Conte avverte i governatori: “Così l’autonomia ritarda…”

La fumata nera sulle autonomie e lo stop del governo al regionalismo sulla scuola agita i governatori di Lombardia e Veneto. Ieri Attilio Fontana e Luca Zaia hanno accusato il governo di “cialtroneria”, augurandosi “che l’esecutivo dia presto vita a un testo”, provocando la reazione di Giuseppe Conte. Parole poco gradite e definite “ingiustificabili” dal premier, la cui irritazione per queste “sterili polemiche” finisce con una minaccia: se si continua così, i ritardi nelle trattative saranno vostra completa responsabilità.

L’attacco più duro era arrivato dal lombardo Fontana, imbufalito soprattutto coi 5 Stelle: “Sono profondamente offeso che questi cialtroni ci facciano passare per truffatori del Paese e del Sud. Che persone che disistimo mi facciano passare per ladro è una cosa che mi ha fatto incazzare. Qualcuno vuole apparire paladino del Sud e salvare un pò di voti, ma così fa un danno al Paese”.

Fontana aveva però anche accusato direttamente il presidente Conte, reo di essersi appiattito sulle posizioni del Movimento: “Mi stupisce che Conte, che ancora stimo, sia stato coinvolto in questa cialtronata”. Parole simili a quelle di Zaia, che taglia corto: “Il Veneto la sua proposta l’ha fatta nell’ottobre del 2018. Il governo non decide quale autonomia attuare, ma quale testo sottoporci. Spero che l’esecutivo metta presto fine a questa agonia e ci faccia una proposta organica”.

La versione di Conte, però, è ben diversa. A partire dall’ultima bega, quella sulla scuola. Il progetto delle Regioni prevedeva assunzioni dirette in Lombardia e Veneto, contratti (e stipendi) ad hoc per gli autonomisti e, ovvio, un consistente trasferimento di fondi da Roma. I governatori accusano di aver fatto saltare l’accordo i 5 Stelle e Conte, che però affida la propria replica a una velina serale che ricorda come “tutti i ministri, compresi quelli leghisti, a partire da Erika Stefani per finire a Marco Bussetti, abbiano condiviso la decisione”.

Di sponda arriva anche una nota da fonti di governo del Movimento: “Non capiamo tutto questo nervosismo e gli attacchi rivolti al premier. L’autonomia si farà perché è giusto venire incontro alle richieste di Veneto, Lombardia e Emilia Romagna, nel rispetto dell’unità nazionale e di tutte le altre regioni”. È proprio questo aspetto, però, che fa litigare le Regioni con Conte e i grillini. Ieri Zaia ha sbottato ancora: “Piantiamola coi discorsi sull’unità nazionale minata, chiedo solo l’applicazione della Costituzione”.

Nelle bozza iniziali d’intesa, però, le tre Regioni (che fanno il 40% del Pil) pretendevano di tenersi molti più soldi rispetto ad ora senza alcuna perequazione. È la “secessione dei ricchi” di cui ha parlato l’economista Viesti. Conte, però, non ci sta a far passare la solidarietà nazionale come una questione secondaria, tanto che ieri ha girato le colpe di eventuali ritardi a “chi continua a offendere il governo e a usare questi toni”, perché così “rischia di assumersi la responsabilità di rallentare e ostacolare questo processo riformatore”. Insomma, insistete così e un testo non lo vedrete mai.

Tanti donatori per la Lega, non Siri: zero euro nel 2018

Duecentodieci generosi benefattori, tutti con donazioni comprese tra i 5 mila e i 100 mila euro. Un totale di oltre 7 milioni che per la Lega sono ossigeno, in tempo di sequestri giudiziari e di addio ai cari vecchi rimborsi elettorali a pioggia. Eppure nella lista dei donatori pubblicata nel bilancio 2018 della Lega (la legge prevede l’obbligo dei nominativi per chi supera i 5 mila euro di contributo) ci sono quasi tutti i 185 parlamentari eletti, ma manca uno dei nomi più controversi. Non c’è traccia infatti di Armando Siri, senatore ed ex sottosegretario ai Trasporti, già indagato per corruzione in un’inchiesta sull’eolico e intestatario di un controverso mutuo da mezzo milione concessogli da una banca di San Marino.

Il dato è curioso soprattutto perché pochi mesi fa Matteo Salvini aveva invitato deputati e senatori ad autotassarsi per garantire il funzionamento del partito e ripagare il debito con la giustizia: “Per reati commessi dieci anni fa – avvertiva il Capitano – pagheranno i parlamentari, che ogni mese cacceranno il cash”.

E infatti i più hanno aperto i rubinetti: Roberto Calderoli ha scucito quasi 60 mila euro (50 mila euro al partito nazionale, 9.950 alla sezione lombarda), il tesoriere Giulio Centemero è arrivato a 44.555, il ministro Lorenzo Fontana ha donato 56 mila euro, Claudio Borghi, alla prima legislatura come Siri, 43.972 euro tra Lega nazionale e “filiale” toscana. Persino Salvini, per dare il buon esempio, si è autotassato di 36 mila euro. Ma Siri no.

Il suo nome non compare né nel lungo elenco dei donatori della Lega né in nessuno dei bilanci regionali, ferma restando la possibilità che il senatore – stipendio mensile lordo 10.385,31 euro, diaria 3.503,11 euro, rimborsi soggetti a rendicontazione 2.090 euro – abbia concesso al partito un contributo inferiore ai 5 mila euro, liberandosi così dal vincolo di trasparenza.

Ma il dato, in fondo, non deve meravigliare. L’ultima polemica pubblica che ha coinvolto l’ex sottosegretario riguarda appunto un mutuo decennale concessogli dalla Banca Agricola Commerciale di San Marino su cui indaga la Procura di Milano. Un prestito da 585.300 euro siglato nel gennaio 2019 senza alcuna ipoteca, nonostante il senatore prima di entrare in Parlamento dichiarasse soltanto 25 mila euro di reddito. I mancati versamenti al partito potrebbero perciò esser tornati buoni per l’investimento, che ha portato a Siri una palazzina di due piani a Bresso (Milano) senza dover fornire garanzie.

Una pratica ancor più anomala se si considera che il mutuo ha coperto il 100% dell’acquisto dell’immobile, in un contesto in cui lo stipendio da parlamentare non può essere considerato una sufficiente copertura, avendo una legislatura durata di cinque anni ed essendo soggetta alla minaccia del voto anticipato.

E così senza Siri – e senza peraltro il contributo del senatur Umberto Bossi, anche lui assente nella lista dei donatori – la Lega si è arrangiata con altro. Per fortuna di Salvini i soldi non sono arrivati soltanto da politici, ma anche da aziende con simpatie per la Lega: la Vaporart, che produce liquidi per sigarette elettroniche (settore che ha beneficiato di un condono da parte del governo), ha donato 100 mila euro, mentre da Derby group (trasporti) ne sono arrivati 10 mila. Nei bilanci regionali ci sono poi i 67 mila euro dalla Associazione Now – Genova; i 10 mila alla Lega lombarda dalla Pata, dal Consorzio agrario di Cremona e dal fondo Kairos; i 30 mila dalla Biogreen e gli altri 10 dalla Giulia società agricola alla Liga Veneta. In attesa che anche Siri aiuti la causa.

Il più grande

Se l’idea di Giustizia avesse un volto, avrebbe il suo. Se il precetto costituzionale “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” avesse un nome, avrebbe il suo. Francesco Saverio Borrelli è stato il più grande magistrato che abbia avuto in dono l’Italia, almeno fra quelli che hanno goduto del privilegio di morire nel loro letto. Diceva Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Ma nessun popolo può fare a meno dei simboli e degli esempi, e lui era entrambe le cose. Nel 1992-’93, mentre l’Italia crollava bombardata dalle stragi e corrosa dal cancro della corruzione, la gente perbene si aggrappò alla sua toga e a quelle del suo pool Mani Pulite: D’Ambrosio, Di Pietro, Colombo, Davigo, Greco. Si ebbe, in quella breve parentesi, la sensazione che la legge fosse davvero uguale per tutti. E l’illusione che gli italiani onesti fossero maggioranza. Durò poco, è vero, infatti subito dopo arrivò B., che inquinò tutto, anche la sinistra, anche la magistratura (con un Borrelli sulla breccia, uno scandalo come quello del Csm sarebbe stato impensabile: per ragioni estetiche ancor prima che etiche). Ma – ripeteva Borrelli – “il seme è stato gettato” e qualche frutto s’è visto.

Era un uomo timido, nel privato. Ma, quando indossava la toga, diventava coraggioso. Sapeva di essere protetto dalla Costituzione, dalla corazza dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’indipendenza da ogni altro potere. Difendeva sempre i suoi uomini. Non guardava in faccia nessuno. E si lasciava scivolare pressioni, aggressioni e blandizie come acqua piovana sulla toga impermeabile. Gli attacchi di ogni colore, gli insulti, le calunnie, le ispezioni ministeriali, i procedimenti disciplinari al Csm, le indagini penali a Brescia che ha subìto non si contano. Spioni d’angiporto e pennivendoli di fogna hanno perso anni a cercargli uno scheletro nell’armadio per sputtanarlo, un tallone di Achille per ricattarlo: invano. E allora han cominciato a inventare. I politici di destra e sinistra lo detestavano proprio perché era inattaccabile e i loro elettori credevano a lui, non a loro. Anche grazie al suo humour snob e tagliente. Proprio 25 anni fa, il 14 luglio 1994, il governo B. partorì il decreto Biondi, che vietava il carcere per i reati di Tangentopoli, ma non per quelli di strada. Lui sibilò dalle labbra affilate come una lama: “È singolare che, nell’anniversario della presa della Bastiglia, si aprano questi squarci nei muri di San Vittore e del carcere di Opera. Il governo, invece di predisporre misure idonee a impedire la perpetuazione di un sistema di corruzione, dimostra la preoccupazione opposta”.

E concluse: “Evidentemente considera la magistratura troppo efficiente…”. Mesi dopo, mentre il cerchio si stringeva sul Berlusconi giusto, il suo ministro della Giustizia ad personam Alfredo Biondi sbroccò con una battutaccia contro l’intera magistratura inquirente: “Un grande avvocato mi diceva sempre: ‘Studia figliolo, o diventerai un pubblico ministero…’”. Borrelli lo fulminò con un’allusione al suo tasso alcolico: “Il ministro Biondi, a un’ora pericolosamente tarda del pomeriggio, s’è concesso una battuta impertinente e di cattivo gusto, che i magistrati non si attenderebbero certo dal loro ministro”. Quando poi, nel 2001, in via Arenula arrivò il leghista Roberto Castelli, ingegnere acustico specializzato in abbattimento di rumori autostradali e in leggi ad personam, prese a chiamarlo “l’ingegner ministro”. Ogni tanto dissentiva dai suoi pm, ma lo diceva loro a quattr’occhi. Come quando non condivise il comunicato del Pool contro il decreto Biondi, letto in conferenza stampa da Di Pietro. Quando, a fine anni 80, si schierò con Armando Spataro nello scontro furibondo con Ilda Boccassini sulla gestione delle indagini sulla mafia a Milano e inviò al Csm un parere poco lusinghiero su di lei, che emigrò in Sicilia, per poi tornare a Milano nel ’95 e diventare la sua beniamina. Quando intimò all’ormai ex pm Di Pietro di smentire B. che in tv gli aveva attribuito una dissociazione dall’invito a comparire per le tangenti alla Finanza: “se no la prossima volta ti faccio volare giù dalle scale a calci”. Quando fece una lavata di capo al giovane Paolo Ielo, che in aula aveva definito Craxi “criminale matricolato” per le intercettazioni che provavano i dossieraggi contro il pool da Hammamet: “Hai fatto malissimo a usare quelle parole. Potevi dire le stesse cose con più stile”.

Ecco: lo stile. Borrelli, napoletano, classe 1930, figlio e nipote di magistrati, in toga dal 1955, di stile ne aveva da vendere. Lo dimostrò nel 2002, quando uscì di scena il giorno del pensionamento. Anzi, del prepensionamento, perché per levarsi dai piedi lui e il suo coetaneo D’Ambrosio, B. varò una legge apposita che portava l’età pensionabile dei magistrati da 75 a 72 anni. Borrelli chiuse in bellezza il 12 gennaio, con la toga rossa e l’ermellino di Pg, inaugurando l’anno giudiziario col celebre appello a “resistere, resistere, resistere” allo “sgretolamento della volontà generale e al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto”. Parola d’ordine che fu subito raccolta dai Girotondi. Lui però aveva già lasciato il proscenio, evitando quel reducismo patetico che guasta anche la memoria dei migliori. Faceva il nonno, suonava il piano, andava in bici, leggeva. Niente interviste, libri di memorie, consulenze, incarichi a gettone (a parte quello, a tempo, di capo dell’Ufficio indagini della Federcalcio commissariata per Calciopoli, e la presidenza del Conservatorio). In un Paese serio l’avrebbero promosso senatore a vita e proposto alla Presidenza della Repubblica (poltrone che probabilmente avrebbe rifiutato). Quindi, non in Italia. Grazie di tutto, dottor Borrelli.

“Mi mancherà”: Clinton celebra Camilleri

“Ho letto, ho apprezzato e ho imparato molto dalla lettura dei libri di Montalbano di Andrea Camilleri. Era uno scrittore saggio e di talento. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Mi mancherà e mi mancherà Montalbano, molto”: così Bill Clinton ha voluto ricordare ieri lo scrittore scomparso mercoledì scorso. Clinton e Camilleri in passato si erano scambiati messaggi e avevano intenzione di organizzare un incontro per conoscersi di persona.

“Era un genio della scrittura: grazie a lui sono nati dei monologhi unici”

Aggettivi ed emozioni. Aggettivi, ricordi, lacrime e certezze: “Mattia Torre non era solo una brava persona e un genio della scrittura. Mattia era proprio un figo”. Massimiliano Bruno, attore, regista e sceneggiatore, ci ha lavorato a lungo e ha conosciuto Torre ancora prima, “quando da sconosciuti calcavamo un palco di Roma, ognuno con la propria compagnia teatrale, e in orari differenti. Ma i camerini comuni ci hanno permesso di scambiare le prime parole”. Da allora televisione, sempre teatro con l’occupazione del Valle, e soprattutto la partecipazione alla serie televisiva Boris.

Un capolavoro.

Di più, è storia: ha ribaltato il concetto della serialità, ha avvicinato alla fiction anche colore che odiavano le fiction stesse. Ha fatto rosicare (suscitare forte invidia) tantissime persone.

“Boris” è fonte di continue citazioni.

Eppure sono passati molti anni, ma la sua forza resta: io partecipavo a una puntata sola ogni stagione (tre totali), ma la scrittura del personaggio era talmente forte da restare impresso. E poi quella fiction ha creato un gruppo importante di attori, come Pietro Sermonti o Francesco Pannofino.

Un grande pregio di Mattia Torre?

Non sentiva mai la necessità di sfoggiare la sua enorme cultura: era in grado di scandire dei concetti alti con dei modi popolari.

Poi…

La sua ironia e cattiveria erano uniche (Si ferma. Cambia la voce). Appena arrivata la notizia sono corso a casa sua.

E…

Erano tutti lì: da Serena (Danndini) a Valerio (Mastandrea); tutti attorno e in silenzio per condividere questo dolore immenso (Si ferma ancora). Mattia doveva girare a settembre un suo film.

Per Mastandrea ha scritto monologhi importanti.

C’era la fila per ottenere un suo scritto, perché oggi non ci sono più moltissimi autori di livello, e appunto Mattia spiccava. Quindi mi piacerebbe concludere con un consiglio.

Eccoci.

Vorrei che le persone leggessero In mezzo al mare (edito da Mondadori), è la raccolta dei suoi sette atti comici. A un certo punto scrive: ‘Sei un pezzo di un grande ingranaggio, e siccome siamo in Italia, l’ingranaggio è vecchio, arrugginito e si muove a fatica. D’altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande’. Questo era lui.

@A_Ferrucci

“Luciano, la superstizione e quella cotoletta di cartone”

“Era la mezzanotte di un Capodanno a casa mia. Giro con un piatto di lenticchie, gliene offro: ‘Lucià, ne vuoi un po’ che porta bene?’. Mi guarda con l’aria avvilita e borbotta: ‘Marisa, ma io sono un ingegnere!’. Uomo di scienza, Luciano, mica uno che poteva piegarsi alla superstizione. Eppure era un uomo d’amore, tanto, anche a giudicare dalla folla commossa che ieri gi ha reso omaggio in Campidoglio. De Crescenzo se n’è andato giovedì, avrebbe compiuto 91 anni tra un mese. Da tempo non stava bene e al suo fianco, oltre alla famiglia, aveva gli amici di sempre, quelli dei film, della musica e delle risate, Marisa Laurito e Renzo Arbore.

Signora Laurito, in Campidoglio ha ricordato Il Dubbio, il libro nel quale De Crescenzo sostiene che se una persona ha dubbi vuol dire che è tollerante.

Le persone d’amore, quelle che professano il bene, hanno dubbi. Bisogna scappare a gambe levate da chi nutre certezze, diceva Luciano, perché la fede cieca e la mancanza di dubbi sono pericolose. Chiamava costoro ‘persone di libertà’.

Era un filosofo o, come dicono, un divulgatore?

Molto più di tutto questo, era tante cose insieme: un uomo bellissimo, ironico, spiritoso; sapeva disegnare, fotografare, scrivere. È stato un grande autore, sottovalutato dall’intellighenzia, quella che anche Camilleri definiva non attenta. E invece la cultura non è proprietà di pochi. Mi auguro che un domani se ne possano rendere conto.

Però era amatissimo dal suo pubblico.

Lo scorso anno abbiamo portato a teatro Così parlò Bellavista: mi sono resa conto che il pubblico ripeteva a memoria le nostre battute. Quel film-capolavoro è diventato un cult. Luciano aveva dalla sua le persone normali.

E lo abbiamo visto anche ieri per l’ultimo saluto.

Mi si è avvicinato un signore: ‘Io non sono una persona colta, non ho studiato – mi ha detto –, ma grazie ai libri di filosofia di De Crescenzo ho imparato qualcosa. Non vado mai ai funerali dei Vip, ma essere qui mi sembrava doveroso’. Far appassionare le persone comuni alla filosofia è stato un grandissimo merito.

Arbore ha ricordato come non andasse mai sopra le righe. Lei ha memoria di qualche litigio?

Sempre per gioco. Ricordo i viaggi in Kenya con Luciano e Renzo. Sa perché si arrabbiava? Perché nei villaggi sperduti non poteva leggere il suo quotidiano. Era l’unico degli amici che, quando dovevo girare un film la mattina presto, potevo chiamare: lui si svegliava alle 5 del mattino, andava al bar, beveva il caffè e comprava il quotidiano.

Eravate spesso insieme?

Passavamo insieme tutti i Natali, a casa mia, con le nostre famiglie. Luciano aveva sempre fretta di mangiare.

Per fame?

No, no, perché si scocciava di aspettare. Quando mangiavamo al ristorante, se vedeva passare una qualsiasi pietanza diceva al cameriere: ‘La dia a me’. Una volta gli abbiamo organizzato uno scherzo: gli abbiamo fatto preparare una cotoletta con una scatola di cartone. Stessa scena: lui ferma il cameriere e se la fa lasciare. Inizia a mangiare. ‘Lucià, ma è buona?’. ‘Sì, solo un po’ dura’.

Vi conoscevate da sempre.

Ci incontrammo sul set de La mazzetta, il film di Corbucci di cui Luciano aveva scritto la sceneggiatura e io ero la protagonista femminile. Pensi che ho ritrovato una sua dedica al libro Panta Rei, uscito nel 1997: ‘Cara Marisa, mi sembra ieri e sono passati 20 anni, ma non è passato l’affetto che ho per te’. Oggi ne sono passati 45.

La Napoli che De Crescenzo incarnava è scomparsa?

Forse per alcuni partenopei, ma il cuore della Napoli forte resiste ancora. È una Napoli elegante, bella, preziosa quella che Luciano portava nel cuore.

E non superstiziosa.

Diceva il grande Eduardo De Filippo: ‘Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male’.

Mattia Torre, far ridere era una dote molto seria

È sempre colpa di un altro. Una sintesi che vale la radiografia del nostro Paese. Mattia Torre aveva il dono della parola pungente, che sferza risate incontenibili intervallate a dolori acuti, all’occorrenza. E quest’Italia, nella sua vita troppo breve ieri spezzata da una lunga malattia a soli 47 anni, l’ha saputa raccontare come pochi: il migliore della sua (e non solo) generazione. Dalla serie cult Boris a quella “testimoniale” La linea verticale, passando per “il divano” di Parla con me, il film Piovono mucche, il libro/diario Faleminderit Aprile ’99 Albania durante la guerra, l’esilarante Dov’è Mario? e la cine-strenna Ogni maledetto Natale e ancora decine di pagine di ogni format(o) pronte a reinventare i codici dell’ironia televisiva, cinematografica, teatrale e naturalmente letteraria, di cui l’ultimo titolo è il saggio “semiserio” In mezzo al mare – Sette atti comici. Perché Mattia Torre vestiva molti cappelli con la sua penna di formidabile acutezza, pur rimanendo fedele a se stesso.

Difficile non partire dalla fenomenologia Boris – La serie per cogliere il graffio di Torre. Nata da un’idea di Luca Manzi e Carlo Mazzotta, scritta da Torre con i sodali Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, la serie in 3 stagioni sovverte ogni modello della fiction tv italiana dimostrando che comicità & qualità è un binomio possibile. Dal 2007 al 2010 in onda su Fox quel “pesciolino rosso” sancisce un successo di passaparola senza precedenti, capace di resettare un modello inventando un genere, un gergo e un immaginario collettivo istantanei. Bastava poco a capirlo, e i critici tv più attenti ne hanno colto subito il segnale, “Boris è una fiction sulla fiction (..) tutta italiana che prova a riflettere su un diffuso stato d’animo della fiction italiana: il disincanto, per non dire il cinismo” scriveva Aldo Grasso nel 2008. Assemblando semplici parole ripetute, quasi a intonarsi con la meta-ironia sui parossismi italiani proposta dalla serie, il teorico televisivo coglieva il punto di rottura contenuto nei suoi brevi episodi (25’): c’è un prima e dopo Boris, ovvero c’è un’Italia che si guarda allo specchio e ride di sé mentre tenta disperatamente di sembrare seria agli occhi del mondo… anzi a “Gli occhi del cuore” per dirla con la soap opera di cui Boris è la “meta-serie” e i suoi indimenticabili personaggi. Con risate fino alle lacrime si ripensa in ordine sparso a René “il regista” Pannofino, “il Conte” Guzzanti, “la cagna maledetta” Crescentini, “lo stagista” Tiberi, Caterina “Arianna” Guzzanti o al “Biascica” Calabresi.

Mattia Torre li ha amati tutti i “momenti Boris” tanto da farne Boris – Il film nel 2011, sempre riunito nel magico trio con cui, nel 2014 ha firmato l’esilarante commedia Ogni maledetto Natale. Ma, si diceva, Torre era anche altro e soprattutto già “oltre” i suoi testi.

Nato e cresciuto a Roma, l’autore si era formato studiando e contestualmente “reinventando” il teatro, con testi brevi ma già esemplari, distillati straordinari di sapienza sull’italica sorte che vanno dai primissimi negli anni Novanta (Il lavoro) a – solo per dare un esempio – il folgorante monologo Gola (2011) sull’isterico quanto morboso rapporto fra gli italiani e il cibo. “Semplicemente un genio” l’ha recentemente definito Sabrina Impacciatore che si è trovata come altri colleghi a recitarlo. E poi naturalmente tanti testi per la tv intelligente di intrattenimento, molta della quale realizzata per e con Serena Dandini: non solo Parla con me dal 2004 al 2011 ma anche The Show Must Go Off. È invece del 2016 la miniserie Dov’è Mario? pensata e scritta per Sky con Corrado Guzzanti che ne è anche il protagonista. “Ci eri indispensabile” ha twittato ieri l’attore commosso appena ha saputo della scomparsa di Torre. E forse indispensabile è stato per Mattia lasciarci consegnandoci il “senso della malattia” attraverso la sua ultima miniserie tv, La linea verticale, andata in onda su Rai Play lo scorso anno con successo unanime di critica e pubblico. Senza dubbio uno dei suoi capolavori con un Valerio Mastandrea sublime, l’opera resta il testamento di un vissuto doloroso che sa mutare in sguardo disincantato, ai limiti del tragicomico su di sé, i compagni di corsia e le gerarchie ospedaliere, laddove il confine fra la malattia reale e la guarigione sognata si fonde in umanissima e universale poesia.

Con i King Crimson guai a utilizzare il cellulare: la sicurezza lo sequestra

Stavolta è andata di lusso. Non come quella sera in America, quando Robert Fripp smise di suonare e impugnò un minilaser, puntandolo su uno spettatore che filmava la performance dei King Crimson. Con incorruttibile fermezza, lo sventurato fu esiliato dai giganti della security, e addio concerto dei sovrani del progressive. A Perugia, tappa di Umbria Jazz nel tour di Fripp e soci, un orwelliano annuncio prima dello show ha fatto capire che c’era poco da scherzare. Ai soliti giganti son bastate un paio di ronde in platea, ammonendo quei pochi che non ce la facevano a staccare gli occhi dalla spunta su WhatsApp, dalla diretta su Fb, dalla gitarella virtuale su Instagram. Nello Stato pur musicalmente libero dei King Crimson il cellulare merita repressione. Non che siano gli unici, quelli della mitica band, a predisporre misure severe contro l’intossicazione tecnologica degli aficionados. Che si lagnano, ma poi capiscono che a un evento si può andare anche per ascoltare qualcosa di bello, che incredibilmente accade nel mondo tridimensionale davanti a loro. Il divieto funziona, insomma, soprattutto con quegli artisti che non hanno bisogno di lucrare sui follower e i like. Il politburo dei big proibizionisti è ben rappresentato: Jack White, capitano dei Raconteurs, si è rivolto a una startup, la Yondr, che realizza scatole a prova di connessione dove dovrai buttare il tuo arnese fino a dopo i bis; Adele e Gianna Nannini si affidano a suppliche. Per non parlare di Keith Jarrett, che se vede un flash o sente uno squillo si alza dal pianoforte e saluta. O Bob Dylan: l’unica volta che ha parlato al suo popolo è stato dopo aver rischiato una caduta sul palco: “Volete che suoniamo o ci mettiamo in posa?”. Bel dilemma, davvero.

Io, italiana salvata dalla carità dei cinesi

“Pronto papà? Volevo dirti che da oggi in poi ogni volta che ci sarà un cinese in difficoltà, noi dovremo aiutarlo”: la telefonata parte mentre, senza eufemismi, elemosino nel centro di Shanghai. Il telefono non funziona, Internet non funziona, il bancomat non funziona, le banche non riescono a cambiare i miei euro, il mio passaggio non c’è più, i tassisti non capiscono il mio inglese (forse per colpa loro, forse del mio inglese). Disperata mi aggiro su una grande piazza, fisso un telefono inutile e un portafogli altrettanto inutile. Poi, il giovane Can Ming, mi si avvicina: “Can I help you?” Gli dico che no, non può aiutarmi, la mia è una situazione disperata in una meravigliosa città, fatta di antichità e modernità, rive di grattacieli scintillanti e quartieri ricchi di storia e fascino. “Facciamo così – mi dice – io tra 10 minuti termino il mio turno di lavoro e posso andare a prendere dei soldi per te, così puoi tornare in metro”. E come te li restituisco? “Non c’è bisogno”. Resto con Can per i 10 minuti che seguono: mi racconta che gli piace vivere in Cina, che è felice e non andrebbe altrove. Anche perché viaggia molto, è pronto per andare in Indonesia, pagherà con i soldi che sta guadagnando da questo lavoretto come assistente per un grande evento. Ha Facebook, anche se in Cina è bloccato. “Mi aggiungi?” chiede, lo faccio. E quando torna con 10 yuan rimaniamo d’accordo di vederci a Roma. “Ci sentiamo su Facebook – mi dice – lo uso sempre quando sono in viaggio”. Vado a prendere la metro. Mi perdo per due volte e per due volte qualcuno mi aiuta senza che lo chieda. Un uomo non parla neanche inglese: legge la destinazione su un biglietto che mi hanno scritto e mi fa segno. Al cambio, mentre cerco di non sbagliare direzione, mi guarda. Discreto, in un angolo, mi indica ancora dove andare. Sono sola, senza soldi né telefono, ma a casa.

Instagram toglie i like e gli influencer hanno il cuoricino spezzato

Sono giorni angosciosi per l’umanità: Chiara Ferragni rischia il posto di lavoro. Che poi non è un posto né un lavoro, quello dell’influencer, ma non andiamo per il sottile. La categoria è a rischio, e nemmeno un sindacalista che protesti. Mercoledì, infatti, Instagram ha avviato anche in Italia (e in Irlanda, Giappone, Brasile, Australia e Nuova Zelanda) il test che oscura il conteggio dei like: già rodato in Canada – con “esito positivo” fanno sapere dal social, senza specificare cosa si intenda per “positivo” –, l’esperimento riguarda solo una piccola parte della platea degli utenti (quanti non è dato sapere, né con quali criteri di scelta) ed è temporaneo.

L’obiettivo – almeno quello ufficiale – è rendere Instagram una piattaforma più democratica e accogliente, “un luogo dove tutti possano sentirsi liberi di esprimere se stessi. Ciò significa aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti like ricevono”, ha dichiarato Tara Hopkins, a capo delle politiche pubbliche del social network nell’area Emea (Europa, Medioriente e Africa).

Con questa mossa, inoltre, Instagram tenterà di estirpare il fenomeno della compravendita di like e follower (già diffusa sul social “padrone”: Facebook) e contrasterà il pernicioso e ridicolo “effetto gregge”, che spinge a mettere “mi piace” solo perché lo hanno fatto gli altri. Il test potrebbe infine incoraggiare i timidi, tutti coloro che, per paura di non ricevere consensi e/o di essere giudicati, hanno finora evitato di pubblicare contenuti. Ma che fine farà chi – di consenso – ci campa?

La regina degli influencer nostrani ha già storto il naso: nelle ultime ore, da Tokyo – dove è giudice di moda in Making the Cut, il talent condotto da Heidi Klum e Tim Gunn –, ha postato alcune stories in cui chiedeva ai suoi follower se i cuoricini fossero visibili oppure no. “Tanti mi stanno dicendo che non riescono a mettere like alle mie foto negli ultimi due giorni”. Panico. “Succede anche a voi?”. Sconforto. Paura. In realtà i like non sono mai spariti da Instagram, nemmeno in quei profili coinvolti nell’esperimento: semplicemente viene nascosto il numero di cuoricini ottenuti; numero che conosce solo colui/colei che ha postato la foto, la storia, il video. Nonostante le immotivate lagnanze della Ferragni, il dato curioso è che nessuno dei più potenti influencer italiani (Nicolò Balini, Tess Masazza, Luis, Alessandra Ventura, Federica Di Nardo, Clio Zammatteo, Elisabetta Canalis, Diana del Bufalo, Maddalena Corvaglia…) è stato coinvolto nel test. Coincidenza? Ah, saperlo.

È un fatto però che i divi del web abbiano il cuoricino spezzato, soprattutto gli influencer; lo certifica il recente report di Mobile Marketer su dati di InfluencerDB, che evidenzia il crollo dell’engagement, ovvero il coinvolgimento dei follower: quello dei post sponsorizzati è precipitato al 2,4 per cento (rispetto al 4 del 2016), mentre i post non sponsorizzati sono calati dal 4,5 all’1,9. Persino gli influencer di viaggi – tra i più gettonati – hanno visto scendere il loro potere dall’8 per cento del 2018 al 4,5 del 2019. Che questo “traffico di influenze” sia davvero al tramonto?

Se da un lato il mercato è saturo, dall’altro il social continua a essere infestato da fake news, troll e nefandezze varie: ieri, a pochi giorni dalla foto del cadavere sgozzato di Bianca Devines, amabilmente postata dal suo fidanzatino assassino, Instagram ha annunciato nuove e più stringenti norme per disabilitare gli account “non conformi”, ovvero violenti, osceni, falsi, a vario titolo accusati di “nudità, pornografia, bullismo, incitamento all’odio, vendita di sostanze stupefacenti e terrorismo”. È finita la pacchia (cit.).