“La politica non vuole legalità. Ma abbiamo gettato un seme”

Fra il dicembre 2001 e l’aprile 2002, primo anno del secondo governo Berlusconi, abbiamo intervistato Francesco Saverio Borrelli, ex Procuratore capo e allora Procuratore generale a Milano in procinto di andare in pensione, per il libro Mani Pulite. La vera storia (Editori Riuniti e poi Chiarelettere). Ne riproponiamo alcuni stralci.

Dottor Borrelli, dov’era il 17 febbraio ‘92, giorno dell’arresto di Mario Chiesa?

Ero in montagna a Champoluc, Val d’Aosta, a sciare. Di Pietro mi telefonò nel tardo pomeriggio, tutto concitato: ‘Procuratore, ce l’abbiamo fatta, l’abbiamo preso con le mani nel sacco!’.

Lei intuì subito le conseguenze che quell’arresto avrebbe provocato, o pensò che la cosa sarebbe finita lì?

Ero abbastanza scettico sull’esito dell’indagine, nata da tutt’altro filone: da una denuncia per diffamazione che risaliva a molti mesi prima. Quando Antonio mi riferì che si stava profilando l’ipotesi che il presidente del Pio Albergo Trivulzio ricevesse soldi in cambio di appalti e che lui contava di incastrarlo, non gli nascosi il mio scetticismo. Dall’alto di una certa esperienza, non pensavo che Chiesa si sarebbe fatto incastrare. Fino a quel momento, infatti, salvo alcuni casi clamorosi, si era rivelato difficilissimo trovare elementi solidi a carico di amministratori pubblici. Poi, invece, per fortuna, i fatti smentirono il mio pessimismo.

Che cosa ricorda delle settimane successive?

Venne spontaneo formulare l’ipotesi che, se Chiesa aveva tentato di riscuotere 14 milioni da una modestissima ditta di pulizie, ad altri fornitori di servizi o di opere di maggiori dimensioni avesse chiesto e ottenuto di più. Così si cominciò con il contattare questi imprenditori. Il sistema dei partiti che aveva retto l’Italia per un quarantennio era scosso dalle prime robuste spallate. C’erano già stati alcuni successi della Lega Nord, c’era il movimento referendario di Mario Segni. Insomma si aprivano nell’assetto politico le prime crepe più o meno vistose. E c’era anche un senso di insicurezza per le imminenti elezioni politiche. Il che contribuì a indebolire il fronte degli imprenditori e a indurli a qualche cedimento. Così l’indagine si allargò a macchia d’olio.

Non ci fu una gestione “politica” dell’inchiesta, nel senso di procedere per gradi, scegliendo gli obiettivi secondo le possibilità del momento?

Dipende dal significato del termine ‘politico’. Io paragonerei l’attività di Di Pietro a certe forme di Blitzkrieg, di ‘guerra lampo’, la tattica tipica degli eserciti germanici, che fu usata anche nello sfondamento di Caporetto: penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio, lasciando ai margini le sacche laterali, le più difficili da sfondare. Di Pietro agiva allo stesso modo: tendeva ad arrivare molto rapidamente ad assicurarsi determinati risultati certi, lasciando ai margini una quantità di altre vicende da esplorare in un secondo momento. Da questo punto di vista possiamo parlare di ‘gestione politica’: una strategia processuale che, a essere rigorosi, costituisce un’innovazione rispetto ai canoni tradizionali di indagine. Ma bisogna ricordare qual era il panorama di Tangentopoli: talmente sconvolgente da spaventare persino i pessimisti più accaniti, quelli convinti che la politica ‘è tutta un compromesso’ e che ‘i politici non possono non avere le mani sporche’. Così, una volta scoperta questa enorme città fiscale sotterranea e occulta, fatta di contribuzioni e prelievi illeciti, e capito che buona parte della politica si reggeva su forme di alimentazione del tutto fuorilegge, si impose la necessità di fare in fretta, di puntare molto rapidamente a uno scopo. Non quello di abbattere il regime o l’assetto politico. Ma di raggiungere al più presto risultati investigativi da presentare anche all’opinione pubblica con un buon grado di certezza. Di fatto, poi, la rappresentazione di quel panorama avvenne soprattutto nei grandi processi Cusani-Enimont.

Quando vi siete resi conto che l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei vostri confronti stava cambiando?

Direi più o meno in coincidenza con l’indagine sulla Guardia di Finanza. Finché si trattò di colpire l’alta politica e i suoi rappresentanti, i grandi personaggi dei partiti che cominciavano a stare sullo stomaco a tutti, non ci furono grandi reazioni contrarie. Anzi. Ma quando, con l’indagine sulla Finanza, si andò oltre, apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso. A quel punto il cittadino medio ebbe la sensazione che questi ‘moralisti’ della Procura di Milano volessero davvero passare lo straccio bagnato su tutta la facciata del Paese, sulla coscienza civile di tutti gli italiani. Parlo del cittadino medio che vive spesso di piccoli espedienti, amicizie, raccomandazioni, mancette per poter campare e rimediare all’inefficienza della Pubblica amministrazione. A quel punto, ho l’impressione che la gente abbia cominciato a dire: ‘Adesso basta, avete fatto il vostro lavoro, ci avete liberato dalla piovra della vecchia classe politica che ci succhiava il sangue, ma ora lasciateci campare in pace’. Quando siamo arrivati alla Guardia di Finanza, a parte le reazioni ovvie del mondo politico, anche una parte di imprenditori si è sentita toccata troppo da vicino da quest’ansia di pulizia che veniva dalla Procura di Milano, e non solo da quella: intorno alla Finanza c’era un vasto sistema di convivenze e connivenze. E questa svolta coincise col trascorrere del tempo e con un battage giornalistico troppo prolungato sul pool di Milano e sulla corruzione. La gente era stanca. Ci si stufa delle guerre, figuriamoci di Tangentopoli.

La accusano di essere un comunista.

Niente di più lontano dalla realtà. Mai avuto amicizie o parentele ideologiche con il Partito comunista, o con il Pds o con i Ds. E nemmeno con i socialisti. Io ho una formazione culturale di estrazione liberale, direi crociana, sicuramente più vicina al liberalismo classico che al materialismo dialettico.

Torniamo al 1994. Il 14 luglio, all’indomani del decreto Biondi, non firmò il comunicato letto in tv dai suoi sostituti procuratori. Perché?

Questa presa di posizione io non la condivisi. Anzi, sconsigliai i miei sostituti, ma non ci fu verso: erano troppo determinati.

Qual è stato il momento più difficile, più drammatico dell’inchiesta Mani pulite?

Quando Di Pietro diede le dimissioni. Anche perché, nel frattempo, stavamo subendo l’ispezione ministeriale straordinaria.

Se un suo nipote le domanda che cos’è Tangentopoli, lei che cosa gli racconta?

Be’, decisamente il caso Chiesa. È il caso di partenza, e il più evidente. Ma forse racconterei anche il caso della Metropolitana milanese: mi ha sempre colpito il fatto che ci fosse un unico incaricato della riscossione delle tangenti che poi divideva il malloppo fra i vari partiti, alleati o avversari non importa, rappresentati nel cda.

Che idea vi siete fatti del modo in cui la politica intende la giustizia? E quali differenze avete rilevato tra l’atteggiamento del centrodestra e del centrosinistra?

Abbiamo percepito, da parte di tutti coloro che esercitano il potere, senza distinzioni di colore, un comune fastidio per il controllo di legalità. In ogni momento. In questi anni ha preso piede una concezione secondo cui la magistratura avrebbe usurpato il posto proprio della politica e ora questa supplenza dovrebbe finire. Quest’idea l’hanno espressa tutti: il Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), il centrodestra, il centrosinistra. Io mi sono sforzato vanamente di spiegare che la magistratura opera sempre ‘in supplenza’. Forse è un gioco di parole e di concetti, ma è così persino nel campo della giustizia civile: nel senso che supplisce al mancato conformarsi spontaneo dei cittadini alla norma giuridica, alla regola scritta. E così nel penale: la giustizia interviene allorché ci si discosta dai precetti che sono penalmente sanzionati. È improprio parlare di supplenza della magistratura nella sfera legislativa o esecutiva. Chi le dovrebbe fare le indagini sulla corruzione, se non la magistratura? Se contro la corruzione non vengono prese misure preventive o contenitive dallo Stato, inevitabilmente si va incontro alla repressione. Questa però non è una supplenza. È la conseguenza della mancata prevenzione.

Vi aspettavate che il centrosinistra vi trattasse così male?

Sì. Perché non è un problema di destra o di sinistra. Il vero problema investe il rapporto fra potere e legalità.

Le sue dichiarazioni innescano da dieci anni polemiche politiche furibonde. Forse perché lei è un modello per un certo tipo di magistratura, un baluardo di resistenza?

No, assolutamente, se c’è qualcuno che ha un basso livello di autostima, quello sono io. Piuttosto mi hanno detto: ‘Il motivo è che tu non sei etichettabile. A te non riescono a prenderti da nessuna parte: hanno poche cose da rimproverarti, pochi argomenti da usare contro di te. Non sei un fannullone e nemmeno un comunista…’.

Be’, hanno detto che lei era il capo delle toghe rosse…

Io sono una toga rossa solo perché all’inaugurazione dell’anno giudiziario indossavo la toga rossa (con ermellino). Dal punto di vista delle correnti ho aderito agli inizi, anni 60, a Magistratura democratica. Ma quasi subito me ne sono distaccato.

Qual è il suo bilancio di Mani pulite?

Il risultato complessivo dell’inchiesta, per la società, è stato abbastanza modesto ai fini della ‘purificazione’ della vita pubblica. Infatti sento dire che la corruzione persiste. Ed è difficile avere una esatta percezione delle dimensioni del fenomeno, perché la visibilità della corruzione – diversamente da altri reati – è molto bassa. Un risultato invece positivo è questo: abbiamo dimostrato che, se ci si impegna e se c’è la collaborazione dei cittadini, è possibile riuscire a smascherare gli intrighi, perlomeno i più scandalosi, fra politica e affarismo. Inoltre abbiamo gettato un seme nel terreno. E, almeno in una certa fascia della popolazione, Mani pulite ha lasciato una gran voglia di pulizia e trasparenza. Una sete accresciuta dal desiderio di presentarci con la faccia pulita ai nostri partner europei. Tutto questo lascia un grande rimpianto per la trasparenza che non è stata raggiunta, perché l’opera di pulizia non è andata fino in fondo. Ma, anche se tenue, questa traccia rimane, questo seme è vivo: lo ricavo dalle lettere che continuiamo a ricevere. Per me è diventato quasi impossibile camminare per Milano, tanta è la gente che mi ferma per ringraziarmi.

Con quale sentimento lascia questo ufficio dopo dieci anni di Mani pulite?

Anzitutto con la consapevolezza di aver lasciato una traccia positiva, almeno in coloro che l’hanno voluta cogliere. Sul piano internazionale, l’Italia viene spesso presa a modello nei seminari sulla corruzione e la criminalità organizzata. A qualcuno sembrerà strano, ma all’estero Mani pulite è considerata una cosa ottima.

Lei ha detto, inaugurando il suo ultimo anno giudiziario: “Resistere, resistere, resistere come su un’ultima, irrinunciabile linea del Piave”. Come le è venuto in mente?

Ricordi di famiglia. Mio padre Manlio, quand’era magistrato a Firenze, aveva conosciuto Vittorio Emanuele Orlando, il presidente del Consiglio della Resistenza sul Piave. Abitava in una villa presso Firenze vicina alla nostra. Un giorno Orlando mandò a mio padre una cartolina, che ancora conservo: c’è la fotografia del volto di Orlando e in basso, stampata in caratteri antichi, un po’ goticizzanti, una scritta riferita alla battaglia del Piave: ‘Resistere, resistere, resistere’. Quella cartolina, ingiallita e affascinante, mi è tornata fra le mani mentre preparavo il discorso e di lì ho tratto la scaturigine psicologica per quel mio appello che, come spesso avviene, è stato frainteso.

Non incitava i magistrati a ribellarsi al governo?

Non era certo un invito ai colleghi, ma alla cittadinanza, alla collettività, perché si scuota e reagisca a questo dilagante sgretolamento morale, alla perdita del senso dello Stato, del senso civico ed etico, che purtroppo coinvolge anche molti che dovrebbero dare il buon esempio dall’alto. Ho detto quel che sentivo mio dovere dire, con la consueta franchezza, senza secondi fini e senza badare alle conseguenze. Sapevo che avrei suscitato polemiche. Ma l’ho fatto consapevolmente, a ragion veduta. Quando si avverte un pericolo, bisogna denunciarlo subito, a voce alta e con parole chiare. E io oggi avverto un grave pericolo, non solo per l’indipendenza della magistratura. Noi stiamo camminando a tappe forzate verso una forma moderna di regime. E, personalmente, non vorrei mai finire come coloro che alla vigilia del fascismo, per troppa prudenza, non dissero una parola, o parlarono sottovoce. Salvo poi pentirsene amaramente, quando non c’era più nulla da fare. Per fortuna, vedo che molta gente ha ricominciato a reagire, a mobilitarsi, anche a scendere in piazza. Sono manifestazioni che, per la mia indole ‘individualista’, non frequento. Ma mi commuovono. E sono, per me, il più grande motivo di speranza. Perché mi dicono che forse non tutto è stato vano.

Cosa augura all’Italia?

Lasciatemi citare una vignetta di Altan: ‘Sogno una democrazia senza fini di lucro’.

La vita. 47 anni con la toga fino al “resistere resistere”

Nato a Napoli il 12 aprile del 1930, Francesco Saverio Borrelli era figlio e nipote di magistrati. Il padre Manlio era stato primo presidente della Corte d’appello di Milano. Borrelli è entrato in magistratura nel 1955, ha indossato la toga per 47 anni, fino al 2002: un anno a Bergamo e poi sempre a Milano dove è stato pretore, giudice fallimentare e poi civile, pubblico ministero, procuratore capo dal 1988 fino alla nomina di procuratore generale nel 1999. Sposato con Maria Laura Pini Prato, ha avuto due figli: Andrea e Federica. Il primo è giudice civile. Borrelli assume l’incarico di procuratore aggiunto a Milano nel dicembre del 1983, nel maggio 1988 diventa procuratore capo. Nel 1992 con l’inchiesta sul Pio Albergo Trivulzio comincia Tangentopoli. Borrelli guida il pool ribattezzato ”Mani Pulite” e formato da Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e poi Francesco Greco, Ilda Boccassini, Tiziana Parenti, Paolo Ielo. Il procuratore aggiunto è Gerardo D’ambrosio. Le inchieste travolgeranno i partiti della Prima Repubblica. Nel dicembre 1993 la celebre frase di Borrelli ai candidati alle successive elezioni politiche che saranno vinte da Silvio Berlusconi: “Se hanno scheletri nell’armadio, li tirino fuori prima che li troviamo noi”. Si oppose al decreti di Giovanni Conso e al successivo del ministro della Giustizia di Berlusconi, Alfredo Biondi, che miravano a vanificare i risultati delle inchieste sulla corruzione. Dal marzo 1999 alla pensione nell’aprile 2002 è stato procuratore generale di Milano e in questa veste, all’inaugurazione dell’Anno giudiziario dopo che Berlusconi era tornato al governo, pronunciò la celebre frase presa in prestito da Vittorio Emanuele Orlando: “Resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave”. Tra il 2006 e il 2007 guidò l’Ufficio indagini della Federcalcio impegnato su Calciopoli. Dal 2012, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, non si perse mai una Prima della Scala

Il procuratore contro il potere nella notte della Repubblica

Francesco Saverio Borrelli è il capo che ogni magistrato fedele alla Costituzione e appassionato del suo lavoro avrebbe voluto avere. Prima e dopo di lui abbiamo visto capi che frenano, insabbiano, ammorbidiscono, narcotizzano, bloccano, strappano le indagini ai loro sostituti procuratori. Oppure semplicemente tirano a campare, predicando con l’esempio quel quieto vivere che tiene lontani i guai e favorisce carriere tranquille.

A lui è toccato invece in sorte di guidare la più straordinaria esperienza giudiziaria della storia repubblicana, l’inchiesta di Mani Pulite. Appassionante e drammatica, applaudita e attaccata.

Borrelli era il fusibile che ha permesso alla corrente di passare, al sistema di funzionare. A fare le indagini era quel gruppo composito ed effervescente che aveva scelto e messo a lavorare insieme ad Antonio Di Pietro. C’erano Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, poi Francesco Greco, Ilda Boccassini, Paolo Ielo, coordinati dal procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio. Erano loro a interrogare gli indagati, sentire i testimoni, guidare la polizia giudiziaria, analizzare i documenti, cercare i conti correnti, fare le rogatorie all’estero. Ma era lui a garantire che, all’interno del Palazzo, lo strano cocktail di personalità e competenze riuscisse a lavorare insieme e, all’esterno, a proteggere il Pool da attacchi e trappole. E pensare che, all’inizio, Mani Pulite era nata da una forzatura di Di Pietro. Borrelli era scettico sulla possibilità di allargare la piccola indagine nata dall’arresto del socialista Mario Chiesa, il “mariuolo” beccato con la tangente in mano. Di Pietro – che sulla corruzione dei partiti a Milano stava lavorando da tempo, senza grandi risultati – questa volta finse di dimenticarsi di depositare gli atti che avrebbero portato a processo il solo Chiesa e scoprì, giorno dopo giorno, tangente dopo tangente, il sistema che reggeva la Prima Repubblica. Borrelli fece allora quello che il suo ruolo e la sua fedeltà alla Costituzione gli indicava: garantire che i suoi sostituti sviluppassero l’indagine, in autonomia e indipendenza dai poteri politici ed economici.

Era nato a Napoli il 12 aprile 1930, figlio e nipote di magistrati. Trasferito con la famiglia a Firenze, studia al conservatorio – la musica è sempre stata la sua grande passione – e si laurea in Giurisprudenza con una tesi su “Sentimento e sentenza”, relatore Piero Calamandrei. Nel 1955 entra in magistratura. Negli anni Sessanta è tra i fondatori di Magistratura democratica, benché in seguito abbandoni la vita di corrente. La sua carriera si svolge tutta a Milano, giudice civile, giudice penale, sostituto procuratore. Nel marzo 1988 arriva alla guida della Procura della Repubblica. E nel 1992 diventa il garante e lo scudo di Mani Pulite, finché lascia il suo posto a D’Ambrosio e diventa procuratore generale. È in questa veste che nel 2002, mentre la politica cerca la rivincita sui magistrati e Silvio Berlusconi cerca di varare le sue leggi ad personam, conclude il suo discorso d’inaugurazione dell’anno giudiziario con un appassionato appello all’indipendenza della magistratura: “Resistere, resistere, resistere, come su una irrinunciabile linea del Piave”.

Andato in pensione, ha sempre resistito alla tentazione di fare il reduce o il nostalgico. Niente interviste, zero amarcord, mai recriminazioni. Ha accettato però con entusiasmo nuovi incarichi: capo dell’ufficio indagini della Federazione italiana gioco calcio, nel 2006, chiamato dal commissario straordinario della Figc, Guido Rossi, dopo il dirompente scandalo di Calciopoli.

E poi presidente del Conservatorio di Milano, lui che non ha mai rinunciato, finché la salute gliel’ha permesso, alla prima e alle recite della Scala. Durante Mani Pulite, ha sempre tenuto la politica e i politici fuori dalla porta. Impossibili, con lui, le pressioni. Sempre rispettoso delle istituzioni, ha risposto al capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, le quattro-cinque volte che lo ha chiamato prima di scelte difficili. Come quando ha deciso di dare a Giuliano Amato – e non a Bettino Craxi, come la politica si aspettava – l’incarico di formare nel giugno 1992 il nuovo governo. O come dopo il varo del decreto Conso, nel 1993, che tentava di depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti: “Non attribuite a noi quello che state facendo voi”, dice diretto ai politici in quella occasione. E il decreto salta.

Alla vigilia delle elezioni politiche che saranno poi vinte da Berlusconi, si rivolge ai candidati augurandosi che la politica si riformi prima dell’arrivo dei magistrati: “Se hanno scheletri nell’armadio, li tirino fuori prima che li troviamo noi”. Non lo ascoltano. Ormai è il 1994, “l’acqua non arriva più al mulino”, denuncia in un’intervista. La politica è tornata alla riscossa e anche parte della società civile ha smesso di inneggiare a Mani Pulite.

“Finché si era trattato di colpire l’alta politica e i grandi personaggi dei partiti che cominciavano a stare sullo stomaco a tutti, non c’erano state grandi reazioni, ma allorché si è andati un po’ oltre ed è apparso chiaro che il problema della corruzione in Italia non riguardava solo la politica”, confessa, “allora la gente ha cominciato a dire: ‘Adesso basta, avete fatto il vostro lavoro, abbiamo scalzato la vecchia classe politica, adesso fateci campare’”.

“Era il nostro capo” L’addio a Borrelli del pool Mani Pulite

“È morto Borrelli”. Nel tribunale deserto di sabato mattina, il cancelliere ascolta la notizia e si copre il viso con le mani. Sono le 10.41 di ieri al quarto piano del grande parallelepipedo di pietra del Tribunale di Milano. L’ufficio di Francesco Saverio Borrelli è nella stanza accanto, pare di potercelo ancora trovare bussando alla pesante porta di legno. Di sentire i passi leggeri, ma decisi che per 46 anni sono risuonati negli interminabili corridoi. Non si muove foglia nel palazzone, eppure qualcosa è cambiato: non c’è più Borrelli, il procuratore degli anni di Mani Pulite. L’uomo, prima che il magistrato, che era nato a Napoli nel 1930, ed era arrivato a Milano nel 1955. Una vita in questo palazzo. Magistrato come il nonno, il padre e il figlio Andrea.

Un addio che molti sentivano imminente, da quando lo scorso 8 luglio la figlia Federica aveva lasciato su Facebook un messaggio senza speranze: “Non hai mai smesso di trasmettere tutto ciò che per te valeva la pena trasmettere. Nel mio momento più buio ci sei stato”. Parole che ricordavano il magistrato, ma anche il padre sulla “bicicletta azzurra” con le mani strette al manubrio “per non cadere, non sbilanciarsi”. E poi i giorni dell’asilo, le “prime versioni di latino tradotte insieme” con “il tuo aiuto magico per il maledetto Isocrate e per i filosofi greci”, le “gite sui monti della nostra Courmayeur”.

Erano settimane che l’ex magistrato lottava contro la malattia. Accanto a lui, nell’hospice Floriani dell’Istituto Nazionale Tumori, c’erano la moglie Maria Laura e i figli Andrea e Federica. In tanti temevano l’arrivo della notizia, ma adesso è successo: nelle stanze si sentono i telefoni squillare. Incontri i colleghi di quegli anni, come Francesco Greco, che nelle foto dei giorni più caldi era accanto al procuratore e oggi ha preso il suo posto alla guida dell’ufficio: “Era un capo che sapeva proteggere i suoi uomini, una persona che ha fatto la storia d’Italia”. C’è chi corre in Tribunale, senza nemmeno sapere bene perché, e cammina davanti alle porte – una accanto all’altra – di Borrelli e Gerardo D’Ambrosio (morto nel 2014), così uniti nel modo di sentire la loro funzione e così diversi di carattere. Colleghi e amici, spesso li vedevi incontrarsi per scambiarsi consigli.

Altri accorrono all’Istituto Tumori: “Faceva il magistrato tenendo conto della dignità di tutte le persone, sia degli imputati che delle vittime”, racconta Gherardo Colombo. Paolo Ielo, il giudice ragazzino del pool, oggi è alla Procura di Roma: “È un dolore grande”. E poi c’è Armando Spataro, voce di quella procura in prima linea contro corruzione e terrorismo: “La sua cultura giuridica è nota. Ma lo ricordo soprattutto per le sue doti umane, perché era capace di seguire tutti, i più giovani e i più anziani, di affrontare i problemi tecnici e quelli personali”. Sono i magistrati che trovi nelle foto di quei giorni ancora appese in alcune stanze del tribunale. Tutti insieme, i pm della squadra di Borrelli, ieri hanno scritto una lettera: “Era il nostro capo. Il ‘vero capo’ non ha bisogno di apparire. Lo è. E lui lo era. Quando entravi nel suo ufficio con un problema, ne uscivi con una soluzione. Quando avevi sbagliato qualcosa, te ne parlava con quel modo garbato per cui alla fine eri tu stesso a riconoscere la ‘cappellata’. Salvo poi, davanti al mondo, metterci lui la faccia. Appartenere alla Procura di Milano era come stare in una grande orchestra, ognuno col suo strumento, diverso dagli altri, ma essenziale. E ovviamente con un direttore che ti faceva sentire utile, anche se non eri il primo violino”.

Parlano amici e colleghi, ma anche chi quella stagione la vide dall’altra parte dell’aula: gli avvocati e i parenti degli imputati. Come Stefania Craxi, figlia di Bettino, che fu travolto dal ciclone Mani Pulite: “Con Borrelli viene a mancare uno dei protagonisti principali di una stagione infausta della nostra storia repubblicana”, commenta Craxi, oggi senatrice di Forza Italia e vicepresidente della commissione Affari esteri. Aggiunge: “A dispetto di molte comparse del tempo – compresi taluni suoi compagni magistrati assurti a eroi e gettatisi nell’agone politico alla ricerca di incarichi pubblici – Borrelli scelse con coerenza di vestire solo e sempre la toga”. Bobo Craxi, l’altro figlio di Bettino, arriva a dire che Borrelli “guidò un sovvertimento istituzionale”. Un colpo di Stato.

Interviene anche Stefano Cagliari, figlio di Gabriele, il presidente dell’Eni che dopo essere stato accusato di aver autorizzato il pagamento di tangenti fu arrestato e si uccise in carcere nel 1993: “Quando una persona manca è sempre un dispiacere. Non ho niente contro Borrelli, anche se ritengo abbia fatto molti danni a questo Paese”. L’avvocato Carlo Taormina, difensore all’epoca di tanti imputati eccellenti (tra cui Craxi) invoca la giustizia divina: “Borrelli era un gran signore assai rispettoso nella forma nei confronti degli avvocati. Non credo che volesse quanto accaduto a Craxi ma, una volta avallato lo scempio delle regole processuali che determinò persino suicidi, si è fatto scavalcare sostanzialmente abdicando al suo ruolo di capo della Procura. La giustizia divina saprà dire la sua”.

Sono passati più di 25 anni da quei giorni. Oggi il presidente della Repubblica è Sergio Matterella: “Magistrato di altissimo valore, impegnato per l’affermazione della supremazia e del rispetto della legge, Borrelli ha servito con fedeltà la Repubblica”. Omaggi anche da parte del presidente della Camera Roberto Fico: “Ha scritto una parte importante della nostra storia”. E, più timido, dalla berlusconiana presidente del Senato Elisabetta Casellati: “Ha avuto incarichi di prestigio ed estrema delicatezza”.

Milano, fuori dalle finestre di Palazzo di giustizia, ieri era svuotata dall’estate, oppressa dal cielo bianco, caliginoso. Pareva non accorgersi di nulla. Ma non sarebbe la stessa città se non ci fosse stato Borrelli.

E domani lo ricorderà nella camera ardente in Tribunale. Proprio nell’Aula Magna dove nel 2002 Borrelli pronunciò le parole che tutti ricordano: “Resistere, resistere, resistere come su un’irrinunciabile linea del Piave”.

Menzogne e Rubli: ecco cosa sappiamo

Cosa è successo davvero al Metropol di Mosca nell’ottobre del 2018? E quanto reggono le versioni che stanno dando i vari protagonisti? Ecco una guida di tutto quello che sappiamo finora, anche per chi si è perso qualche puntata.

17 ottobre 2018, ore 15.45. Matteo Salvini prende un volo Alitalia, non l’aereo di Stato. Arriva a Mosca per partecipare all’assemblea di Confindustria Russia alle 17. Dopo non ha impegni istituzionali in agenda. Nella missione Salvini non si porta il consigliere diplomatico, come accade invece spesso quando va all’estero.

Fabrizio Candoni, amico personale di Salvini e fondatore di Confindustria Russia, racconta di averlo avvertito già in quel momento: “Ero con Salvini a Mosca, il giorno prima dell’incontro al Metropol, per un evento di Confindustria Russia. Non mi ricordo se me lo ha chiesto Salvini o uno dei suoi, ma io gli ho sconsigliato di partecipare, poi ha fatto le sue scelte. Sapevo che aveva un appuntamento importante, doveva chiudere la campagna elettorale a Trento” (Corriere della Sera, 15 luglio). Quindi già dal pomeriggio si parlava dell’incontro del mattino seguente al Metropol. Il giorno dopo, Salvini sarà a Bolzano per chiudere la campagna elettorale. L’agenda di Salvini su Facebook indica però il primo evento alle 16, le agenzie riportano le sue prime dichiarazioni alle 16.22.

17 ottobre 2018, dopo le 17. Secondo quanto ricostruito da Stefano Vergine e Giovanni Tizian per l’Espresso e Il Libro nero della Lega (Laterza), uscito dall’hotel Lotte, Salvini incontra il vicepremier russo con delega all’energia, Dimitry Kozak, nell’ufficio dell’avvocato moscovita Vladimir Pligin.

La versione di Salvini: “Ho incontrato tantissimi esponenti del governo russo, adesso non mi ricordo se nella notte del 17-18 ottobre, ma ho incontrato tanti ministri, tanti sottosegretari, tanti imprenditori, ma lo faccio sempre quando vado all’estero” (Corriere della Sera, 19 luglio)

17 ottobre 2018, ore 21. Salvini cena al ristorante Ruski. Organizza Luca Picasso, direttore di Confindustria Russia, imprenditore italiano consulente nel campo dell’energia e titolare di una agenzia di modelle. A quella cena, oltre a Salvini e Picasso, ci sono Ernesto Ferlenghi (manager Eni e presidente di Confindustria Russia), Claudio D’Amico (consulente di Salvini e tra i promotori dell’associazione Lombardia-Russia), Gianluca Savoini (presidente di Lombardia-Russia). Ma anche tre persone dello staff del ministro – scrive il Corriere – il capo della segreteria, il portavoce e uno degli addetti alla comunicazione.

La versione dello staff: durante la cena non si parlò dell’incontro al Metropol della mattina dopo, “ci occupammo di altro”.

Luca Picasso posta su Instagram una foto di lui abbracciato a Salvini.

18 ottobre 2018, ore 9.30. Incontro nell’hotel Metropol di Mosca. Nel febbraio 2019 i due giornalisti dell’Espresso Tizian e Vergine, che ne danno la notizia, raccontano di esserne “stati testimoni”. Non accennano alla presenza di registrazioni o altre prove documentali. Secondo Tizian e Vergine, c’è un manager vicino all’avvocato Pilgin che la sera prima avrebbe ospitato l’incontro tra Salvini e il vicepremier Kozak: Ylia Anreevich Yakunin. Con lui altri due russi. Savoini discute di una fornitura di gasolio da parte della compagnia di Stato russa Rosneft con uno sconto del 4 per cento sul prezzo della materia prima Platts, quello di riferimento del settore. Nello schema sarebbero coinvolti due intermediari e l’Eni, lo scopo è accumulare una provvigione da 65 milioni per finanziare la campagna della Lega.

L’Eni smentisce tutto. Oltre a Salvini gli altri due italiani sono Gianluca Meranda, avvocato 62enne, massone, e Francesco Vannucci, ex impiegato del Monte dei Paschi ed ex militante della Margherita. L’amministratore delegato della banca EuroIb, Alexander v. Ungern-Sternberg, con cui Meranda collaborava, ha detto ieri di aver interrotto i rapporti con l’avvocato-massone il 12 luglio del 2017, molti mesi prima dell’incontro al Metropol.

A che titolo Savoini tratta finanziamenti per la Lega? “Io sono di Lombardia-Russia, mai detto di essere emissario della Lega”, dice Savoini all’Ansa il 10 luglio 2019. Ma in una email al sito americano BuzzFeed nel luglio del 2018 il presidente dell’associazione Lombardia-Russia si era presentato in modo ben diverso (e in terza persona): “Il dottor Savoini collabora da sempre con il segretario federale della Lega, Matteo Salvini, essendo iscritto al partito dal 1991”. E poi ancora: “Ha collaborato all’organizzazione di tutte le visite del sen. Salvini in Russia”. E, alla domanda in quale veste avesse accompagnato Salvini a un incontro in Russia il 16 luglio 2018, Savoini risponde: “Savoini faceva parte della delegazione del ministro Salvini in veste di membro dello staff del ministro, così come ha sempre fatto parte dello staff di Salvini quando era soltanto segretario politico senza incarichi di governo”.

L’11 luglio 2019 Salvini risponde ai giornalisti: “Qual è il ruolo di Gianluca Savoini per la Lega? Non lo so, chiedetelo a lui, è ridicolo tutto quello che leggo sui giornali”.

Il 13 luglio 2019 Salvini nega ogni ruolo specifico di Savoini: “Posso produrre i documenti relativi a tutti i passeggeri che hanno viaggiato con me. Che ne so cosa faceva Savoini al tavolo? Chiedetelo a lui. Io faccio il ministro dell’Interno, mi occupo di cose serie, ritengo ridicola questa inchiesta”.

Il 16 luglio 2019, Salvini usa toni diversi: “Conosco Savoini da 25 anni, dai tempi della Statale di Milano e l’ho sempre ritenuto persona corretta”.

24 febbraio 2019. Esce il numero dell’Espresso , anticipato tre giorni prima online, con l’inchiesta che rivela l’incontro del Metropol. La Procura di Milano – lo scopriremo mesi dopo – apre un’inchiesta per corruzione internazionale. Secondo alcuni documenti anticipati pochi giorni fa dall’Espresso e pubblicati sul numero in edicola oggi, la trattativa sul gasolio è andata avanti proprio fino al febbraio del 2019. Eni smentisce di aver mai concluso affari connessi alla trattativa e riconosce soltanto “una mera lettera di referenza generica” sui rapporti con la banca EuroIb risalente al maggio 2017 (oltre un anno prima del Metropol).

Salvini non reagisce all’inchiesta dell’Espresso e non querela. Il premier Giuseppe Conte, che ha la delega all’intelligence, non risulta aver chiesto ai servizi segreti di approfondire quello che, stando al racconto del settimanale, sembra il tentativo di una potenza straniera di finanziare in modo illecito un partito italiano in vista delle elezioni europee.

4 luglio 2019. Visita di Stato di Vladimir Putin a Roma. Alla cena con il premier Conte partecipa anche Gianluca Savoini, anche se le notizie sul suo ruolo nell’operazione per il presunto finanziamento illecito risalgono a quasi cinque mesi prima. La presenza di Savoini viene richiesta via email da Claudio D’Amico, consigliere di Salvini a Palazzo Chigi, tra i promotori dell’associazione di Savoini Lombardia-Russia. Nessuno, neanche a Palazzo Chigi o alla Farnesina, trova nulla da obiettare anche se, si suppone, tutti hanno letto o almeno potuto leggere l’Espresso.

Salvini ai giornalisti: “Che ne so cosa ci facesse al tavolo? Chiedetelo a lui” (12 luglio 2019).

Il premier Conte spiega di “non conoscere Savoini ed era presente alla cena solo perché partecipò al forum Italia-Russia”.

Il forum Italia-Russia riunisce formalmente organizzazioni della società civile. Ma è in realtà un modo per parlare di imprese e delle sanzioni internazionali decise nel 2014 dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia. Dopo dieci anni, cambia il presidente: al posto di Luisa Todini viene insediato (da Palazzo Chigi) Ernesto Ferlenghi su raccomandazione proprio di Claudio D’Amico. Eppure da cinque mesi è chiaro che Ferlenghi è quantomeno informato di quello che è successo a Mosca tra il 17 e il 18 ottobre 2018, poiché era presente alla cena con Salvini e, in quanto uomo Eni in Russia, evocato dalle discussioni al tavolo del Metropol.

10 luglio 2019. A una settimana dalla visita di Putin, il sito americano BuzzFeed rilancia la storia dell’Espresso, ma la correda dell’audio di Savoini al Metropol e dalla trascrizione completa dei colloqui. L’articolo è illustrato dalle foto della cena di Putin a Roma, con Salvini e Luigi Di Maio insieme al presidente russo.

Questa volta le reazioni ci sono. E, prima di essere identificato, l’avvocato Gianluca Meranda scrive a Repubblica per rivelare che era lui uno degli italiani citati nella trascrizione dell’incontro di Mosca.

Si scopre che la Procura di Milano indaga, con i pm Sergio Spadaro, Gaetano Ruta e l’aggiunto Fabio De Pasquale, da febbraio. Hanno anche recuperato l’audio molto prima che BuzzFeed lo pubblichi. Da chi lo hanno ottenuto? L’Espresso non lo ha mai divulgato, ammesso che lo abbia ottenuto (ma sulla base di cosa ha scritto a febbraio, allora?). E secondo quanto trapela dall’inchiesta, a registrare potrebbe essere stato uno degli italiani. Resta da capire se consapevolmente o perché, per esempio, aveva un trojan nello smartphone attivabile da remoto per trasformare il cellulare in una cimice.

17 luglio 2019. Il Copasir, il comitato di controllo parlamentare che vigila sull’intelligence, si riunisce e ascolta Luciano Carta, il direttore dell’Aise, servizio di sicurezza esterno. Si parla anche della trattativa del Metropol rilanciata da BuzzFeed. Secondo quanto filtra, Carta spiega che non sono stati ravvisati rischi di sicurezza nazionale ma che i servizi segreti monitoravano i vari personaggi coinvolti, come Savoini e D’Amico. Una linea che offre più domande che risposte: i servizi dunque sapevano che la trattativa c’era stata? E cosa hanno fatto nei cinque mesi tra l’articolo dell’Espresso e BuzzFeed? È un problema di sicurezza nazionale se uomini di Putin volevano finanziare in modo illecito il primo partito italiano. Ma lo è anche se invece non c’era nessun finanziamento e quella del Metropol è stata una messa in scena costruita ad arte per incastrare il ministro dell’Interno. E se Savoini era monitorato dai servizi, possibile che nessuno dell’intelligence abbia segnalato a Palazzo Chigi almeno il problema di opportunità della sua presenza alla cena con Putin, Conte e il governo il 4 luglio a Roma?

24 luglio 2019. Conte deve riferire in Parlamento sul caso del Metropol, nella sua veste di capo del governo, ma le domande gli verranno fatte anche in quanto titolare della delega all’intelligence. La linea del premier è che Salvini deve fornirgli una versione scritta della vicenda, di cui si assume la piena responsabilità. Perché nessuno sa bene cosa potrà ancora uscire dall’inchiesta della Procura di Milano, dalle dichiarazioni dei vari protagonisti o dai media che entrassero in possesso di altri audio (di cui si vocifera) di quella o di altre imbarazzanti trattative.

Faraone si sospende dal Pd: “Zingaretti la butta sui ricorsi”

DavideFaraone si autosospende dal Pd. Dopo la decisione di due giorni fa della commissione di garanzia del Nazareno di annullare la sua elezione a segretario del Pd, il senatore renziano alimenta la polemica tra la minoranza e la segreteria Zingaretti. “Sospendo la mia iscrizione a questo partito – ha annunciato – Rimango iscritto al gruppo parlamentare del Pd, continuerò la battaglia per la mia gente e contro questo governo e contro ogni inciucio coi Cinque Stelle”. Il congresso siciliano che aveva eletto Faraone era stato annullato dopo un ricorso presentato dai rappresentanti della mozione Zingaretti. La candidata Teresa Piccione, legata al segretario, aveva denunciato continue violazioni dello statuto e del regolamento durante le primarie dello scorso dicembre, al punto da chiamarsi fuori dalla competizione, lasciando Faraone come unico candidato. La decisione del senatore dem ha fatto riesplodere lo scontro tra renziani e Zingaretti. Lui insiste: “In punta di diritto è una follia. Hanno perso politicamente, la buttano sui ricorsi: avranno tutte le carte bollate che meritano”. E chiude con un retropensiero: “Forse al ‘nuovo Pd’ danno fastidio le battaglie che faccio contro il governo nazionale”.

La metamorfosi di Conte, da avvocatucolo ad Aldo Moro

Hanno fatto una certa impressione le parole di Eugenio Scalfari su Repubblica del 17 luglio: “Valutando il Conte di oggi non è affatto escluso pensare che ripeta in qualche modo le idee di Moro”. Il fondatore, decano del giornalismo “progressista”, si riferisce al Compromesso storico e al rapporto tra Democrazia cristiana e Pci, “perennemente distinti”, “ma alleati insieme per ricostruire la democrazia italiana moderna e da lì partire per un mondo politico bilaterale”. E propone implicitamente un parallelo con un ipotetico asse tra il Pd e i Cinque Stelle guidati da Conte, in funzione europeista e anti-salvinana. “A me – conclude Scalfari – sembra che Conte sia oggi l’uomo del giorno e che possa creare un’Italia europea degna di poter essere positivamente valutata dai suoi alleati e soprattutto dai suoi abitanti”.

Il fondatore di Repubblica non è nuovo a idee e visioni un po’ eccentriche, ma l’analisi con cui accosta il nome del presidente del Consiglio a quello di uno dei padri nobili della storia politica italiana fino a pochi mesi fa sarebbe stata semplicemente impensabile. Quello che agli occhi della stampa mainstream e di un bel pezzo di establishment era solo un avvocato azzeccagarbugli, una mezza figura al servizio della visione populista del Salvimaio, ora è un profilo che gode (da quegli stessi ambienti) di rispetto e del riconoscimento di una sua personalità politica autonoma.

Da capo di un governo teoricamente euroscettico, Conte è andato a Bruxelles per mediare con “i burocrati” sulla procedura d’infrazione sul bilancio italiano. È riuscito nell’obiettivo di ottenere un margine di manovra per il suo governo e un’apertura di credito dalle cancellerie europee.

Poi con l’appoggio alla tedesca Ursula von Leyen alla presidenza della Commissione, Conte ha trainato definitivamente il governo italiano – e i Cinque Stelle – dall’altra parte della staccionata: quella di Angela Merkel e Emmanuel Macron, i “buoni”, i custodi dello status quo continentale. Al centro della scena politica italiana ora da una parte c’è lui, il premier, dall’altra Matteo Salvini e la Lega.

A essere assorbito in questa sorta di nuovo scenario “bilaterale” (per citare Scalfari) è il Movimento di Luigi Di Maio. Il quadro, rispetto alla nascita del governo è decisamente cambiato. Non ci sono più le tre sfere di prima: i gialli da una parte, i verdi dall’altra e sopra di loro il “partito del Colle” dell’avvocato-premier e dei suoi ministri tecnici e rassicuranti, Giovanni Tria all’Economia e Enzo Moavero Milanesi agli Esteri. Conte si è dotato di personalità propria e ha annesso i Cinque Stelle in crisi di consensi e di identità, trascinandoli tra i “buoni” di cui sopra.

Il nuovo scenario è fotografato nell’ultimo sondaggio dell’istituto Ipsos di Nando Pagnoncelli, pubblicato ieri sul Corriere della Sera. Salvini e la Lega continuano a crescere – alla faccia dei rubli e del Metropol – e arrivano a un passo dal 36% (alle Europee avevano il 34,3). Il Movimento 5 Stelle è praticamente immobile al 17,4% (a fine maggio era 17,1). Ma la figura più apprezzata del governo è proprio Giuseppe Conte, che gode della fiducia del 58% degli intervistati, quattro punti percentuali in più del popolare “Capitano” leghista. Di Maio è molto staccato: il suo indice di gradimento è al 34%, comunque in ripresa nell’ultimo mese.

Conte raccoglie giudizi positivi tra gli elettori di quasi tutti i partiti: è apprezzato dal 71% dei leghisti, dal 93% dei pentastellati, dal 55% di chi vota Forza Italia o Fratelli d’Italia, ma lo stima anche il 34% di chi vota Pd.

Un dato che riporta alla considerazione di partenza: il presidente del Consiglio non è più percepito come un burattino, ma soprattutto non è più considerato una minaccia – semmai una garanzia – da molti di quelli che lo ritenevano uno strumento nelle mani dei “barbari”.

Così si arriva al paradosso della popolarità trasversale di Conte, proprio mentre si sgonfia il Movimento 5 Stelle che l’ha scelto come premier e proprio mentre l’inerzia dell’esecutivo si concentra sempre più a destra nelle mani di Salvini.

E si spiega il paradosso ancora più grande: il fondatore di Repubblica che paragona l’ex avvocatucolo ad Aldo Moro e lo descrive, in sostanza, come l’argine a una deriva anti-europeista in Italia.

Non deve essere un caso che in questi giorni le attenzioni di Salvini sembrino essersi spostate dall’ex dioscuro Di Maio al presidente del Consiglio. Il campo da gioco è cambiato e sono cambiati i capitani.

Meravigliosa informativa

Finirà con un paradosso: mercoledì 24 luglio Matteo Salvini tornerà in Senato (dove finora ha partecipato all’1,3% delle sedute, dati Openpolis) e si metterà comodo sul suo seggio, come un parlamentare qualsiasi. Al centro dell’aula, tra i banchi del governo, ci sarà Giuseppe Conte. Il premier sarà lì per informare i senatori, tra cui Salvini, sui guai di Salvini: e cioè la conversazione del suo amico Savoini al Metropol di Mosca intercettata da BuzzFeed sulla presunta tangente da circa 65 milioni di dollari di cui parlava, a nome della Lega, con misteriosi interlocutori russi. “Il caso rubli”, insomma. Salvini non vuole riferire in Parlamento, perché lo ritiene “una stupidaggine”. Conte invece non la vede così e si è assunto l’onere di farlo al posto del suo ministro. Il premier vorrebbe da Salvini una memoria scritta per affrontare le domande dell’aula, ma Matteo non ha nessuna intenzione di accontentarlo. Perché – lo sapete già – il “caso rubli” per lui è una gran fesseria. Però il “Capitano” sarà in aula, da senatore, a sentir parlare di sé da parte del capo dell’esecutivo di cui è vice. E probabilmente interverrà pure: se la versione di Conte non dovesse piacergli, sarà ben felice di ribattere in tempo reale, in mondovisione. È o non è un governo meraviglioso?

Sui social del Capitano insulti alla Boschi Lei: “Fomenta l’odio”

MatteoSalvini twitta, i suoi follower insultano Maria Elena Boschi. L’altro giorno il vicepremier ha postato sui social la notizia della mozione di sfiducia nei suoi confronti avanzata dalla deputata del Pd contornata da un commento: “Ma questi hanno ancora il coraggio di parlare?”. Sotto al post decine di persone hanno insultato l’ex ministra, che ha denunciato gli attacchi rimproverando a Salvini di aver fomentato quell’odio nei suoi confronti: “Lo schema è sempre quello. Appena dico qualcosa che lo fa arrabbiare, Salvini scatena l’odio dei suoi. Che tristezza sapere che questi insulti appaiono sulla pagina del responsabile della sicurezza nazionale. E che Salvini sceglie di non cancellarli”. La Boschi ha anche lamentato la scarsa solidarietà da parte dei colleghi leghisti e 5 Stelle, rilanciando poi l’idea della mozione di sfiducia: “La reazione rabbiosa di Salvini e dei suoi dimostra che quella mozione andava fatta subito come proposto da alcuni di noi”. Parole che non hanno impressionato il vicepremier, che ha ripreso le parole della ministra postando lo screenshot di alcuni commenti negativi degli utenti scritti nel profilo della deputata, aggiungendo tre faccine sorridenti.

Quando Giorgetti piazzava i dipendenti leghisti in Regione

Finalmente la Lega, dopo tanti anni difficili, è tornata in utile: la bellezza di due milioni e mezzo la vecchia sigla “Nord” e un non disprezzabile altro milioncino abbondante quella nuova “per Salvini premier”. Insomma, quattro milioni in cassa avanzati dalla “gestione caratteristica” di un partito che nella sua doppia anima al 31 dicembre scorso aveva 12 dipendenti in tutto. Si torna a respirare dopo molti anni di rosso e tanta povertà, anche grazie alla vantaggiosa rateizzazione in 76 rate annuali da 600 mila euro senza interessi dei 46 milioni (3,5 sono già stati “bloccati”) di cui il Tribunale di Genova ha ordinato il sequestro dopo il processo per la gestione non proprio “sana e prudente” dei tempi di Bossi e Belsito.

Ed erano bei tempi, quelli, per i padani: nel 2010 la Lega del senatur incassava 36,4 milioni e a fine anno faceva segnare un attivo di otto milioni e una liquidità in cassa di 30; l’anno dopo 30 milioni di ricavi e 7 di utili, la liquidità era scesa a 11 milioni, ma ce n’erano addirittura 20 investiti in “altri titoli”. Chissà, forse l’inizio degli avventurosi investimenti all’estero che hanno portato tanta sfortuna ai lumbard.

Mentre, però, Bossi e famiglia sono accusati di aver usato i fondi del partito anche per attività, diciamo, “non politiche”, la Lega metteva in campo strategie non proprio legali per abbassare il costo del lavoro. A dare le indicazioni per la Lombardia, come vedremo, l’highlander padano: Giancarlo Giorgetti.

I dipendenti, dicevamo. Un decennio fa il partito ne aveva tra 70 e 80: la spending review iniziata all’epoca (il 2012 fa segnare il primo passivo monstre da 10 milioni) li ha ridotti alla decina odierna. Ma non c’erano solo i dipendenti del partito, ma anche quelli che – pur lavorando nella storica sede di via Bellerio a Milano – erano messi in carico ai gruppi regionali, agli assessorati e dovunque un leghista avesse disponibilità: insomma, venivano pagati con soldi pubblici per lavorare per il partito.

C’è un processo in corso a Torino in cui questo meccanismo è stato raccontato con dovizia di particolari in queste ultime settimane. Perché c’è il processo? Ma perché la cosa non è proprio legale: tecnicamente parlando, o almeno così sostiene la Procura di Torino, è una truffa.

Il caso particolare riguarda la segretaria di Matteo Brigandì, pezzo grosso della Lega piemontese di un dì: nel 2011-2012 fu “passata” in Regione, ma continuò a lavorare per il capo della cosiddetta “Procura della Padania”, che poi era l’ufficio legale del Carroccio dell’epoca. Quel meccanismo, però, riguardava tutte le regioni e moltissimi lavoratori. Lo ha spiegato al giudice in modo molto chiaro Enrica Brambilla, cioè il primo lavoratore mai assunto in Lega, impiegata amministrativa: “Io conoscevo molto bene il meccanismo, perché lavorando in amministrazione, io parlo di Regione Lombardia ovviamente, l’allora segretario regionale Giancarlo Giorgetti, chiedeva al gruppo regionale piuttosto che agli assessorati, di contrattualizzare le persone che lavoravano in segreteria regionale. Queste cose le so perché me ne parlava direttamente Giorgetti”.

Questo meccanismo di scarico sul settore pubblico di gente che lavorava per la Lega era assolutamente sistematico: “Diciamo che c’era un gruppo praticamente fisso di dipendenti dalla segreteria federale a quelle territoriali – ha spiegato Brambilla in tribunale – e non si assumeva più, si cercava sempre di fare contratti di collaborazione, ma cercando di caricarli sulla Regione di competenza”.

Va ricordato che non parliamo del partito che si risolleva oggi, ma di quello talmente ricco che aveva il fascicolo intitolato The family nell’armadio e faceva investimenti a Cipro e in Tanzania. Storia antica, certo, troppo antica dal punto di visto penale, però c’è lo stesso Giorgetti.