Il governo scippa a Taranto 600 mln delle bonifiche per darli all’acciaieria

Le banche hanno chiuso i rubinetti all’ex Ilva e così il governo di Mario Draghi dirotta i fondi destinati alle bonifiche per mandare avanti la produzione. È inserita nel decreto Milleproroghe la norma che ha fatto infuriare i tarantini e che rischia di mandare all’aria il piano ambientale, già particolarmente annacquato negli ultimi dieci anni. L’articolo 21 prevede infatti che i fondi sequestrati nei paradisi fiscali alla famiglia Riva dalla Procura di Milano e inizialmente destinati a “risanamento e bonifica ambientale” ora debbano invece essere dirottati per il “finanziamento degli interventi e progetti”. Un ampliamento delle possibilità che di fatto neutralizza i limiti inizialmente imposti all’utilizzo di quei fondi.

La verità, come Il Fatto ha raccontato il 20 dicembre, è che nell’ex Ilva di Taranto non ci sono più soldi: la situazione finanziaria è critica. Come svelato da fonti interne, gli impegni già presi da Acciaierie d’Italia per trasformare la fabbrica dei veleni in un’acciaieria green è di circa 1 miliardo: i 400 milioni versati dallo Stato per il suo ingresso in società sono stati bruciati in poco più di due mesi e più o meno la stessa cosa accadrebbe se Invitalia versasse gli altri 600 milioni previsti per ottenere il 60% delle quote (la seconda parte dei fondi statali è prevista comunque a metà del 2022 e l’acciaieria rischia di non arrivare viva all’appuntamento).

La norma del Milleproroghe libera insomma 575 milioni di euro per Acciaierie d’Italia – joint venture tra il colosso ArcelorMittal e la pubblica Invitalia – è superiore ai 450 milioni che, secondo le fonti del Fatto, erano le linee di credito di cui l’azienda aveva bisogno per sopravvivere. Attualmente, come detto, le banche non si fidano dell’ex Ilva e concedono linee di credito a scadenza quasi immediata. L’intervento dello Stato, insomma, era l’unica ancora di salvezza. Ed è evidentemente per questo che il governo ha deciso di intervenire scippando i soldi alle bonifiche.

Va detto che non tutti l’hanno presa bene. Dopo la denuncia di Angelo Bonelli di Europa Verde (“un golpe contro la salute”, ha detto riferendosi anche ai tentativi dell’azienda di modificare le stime sul danno sanitario), il senatore e vicepresidente del M5S Mario Turco ha presentato un emendamento per sopprimere la norma e chiesto a tutte le forze politiche di “sostenerlo nei fatti in Parlamento e ripristinare i fondi per le bonifiche”: “La sottrazione di 575 milioni di euro per il territorio e per la comunità di Taranto è semplicemente inammissibile oltre che inaccettabile”. Ma l’irritazione riguarda un po’ tutti i partiti: esponenti pugliesi di Pd, gruppo Misto, Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno attaccato il governo. Anche il sindacato Usb ha definito il dirottamento dei fondi un atto gravissimo perché “va a indebolire anche la posizione dei lavoratori di Ilva in amministrazione straordinaria, ai quali sarebbero stati affidati i lavori di bonifica nel caso in cui tutto fosse andato come previsto”.

Si tratta infatti di 2300 operai che nel passaggio ad ArcelorMittal non sono entrati nei ranghi del nuovo padrone dell’acciaio e che, dopo un periodo di cassa integrazione e formazione, sarebbero dovuti rientrare in azienda per occuparsi delle bonifiche: “Tutta questa storia – ha aggiunto Franco Rizzo di Usb Taranto – ha l’amaro sapore di una presa in giro”.

Non è detto che parlamentari e sindacati preoccupino il governo, che però sa benissimo di dover avere il via libera della Commissione Ue: Bruxelles, in occasione dell’accordo tra magistrati e famiglia Riva, aveva dato il suo ok, ma specificando che quei fondi dovessero essere utilizzati solo per le bonifiche e non per il potenziamento degli impianti. Quest’ultima ipotesi, infatti, agli occhi dell’Ue avrebbe trasformato quella somma in aiuti di Stato. L’ultimo comma sull’ex Ilva inserito nel dl Milleproroghe chiarisce che “l’efficacia delle disposizioni” è “subordinata all’autorizzazione della Commissione europea”. All’Europa, insomma, spetta l’ultima parola. E a questa sono aggrappate le speranze dei tarantini. Ancora una volta.

Ilva vuole produrre il doppio: “Sbagliata l’analisi dei danni”

Tutto nasce dal fatto che la fu Ilva non ha più i soldi per funzionare. Non solo l’inaudita sottrazione di quasi 600 milioni di euro alle bonifiche per finanziare interventi sulla produzione (ne parliamo qui sotto), ma anche il carteggio che in questi giorni tiene impegnati Acciaierie d’Italia (la pubblica Invitalia e ArcelorMittal), che ha rilevato gli impianti, il ministero della Transizione ecologica e quello della Salute. L’obiettivo dell’azienda è semplice: poter aumentare subito i livelli di produzione senza bisogno di investimenti e procedure ambientali preliminari.

La fabbrica tarantina che doveva essere messa in condizione di funzionare senza nuocere fin dal 2012 è oggi un buco nero finanziario e ambientale: raddoppiare la produzione (l’anno scorso dovrebbe essersi chiuso al record negativo di circa 3 milioni di tonnellate) comporterebbe un aumento dell’inquinamento, ma farebbe bene ai conti in un momento in cui il prezzo dell’acciaio è molto alto. Su questa strada Acciaierie d’Italia ha un ostacolo bello grosso: la relazione di Arpa e Aress Puglia e della Asl di Taranto del 18 maggio scorso nell’ambito del “Rapporto Vds-Viias 2021”, che sta per Valutazione del danno sanitario e Valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario.

E che dice quel rapporto? Questo: “Dalla presente valutazione emerge la permanenza di un rischio sanitario residuo non accettabile relativo a uno scenario di produzione di 6 milioni di tonnellate/anno di acciaio” da parte dell’ex Ilva. Il rischio in particolare è quello di contrarre un tumore, esperienza che – com’è noto – a Taranto e dintorni capita con una frequenza non normale. La richiesta al Mite era dunque di intervenire “almeno” per completare tutti gli interventi per contenere le emissioni, quelli previsti fin dal sequestro per disastro ambientale del 2012.

L’azienda ora contesta il report e il 17 dicembre ha inviato una bella nota al governo con allegato un parere tecnico (datato 30 novembre) che critica la metodologia adottata da Arpa Puglia & C. e le relative conclusioni: in sostanza cambiando modello – o usandone uno migliore, secondo l’azienda – il rischio tumore risulta molto più basso e dunque si possono produrre 6 milioni di tonnellate fin d’ora senza problemi.

Il ministero della Transizione, fu Ambiente, ha scritto allora il 27 dicembre a quello della Salute chiedendo “un riscontro puntuale sulle criticità evidenziate” perché queste differenze di conclusioni sono “tali da pregiudicare l’eventuale riesame dell’Aia”. Il riesame, in senso restrittivo, dell’Autorizzazione integrata ambientale (sulla base della quale l’Ilva lavora) è proprio quello che la nuova proprietà “pubblica” vuole evitare: il suo principale fautore era l’ex sindaco Rinaldo Meluzzi, defenestrato a metà novembre con le dimissioni dei suoi stessi consiglieri davanti al notaio. Il commissario prefettizio che lo ha sostituito s’è presentato così: “Pensare che un’amministrazione locale debba entrare in conflitto con lo Stato significa non conoscere le regole della democrazia”.

MailBox

 

Paola Severino al Colle e i soprannomi di B.

Non capisco per quale ragione non si parli di Paola Severino quale candidata alla presidenza della Repubblica. Secondo me ha tutte le qualità per soddisfare le prerogative necessarie ed è soprattutto onesta. 1) È laureata in Giurisprudenza; 2) È stata ministro della Repubblica; 3) È conosciuta in Europa in quanto ha operato in varie organizzazioni come l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa); 4) Non è divisiva; 5) È donna. Mi rendo conto che questa classe politica non è capace di vedere al di là della villa di Arcore, ma che diamine, almeno noi cerchiamo di infilare qualche tarlo nella mente di costoro. A proposito, ho una domanda da fare a Travaglio: se B., che abita nella Villa San Martino espropriata alla famiglia Casati attraverso il subdolo contributo del nostro caro avvocato Previti, verrà eletto presidente della Repubblica, potrai continuare ad apostrofarlo puttaniere, evasore, corruttore e quant’altro, o dovrai metterti in riga chiamandolo presidente?

Angelo Ferrara

Credo proprio che continuerò a farlo. Un puttaniere, frodatore fiscale e finanziatore della mafia non smette di esserlo solo perché trasloca sul Colle.

M. Trav.

 

L’Italia è fra le nazioni con più decessi da Covid

I responsabili della mobilitazione salutista presentano l’Italia come il Paese che in tutta Europa ha saputo combattere contro la pandemia con i risultati migliori. I dati statistici provano altro. Prescindendo da quelli fondati su rilevamenti aleatori (circa il numero dei positivi, dei malati asintomatici, paucisintomatici, decessi a domicilio o nelle strutture ospedaliere con diversa gravità), gli unici numeri incontestabili sono quelli relativi ai decessi, ancorché siano incerte le effettive cause di morte. Stando alle cifre ufficiali: in rapporto alla popolazione residente, tra le nazioni europee più popolose, l’Italia è il paese ove proporzionalmente si conta il maggior numero di decessi per Covid-19: fino al 20 dicembre 2021, in Italia ogni 100mila abitanti si sono registrati 224 morti, nel Regno unito 216, in Grecia 192, in Spagna 190, in Francia 186, in Portogallo 184, in Svezia 150, in Austria 146, in Svizzera 138, in Germania 126, nei Paesi Bassi 119. Significativo è il dato concernente la Germania, da taluni descritta come un Paese sull’orlo della catastrofe: dall’inizio della pandemia, su una popolazione di quasi 84 milioni di residenti, ci sono stati 109mila decessi per Covid-19, mentre in Italia 136mila ma con circa 60 milioni di abitanti. Inoltre, poiché si comunicano giornalmente tutti i dati relativi all’evoluzione della pandemia, è lamentevole che le autorità non rendano noto anche l’ammontare di tutti i decessi per cause “non-Covid”. Eppure sarebbe doveroso fornire alla popolazione questo dato, atto a valutare la reale dimensione del fenomeno pandemico.

Guido Bernasconi

 

Cosa insegnano i legami fra Tanzi e la politica

La storia di Calisto Tanzi è l’ennesima conferma che certi nostri politici, che hanno contribuito attivamente al fallimento della sua Parmalat, sono come delle locuste insaziabili che devono mangiare tutto quello che possono, lasciando dietro di loro la devastazione. Se l’estorsione a una ditta viene praticata dalla politica non è considerata una cosa criminale: no, è considerata solo come una richiesta di finanziamento fatta da un “onorevole” gentiluomo del “mondo di mezzo” (Carminati e Buzzi docet). Visto l’appetito infinito delle locuste del Parlamento, secondo me, anche il Caimano rischierebbe il fallimento, se dovesse pagarli tutti per ottenere i voti necessari alla sua elezione come presidente della Repubblica.

Claudio Trevisan

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo di lunedì 3 gennaio, “Autosorveglianza e quarantene: il sudoku si fa ancora più difficile”, è stata aggiunta per errore la firma di Alessandro Mantovani a quella di Andrea Sparaciari. Ce ne scusiamo con i lettori e con gli interessati.

Fq

Dal 2022. “Cari ragazzi, tocca a voi costruire e decidere. Politica-mente”

Care ragazze, cari ragazzi, miei alunni di 33 anni, oggi donne e uomini, padri e madri, lavoratori e lavoratrici, studentesse e studenti: se un Augurio significativo devo pensare, per il Nuovo Anno, a voi mi viene di rivolgerlo, in questi giorni difficili di spaesamento. A voi sento di rivolgere Auguri, ché a voi tocca e toccherà l’onore e l’onere di vivere, partecipare, costruire, decidere negli anni futuri, prossimi e remoti. Molti di voi già sono elettori esperti, altri si avvicinano alla responsabilità di scegliere nel segreto dell’urna: un momento solo, per noi cittadine e cittadini, di esercizio di un Potere per dirigere il Paese. Sapete che mai io ho ‘fatto politica’, nelle tante classi in cui vi ho incontrato, ma sempre ho insegnato Politica-mente (da scrivere così). Chi vi dice di non ‘fare politica’, la fa, più e peggio assai, alle vostre spalle. Politica-mente di tutto avete chiesto di parlare e conoscere e di tutto abbiamo parlato e studiato: delle Donne e degli uomini, dei disabili e delle diversità, dell’Amore e delle famiglie, della violenza e dell’oppressione, delle Libertà. Politica-mente, abbiamo scoperto i Diritti, il Lavoro, vicino a voi nelle vostre famiglie ma anche più lontano, nel tempo e nello spazio, e ne avete ricavato un Rap per fissar bene in memoria che: I Diritti non van dimenticati – Anzi, a tutti, nel Mondo, sparpagliati! Politica-mente abbiamo conosciuto le Istituzioni: le visite in Senato e al Quirinale, l’emozione di sedere in scranni con nomi famosi, di percorrere corridoi e ammirare tavoli e spazi spesso visti in Tv e che, poi, avrete visto ancora serbando il ricordo del legno e dei velluti e delle luci. Quella emozione andava con la conoscenza e lo studio dei ruoli e delle Istituzioni, dei Poteri delle Camere e del Presidente della Repubblica, della Costituzione a fondamento…

Politica-mente abbiamo scoperto le tante mafie, i processi e le figure degli ‘eroi’ e il valore della legalità, le leggi e le persone utili alla comunità, i luoghi dei delitti e dei riscatti. Politica-mente, dunque… Auguro a voi di mantenere chiaro il fondamento della società in cui viviamo, i valori e le regole che ne garantiscono l’equilibrio: lo Auguro a voi e per i vostri figli, Auguro a voi di ascoltare e saper distinguere le parole che aiutano a conoscere e capire idee, dalle parole che rimbombano e lasciano poco o niente di vero. Auguro a voi di ascoltare e sempre esser pronti chiedere e chiedersi il perché, di cercare il perché, anche se sarete stanchi, cercate il perché delle cose. Auguro a voi di mantenere la vostra dignità, rispettando in voi tutti gli altri e di sapervi indignare riconoscendo chi offende la vostra dignità, di persone, uomini e donne, di Cittadine e Cittadini. Auguro a voi di riuscire a distinguere le persone che vi rappresentino, esercitando il Potere in vostro nome: non nonni o padri, ma Concittadini che rivestano con onore e onestà il ruolo delle Istituzioni, ché in nome vostro le rivestono. Auguro a voi di trovare sempre le parole, di non tacere, di levare la voce contro ingiustizie e stupidità, contro l’arroganza e l’indifferenza. Auguro a voi di aver cura di voi e dei vostri cari, del mondo a voi vicino e più lontano: avete le conoscenze e le competenze, gli strumenti, abbiate sempre idee libere e ideali alti. Auguro a voi un mondo migliore, ché a voi tocca costruirlo.

Prof. Eleonora Amatucci

Come convivere oggi col covid

È forse arrivato il tempo di considerare l’infezione da SarSCoV2 e il conseguente Covid, come un’endemia con acutizzazione stagionale. È solo un’ipotesi, ma non subito da scartare. Le considerazioni di partenza sono che, malgrado tutti gli sforzi, non siamo riusciti e siamo sempre più convinti che non riusciremo nel futuro, a eliminare la circolazione del virus. Oggi i positivi accertati sono circa 400 su 100.000 abitanti. Sono sicuramente molti di più e se si diffonderà la variante Omicron (evento ineluttabile) i numeri diventeranno enormi. Ci troveremo davanti alla circolazione di un virus molto infettivo ma (pare) nella maggior parte dei casi asintomatico o paucisintomatico. Questi saranno casi che difficilmente verranno individuati. Il ricorso alle quarantene e agli isolamenti sarà vanificato proprio da questi elementi. Aggiungiamo che la gente è molto provata e, tranne alcuni casi di importante comorbidità, tenderà sempre più a evitare i controlli che costringono a limitazioni della vita sociale e lavorativa. Sono fattori questi, non tutti condivisibili e non auspicabili, ma dobbiamo tenerne conto. I vaccini hanno ridotto le forme severe e la letalità a livelli che potrebbero ancor più abbassarsi con le nuove conoscenze dei periodi di copertura vaccinale. Questa è la novità oggi certa. È il momento di osservare il quadro generale. Se guardiamo l’ultimo report ISS, riguardante il periodo 21 novembre/21 dicembre 2021, alcuni dati sono molto interessanti. I vaccinati con ciclo completo diventati positivi sono 7.107, i non vaccinati 114.664. Le ospedalizzazioni sono nel primo gruppo 284, nei non vaccinati 5.081. I decessi 722, contro 42. I numeri cambiano se si tratta di vaccinati da più di 150 gg. Addirittura i decessi diventano 745, maggiori dei non vaccinati. Quindi, se tutta la popolazione (a esclusione di chi non può) si vaccinasse, con un richiamo a cinque mesi, potremmo vivere senza restrizioni. La normalizzazione della nostra vita è impellente. Credo sia arrivato il tempo di considerare SarSCoV2 un convivente. Non ci resta che sopportarlo con il minor danno possibile, ma necessitano decisioni “forti”.

 

Accadde al Colle: il Krug di Cossiga e il voto su Vespa

Cossiga. Nel 1985, “quando si riunirono i deputati e i senatori della Dc per proporre la candidatura ufficiale del partito, De Mita disse che Cossiga avrebbe potuto farcela subito. Mi raccontò Andreotti di aver resistito a un’offerta comunista di candidarsi. E aggiunse che ‘Forlani mosse un’obiezione di metodo: riflettiamo, la tradizione non è di votare il presidente al primo turno. Allora intervenni: se per la prima volta ci troviamo nella condizione di poter eleggere un democristiano al primo turno, un rifiuto sarebbe un peccato contro lo Spirito Santo. Il Pci diede il suo consenso, anche se non tutto il partito era d’accordo con la proposta’. […] Il 24 giugno 1985 veniva eletto presidente della Repubblica al primo scrutinio”.

Cossiga. Talmente patito dell’elettronica che le compagnie telefoniche gli mandavano i primi cellulari perché li testasse.

Cossiga. Cossiga, scatenato negli ultimi due anni del suo mandato, “riassunse le sue opinioni in un dirompente messaggio inviato alle Camere il 26 giugno 1991: 82 cartelle che furono il certificato di morte della Prima Repubblica. Cossiga chiese l’elezione diretta del capo dello Stato, il sistema maggioritario uninominale per la Camera dei deputati e l’istituzione di referendum propositivi (e non solo abrogativi, come previsto dalla Costituzione). Denunciò la crisi dei partiti e aprì una fase costituente alla quale il Palazzo non era affatto preparato. Andreotti si rifiutò di controfirmare il messaggio e delegò alla bisogna il ministro guardasigilli, Claudio Martelli”.

Cossiga. Nel 1992 Francesco Cossiga “si dimise senza avvertire né Andreotti né De Mita. Per uno dei suoi insondabili guizzi caratteriali, avvertì soltanto il presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, suo nemico irriducibile e critico implacabile negli ultimi anni. Il 25 aprile invitò al Quirinale come testimoni chi scrive, i direttori del Tg2 e del Tg3 e Gianni Letta in rappresentanza delle reti Fininvest. Parlò per 44 minuti. E alla fine pianse. Poi, ci invitò nel suo studio. Si accasciò su una poltrona e ordinò champagne: ‘Non sono più presidente della Repubblica. Pago io’. Bevemmo Krug con euforica malinconia”.

Scalfaro. Scalfaro, da vicepresidente del tribunale di Novara, era stato membro del pool di pubblici ministeri che avevano chiesto e ottenuto la fucilazione di sei fascisti (1945). Uno di questi si chiamava Domenico Ricci e abitava nello stesso stabile del futuro presidente. “La figlia di Domenico gli chiese se il padre fosse colpevole. Sul momento Scalfaro disse alla bambina: ‘Tuo padre è in Paradiso e prega per te’. Dieci anni dopo che il Giornale aveva sollevato il caso, nel 2006, a Pierangelo Maurizio che gli chiedeva chiarimenti per AdnKronos, Scalfaro rispose: ‘Lo interrogai. Era colpevole? Non lo so’”.

Ciampi. Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia e ministro del Tesoro artefice dell’ingresso dell’Italia nell’area euro, non era un economista: aveva invece una laurea in Lettere classiche e una in Giurisprudenza. A Paolo che, quando era direttore generale della Banca d’Italia, se n’era accorto, spiegò: “Si può studiare anche fuori dell’università”.

Ciampi. Ciampi avendo sdoganato la parola “patria” (“la amo perché ci trova tutti uniti in questa comunità di sentimenti”), la moglie Franca Pilla, al momento dell’eventuale rielezione, dichiarò: “Pro patria mori, proprio no”.

Napolitano. Napolitano, tutta la vita a fare ammenda per aver difeso nel ’56 l’invasione sovietica dell’Ungheria.

Napolitano. Il “dolce colpo di Stato” di Napolitano nel 2011, quando fece cadere Berlusconi: definizione di Jürgen Habermas.

Vespa. Nel 2015 Berlusconi propose a Renzi di eleggere al Quirinale lo stesso Bruno Vespa.

Notizie tratte da: Bruno Vespa “Quirinale. Dodici presidenti tra pubblico e privato” Rai Libri, 256 pagine 19

 

Ma i dem non sono (del tutto) guariti dal virus di Rignano

Massimo D’Alema ha collezionato colpe politiche non trascurabili, soprattutto a cavallo tra anni Novanta e Duemila. Non ha mai fatto della simpatia un suo cavallo di battaglia. E non è mai stato esattamente un procacciatore di consensi. Peccato, perché trent’anni fa sembrava il più bravo, o uno dei più bravi, tra gli ex dirigenti ex Pci. È però innegabile come, da qualche anno a questa parte, D’Alema stia dimostrando come le nuove generazioni politiche siano spesso così evanescenti e improponibili da indurre per contrasto l’elettore medio a rivalutare benevolmente non poca parte del “vecchio” entourage. È giusto il caso di D’Alema, che paragonato ai Renzi e derivati vale come minimo Churchill. “Ci vuol poco”, direte voi, “tutti sono più bravi di Renzi”. Eh no: ci vuol poco adesso, ma non negli anni d’oro del renzismo, quando se anche solo osavi criticare la Diversamente Lince di Rignano gridavano all’eresia. Lo sanno bene questo giornale e molti lettori, lo sa bene D’Alema. Il quale, pochi giorni fa, durante il brindisi di fine anno via Zoom con i colleghi (o compagni, se si può ancora dire) di Articolo 21, ha pronunciato queste parole: “La principale ragione per andarcene era una malattia terribile che è guarita da sola”. Ovviamente la malattia è il renzismo. Secondo D’Alema il Pd è guarito, quindi può rientrare nella “Ditta” insieme a Bersani, Speranza e compagnia cantante. Magari fosse vero, magari fosse così facile. D’Alema sa di tratteggiare una realtà molto edulcorata. Certo che il renzismo è una “malattia”. Forse la peggiore malattia della politica italiana degli ultimi anni dopo il berlusconismo, di cui peraltro è una variante persino più vacua e subdola. Nulla è politicamente peggiore di Renzi: neanche Salvini, neanche Meloni. Ed è sempre stato così. Ma la malattia non “è guarita da sola”, perché nel Pd c’è ancora. E D’Alema, che tutto è fuorché scemo o sprovveduto, lo sa benissimo. Lo dimostrano anche solo le reazioni violente alle parole di D’Alema non solo di quel che resta di Renzi e dei Rosato, ma – più ancora – di chi è ancora dentro il Pd: i Marcucci, i Sensi. Lo stesso Letta, di sicuro non accusabile di renzismo, ha reagito con un certo imbarazzo democristiano alle parole di D’Alema: un po’ per carattere, un po’ per calcolo politico, un po’ perché sa di dover tenere a bada troppi renziani dentro al partito. Il Pd è guarito dalla malattia mefitica del renzismo se si pensa ai Provenzano e ai Boccia, e ce ne sono di belle persone in quel partito, ma i renziani sono ovunque in Parlamento e restano sempre troppi a livello comunale, provinciale e regionale (la Toscana è il caso più drammatico). Il Pd è oltremodo migliorato rispetto all’orrore degli anni 2014/2018, ma solo perché peggiorare rispetto a quel periodo era francamente impossibile. E allora perché D’Alema ha accelerato, almeno a parole, il processo (per molti naturale) del ritorno in “Ditta” della costola giustamente malmostosa di Articolo 1? Verosimilmente perché sa che, qualora lui e Bersani (che non credo ne abbia granché voglia) rientrassero, i Marcucci e i Lotti eccetera avrebbero meno peso. E dunque verrebbero ridotti in minoranza, meglio ancora indotti a cambiare aria e partito (da Calenda, per dire, starebbero da Dio. Ma pure da Toti o direttamente Silvio). Ci può stare. Resta però il fatto che la battaglia per creare quel “campo progressista” di cui parla Bersani, sarà ancora lunga. Anzi lunghissima. Per le resistenze anzitutto di parte del Pd e M5S, ovvero dei due maggiori contraenti. Toccherà penare parecchio, inutile farsi illusioni.

 

Nel Pd si attacca D’alema senza affrontare il renzismo interno

Ha fatto rumore il cenno di D’Alema alla “malattia” rappresentata dal renzismo che avrebbe ammorbato il Pd. Titolerei così la polemica: il nome e la cosa. A suo tempo giudicai criticamente tempi e modi della scissione del bersaniano Articolo 1 dal Pd. Si intuiva il destino da sinistra testimoniale e minoritaria. Non che non vi fossero motivi per lasciare il Pd. Anzi. Quella rottura, motivata con oscure ragioni politiciste (data del congresso, conferenza programmatica…), fu semmai tardiva. Altra cosa, più convincente e comprensibile, sarebbe stata, in precedenza, una rottura operata su materie ben altrimenti robuste, politicamente e comunicativamente. Tipo il Jobs act, la “buona scuola”, la riforma costituzionale renziana. Che Renzi avesse operato un doppio deragliamento era già evidente da tempo: 1) la torsione centrista e lo schiacciamento sull’establishment di un “partito ministeriale” in origine concepito come sinistra di governo nel solco dell’Ulivo, 2) la riduzione a partito personale (il pdR) del “più partito tra i partiti” in quanto in rapporto con l’eredità dei partiti organizzati di massa della Prima Repubblica. Fa riflettere la sdegnata reazione alla battuta di D’Alema di varie voci interne al Pd. Reazioni che, nominalisticamente, si accaniscono sulla parola “malattia”, esorcizzando la sostanza del problema. Reazioni classiche da coda di paglia. Domando: davvero chi ebbe responsabilità, attive o passive, nel corso renziano del Pd può permettersi di non interrogarsi sull’approdo presente del suo attore-protagonista? Cioè su un politico accreditato come leader della sinistra italiana che oggi, sempre più spesso, fa asse con la destra. La cosa non getta una eloquente luce retrospettiva su quella stagione? Troppo facile raccontarsi e raccontare che il Renzi di oggi non avrebbe rapporto politico alcuno con il Renzi di ieri. A ben riflettere, l’esorcismo di molti esponenti Pd di oggi trova una spiegazione. La seguente: in quel tempo non breve, il confronto dentro il Pd fu pressoché assente. Gli organi del partito e i luoghi istituzionali di esso deputati a discutere erano silenziati. Renziani lo erano pressoché tutti. La sinistra interna – quella che oggi si racconta come tale – conosceva due sole varianti: quella di chi, muto politicamente, volentieri si accomodava su poltrone ministeriali o svolgeva con compiacenza sino al servilismo ruoli apicali nel partito (su tutte, la presidenza dell’assemblea spacciata per presidenza del partito) e quella di chi, con pose da intellettuale, si prestava a fare la parte dell’opposizione di sua maestà. Offrendo un apprezzato tocco… estetico. Oppositori così erano perfettamente funzionali allo strapotere di Renzi. Del resto, tutti rammentano il brutale licenziamento di Letta da Palazzo Chigi, ma pochi ricordano che la sua causa prossima fu un deliberato del partito la cui primogenitura è attribuibile alla sedicente sinistra interna. Lui stesso, Renzi, non a caso, spesso ancora oggi e non a torto, fa memoria della legione degli zelanti supporter di allora poi precipitosamente convertitisi in detrattori. Faccio fatica a fare un solo nome – con l’eccezione di Bersani tuttavia a lungo trattenuto dal riflesso unitarista del partito-ditta di scuola comunista – cui riconoscere un ruolo di reale opposizione al tempo del Renzi regnante. Posso comprendere che il suo ex portavoce rivendichi quella esperienza, ma sorprende la circostanza che altri si sottraggano a una franca discussione critica al riguardo. Di sicuro ciò non rappresenta un presupposto propizio alla costruzione, quantomai necessaria e urgente, di una sinistra e di un centrosinistra larghi e nuovi nei quali un po’ tutti si mettano in discussione. Non si vogliono fare i conti con la torsione identitaria renziana comunque la si chiami? Allora ci si interroghi su tre questioncelle tipo: un major party del campo progressista inchiodato al 20%, il divorzio dai ceti popolari, l’abitudine di stare al potere non avendo vinto le elezioni.

 

Mattarella, la retorica che distrugge i giovani

Nella speranza di non irritare l’ufficio stampa del Quirinale e di non attirarci, su sua imbeccata irridente, gli insulti dei corazzieri stampa+social, ci permettiamo una piccola critica su un passaggio del discorso di fine anno del Presidente Mattarella. Ricordando i giovani incontrati in questo settennato (“giovani che si impegnano nel volontariato, giovani che si distinguono negli studi, giovani che amano il proprio lavoro… giovani che emergono nello sport, giovani che hanno patito a causa di condizioni difficili e che risalgono la china imboccando una strada nuova”), Mattarella li ha esortati facendo sue le parole della lettera ai giovani del professor Pietro Carmina, vittima del crollo di Ravanusa: “Infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non adattatevi, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete… caricatevi sulle spalle chi non ce la fa… Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare”. Parole poetiche sulla pagina, che calate nella realtà contengono una retorica insidiosa. L’idea che le cose per i giovani vadano male perché non si sporcano le mani e non rischiano abbastanza è uno dei capisaldi dell’ideologia ultraliberista, di più: ne è il software di funzionamento. Che l’inazione giovanile dipenda esclusivamente dalla loro volontà, e non dal fatto che un sistema sociale impedisce loro di “mordere la vita” perché è stato costruito a loro scapito, è un alibi che la classe dirigente gioca a suo favore per mantenere inalterati gli attuali rapporti di forza. Rapporti che le élite hanno disegnato negli ultimi 40 anni nella illusione (ma sarebbe meglio dire nella frode) che le forze del mercato, lasciate a sé stesse, avrebbero stabilito il peso sociale di ciascun individuo, inserito dentro un flusso di poteri che esso è perfettamente in grado di governare semplicemente “volendolo”.

È una ideologia manipolatoria e fallace costruita sulla grande impostura del “merito”, che ultimamente sposa la stucchevole retorica della “resilienza”. Che ne è dei giovani non meritevoli, che non emergono negli studi perché magari studenti-lavoratori? Che ne è di coloro che non possiedono resilienza, la qualità dei materiali di assorbire gli urti senza rompersi, perché sono esseri umani e non pezzi di PVC?

Se i giovani sono impietriti, respinti, impotenti, è perché la scuola è stata distrutta da anni di riforme aziendaliste; perché le condizioni di partenza non sono affatto uguali per tutti e l’assetto sociale cristallizza le disuguaglianze invece di ridurle. La retorica della resilienza presuppone che i giovani falliscono se non sono abbastanza assertivi, competitivi, performanti. Sono loro che non sanno risalire la china, perché il sistema sarebbe perfettamente in grado di sostenerli. In questo modo ogni disuguaglianza è stornata e messa in capo al carattere e al temperamento di ciascuno. Eppure la “docilità” dei giovani è andata bene al potere, quando sono stati costretti ad accettare la cosiddetta alternanza scuola-lavoro (che consiste nel farli lavorare gratis negli autogrill o simili, per proiettarli meglio nello sfruttamento futuro) o il Jobs act, con cui è stato distrutto lo Statuto dei Lavoratori.

Il loro volontariato è stato usato dal potere per stabilire che il sacrificio dei giovani non andasse mai pagato, idea che è stata esportata agli stage e ai tirocini, spesso indistinguibili dal lavoro dipendente, e infine anche al lavoro parcellizzato.

Che il merito non funzioni lo prova un dato: quanti laureati ci sono tra runner, corrieri, etc.? E i padroni, quelli che ce l’hanno fatta, si sono affermati per via di un superiore talento, o, invece, hanno potuto “imboccare una strada nuova” contando su capitali di partenza, fortuna dinastica, capacità di rischio? Intanto aumentano i lavoratori poveri, cioè persone che pur lavorando non hanno i mezzi per vivere dignitosamente; e dovrebbero anche amare il loro lavoro? All’elogio del mettersi in gioco e della voglia di fare segue sempre l’esplicita o implicita colpevolizzazione di chi “sta sul divano”, dei “bamboccioni”. È la retorica dello spaccarsi la schiena, secondo Renzi, che il reddito di cittadinanza lo chiama “di criminalità”, mentre gli altri danno per scontato che lo prendano i lavativi, i vili che “non rischiano”. L’esortazione di Mattarella ai giovani avrebbe dovuto essere accompagnata da un appello reciso ai “datori di lavoro” a pagarli meglio e ai politici affinché non facciano riforme anticostituzionali e stabiliscano per legge un salario minimo; altrimenti il vuoto delle parole rimbalza contro una struttura micidiale. Infine, non sono i giovani a doversi caricare sulle spalle chi non ce la fa: è lo Stato che deve farsi carico dei più deboli. I performanti si tutelano da soli; gli sfiancati, i poco entusiasti, i non resilienti che non mordono la vita, chi li tutela?

 

L’abilità degli agenti immobiliari, il saggio cinese e il rinoceronte

Ogni custode moderno del fuoco sacro, della sensitività e della malinconia primigenia, si difende da questa nostra civiltà intesa al successo coltivando la pazienza cordiale e la volontà silenziosa, affinché la sua vita prosegua serrata, e si arricchisca: lentissimamente, ma senza sperperare nulla. E poiché la vita ideale si sviluppa per profondità e modo (essa è tema, è forma), niente di meglio che affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.

Mi ha sempre fatto sorridere il vezzo giornalistico di redigere pagelle con voti, appioppate al politico/artista/sportivo di turno. A scuola chi dà pagelle è il prof di una materia, ma questo ruolo il giornalista se lo autoassegna, nonostante non tenga un corso di studi, la sua competenza sia tutta da dimostrare, e il politico/artista/sportivo non sia un suo allievo. Il giornalista che dà voti a destra e a manca sta solo sfoggiando la sua presunzione: è un ridicolo gagà da tastiera. Giù dalla cattedra e solo opinioni argomentate, grazie. Voto: 5.

Il vero motivo per cui le famiglie italiane non hanno in casa un rinoceronte, a giudicare da certe resse, è che non puoi comprarlo in saldo.

New York. Strand Bookstore, storica libreria dell’usato, ha perso Ben McFall, il libraio che dagli anni 70 guidava i clienti nelle budella del negozio pantagruelico (28 chilometri di scaffali sovraccarichi che ogni volta impiegavo una settimana a perlustrare con cautela). McFall, malato da tempo, è morto a 73 anni in seguito a una caduta. “The cause was a fall” scrive il New York Times con un eufemismo classico. McFall, fall. Ironia di Ben.

L’abilità degli agenti immobiliari mi spaventa. “Sì, avrei una casa in vendita a soli 10.000 euro. Ha alcuni svantaggi: a nord c’è un’acciaieria, a sud la discarica comunale, a est una fabbrica di vernici e a ovest un’azienda di materie plastiche. Il vantaggio è che sai sempre da che parte tira il vento. Vogliamo fare un salto a vedere se è ancora in piedi?”.

Alle feste sembro sempre quello che sta per andar via, poi sono sempre l’ultimo ad andarmene, verso le 4 del mattino, e con riluttanza. Che è anche il modo in cui vorrei morire.

Una delle cose più gustose nella vita è scoprire che fine hanno fatto le ragazze bellissime che trent’anni fa ti diedero il due di picche dopo che ti eri dichiarato. “Ti amo” “Adesso le ho sentite tutte”.

Sto diventando sentimentale. Ieri ho guardato la ragazza con cui sto da 3 anni, le ho accarezzato i capelli e le ho detto: “Come ti chiami?”.

Come diceva un saggio cinese dell’anno Mille, “bisogna fare qualcosa di più della banale perfezione”. La maestria non è nella perfezione formale, ma nel non temere l’imperfez