicastri pende a Palermo una richiesta di 12 anni di carcere per concorso in associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. Sulla vicenda delle tangenti, però, sia lui che il figlio Manlio, hanno iniziato (in parte) a collaborare con la giustizia raccontando e precisando. L’inchiesta sulle tangenti, si ricorderà, è quella che ha fatto saltare proprio la poltrona di Siri al ministero delle Infrastrutture a inizio maggio. Il premier Giuseppe Conte, dopo settimane di battaglia nella maggioranza di governo, revocò l’incarico all’esponente della Lega indagato per corruzione dalla procura di Roma. L’accusa dalla quale Siri si dovrà difendere è quella di aver messo a disposizione di Arata la propria funzione di senatore e sottosegretario, dietro la promessa o dazione di 30 mila euro, per modificare una norma da inserire nel Def 2018 che avrebbe favorito l’erogazione di contributi per le imprese che operano nelle energie rinnovabili. Quella promessa di denaro (oggi in qualche misura confermata dalle parole di Manlio Nicastri), secondo l’accusa, gli sarebbe stata fatta da Paolo Arata, ex deputato di Forza Italia, responsabile del programma della Lega sull’Ambiente, finito indagato assieme al figlio Francesco Paolo nella medesima inchiesta (Arata padre e figlio furono arrestati il 13 giugno scorso e ottennero i domiciliari il 5 luglio). La norma promossa da Siri, alla fine non passò. Non ci sono prove del passaggio di denaro tra Arata e Siri, ma c’è una conversazione intercettata in cui Paolo Arata parla della dazione di denaro per l’ex sottosegretario. È la stessa conversazione alla quale ora Manlio Nicastri dice di aver assistito. Inoltre Paolo Arata, secondo i pm, era socio di fatto dei Nicastri nelle imprese eoliche. Adesso Vito e Manlio Nicastri, hanno iniziato a collaborare con la magistratura. E venerdì dovranno riconfermare le loro versioni durante l’incidente probatorio.

Autonomia, Conte avvisa Salvini: “Spiego tutto io”

La lettera “ai cittadini della Lombardia e del Veneto” è una specie di preavviso, quasi un avvertimento: e più che ai milanesi o ai veneziani, il premier Giuseppe Conte dalle colonne del Corriere l’ha spedita a Matteo Salvini. Il vice che da giorni tira la corda e adesso usa palazzo Chigi anche contro i “suoi” governatori.

La storia è presto detta: sull’Autonomia, il leader della Lega, gioca su due piani paralleli. E appena può evita direttamente di presentarsi ai tavoli. Da una parte deve vedersela con i due presidenti di Regione leghisti, Attilio Fontana e Luca Zaia, che cannonneggiano contro Roma e premono affinché il segretario del Carroccio stacchi la spina al governo che sta ridimensionando le loro richieste. “Andiamo a votare, torniamo col centrodestra – ragionano i due governatori – e facciamo l’autonomia come la vogliamo noi”. Il problema è che a Matteo Salvini, l’autonomia lombardo-veneta piacerà pure, ma non può permettersi che sia troppo dura: la costruzione del profilo “nazionale” della Lega prevede delle inevitabili limitazioni alle volontà del Nord e se Salvini vuole restare alto nei sondaggi (e nelle urne) deve necessariamente tener conto del fatto che “la secessione dei ricchi” è complicata da spiegare sotto il confine del Po. Tanto più se a fare questa “operazione chiarezza” dovesse essere il presidente del Consiglio, l’unico altro leader che al momento lo superi nella classifica di gradimento degli elettori.

Ecco perché il ministro dell’Interno rifugge il confronto. Perché i governatori insistono, ma anche Conte si è messo di traverso. E si prepara a rivolgersi ai “restanti 45 milioni di cittadini italiani” se Salvini dovesse davvero aprire la crisi di governo con la scusa dell’Autonomia. È a quel Sud che si è fatto convincere dal Capitano che non era più quello che li chiamava “terroni” che Conte ha in mente di parlare. Vuole spiegare quali erano le intenzioni dei leghisti sulla scuola, dal reclutamento regionale dei professori alle gabbie salariali. E vuole anche raccontare come intendevano affrontare il problema delle risorse aggiuntive che Lombardia e Veneto avrebbero guadagnato dalla gestione autonoma delle prestazioni. Ad oggi la Lega è contrarissima all’ipotesi di un fondo perequativo che garantisca a tutte le Regioni un identico livello di servizi. E Conte non ha per nulla gradito che i tecnici del Tesoro abbiano preso in considerazione la bozza di compromesso studiata dal viceministro Massimo Garavaglia: una redistribuzione prevista solo sopra un certa soglia e di cui possano beneficiare anche le tre regioni “autonome”.

Ieri, dopo aver letto le parole del premier sul Corriere, Zaia e Fontana hanno ribadito che non firmeranno nessuna “farsa” e che non vogliono “essere presi in giro”. La discussione è rinviata al vertice di giovedì, anche se già domani il premier vedrà alcuni tecnici e ministri. Nelle stesse ore dovrebbe avvenire anche l’incontro con Matteo Salvini chiesto dal leader M5S Luigi Di Maio dopo le minacce di crisi della scorsa settimana.

Ma l’appuntamento cruciale è quello che si terrà al Senato mercoledì, quando Conte riferirà in Aula sulla presunta tangente alla Lega di cui si sarebbe trattato nell’incontro all’hotel Metropol di Mosca. Il presidente del Consiglio non ha ancora ricevuto la nota scritta che ha chiesto al titolare del Viminale: anzi, da quelle parti lasciano filtrare che Salvini mercoledì sarà seduto al suo posto da senatore e non esclude di controbattere al premier. Conte, d’altra parte, senza la memoria di Salvini avrà poco da dire: chiarito il ruolo di palazzo Chigi negli inviti alla cena con Putin del 4 luglio, si limiterà a spiegare che la collocazione internazionale dell’Italia non viene messa in discussione dagli eventuali interessi tra la Russia e il partito di via Bellerio. Difficile che l’opposizione si accontenti così.

Ma mi faccia il piacere

Un po’ castrati. “La castrazione chimica? Sarebbe una misura civile. Ma deve essere volontaria e reversibile” (Giulia Bongiorno, Lega, ministro dei Rapporti con il Parlamento, Libero, 20.7). Scusi, ministra, mi castrerebbe un pochino per un paio di giorni, non di più? Certo, caro, appena appena.

Regimerlo. “Mi spiace ripeterlo, ma ogni tanto qualcuno deve dirlo: preparatevi, questo è un regime” (Francesco Merlo, Repubblica, 20.7). Mica come la gloriosa democrazia renziana, quando la Rai aveva tre reti renziane (su tre) e tre tg renziani (su tre) e faceva contratti da 240 mila euro l’anno al partigiano Merlo.

Il partigiano Augias. “Vedo alla Rai occupazioni che nemmeno la Democrazia cristiana aveva osato fare” (Corrado Augias, Repubblica, 18.7). Denuncia sacrosanta: per esempio, c’è un certo Augias con un contratto Rai da 370 mila euro all’anno.

La martire. “Il Comune di Parigi premia la Capitana perseguitata in Italia. A Carola Rackete e alla precedente comandante della Sea Watch l’onorificenza ‘per aver salvato migranti in mare’” (il manifesto, 13.7). Ma soprattutto per averli portati in Italia: se li portava in Francia, le sparavano.

Gli esperti. “La trattativa non esiste. F.to Borsellino. Nessun patto tra lo Stato e la mafia, disse il magistrato nel 1988” (Il Foglio, 18.7). In effetti la trattativa la avviò il Ros dei Carabinieri con Vito Ciancimino nel giugno 1992. Ma Borsellino, preveggente, l’aveva già smentita quattro anni prima.

Bon ton. “Il disprezzo al potere”, “Perfino il ricorso di Mussolini alla storpiatura della sigla del partito socialista unitario da cui era appena uscito (Pus), riducendone i militanti a ‘pussisti’, giganteggia se confrontata al ‘pidioti’ partorito dalla mente comica di Beppe Grillo” (Gad Lerner, Venerdì di Repubblica, 19.7). Come li rispettava Lotta continua, gli avversari politici, non li ha mai più rispettati nessuno.

Colpa di Virginia. “E la sindaca chiamò l’assessora: ‘Pinuccia, il cavallo ha sporcato’. Il messaggio audio sul sito di Repubblica” (Repubblica, 19.7). La sindaca trova una strada sporca e la segnala subito all’assessore, per giunta a quello dei Rifiuti: ma si può andare avanti così?

Facce Tarzan. “Zingaretti: ‘Salvini in aula o non gli daremo tregua” (Repubblica, 16.7). Brrr che paura.

Facce da Sala/1. “L’accusa di Sala: ‘Avete chiesto i soldi a Mosca’” (Beppe Sala, sindaco Pd di Milano, La Stampa, 16.7). Potevate almeno retrodatarli.

Facce da Sala/2. “In Italia la Lega ha scelto persone sbagliate, con immagine e curriculum non immacolato” (Sala, ibidem). A Salvini manca solo Sala, condannato a 6 mesi per falso in atto pubblico, ma pare che sia già impegnato altrove.

Rifornimento in volo. “Atlantia dentro Alitalia? Andrà a picco, farà precipitare gli aerei!” (Luigi Di Maio, vicepremier e ministro dello Sviluppo e del Lavoro, M5S, Porta a Porta, Rai1, 27.6). “Un grande risultato raggiunto dopo settimane di lavoro intenso” (Di Maio su Atlantia che entra nella newco Alitalia, 17.7). Però sia chiaro che il primo volo lo inaugura lui, da solo.

Rep contro Rep. “I Cinque Stelle si attribuiscono l’elezione della nuova presidente (della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ndr). Tra gli episodi più esilaranti, segnalo la sedicente iena Dino Giarrusso, fresco di posto fisso, che ha twittato la notizia col commento: ‘Decisivi’” (Luca Bottura, Repubblica, 18.7). La sedicente iena deve averlo letto il sedicente sito Repubblica.it, che il 17 luglio titolava “Voti determinanti (M5S)” e scriveva: “Con 383 sì, l’annunciato voto favorevole del M5S potrebbe essere stato determinante per l’elezione di Ursula von der Leyen… Escludendo i 14 sì dei pentastellati, avrebbe potuto contare solo su 369 voti delle forze pro-europeiste, cinque in meno della maggioranza richiesta di 374 sì”. Esilarante, no?

Agenzia Sticazzi. “Cosa c’è meglio di un’amaca la domenica mattina? Nulla. Buona giornata a tutti” (Matteo Renzi, senatore Pd, Twitter, 14.7). “Un boccale di ottima birra, alla salute di chi vuole male all’Italia! Io non mollo” (Matteo Salvini, vicepremier e ministro, Lega, Twitter, 7.7). “Buongiorno! Colazione a Trento, incontro con gli attivisti e poi un po’ di relax!” (Luigi Di Maio, vicepremier e ministro, M5S, Twitter, 20.7). Il bello è che i tre s’illudono che freghi qualcosa a qualcuno. Il brutto è che purtroppo hanno ragione.

Il titolo della settimana. “Formigoni cambia linea: ‘Accetto la mia condanna’” (Corriere della sera, 19.7). Bontà sua. Che gentile. Ma perchè, se no?