Filippini, maestro di disegno, di giornalismo e di donne

Pubblichiamo l’intervento di Furio Colombo sullo scrittore, editor, traduttore, giornalista e critico Enrico Filippini: il testo è edito, con altri, nel catalogo della mostra in corso a Bergamo “Enrico Filippini. Disegni” (La nave di Teseo – Fondazione Elisabetta Sgarbi, 12 ).

 

Filippini era nomade. Lo era nella sua scrittura, nella sua ricerca, nel suo immaginare e poi raccontare in modo sempre diverso. Come tutti i nomadi era di umore stabile, più in rapporto con se stesso che con il luogo e le persone. Gli importava e stava attento, ma non lo smuovevi di molto, se non con il racconto di cose nuove.

I nomadi sono esploratori e, come i cani siberiani husky, tendono, pur restando attenti al paesaggio, a proseguire la loro corsa. Aveva certe sue mete che non condivideva e sulle quali non ti narrava nulla, non in anticipo. Sapevi di segmenti dei percorsi precedenti ma senza spiegazioni. Certe volte pensavi che avesse buste chiuse che avrebbe aperto durante il viaggio per sapere, solo lui, a un certo punto, quale fosse la destinazione.

Nonostante ciò aveva case. Non sempre le stesse case. Certe volte sue, certe volte di amiche (sorprendentemente belle in modi diversi, se erano in casa), certe volte in luoghi ordinati e milanesi (poche cose di ottimo gusto). Il parlarne al plurale fa pensare a tanti posti, evoca un viveur con molto appeal. C’è un equivoco, ma lo seguo volentieri. Saranno state due o tre le case di cui sto parlando, ma, quando ti veniva ad aprire, era sempre un altro, in un altro posto. Posto nuovo, compagna nuova, nuove le cose (c’era sempre bellezza) che vedevi intorno. Non serviva chiedere spiegazioni perché la sua conversazione tornava sempre alla ragione del nostro incontro, quasi sempre il lavoro. Lavoro mio (nessuno leggeva con la sua attenzione e la sua bravura e capacità di cogliere cambiamenti e dettagli) o lavoro suo, più la strategia del “che fare” che la discussione sul “come fare”.

Come vedete la memoria è lieta e confusa, ma non intendo dire “imprecisa”. Per esempio ricordo benissimo che il nostro ultimo incontro è avvenuto in un ristorante di Roma che si chiamava Santa Ana (pretendeva di essere messicano) e anche adesso si chiama Santa Ana: lo vedo quasi ogni giorno se vado verso piazza del Popolo, e mi ricordo di una lunga conversazione (drink pre-serale, poi cena, poi notte), in cui c’era anche il fatto, appena accennato, della sua salute, senza una piega di sentimento o di ansia o di paura. La conversazione filava come un treno e c’erano dentro ampi pezzi di mondo, personaggi, autori, eventi, libri, articoli, incontri e fatti nuovi che stavano per accadere.

I suoi disegni, inaspettatamente belli e professionali, li avevo visti in quel giro di case diverse che forse oggi sono evocate dalla mia immaginazione. I disegni no. Era il tempo della mia frequentazione e amicizia con pittori italiani e pittori americani, tutti emergenti, tutti già noti (allora andavo e venivo fra le due coste). E dunque tempi di gallerie, critici, mostre, confronti, discussioni, battibecchi, litigi.

Filippini era sistemato fra i rami solidi della scrittura in cui viveva, con una sua grazia cavalleresca (come se avesse legato il cavallo all’albero), continuamente redarguito da Eco perché subito dopo avere affrontato con bravura, raffinatezza e cultura aspetti nuovi o ignoti dei suoi personaggi, prontamente cambiava strada e vagava in altre praterie.

Mi piacevano i disegni, mi piacevano molto perché riconoscevo il tratto di qualcuno che racconta, anche graficamente, avendo già in mente il senso del personaggio e della sua storia. Gli avevo chiesto di non tenerli così, in giro, e senza protezione. Ne volevo uno. Filippini (Enrico, ma lo chiamavamo Nanni) non aveva alcuna voglia di decidere. Quei disegni – che, come si vede, non sono da principiante e hanno (nei volti di donne) una forza che ti ferma e ti trattiene, e di cui vuoi sapere la storia – erano una delle parti della sua vita. Filippini non aveva ancora deciso di metterla in ordine. Non l’aveva deciso con nessuna parte della sua vita. E non lo ha mai deciso. Tutto era in uno stato di lunga, giovane sospensione, eppure lui era uno straordinario produttore di nuovo e di inatteso (come i suoi memorabili articoli per Repubblica).

Godersi la vita, per Filippini, era lasciare le sue cose sparse nello spazio largo e libero delle sue conversazioni, produrne altre fra un mese o anche subito, e poi si vedrà. Uno dei tratti di libertà che rendeva diverso (unico) il lavoro giornalistico (come sembra piccola la parola) di Filippini, era la contrapposizione fra la qualità della sua competenza culturale (letteraria e filosofica, ma anche storica) e il suo distacco netto dal mondo universitario, dove otteneva attenzione e rispetto ma non appartenenze o disciplina. Il caso è raro, perché i cattedratici sono distruttivi se sfiorati troppo da vicino da voci laiche. Filippini passava intatto perché insolitamente colto. Ma anche insolitamente carico di interessi e di percorsi nuovi anche su strade che si ritenevano già tracciate.

Personaggi come Filippini raramente hanno la doppia cittadinanza, scritta e orale. Filippini l’aveva, e diventava facilmente il centro dell’attenzione e il compagno desiderato di un incontro in pubblico. Era spiritoso ma non ne faceva un mezzo di attenzione e comunicazione. Era un abilissimo divulgatore, ma non avrebbe bloccato su una sua tesi il senso della conversazione. Divagava volentieri, invece, come espediente per togliere peso alla mia o alla sua persuasione di qualcosa.

Ma il suo disegnare non era un di più, come qualcuno che fa figurine ai margine del foglio. Erano un altro strumento, non marginale (troppo belli) non secondario (la mano dell’autore non sembra vagare), troppo legato a un suo racconto che non era quello delle tantissime pagine sparse, pubblicate e non pubblicate. Vale la pena di avere, o almeno di vedere quei disegni per sapere di più (forse molto di più) di uno scrittore che ha contato molto ai tempi del Gruppo 63, dell’avanguardia, del nuovo.

“Il cugino Raimondo era snob e per Mina ho perso la testa”

Entusiasta lo è, Edoardo Vianello. Da decenni non c’è estate senza uno dei suoi brani; i tormentoni stagionali passano, ma Guarda come dondolo, I Watussi o Pinne, fucili ed occhiali restano nell’aria, quelle note fanno parte della memoria collettiva, dell’immaginario legato a spensieratezza e allegria (“Pensare che allora non ero così contento: mi sentivo perennemente fuori luogo, imbarazzato, timido. Invece se riguardo le foto del tempo, non ero neanche male fisicamente”).

Edoardo Vianello è un signore di 81 anni ben portati, gli occhi vispi, la leggerezza è una scelta di vita, consapevole, non scontata e neanche obbligata. Si conosce e sa perfettamente qual è il suo posto, “conquistato negli anni, perché per un periodo i miei brani sono stati fischiati”.

Rappresenta uno spicchio di gioia del Paese.

Quando ho iniziato a occuparmi di musica, ero convinto che le canzoni dovessero divertire, quindi non mi sono mai posto il problema di raccontare storie drammatiche; poi i Sessanta sono stati vissuti come il periodo dell’entusiasmo, dell’incoscienza, della voglia di azzardare.

Mai costretto nel ruolo?

No, mi piace proprio; e sono andato avanti con un genere musicale che di solito non cattura il pubblico.


L’Alligalli
è la terza canzone italiana più ascoltata della storia.

Se la gioca con Volare e Caruso (sorride). Non me ne rendevo conto.

Davvero?

Ero pessimo, non capivo cosa avveniva attorno a me; mi bastava la musica: tutto quello che ho concluso è frutto della mia incoscienza e ignoranza.

Insomma, le sue hit.

Un tempo sono state un problema; quando mi invitano vogliono sentire solo quelle, non posso proporre altro, e all’inizio ho lottato, poi mi sono rassegnato e oggi le sostengo fino alla morte.

Brani fondamentali per Il Sorpasso.

Anche lì, non lo sapevo.

Cioè?

Nel 1962 vado al cinema per vedere il film, e scopro la scena di Gassman che canta il mio pezzo, e gli altri che ballano il twist. Divento rosso. Ero totalmente all’oscuro.

Possibile?

I diritti erano materia dell’editore, non mia.

Ha recitato nei musicarelli?

Mai, ho solo partecipato a Sapore di mare nei panni di me stesso. E basta. Non me l’hanno mai chiesto.

_Strano…

C’è un punto: sono strafelice della carriera, però sono sempre stato identificato con le mie canzoni, e poco come Edoardo Vianello; solo con il passare dei decenni si è assottigliata questa forbice, ma nei Sessanta era così.

Lo ha patito.

Un po’ sì, ero un interprete apprezzato e non un personaggio; il mio strumento di comunicazione era il juke boxe, e da lì poteva cantare chiunque; eppure i miei brani erano gettonatissimi.

Si scocciava.

Se giravo con Little Tony fermavano lui, anche se avevo più successo; mi sono rifatto ai tempi de I Vianella (duetto formato con la moglie di allora, Wilma Goich)), dove accadeva esattamente il contrario: cercavano i personaggi, i due bassetti insieme, non i brani (ci ripensa). Al tempo ero un po’ anticotto…

In che senso?

Se riguardo le foto di allora penso: cacchio ero proprio carino, perché non ne ho approfittato?

E invece…

Mi sentivo goffo e fuori moda, vestivo sempre con la giacca e la cravatta, mentre gli altri uscivano stracciati e suscitavano furore.

Tre mogli: non si può lamentare.

Le donne sono state una fissa, però mi piaceva conquistarle per il mistero che c’era dentro di me, non per l’apparenza.

Un suo grande amico è stato Franco Califano…

Conosciuto nel 1964: la prima volta che l’ho visto era accompagnato da due splendide ragazze. Venne accolto con gioia nella comitiva.

Califfo docet.

Quella sera subito spavaldo, poi a un certo punto mi prese da parte: ‘Scrivo poesie’. Sembrava impossibile. Non vedevo un animo alto davanti a un playboy.

Errore.

Inizia a declamarne una sull’amicizia, resto strabiliato. ‘Perché non provi a comporre un testo musicale?’. ‘Mai cimentato’. Gli spiego la differenza, alcune tecniche, la necessità di un ritornello. Passano cinque giorni e si presenta con cinque testi.

E dopo?

Subito amici: lui bello, io famoso.

Accoppiata vincente.

Interrotta dopo il matrimonio con Wilma.

Lo ha frequentato anche nel suo periodo nero?

La fase meno lucida è iniziata presto, un giorno, insieme ad altri, lo abbiamo portato di peso in una clinica per disintossicarsi; poi l’arresto gli ha causato un crollo psicologico, e dopo ha iniziato a cantare e a costruire il suo personaggio.

Con la voce roca da fumo…

(Sorride) Si fumava qualunque cosa prendesse fuoco.

Lei non beve e non fuma.

Sempre così, sin dall’inizio: ho preso questa professione in maniera seria, anche grazie all’educazione dei miei, più una forte timidezza. Diventavo rosso, e ancora capita.

E sul palco?

Se sono lì per cantare, me li magno tutti, ma se è per un’intervista, cado nell’imbarazzo; solo da qualche anno ho deciso di comunicare con il pubblico e ho iniziato a montare piccoli monologhi.

Cosa racconta?

I miei spettacoli iniziano sempre con Pinne, fucili ed occhiali, più I Watussi.

Subito.

Me li voglio togliere dai coglioni, altrimenti c’è sempre qualcuno che mi tormenta e li chiede in continuazione.

Giusto.

Poi racconto gli esordi, e del mio cruccio nei primi anni di carriera: incidevo un grandissimo successo, ma c’era sempre qualcuno che mi fregava.

Birbanti.

Nel 1961 canto Il capello, ma Gianni Meccia vince con Il pullover; nel 1962 è la volta di Pinne, fucili ed occhiali e Guarda come dondolo; Gino Paoli pubblica Sapore di sale. L’anno dopo Abbronzatissima e I Watussi, e Rita Pavone esce con La partita di pallone, tra l’altro scritta da me…

E cavolo.

Allora mi lancio sull’invernale: Sul cucuzzolo della montagna. Morandi pubblica In ginocchio da te.

Eh, no.

Non li potevo vede’.

Il suo antagonista?

Nico Fidenco: gli andava tutto bene. Oggi siamo amici.

Torniamo ai suoi genitori.

Fino al matrimonio sono rimasto a casa, mi dispiaceva dirgli ‘dormo fuori’. E poi mamma era una figura importante.

Contenti della sua carriera?

Mio padre no, e fino al 1963; ha cambiato idea dopo I Watussi; prima derubricava la musica a passione passeggera, un gioco da ragazzi. E anche io.

Cosa desiderava per lei?

Da uomo di cultura era interessato solo alla preparazione e il mio andare male a scuola era il suo più grande dolore: ogni volta che gli consegnavo una pagella mi puniva con il silenzio prolungato. Pure di mesi.

È sempre stato etichettato come di destra.

E mio padre lo era seriamente: un poeta futurista, ha seguito D’Annunzio a Fiume. Difendeva la sua epoca.

Amava le sue poesie?

Le ho scoperte solo di recente e in occasione del centenario di Marinetti: non avevo capito il suo reale valore, per questo ho recuperato 38 componimenti straordinari e li ho pubblicati grazie a mia moglie. Ah, da poco ho capito anche perché mio padre era figlio di NN da parte di madre.

Come mai?

Ovviamente è la storia di amore impossibile e di scelte difficili; all’epoca ci ha causato qualche incomprensione dentro la famiglia.

Tipo?

Raimondo Vianello è mio cugino e la sua parte ci trattava un po’ con la puzza sotto il naso, in fin dei conti lui era figlio di una marchesa e di un ammiraglio; il nostro rapporto è sempre stato solo affettuosamente diplomatico: non è mai venuto a un mio concerto.

Non c’era simpatia.

Era un tipo abbastanza scuro, come accade spesso ai grandi comici.

Ha iniziato a suonare con Morricone.

La Rca mi aveva proposto Luis Bacalov, ma Ennio era già un fuoriclasse, tutto quello che toccava acquisiva un quid in più; con un nostro pezzo sono andato a Sanremo.

Per lei il Festival non è mai stato decisivo.

Sempre lo stesso discorso: lì conta più l’immagine e alla mia terza partecipazione ho cantato Nasce una vita, era il giorno successivo al suicidio di Luigi Tenco.

Tempo perfetto.

Che imbarazzo.

La sua idea della morte di Tenco?

In quel periodo non era proprio capace di intendere e volere, e lo conoscevo bene, eravamo molto amici.

Cupo.

Per niente! Simpaticissimo, assatanato di donne, un po’ come Paoli.

Altro…

Gino vinceva con questo suo atteggiamento sempre in disparte. Micidiale. A un certo punto nell’ambiente s’iniziò a favoleggiare sulle sue doti intime.

Ha scritto per Mina.

Per lei mi ero preso una bella cotta.

Forte?

È stata decisiva per la mia carriera, da sconosciuto mi ha invitato a Studio Uno.

Lei disperato.

Prima di entrare in diretta ero agitatissimo; arriva Mina, se ne accorge, e risolve la questione: ‘Prendi questa pillola’. ‘Va bene’. Risultato: sono rimasto sveglio due giorni.

E che era?

Boh.

Come ha conosciuto Mina?

Nel 1959 ero in una compagnia di prosa, e con i soldi guadagnati avevo comprato una Fiat 600 usata: con un amico decido di partire e girare l’Italia a caccia di cantanti ai quali proporre i miei pezzi.

Grand tour.

Una volta a San Benedetto del Tronto vediamo uno striscione: ‘Giovedì, Mina’. Era martedì. Ci accampiamo, raggiungiamo il locale, conosciamo il proprietario, gli spieghiamo il perché di quella gita, lui sorride e il giovedì ci presenta Mina. Che esordisce: ‘Edoardo Vianello? Ho sentito parlare di te’.

Perfetto.

La sera, a metà della sua esibizione, annuncia: ‘C’è qui un mio amico molto bravo’. E mi invita a cantare. Finito lo spettacolo mi ferma: ‘Voglio ascoltare le altre tue canzoni. In che albergo sei?’.

Ahi…

Dal mio imbarazzo intuisce la verità, ci invita nell’appartamento che aveva affittato, e ci mette a disposizione la spider. Ho perso la testa per lei.

Lei oltre la musica.

Fin da bambino fotografo le fontane di Roma: sono a 3.560 scatti.

Cosa le piace?

È l’unico monumento che si muove.

Depresso?

Mai, ho provato solo momenti di sconforto, in particolare quando nel 1969-70 ho fondato una casa discografica, Wilma era incinta e dovevo rispondere di una multa con il Fisco. Non c’era una lira…

Al verde.

Dopo il 1966 ho iniziato a non lavorare più, le mie canzoni venivano vissute come un fastidio per via dell’onda sessantottina. E pure il pubblico fischiava.

Quindi?

Ho pensato: ‘Ma chi me lo fa fare?’. E mi sono messo da parte.

Durato?

Fino a quando non sono nati I Vianella, poi l’altra esplosione c’è stata con Sapore di mare e a due cover di Ivan Graziani.

Compare nel film.

Tutto nato da una casualità: esco da un ristorante di Roma, piove forte, mi riparo in un portone e trovo Jerry Calà. Ci salutiamo. Mi racconta del progetto cinematografico, io mi propongo e dopo tre giorni arriva la chiamata.

Agli inizi della sua casa discografica ha lavorato con Renato Zero.

Purtroppo non sono riuscito a dare il mio contributo alla sua carriera: la mia etichetta veniva distribuita dalla Rca e tutti i progetti dovevano ottenere la loro approvazione. Niente. Così a un certo punto l’ho liberato.

La Rca s’imbarazzava.

Era legata al Vaticano, e Renato per l’epoca era un azzardo: quando camminavamo per strada, ci urlavano di tutto; un giorno l’ho portato da un sarto: ‘Ora ti prendi un vestito normale’.

Il suo opposto.

Anche come carattere, lui istrionico, io ovviamente no.

Già cantava O mio signore

Mica mi piace tanto.

Davvero?

Non mi appartiene. O meglio: non rappresenta il mio stile, poteva scriverla chiunque. Mentre sono quello de I Watussi e così voglio essere ricordato. Per sempre.

(Perché lui, pur non altissimo, ogni tre passi ha comunque fatto sei metri)

Il caso è un valore anche all’inferno

Eraclito ha detto che il carattere è il nostro destino. Esistono qualità innate, ma il carattere si sviluppa durante la prima infanzia; prima quello psicologico, poi quello morale, dopodiché quello intellettuale. Alla fine, il carattere diventa il nostro destino. Il destino umano – come ha scritto Machiavelli – non è determinato dalle costellazioni. Mia figlia e una delle mie nipoti mi hanno portato delle vecchie foto. In una ho un anno, in altre quattro. Cosa significa che queste foto mi rappresentano? Perché dico “io” di questa bambina? Cosa sapeva del mondo questa piccolina di un anno? Cosa pensava?

So da mia madre che all’epoca “io” sapeva già parlare e che a un anno e mezzo aveva l’abitudine di camminare intorno a un tavolo per un’ora intera. Forse sapeva già che “io” era “io”, almeno vi scopriva alcuni dei miei tratti caratteriali odierni: non stancarmi mai di camminare, né di parlare, osservare sempre con curiosità il mondo. Alcuni aspetti del carattere sono prevalentemente genetici o comunque innati, ma anche la casualità è fondamentale: il caso per cui mi sono trovata a intraprendere le cose.

Per caso ho avuto un padre che, prima di addormentarmi, mi leggeva poesie ungheresi tra cui la ballata di János Arany, in cui si racconta la storia dei bardi del Galles che preferivano essere bruciati sul rogo piuttosto che salutare il Re al grido di “lunga vita a Edoardo!”. Questo fatto casuale ha determinato un aspetto del mio carattere: ero decisa a ribellarmi sempre contro l’autorità. Se guardo le mie pagelle scolastiche, mi accorgo che a dieci anni già mi attenevo a questa decisione.

È stato anche un caso che mio padre fosse un uomo profondamente morale e allo stesso tempo liberale e che proprio per questo io ne avessi soggezione. Una volta tornò a casa e vidi che aveva in tasca una bambolina. Lo abbracciai e baciai. Stupito, mi chiese: “Ági che ti prende? Non

è da te baciare”. Provai una tale vergogna che non l’ho mai più dimenticata. In quel momento decisi che in vita mia non avrei mai lusingato nessuno perché mi aspettavo qualcosa in cambio da lui. Il rimorso è così doloroso che è meglio evitarlo. Ciò significa che questa coincidenza è stata anche un colpo di fortuna, perché ha portato a un’esperienza morale.

È stato anche un caso che i miei genitori non litigassero. Per questo non riesco a litigare neanche quando sarebbe necessario.

È stato anche un caso che fossimo poveri. Mi faceva sentire molto sola alle elementari. La povertà era un segno di inferiorità. Il fatto che fossi più interessata ai libri che ai vestiti e all’amore come le altre mi isolò dalle compagne di scuola. Ma anche quella fu sostanzialmente una fortuna, perché plasmò il mio carattere. Si dovrebbe imparare anche a stare soli e a portare la solitudine con una carta superiorità.

È stata anche una felice coincidenza il fatto che l’Ungheria nel 1939 avesse introdotto il numero chiuso contro gli ebrei al liceo e che a dieci anni potessi conoscere il mondo solo nella scuola ebraica, dove c’erano molti studenti intelligenti e più poveri di me. È stato anche un caso che sia entrata a far parte della nostra comunità dell’Isola Margherita.

Tutto inizia per caso? Tutte le coincidenze, anche quelle infelici, possono in un modo o nell’altro diventare felici? Una coincidenza è sempre anche una svolta del destino? E una svolta del destino è sempre casuale? Da quando avevo dieci anni non ho trovato una risposta univoca a queste domande.

La svolta più importante della mia (nostra) vita, la guerra mondiale, non è stata casuale. Ma io, a dieci anni, ho vissuto lo scoppio della guerra come una “fortuna” (e l’ho annotata così nel mio diario): Hitler non avrebbe governato il mondo intero. Questo è il motivo per cui anche oggi non sono pacifista, anche se aborro la violenza.

Durante i dieci mesi dell’Olocausto ungherese, mi sono salvata per caso. Ero destinata a essere uccisa, come mio padre, i miei amici d’infanzia, i miei cugini. Sono sopravvissuta solo per caso. Dal mio sedicesimo anno di vita ho cercato di incorporare questa coincidenza nel mio pensiero, nel mio carattere.

Dopo la liberazione sono diventata sionista per caso. Che grande fortuna! La maggior parte delle ragazze della mia classe divennero comuniste e poi funzionarie, mentre io, al tempo, nel partito comunista ero sempre guardata con sospetto.

Non è stato un caso che l’esercito sovietico abbia schiacciato la Rivoluzione ungherese nel 1956, né che io abbia perso il posto all’università e che i miei ex “amici” mi abbiano voltato le spalle. Ma a quel punto sapevo già che quella sfortuna alla fine si sarebbe trasformata in un colpo di fortuna, perché attraverso di essa avrei potuto conoscere la natura umana e anche diventare più forte. Occorre cadere per poter risalire. “Chi vuole diventare un cantore deve andare all’inferno” scrive Attila József in una poesia. E questo non vale solo per il poeta.

Uno dei miei “inferni” non l’ho vissuto nell’immediato come una fortuna, ma da esso ho anche costruito la mia “felicità”: mi riferisco alla fine della Scuola di Budapest.

Come per tutti gli uomini, anche le mie coincidenze sono state molto diverse. Alcune non ho potuto viverle come coincidenze perché non conoscevo ancora il concetto, altre non le ho percepite come tali, spesso invece ho cercato le coincidenze in maniera consapevole. A volte la coincidenza in sé non ha portato a niente, altre volte si è rivelata una benedizione, altre ancora l’inferno stesso. Il caso però, che sia una benedizione o l’inferno, è sempre un valore, un’opportunità, la possibilità di conoscere meglio il nostro carattere e di cambiare le nostre vite.

 

Il Sultano, i missili russi e il “tradimento” Nato

Mentre in Turchia continuano ad arrivare parti del sistema di difesa antimissile russo S-400, consegna iniziata una settimana fa, la tensione tra Ankara e Washington si è ulteriormente impennata.

Il motivo di questa inedita e pericolosa frizione tra i due più influenti Paesi membri della Nato è dovuta alla possibilità che il presidente turco Erdogan decida di accogliere una nuova offerta da parte del suo omologo russo. Zar Putin avrebbe proposto al Sultano Erdogan di acquistare i caccia da combattimento russi Su-35per rimpiazzare la mancata consegna degli F-35 che il Pentagono ha deciso di cancellare per ritorsione contro la scelta effettuata da Ankara di acquistare il sistema antiaerei di Mosca anziché quello americano Patriot. In attesa delle nuove mosse di Washington, che potrebbe addirittura arrivare a imporre sanzioni economiche all’alleato-nemico turco, l’agenzia Reuters si è soffermata sul costante avvicinamento di Ankara al Cremlino.

Secondo alcuni funzionari statunitensi, l’incapacità dell’Amministrazione Trump di persuadere la Turchia a non acquistare il sistema di difesa aerea russo risiederebbe nel fallito golpe contro Erdogan avvenuto esattamente tre anni fa. Gli analisti americani – l’agenzia britannica ne cita tre senza farne il nome – e una fonte della difesa, sempre anonima, hanno riferito che una delle ragioni della clamorosa scelta di Erdogan è la diffidenza dello stesso presidente turco nei confronti della propria forza aerea perché protagonista del tentato colpo di Stato. I missili S-400 sarebbero infatti più efficaci dei Patriot nel respingere un nuovo eventuale attacco aereo contro il governo turco.

“Si dice che Erdogan voglia il sistema (russo) per proteggersi, non fidandosi più del sistema integrato Nato”, ha detto uno dei funzionari. Un alto membro dell’Amministrazione turca tuttavia ha negato che la preoccupazione circa la fedeltà dell’aviazione militare al capo dello Stato sia stato il fattore motivante della virata verso Mosca. Un altro ufficiale turco ha detto che Ankara ha sempre voluto acquistare il sistema Patriot ma è stata costretta a rivolgersi alla Russia “perché gli Stati Uniti hanno avuto un atteggiamento ambiguo durante il mandato di Obama”.

Erdogan ha sottolineato che la Turchia ha acquistato gli S-400 perché Obama non era interessato a mandare avanti l’accordo per l’acquisizione dei Patriot, la produzione congiunta e il trasferimento tecnologico. Nonostante Trump stia ancora tentando di evitare una spaccatura totale con l’alleato, il Pentagono non intende più rivedere la decisione di cancellare la consegna degli F-35, considerando il sistema russo S-400 una minaccia per quelli che ritiene i più sofisticati aerei da combattimento stealth del proprio arsenale. A dimostrazione del ruolo dirimente giocato dai piloti delle forze aeree turche nel putsch fallito, il mese scorso un ex capo dell’aviazione turca, Akin Ozturk, è stato condannato all’ergastolo per il suo coinvolgimento. Inoltre la settimana scorsa i pubblici ministeri turchi hanno ordinato l’arresto di altri 176 militari.

Petroliera bloccata, l’Iran vuole trattare sulle sanzioni Usa

Nell’escalation delle provocazioni nel Golfo, gli obiettivi dell’Iran sembrano facili da individuare: non certo fare la guerra agli Stati Uniti, e neppure farsi l’atomica, ché Teheran ci aveva già rinunciato nel 2015; ma convincere Washington a revocare le sanzioni e fare così ripartire un’economia che soffre delle restrizioni impostegli (non può fare valuta vendendo energia e non può acquistare tecnologia o rinnovare le proprie strumentazioni).

Sul fronte interno, i riformisti al potere a Teheran, delusi dagli europei, che danno loro appoggio solo a parole, devono contrastare il ritorno di fiamma dei conservatori, per i quali fidarsi degli Occidentali e fare l’accordo sul nucleare è stato sbagliato e che provano ad alzare il livello dello scontro con gli Usa.

Gli obiettivi degli Stati Uniti sono, invece, più difficili da individuare: l’Amministrazione Trump ha in mente da ultimo un ‘cambio di regime’ a Teheran, che è sempre stato nei progetti dei neo-con, oppure vuole solo favorire l’egemonia regionale dell’Arabia saudita e rispondere alle preoccupazioni di sicurezza di Israele? Il primo fine non è mai stato dichiarato, anzi viene negato, ma è l’unico che giustifichi i rischi di conflitto innescati dall’attuale contesto e più volte sfiorati negli ultimi due mesi. A mettere le carte dell’Iran in tavola è stato, nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, uno degli artefici dell’intesa sul nucleare. Alle Nazioni Unite, a New York, Zarif, che ha incontrato il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e ha rilasciato diverse interviste, ha spiegato che l’Iran è pronta a negoziare una versione più stringente dell’accordo nucleare, comprese maggiori ispezioni internazionali ai suoi siti, in cambio della revoca permanente delle sanzioni Usa.

Zarif ha anche assicurato che l’Iran non inizierà mai una guerra contro l’America, “anche se loro ce ne stanno già facendo una economica”.

Il ministro non ha tuttavia escluso l’ipotesi di un conflitto come conseguenza della strategia della “massima pressione” dell’Amministrazione Trump, che diventa “terrorismo economico”. E parlando ieri a Caracas, il ministro degli Esteri iraniano, che adegua il linguaggio ai palcoscenici, ha detto “la presenza Usa nel Golfo, in Medio Oriente e in Sud America mette a rischio la sicurezza … non esiste un posto al mondo dove gli Usa portino stabilità”. Washington non ha mostrato interesse per l’apertura iraniana: Trump e il suo team, dove ci sono falchi anti-iraniani come il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, pretendono maggiori concessioni sul fronte nucleare, ma anche lo stop al sostegno di Teheran ai suoi alleati nella Regione, dal regime siriano ai ribelli Huthi nello Yemen.

Anzi, le provocazioni nel Golfo si sono intensificate, durante la missione di Zarif: un drone iraniano abbattuto – e fa 1 a 1, dopo l’abbattimento di un drone americano – e una petroliera britannica sequestrata nello Stretto di Hormuz; pure qui fa 1 a 1, dopo il sequestro di una petroliera iraniana da parte britannica al largo di Gibilterra. Infatti, l’Iran evoca il ricorso al “principio di reciprocità”. Ieri, Teheran ha aperto un’inchiesta sulla Stena Impero, accusata di aver urtato una barca da pesca e ancorata al largo del porto di Bandar Abbas con tutto l’equipaggio (23 uomini). La vicenda innesca il “disappunto” di Londra, espresso a Zarif dal ministro degli Esteri, Jeremy Hunt. Il Regno Unito invita le navi britanniche a rimanere “per ora” fuori dallo Stretto, snodo cruciale dei commerci energetici e punto nevralgico della libertà di navigazione. L’Arabia Saudita ha accettato di ospitare truppe Usa: non accadeva dal 2003, dopo l’invasione dell’Iraq.

Su un altro fronte, ieri Londra ha deciso di fermare i voli civili verso l’Egitto per una settimana, avendo ricevuto un allerta-terrorismo.

Al “Servo del popolo” urge un alleato per governare

Se gli ultimi sondaggi verranno confermati dalle urne, da domani il Parlamento ucraino cambierà nettamente la propria composizione con l’ingresso di due nuovi partiti che potrebbero allearsi per dar vita a una coalizione di governo europeista. Il neo partito che dovrebbe ottenere intorno al 41 per cento è Servitori del Popolo, fondato poco prima delle elezioni presidenziali dello scorso marzo da Volodymir Zelensky, l’ex attore satirico che ha vinto le consultazioni con una valanga di voti. L’altro partito nuovo di zecca è ‘Voce’. Istituito lo scorso maggio dal noto cantante ucraino Sviatoslav Vakarchuk, secondo le intenzioni di voto dovrebbe riuscire ad arrivare quasi al 9 per cento. Assieme tuttavia, il comico e il cantante, otterrebbero una maggioranza assoluta di seggi risicata che impedirebbe al partito del presidente (è stato proprio Zelensky a voler anticipare le elezioni legislative di 3 mesi) di governare senza preoccuparsi dell’ostruzionismo che tenterà di fare Solidarietà Europea, il partito dell’ex presidente Poroshenko, dato in quarta posizione con l’8 per cento dopo il Blocco di Opposizione filo russo, attestato intorno al 12 per cento e il già citato Voce che otterrebbe il terzo posto. Il partito dell’ex premier Yulia Timoshenko dovrebbe superare la soglia di sbarramento del 5 per cento di circa due punti percentuali. Nell’ultimo mese il blocco filo russo di opposizione guidato da un oligarca veterano della politica ucraina, Viktor Medvedchuk, apertamente a favore della riconciliazione con la Russia e amico personale dello Zar Putin – nonostante l’annessione unilaterale della Crimea e soprattutto della guerra asimmetrica del Donbass in corso da 5 anni – è diventato sempre più forte nei sondaggi. Molti ucraini temono che il presidente Zelensky alla fine formerà una coalizione di governo proprio con il partito nemico dell’avvicinamento dell’Ucraina all’Unione europea.

Effetto Zelensky: il candidato di punta ora è una popstar

Tra qualche ora la Verkovna rada, il Parlamento ucraino, potrebbe assomigliare al palco di un reality e gli scranni del potere alle quinte di un avanspettacolo affollato di comparse impreparate, più o meno famose. Il circo per le elezioni parlamentari di oggi a Kiev è stato radunato e il pubblico, prima di votare i candidati, li ha già applauditi giorno e notte in televisione. Nessuno di loro ha un vero programma politico, ma tutti hanno quello che serve nell’Ucraina di Zelensky: immagine, pubblico in giubilo, masse di fan che non distinguono più fantasia e realtà.

Prima il capomastro al potere, poi tutta la compagnia. Il presidente-attore ha moltiplicato i candidati commedianti con un pericoloso effetto domino, è stato “un’ispirazione” per il candidato, sceneggiatore e regista, Roman Hryshckuk, 29 anni; per il presentatore televisivo Oleksandr Skichko, la prima faccia che gli ucraini vedono ogni giorno al programma Pidyom, “Sveglia”. Il ristoratore Tyshchenko balla con le stelle e con gli chef che denigra sui canali slavi mentre bacia i suoi muscoli scolpiti. Prima di finire candidato nelle liste del partito di ‘Ze’ – così i fan del presidente lo chiamano – era una delle vittime preferite delle numerose caricature del presidente, che arruola per le elezioni due dei suoi migliori amici: Serhyi Sivokho, attore della Liga smeha, la lega della risata e il “gigante Yurik”, Yuri Koriavchenkov, sua ex spalla nello show Kvartal.

In un Paese dove il sindaco della Capitale è un campione di pugilato, prima o poi tutti sapevano che il gong dell’incontro sarebbe suonato di nuovo, ma per un altro candidato. Un corpo a corpo col manichino rosso contro cui combatte simboleggia la corruzione che farà a pezzi. Lo giura sudato Zhan Beleniuk, campione di lotta greco romana. Figlio di un pilota morto nella guerra civile ruandese, Zhan, con la bandiera bicolore ucraina sulla pelle nera, ha vinto l’oro ai campionati mondiali ed europei, e l’argento alle Olimpiadi a Rio nel 2016.

Dal ring allo stadio: anche Artem Fedetsky, della squadra Karpaty, vuole tirare calci in politica. Regalano sorrisi a denti bianco latte per l’agiografia mediatica ed arrivano dalla passerella rossa la cantante Anastasia Prykodko, cantante dell’inno del partito di Yulia Timoshenko, candidata nel distretto di Vinnitsa, e a passo di danza si candida anche il “rettore cantante” Mikailo Poplavsky, accusato di corruzione e abusi sulle studentesse dell’istituto che gestisce. Con i capelli color grano, a capo del partito agrario ucraino, abbraccia spesso con le sue giacche fosforescenti il biondo dei video pop, il cantante Oleg Vynnyk.

Prigionieri dei loro personaggi, assomigliano alle loro cravatte glitter: vogliono scambiare i microfoni dei palchi con quelli dei tg i cantanti Ivan Bobul e Vitaly Bilonozko, del partito di Ihor Smeshko, ex capo dei servizi segreti. Rutilante come le vecchie speranze della Maidan dimenticata, capelli brizzolati, occhi minuscoli e non mesti, Svyatoslav Vakarchuk, il menestrello del gruppo più acclamato del Paese, Okean Elsy, ha fondato un partito che ha battezzato “voce” insieme al presentatore Serhiy Prytula.

Secondo i sondaggi di Kiev e dintorni vincerà il partito dei giullari del “servitore del popolo”, che potrebbe aggiudicarsi il 49% delle preferenze e 120 seggi su 424 . Intanto il presidente, che ha detto e fatto così poco da non poter essere contraddetto, rifugiandosi nell’opacità del ruolo che ha scelto, continua a ripetere che tutto migliorerà, dimenticando che c’è in gioco quel che resta del futuro di un Paese in guerra. È l’ennesima battuta del suo spettacolo o forse è la sentenza che la storia presenta all’Ucraina che rimuove la guerra nel Donbass. Dopo un soleggiato aprile in cui ha vinto con il 73% dei voti degli ucraini, prima che si aprano le urne di oggi, la vittoria è già di Ze: ha saputo far trionfare la finzione contro la realtà dei fatti già una volta, tocca solo contare quante altre volte saprà farlo ancora prima che cali il sipario.

Non solo il razzo, un secondo arsenale e 34 dvd su Hitler

L’uomo del missile aveva un arsenale anche nella sua seconda casa. Insieme a una foto del Duce debitamente incorniciata, ai 34 dvd su “Hitler e il terzo Reich”, alle 13 videocassette sul “crollo del mito” dell’Urss e sul “Trionfo della Volontà”. La succursale di Fabio Del Bergiolo, il sessantenne arrestato nei giorni scorsi dalla Digos di Torino per avere tentato di vendere un Matra, micidiale razzo aria-aria di fabbricazione francese, era in una villetta immersa fra i boschi di Antona, una frazione di Massa. E ora si cerca di capire perché questo ex funzionario doganale disponesse di un armamentario in grado di fare gola a qualsiasi aspirante guerrigliero. Ad Antona aveva stipato di tutto: un fucile, un machete, una pistola, un arco Compound con tredici dardi, una pistola, un treppiede per mitra, una balestra, undici bombe a mano (inerti). Nella prima casa, quella di Gallarate, aveva molto di più. Gli inquirenti sospettano che Del Bergiolo fosse una specie di grossista alla ricerca continua di clienti (non importa di quale orientamento criminale o colore politico). Del resto nel 1998 era stato tra i fondatori del Mac, un movimento che promuoveva la libera vendita delle armi.

Caso Orlandi, migliaia di ossa al Teutonico: periti al lavoro

Esperti medico-legali al lavoro in due ossari sotterranei in Vaticano, nel quadro delle attività istruttorie delle autorità d’Oltretevere sul caso di Emanuela Orlandi, cittadina vaticana scomparsa a 15 anni il 22 giugno 1983, poco più di un mese dopo la sparizione sempre a Roma della coetanea Mirella Gregori. E l’esito apre la strada a nuove ricerche. “Sono state trovate migliaia di ossa quindi si ipotizza la presenza dei resti di qualche decina di persone. Ci sono ossa lunghe, piccole, alcune frammentate. Sono ammucchiate in una cavità di qualche metro cubo. Non ci aspettavamo così tante ossa”, ha detto il genetista Giorgio Portera, perito della famiglia Orlandi.

“Ci sono anche ossa craniche, più o meno conservate, di soggetti adulti e non – ha aggiunto Portera ai giornalisti – la datazione si potrà fare, anche se non dettagliata, ma servirà per capire se sono di qualche decina di anni fa o di centinaia. Il caso è aperto”. Le operazioni al Campo Santo Teutonico hanno riguardato due ossari individuati in un’area attigua alle tombe delle principesse tedesche Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklenburgo: i due sepolcri, nell’ispezione dell’11 luglio scorso, richiesta dalla famiglia dopo una segnalazione anonima sulla possibile presenza dei resti di Emanuela Orlandi, erano stati ritrovati vuoti.

“Io aspetto di essere convocato dalla giustizia vaticana, mi avevano promesso che mi avrebbero ascoltato e ho fiducia in questo. Per me finché non si trova il corpo di Emanuela, mia sorella è viva”, ha detto Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, auspicando che “si possa andare avanti anche con il nostro nuovo perito, il genetista Giorgio Portera, e non solo quello individuato dal Vaticano”. Ha poi aggiunto che se sarà ascoltato dalla magistratura vaticana chiarirà “una volta per tutte che la segnalazione che noi abbiamo ricevuto di cercare al Collegio teutonico non era anonima”.

Tutte le consulenze di Ama per far la guerra al Comune

Pareri legali in serie, incarichi principeschi, anche a cinque zeri. Tutti rigorosamente per chiamata diretta, a volte di “dubbia utilità”, spesso disinvolti sul piano degli obblighi di trasparenza. Nei conti di Ama, la partecipata dei rifiuti romana finita al centro di uno scontro feroce tra la sindaca Virginia Raggi e l’ex amministratore e presidente Lorenzo Bagnacani, c’è quasi mezzo milione di euro di consulenze esterne negli ultimi due anni: la maggior parte assegnate e pagate per fare la guerra al Comune, che di Ama in teoria avrebbe dovuto essere il socio.

La mancata approvazione del bilancio, con tanto di pressioni e accuse incrociate, rischia di non essere l’unico motivo di contenzioso: gli affidamenti nell’ultima gestione sono finiti al centro di un documento, preparato dalla nuova amministrazione guidata dalla presidente Luisa Melara su richiesta del Campidoglio e appena arrivata sul tavolo della Corte dei Conti. Adesso è la stessa società che chiede alla Procura di indagare “a tutela degli interessi dell’azienda” sulla precedente gestione, ipotizzando l’esistenza di “eventuali danni erariali causati all’amministrazione, con relativo addebito a carico dei responsabili”. Cioè proprio Bagnacani, arrivato a maggio 2017 e cacciato lo scorso febbraio, e il suo vecchio cda.

Sull’azienda dei rifiuti negli ultimi mesi si è acceso uno scontro senza precedenti. La questione riguarda 18 milioni di crediti per servizi cimiteriali vantati da Ama nei confronti del Comune: l’ex ad li voleva iscrivere a bilancio, in modo da poterlo chiudere in attivo, per il Campidoglio invece non sono esigibili e andavano tolti (cosa che avrebbe mutato il segno in rosso, con una serie di conseguenze a catena). Ne è nato un tira e molla a colpi di carte bollate, conclusosi con la bocciatura del bilancio lo scorso febbraio, che ha portato alla revoca del cda e le dimissioni dell’assessora Pinuccia Montanari, con Bagnacani che ha denunciato le pressioni ricevute dalla sindaca (con tanto di audio portati in Procura). Adesso si scopre che questo scontro, oltre ad aver creato una pericolosa impasse contabile (il bilancio è ancora sospeso, la Regione del governatore Pd Nicola Zingaretti ha da poco dato un ultimatum, fissando la scadenza al 5 agosto per l’approvazione), è costato all’azienda anche decine di migliaia di euro: quelli spesi per farsi fare pareri pro veritate da opporre alle richieste del Comune.

In aprile il Fatto Quotidiano aveva già rivelato il pagamento di oltre un milione, a cavallo tra 2017 a 2018, al gruppo Ernst & Young, la stessa società che svolge il ruolo di revisore legale e ha dato il via libera al progetto di bilancio (contestato invece dalla Raggi). Adesso l’elenco si allunga e il conto si appesantisce: dal settembre 2018 (quando lo scontro deflagra) al gennaio 2019 (fino praticamente alla cacciata), Ama ha commissionato ben 12 pareri diversi a rinomati professori e avvocati, riconducibili al contenzioso in corso, per oltre 100 mila euro. Le stesse questioni avrebbero magari essere potute risolte a costo zero dall’avvocatura capitolina. Non a caso il documento inviato alla Corte dei Conti sottolinea a più riprese “l’irrilevanza dei temi”, o come in certi casi “l’incarico sia risultato privo di qualsivoglia utilità” per l’azienda. Affidamento diretto, mancata ricerca di un profilo interno all’azienda che potesse svolgere la mansione, trasparenza discutibile (atti non pubblicati, contratti formalizzati dopo aver già svolto il lavoro) sono le altre caratteristiche comuni ai vari contratti indicate nella relazione.

La gestione Bagnacani (contattato ieri, senza risposta) almeno in questo non sembra molto diversa dalle precedenti, già finite al centro di rilievi da parte dell’Autorità anticorruzione di Cantone. Anche alcuni nomi sono gli stessi. A partire dall’avvocato Damiano Lipani, storico consulente Ama dal 2006, in passato vicino all’ex ad Panzironi (condannato in appello per Mafia Capitale): nessun avvocato conosce i rifiuti romani come lui, infatti compare più volte nell’elenco, insieme all’ex sottosegretario berlusconiano Antonio Catricalà, con cui da qualche anno condivide lo studio. Ma sono diversi i nomi noti della lista: c’è, ad esempio, il professor Corrado Gatti, già in svariate società, come Acea, o nella Figc, fino ad arrivare ad Atlantia dei Benetton (di cui è presidente del collegio dei sindaci). Oppure Enrico Laghi, il commercialista dei poteri forti, che ha lavorato per i più grandi gruppi italiani (da Caltagirone a Unicredit) e ricevuto incarichi istituzionali (commissario Ilva e Alitalia), di recente citato dal costruttore Parnasi nelle carte dell’inchiesta sullo stadio della Roma. Chi più autorevole di lui per esprimere un parere sul giudizio negativo del collegio sindacale (che aveva bocciato l’escamotage trovato da Bagnacani per approvare il bilancio)? Costo: 25 mila euro.

La cifra più alta, però, spetta non a un principe del foro ma a una fedelissima della coppia Montanari-Bagnacani: Mariella Maffini, esperta di rifiuti, una lunga esperienza fra Comuni e ministeri, che l’ex assessora all’Ambiente aveva preteso in Campidoglio quando è arrivata da Genova. A gennaio 2017 è entrata nello staff dell’assessorato a 40 mila euro lordi, un anno dopo è passata in Ama, con stipendio complessivo più che triplicato: 128 mila euro, in due tranche. A un primo mini-contratto ne è seguito un secondo, molto più ricco, sempre senza alcuna selezione (e contestato anche dall’ex capo del personale, che è stato licenziato): 96 mila euro per una non meglio specificata “consulenza professionale strategica”.