Far ridere è la cosa più difficile del mondo. Intendo volontariamente, perché se bastasse far ridere senza volerlo allora saremmo pieni di comici pazzeschi. E Orfini sarebbe il nuovo Totò. Nella mia piccola esperienza teatrale ormai quasi decennale, nulla mi dà soddisfazione come riempire i teatri e indovinare la battuta giusta (entrambe in contemporanea, se possibile). So bene che il pubblico alla fine ricorderà di più le parti più “tristi” e “serie”, e quando capita di emozionarlo è certo meraviglioso. Far scattare la risata è però una sfida ancora più stimolante.
Il monologo su Rodotà in Renzusconi, quello su Sidun ne Le cattive strade riguardante De André o la parte in cui interpreto la follia nazista del protagonista di The Wall nello spettacolo Shine On dedicato ai Pink Floyd, sono – per quanto impegnativi – momenti più “facili” di quando cerco di alleggerire la tensione. Per esempio inducendo al riso la platea. In quel caso, volendo semplificare, davanti hai due strade. C’è la battuta facile, a cui fai ricorso per acchiappare il pubblico e testarne l’affetto: se per esempio metti Gasparri o Boschi in una frase, stai pur sicuro che tutto il teatro riderà. Inevitabile, visti i soggetti. Poi però c’è la risata più complicata. Ed è lì che sei nel regno della sciarada. La provi, la reciti, la moduli. Una sfida vera. Ed è affascinante constatare come ogni teatro risponda in maniera diversa. Una risata non è mai uguale all’altra. E a vanificarla basta davvero poco. Anche solo una pausa troppo lunga, o un inciampo minimo nella pronuncia, rovineranno tutto. Il teatro è splendido anche in virtù della sua spietatezza.
Ovviamente la mia esperienza è piccolissima rispetto ai tanti (per fortuna) giganti della risata che abbiamo (avuto?) in Italia. Vi siete mai chiesti chi vi abbia fatto ridere maggiormente nella vostra vita? Io, a volte, me lo chiedo. Di sicuro ho amato tanto Troisi, la cui comicità era rarefatta proprio come lui. Poi ovviamente Gaber, maestro pure nel generare la risata irresistibile. Poi Proietti. E Verdone. Anche Celentano mi fa ridere come pochi. Da toscano ho amato i Giancattivi, l’immenso Nuti (mi manchi, Checco!) e il primo Benigni. Quello sboccato del Cioni Mario, quello che duettava col Monni: quello che il potere lo sfanculava e non certo riveriva. I migliori Grillo e Luttazzi sono stati irresistibili. Corrado Guzzanti è un genio. Crozza è il migliore per distacco tra quelli in attività. Apprezzo anche i tanti che si sono fatti le ossa sul web, da Maccio Capatonda al Terzo Segreto di Satira: è stato un piacere lavorare con entrambi. Di recente ho rivisto il “monologo della Subaru” di Aldo, Giovanni e Giacomo: la perfezione teatrale assoluta. Tempi perfetti e mai un calo.
Se però dovessi fare un nome solo, in realtà ne farei tre: Lopez, Marchesini e Solenghi. Ovvero “il Trio”. Chi ha meno di quarant’anni faticherà a comprenderlo appieno, ma negli Ottanta e Novanta (per l’esattezza tra il 1982 e il 1995) non c’è stato nessuno come loro. Ogni apparizione televisiva era un evento irrinunciabile. Conoscevano la ricetta misterica della comicità graffiante e al contempo nazionalpopolare. Teoricamente era un ossimoro: non potevi andare in prima serata senza con ciò abbassarti troppo. Ma loro riuscivano – chissà come – a farsi comprendere da tutti senza svilirsi mai. E ogni tanto creavano pure qualche casino internazionale, come quando presero in giro l’ayatollah Khomeini.
Il loro mix era qualcosa di benedetto da dèi assai dotati di ironia e buon gusto. Lopez era (è) il più immediato: le imitazioni, i nonsense, la duttilità mimica e vocale prodigiosa. Solenghi era (è) il più tecnico: collante irrinunciabile tra Anna e Massimo, guitto garbato da bosco e da riviera. Può far ridere, può far commuovere: può far tutto. Chissà perché, di lui – persona splendida come Lopez – a bruciapelo ricordo anzitutto l’imitazione di Paolo Valenti e l’autoradio che teneva sottobraccio quando faceva Renzo nei Promessi sposi. E quei Promessi sposi, nel 1990, sono stati uno degli apici inarrivabili di una Rai che temo non rivedremo mai più. Non così bella e – talora – quasi incosciente nella programmazione eretica. Che talento, che bellezza. E che risate. C’era poi lei, talento puro e multiforme: bella fingendo di non volerlo essere, irresistibile volendo ogni volta esserlo. Fosse per me renderei subito lutto nazionale il giorno (30 luglio 2016) in cui Anna Marchesini se n’è andata, perché con lei se n’è andato un genio. Portandosi con sé, troppo anzitempo, alcune delle nostre risate migliori. È stata una perdita tremenda.
Se obiettivo del comico è anche quello di eternare tormentoni, Anna ce ne ha regalati a decine. Dal “Siccome che sono cecata” al “Coraggio Pedro bevi qualcosa”. Ferrea e rigorosa come un artista vero deve sempre essere, i suoi interventi in spettacoli come Allacciate le cinture di sicurezza (1987) erano oltre ogni perfezione umana. Com’era meravigliosa, Anna Marchesini. L’ho amata totalmente, come – immagino – molti di voi. Negli anni ho scoperto come fosse una donna oltremodo esigente e talora spietata. Quando Berlusconi provò a portare il Trio in Fininvest, al primo incontro Lopez e Solenghi implorarono Anna di essere un po’ diplomatica. Anche solo per educazione. Lei: “Sì, sì, tranquilli”. Poi Berlusconi chiese subito ai tre cosa pensassero delle sue televisioni: “Cos’è che vi piace di più?”. E lei: “Niente”. Genio.
Anna era baciata da un talento totale, poi ampiamente ribadito nella sua carriera solista: in tivù (con Fabio Fazio), a teatro (Le due zitelle la vedeva alle prese con 15 personaggi diversi) e in libreria come ottima scrittrice. Sapeva fare tutto e lo faceva con naturalezza deliziosa e conturbante. Quando ancora oggi mi immagino la risata perfetta, me la immagino con le gambe infinite, le smorfie assurde e lo sguardo vivissimo. Me la immagino come Anna Marchesini, una delle più grandi artiste che questo Paese abbia mai avuto.