Pubblichiamo l’intervento di Furio Colombo sullo scrittore, editor, traduttore, giornalista e critico Enrico Filippini: il testo è edito, con altri, nel catalogo della mostra in corso a Bergamo “Enrico Filippini. Disegni” (La nave di Teseo – Fondazione Elisabetta Sgarbi, 12 ).
Filippini era nomade. Lo era nella sua scrittura, nella sua ricerca, nel suo immaginare e poi raccontare in modo sempre diverso. Come tutti i nomadi era di umore stabile, più in rapporto con se stesso che con il luogo e le persone. Gli importava e stava attento, ma non lo smuovevi di molto, se non con il racconto di cose nuove.
I nomadi sono esploratori e, come i cani siberiani husky, tendono, pur restando attenti al paesaggio, a proseguire la loro corsa. Aveva certe sue mete che non condivideva e sulle quali non ti narrava nulla, non in anticipo. Sapevi di segmenti dei percorsi precedenti ma senza spiegazioni. Certe volte pensavi che avesse buste chiuse che avrebbe aperto durante il viaggio per sapere, solo lui, a un certo punto, quale fosse la destinazione.
Nonostante ciò aveva case. Non sempre le stesse case. Certe volte sue, certe volte di amiche (sorprendentemente belle in modi diversi, se erano in casa), certe volte in luoghi ordinati e milanesi (poche cose di ottimo gusto). Il parlarne al plurale fa pensare a tanti posti, evoca un viveur con molto appeal. C’è un equivoco, ma lo seguo volentieri. Saranno state due o tre le case di cui sto parlando, ma, quando ti veniva ad aprire, era sempre un altro, in un altro posto. Posto nuovo, compagna nuova, nuove le cose (c’era sempre bellezza) che vedevi intorno. Non serviva chiedere spiegazioni perché la sua conversazione tornava sempre alla ragione del nostro incontro, quasi sempre il lavoro. Lavoro mio (nessuno leggeva con la sua attenzione e la sua bravura e capacità di cogliere cambiamenti e dettagli) o lavoro suo, più la strategia del “che fare” che la discussione sul “come fare”.
Come vedete la memoria è lieta e confusa, ma non intendo dire “imprecisa”. Per esempio ricordo benissimo che il nostro ultimo incontro è avvenuto in un ristorante di Roma che si chiamava Santa Ana (pretendeva di essere messicano) e anche adesso si chiama Santa Ana: lo vedo quasi ogni giorno se vado verso piazza del Popolo, e mi ricordo di una lunga conversazione (drink pre-serale, poi cena, poi notte), in cui c’era anche il fatto, appena accennato, della sua salute, senza una piega di sentimento o di ansia o di paura. La conversazione filava come un treno e c’erano dentro ampi pezzi di mondo, personaggi, autori, eventi, libri, articoli, incontri e fatti nuovi che stavano per accadere.
I suoi disegni, inaspettatamente belli e professionali, li avevo visti in quel giro di case diverse che forse oggi sono evocate dalla mia immaginazione. I disegni no. Era il tempo della mia frequentazione e amicizia con pittori italiani e pittori americani, tutti emergenti, tutti già noti (allora andavo e venivo fra le due coste). E dunque tempi di gallerie, critici, mostre, confronti, discussioni, battibecchi, litigi.
Filippini era sistemato fra i rami solidi della scrittura in cui viveva, con una sua grazia cavalleresca (come se avesse legato il cavallo all’albero), continuamente redarguito da Eco perché subito dopo avere affrontato con bravura, raffinatezza e cultura aspetti nuovi o ignoti dei suoi personaggi, prontamente cambiava strada e vagava in altre praterie.
Mi piacevano i disegni, mi piacevano molto perché riconoscevo il tratto di qualcuno che racconta, anche graficamente, avendo già in mente il senso del personaggio e della sua storia. Gli avevo chiesto di non tenerli così, in giro, e senza protezione. Ne volevo uno. Filippini (Enrico, ma lo chiamavamo Nanni) non aveva alcuna voglia di decidere. Quei disegni – che, come si vede, non sono da principiante e hanno (nei volti di donne) una forza che ti ferma e ti trattiene, e di cui vuoi sapere la storia – erano una delle parti della sua vita. Filippini non aveva ancora deciso di metterla in ordine. Non l’aveva deciso con nessuna parte della sua vita. E non lo ha mai deciso. Tutto era in uno stato di lunga, giovane sospensione, eppure lui era uno straordinario produttore di nuovo e di inatteso (come i suoi memorabili articoli per Repubblica).
Godersi la vita, per Filippini, era lasciare le sue cose sparse nello spazio largo e libero delle sue conversazioni, produrne altre fra un mese o anche subito, e poi si vedrà. Uno dei tratti di libertà che rendeva diverso (unico) il lavoro giornalistico (come sembra piccola la parola) di Filippini, era la contrapposizione fra la qualità della sua competenza culturale (letteraria e filosofica, ma anche storica) e il suo distacco netto dal mondo universitario, dove otteneva attenzione e rispetto ma non appartenenze o disciplina. Il caso è raro, perché i cattedratici sono distruttivi se sfiorati troppo da vicino da voci laiche. Filippini passava intatto perché insolitamente colto. Ma anche insolitamente carico di interessi e di percorsi nuovi anche su strade che si ritenevano già tracciate.
Personaggi come Filippini raramente hanno la doppia cittadinanza, scritta e orale. Filippini l’aveva, e diventava facilmente il centro dell’attenzione e il compagno desiderato di un incontro in pubblico. Era spiritoso ma non ne faceva un mezzo di attenzione e comunicazione. Era un abilissimo divulgatore, ma non avrebbe bloccato su una sua tesi il senso della conversazione. Divagava volentieri, invece, come espediente per togliere peso alla mia o alla sua persuasione di qualcosa.
Ma il suo disegnare non era un di più, come qualcuno che fa figurine ai margine del foglio. Erano un altro strumento, non marginale (troppo belli) non secondario (la mano dell’autore non sembra vagare), troppo legato a un suo racconto che non era quello delle tantissime pagine sparse, pubblicate e non pubblicate. Vale la pena di avere, o almeno di vedere quei disegni per sapere di più (forse molto di più) di uno scrittore che ha contato molto ai tempi del Gruppo 63, dell’avanguardia, del nuovo.