La comicità con le gambe lunghe e quelle smorfie assurde del Trio

Far ridere è la cosa più difficile del mondo. Intendo volontariamente, perché se bastasse far ridere senza volerlo allora saremmo pieni di comici pazzeschi. E Orfini sarebbe il nuovo Totò. Nella mia piccola esperienza teatrale ormai quasi decennale, nulla mi dà soddisfazione come riempire i teatri e indovinare la battuta giusta (entrambe in contemporanea, se possibile). So bene che il pubblico alla fine ricorderà di più le parti più “tristi” e “serie”, e quando capita di emozionarlo è certo meraviglioso. Far scattare la risata è però una sfida ancora più stimolante.

Il monologo su Rodotà in Renzusconi, quello su Sidun ne Le cattive strade riguardante De André o la parte in cui interpreto la follia nazista del protagonista di The Wall nello spettacolo Shine On dedicato ai Pink Floyd, sono – per quanto impegnativi – momenti più “facili” di quando cerco di alleggerire la tensione. Per esempio inducendo al riso la platea. In quel caso, volendo semplificare, davanti hai due strade. C’è la battuta facile, a cui fai ricorso per acchiappare il pubblico e testarne l’affetto: se per esempio metti Gasparri o Boschi in una frase, stai pur sicuro che tutto il teatro riderà. Inevitabile, visti i soggetti. Poi però c’è la risata più complicata. Ed è lì che sei nel regno della sciarada. La provi, la reciti, la moduli. Una sfida vera. Ed è affascinante constatare come ogni teatro risponda in maniera diversa. Una risata non è mai uguale all’altra. E a vanificarla basta davvero poco. Anche solo una pausa troppo lunga, o un inciampo minimo nella pronuncia, rovineranno tutto. Il teatro è splendido anche in virtù della sua spietatezza.

Ovviamente la mia esperienza è piccolissima rispetto ai tanti (per fortuna) giganti della risata che abbiamo (avuto?) in Italia. Vi siete mai chiesti chi vi abbia fatto ridere maggiormente nella vostra vita? Io, a volte, me lo chiedo. Di sicuro ho amato tanto Troisi, la cui comicità era rarefatta proprio come lui. Poi ovviamente Gaber, maestro pure nel generare la risata irresistibile. Poi Proietti. E Verdone. Anche Celentano mi fa ridere come pochi. Da toscano ho amato i Giancattivi, l’immenso Nuti (mi manchi, Checco!) e il primo Benigni. Quello sboccato del Cioni Mario, quello che duettava col Monni: quello che il potere lo sfanculava e non certo riveriva. I migliori Grillo e Luttazzi sono stati irresistibili. Corrado Guzzanti è un genio. Crozza è il migliore per distacco tra quelli in attività. Apprezzo anche i tanti che si sono fatti le ossa sul web, da Maccio Capatonda al Terzo Segreto di Satira: è stato un piacere lavorare con entrambi. Di recente ho rivisto il “monologo della Subaru” di Aldo, Giovanni e Giacomo: la perfezione teatrale assoluta. Tempi perfetti e mai un calo.

Se però dovessi fare un nome solo, in realtà ne farei tre: Lopez, Marchesini e Solenghi. Ovvero “il Trio”. Chi ha meno di quarant’anni faticherà a comprenderlo appieno, ma negli Ottanta e Novanta (per l’esattezza tra il 1982 e il 1995) non c’è stato nessuno come loro. Ogni apparizione televisiva era un evento irrinunciabile. Conoscevano la ricetta misterica della comicità graffiante e al contempo nazionalpopolare. Teoricamente era un ossimoro: non potevi andare in prima serata senza con ciò abbassarti troppo. Ma loro riuscivano – chissà come – a farsi comprendere da tutti senza svilirsi mai. E ogni tanto creavano pure qualche casino internazionale, come quando presero in giro l’ayatollah Khomeini.

Il loro mix era qualcosa di benedetto da dèi assai dotati di ironia e buon gusto. Lopez era (è) il più immediato: le imitazioni, i nonsense, la duttilità mimica e vocale prodigiosa. Solenghi era (è) il più tecnico: collante irrinunciabile tra Anna e Massimo, guitto garbato da bosco e da riviera. Può far ridere, può far commuovere: può far tutto. Chissà perché, di lui – persona splendida come Lopez – a bruciapelo ricordo anzitutto l’imitazione di Paolo Valenti e l’autoradio che teneva sottobraccio quando faceva Renzo nei Promessi sposi. E quei Promessi sposi, nel 1990, sono stati uno degli apici inarrivabili di una Rai che temo non rivedremo mai più. Non così bella e – talora – quasi incosciente nella programmazione eretica. Che talento, che bellezza. E che risate. C’era poi lei, talento puro e multiforme: bella fingendo di non volerlo essere, irresistibile volendo ogni volta esserlo. Fosse per me renderei subito lutto nazionale il giorno (30 luglio 2016) in cui Anna Marchesini se n’è andata, perché con lei se n’è andato un genio. Portandosi con sé, troppo anzitempo, alcune delle nostre risate migliori. È stata una perdita tremenda.

Se obiettivo del comico è anche quello di eternare tormentoni, Anna ce ne ha regalati a decine. Dal “Siccome che sono cecata” al “Coraggio Pedro bevi qualcosa”. Ferrea e rigorosa come un artista vero deve sempre essere, i suoi interventi in spettacoli come Allacciate le cinture di sicurezza (1987) erano oltre ogni perfezione umana. Com’era meravigliosa, Anna Marchesini. L’ho amata totalmente, come – immagino – molti di voi. Negli anni ho scoperto come fosse una donna oltremodo esigente e talora spietata. Quando Berlusconi provò a portare il Trio in Fininvest, al primo incontro Lopez e Solenghi implorarono Anna di essere un po’ diplomatica. Anche solo per educazione. Lei: “Sì, sì, tranquilli”. Poi Berlusconi chiese subito ai tre cosa pensassero delle sue televisioni: “Cos’è che vi piace di più?”. E lei: “Niente”. Genio.

Anna era baciata da un talento totale, poi ampiamente ribadito nella sua carriera solista: in tivù (con Fabio Fazio), a teatro (Le due zitelle la vedeva alle prese con 15 personaggi diversi) e in libreria come ottima scrittrice. Sapeva fare tutto e lo faceva con naturalezza deliziosa e conturbante. Quando ancora oggi mi immagino la risata perfetta, me la immagino con le gambe infinite, le smorfie assurde e lo sguardo vivissimo. Me la immagino come Anna Marchesini, una delle più grandi artiste che questo Paese abbia mai avuto.

 

Strage Srebrenica, l’Olanda si assolve da sola

Responsabili, ma solo al 10%: una frazione di colpa. Come dire che di 350 delle 8.000 vittime circa della strage di Srebrenica, quelle che loro avevano sotto protezione e che invece misero in pericolo, i ‘caschi blu’ olandesi ne hanno sulla coscienza ‘solo’ 35. Non c’è di che sentirsi assolti. La sentenza della Corte suprema dell’Aja fa tirare un sospiro di sollievo solo ai gestori delle casse dello Stato: riducendo dal 30 al 10% la quota di responsabilità olandese, rispetto a una sentenza della Corte d’Appello del 2017, i giudici supremi hanno ridotto a un terzo l’onere d’indennizzo dei Paesi Bassi. Il verdetto pronunciato ieri dai magistrati olandesi non è il responso della storia su quanto avvenne in un angolo di Bosnia nel luglio del 1995, ma è solo un giudizio contabile. Secondo la sentenza, i soldati olandesi sbagliarono a mandare fuori dalla loro ridotta protetta 350 bosniaci, ma l’Olanda è responsabile solo al 10% delle loro morti per mano serbo-bosniaca, perché i veri assassini furono i miliziani del generale Mladic. La sentenza è l’ultima in una serie di procedimenti giudiziari intentati da migliaia di familiari delle vittime del massacro, che all’epoca credevano di potere contare sulla protezione delle unità olandesi impegnate in una missione di peace keeping dell’Onu. Per i giudici dell’Aja, i soldati olandesi erano consci che c’era un rischio reale che i bosniaci andassero incontro a violenze e alla morte, se fossero stati espulsi dal compound, e avrebbero perciò dovuto offrire loro la possibilità di restarvi.

La Commissione europea ha “preso atto” della sentenza della Corte suprema dei Paesi Bassi sull’eccidio di Srebrenica, il momento più tragico della pulizia etnica attuata dai serbi al tempo della guerra di Bosnia: “È’ nostro dovere comune ricordarlo come uno dei momenti più bui della storia europea moderna”, ha detto un portavoce dell’esecutivo comunitario.

I militari olandesi non avevano il mandato di intervenire, ma vennero meno al dovere di proteggere. Thom Karremans era il tenente colonnello che li comandava: di lui, resta sul web l’ignominiosa foto del brindisi alla slivovica, forse coatto, con il ‘boia’ Ratko Mladic. La ricostruzione storica dice che i soldati olandesi dovevano garantire la sicurezza dell’enclave musulmana in territorio serbo-bosniaco. Invece, non s’opposero al massacro di quasi 8.000 musulmani. Il dramma di Srebrenica non impedì a Karremans di fare carriera e ricevere decorazioni. Del resto, l’Olanda insignì di medaglie tutta l’unità che non impedì la strage; e ne difese l’operato dalle accuse e dalle critiche bosniache e internazionali. Nel 2015, in occasione del ventennale della strage, la memoria dell’eccidio di Srebrenica, e i sensi di vergogna, pietà, impotenza, che desta, almeno in Occidente – perché altrove sono rabbia, odio, disperazione – fu appesantito dal dibattito, sterile e provocatorio da ambo le parti, se la tragedia bosniaca sia stata o meno genocidio. .

Vendetta dei Pasdaran: sequestrata petroliera Gb

Il sequestro a Gibilterra della Grace 1, già bloccata da due settimane per presunte violazioni delle sanzioni Ue alla Siria, ha scatenato nell’area più calda del Medio Oriente – lo Stretto di Hormuz – la reazione dell’Iran. Proprio quando Gibilterra confermava di aver prolungato di un mese il fermo della nave iraniana, le motovedette di Teheran hanno preso la petroliera britannica Stena Impero; la stessa società armatrice Stena Bulk, ha confermato in una nota che la nave è stata bloccata ieri pomeriggio da alcune “piccole imbarcazioni e da un elicottero non identificati”. La società ha aggiunto che da quel momento si sono interrotti i contatti con l’equipaggio, composto dal 23 marinai. “Non abbiamo notizie di feriti, la priorità è la sicurezza dell’equipaggio”. Secondo la Cnn, l’Iran ha sequestrato una seconda petroliera, battente bandiera liberiana, la Mv Mesdar.

L’azione dell’Iran era stata annunciata e segue di pochi giorni il sequestro della Grace 1, bloccata da unità dei Royal Marines; secondo Londra aveva la missione di trasportare petrolio verso la Siria a dispetto delle sanzioni Ue. Un sequestro denunciato fin da subito come “atto di pirateria” da Teheran, che aveva minacciato ritorsioni in caso di mancato rilascio.

Il raid nello Stretto è arrivato inoltre al culmine di un battibecco sulla linea Washington-Teheran; aveva iniziato il presidente Trump affermando che unità americane avevano abbattuto un drone iraniano che aveva sconfinato.

“Non abbiamo perso alcun drone nello stretto di Hormuz né altrove. Temo che la Uss boxer abbia abbattuto un loro drone per sbaglio!”, è stata la risposta sprezzante del viceministro degli Esteri Abbas Araghchi.

“Nonostante le affermazioni deliranti e senza fondamento di Trump, tutti i droni nel Golfo Persico e nello stretto di Hormuz, compreso quello a cui fa riferimento il presidente americano, sono rientrati in sicurezza alle loro basi”, ha insistito anche il generale di brigata Abolfazl Shekarchi, portavoce delle forze armate di Teheran, mentre le Guardie della rivoluzione hanno pubblicato le immagini del drone prima e dopo il momento del presunto abbattimento, in modo da smentirlo una volta per tutte. Hormuz e la guerra delle petroliere è una diretta conseguenza del braccio di ferro ingaggiato dalla Casa Bianca con l’Iran sul nucleare. Smantellare l’accordo che aveva faticosamente ricercato il suo predecessore Obama – hanno raccontato alcuni bene informati – era un dispetto che The Donald voleva fare a tutti i costi. Le conseguenze sul piano geopolitico non si sono fatte attendere. Per il Parlamento iraniano, Trump sta solo cercando di “creare tensioni”, e gli eventi di queste ultime ore non fanno altro che confermare che la situazione è altamente instabile. Gli Usa hanno emesso nuove sanzioni contro 12 tra entità e persone basate in Iran, Belgio e Cina legate alle attività di proliferazione nucleare della società iraniana Tesa. In questa partita sono coinvolte anche le potenze europee: ieri sera telefonata tra Donald Trump e il presidente francese Emmanuel Macron. I due leader – secondo una versione della Casa Bianca – hanno discusso gli sforzi per evitare che l’Iran ottenga la bomba nucleare.

 

Guantanamo siriana. La Francia, il jihad e i figli perduti dell’Isis

Sono 250 i bambini francesi, tra cui otto orfani, a essere ospitati nel campo di Al-Hol, nel Kurdistan siriano, secondo gli ultimi dati del Centro per l’analisi del terrorismo. Una “Guantanamo siriana” dove circa 80 mila persone vivono in pessime condizioni igienico-sanitarie. Di queste, 70 mila sono siriani e iracheni, gli altri sono di 50 diverse nazionalità, 370 i francesi. È la condizione dei bambini che preoccupa di più. Ieri, il quotidiano Libération ha ricostruito alcune vicende; può capitare che alcuni bambini, figli di coppie francesi partite per unirsi allo Stato Islamico, spariscano e non vengano più trovati dalle famiglie che in Francia chiedono di farli rientrare.

A fine giugno, Michelle Bachelet, l’Alto commissario Onu per i diritti umani, aveva lanciato un appello alla comunità internazionale perché i governi si impegnassero a rimpatriare le mogli e i figli dei jihadisti rimasti in Siria. Per l’Unicef circa 29 mila bambini stranieri, soprattutto minori di 12 anni, sarebbero bloccati nei campi siriani.

Sui rimpatri, la Francia porta avanti una politica “caso per caso”. Finora, 17 bambini in tutto sono rientrati. La maggior parte il 10 giugno, quando 12 orfani, figli di combattenti dello Stato islamico, tutti molto piccoli (il più grande aveva 10 anni), sono stati consegnati dalle forze curde alle autorità francesi e sono rientrati in Francia. Parigi, che all’inizio era favorevole ai rimpatri, anche degli ex miliziani perché vengano detenuti nelle prigioni francesi, esita sempre di più, confrontandosi con un’opinione pubblica ostile.

Secondo un recente studio Odoxa, il 67% dei francesi preferisce che i bambini restino lì dove sono nati o dove sono arrivati da piccolissimi. Dalla Francia, genitori che hanno visto le loro figlie e i loro figli partire per le zone di guerra, in Siria o in Iraq, lanciano regolarmente degli appelli al governo perché i nipoti detenuti nei campi possano rientrare. Hanno il sostegno di associazioni come la Lega per la difesa dei diritti umani che difende questi bimbi che “non hanno scelto di nascere su posto o di raggiungere l’Isis, ma sono vittime delle scelte degli adulti”. In alcuni casi però i tentativi di trovare questi “figli dell’Isis” falliscono. Capita che dei bimbi si perdano le tracce. Libération riporta il caso di una bimba di 2 anni che chiama Louna. Nel 2017, Louna è rimasta ferita a Raqqa, ex quartier generale in Siria dell’Isis, quando aveva solo pochi mesi. A febbraio, quando è caduto l’ultimo bastione dell’Isis, Baghouz, al confine tra Siria e Iraq, Louna ha perso sia la mamma che il papà, entrambi francesi fedeli fino all’ultimo al Califfo. Secondo alcuni testimoni la bimba è stata trasferita a Al-Hol, dove alla fine del 2018 vivevano in 10 mila; ma nel campo-profughi, battaglia dopo battaglia, a mano a mano che i jihadisti perdevano terreno, sono cominciate ad affluire migliaia di persone e “le condizioni di vita, già precarie, sono diventate insostenibili”. Nel caos, Louna è scomparsa.

La Croce Rossa, e Human Rights Watch nonostante gli sforzi non sono riusciti a rintracciarla. “Abbiamo perso la speranza – ha detto il nonno di Louna, Hervé Lyautey, a Libération –, pensiamo anche che una famiglia siriana l’abbia presa e portata con sé”. Il giornale riporta anche il caso di due bambini francesi che “a inizio anno erano stati recuperati da una jihadista siriana che li maltrattava. Sono dovute intervenire altre donne del campo per forzarla a lasciarli andare. Se non fossero intervenute loro, i due ragazzini, che erano feriti e non parlavano, sarebbero potuti sparire”. Le Ong parlano di Al-Hol come di una “prigione a cielo aperto” per “più di 11 mila donne con i loro figli, di cui 7 mila sono minori”. Qui “dei bambini nascono quasi tutte le settimane”. Le condizioni di vita sono giudicate “allarmanti”. I problemi più gravi: “malattie, malnutrizione, ferite non curate, parti che si praticano in tende senza alcuna cura”.

Secondo le Ong, una bimba francese di 3 anni è morta a Al-Hol “qualche settimana fa”. Alle malattie si aggiungono l’insicurezza, le risse. Al-Hol è “una polveriera pronta a esplodere in qualsiasi momento”: “Una sorta di Guantanamo nel nord-est della Siria – dice il responsabile di una Ong a Libération – tranne che a Guantanamo ci sono stati al massimo 1,500 detenuti. Qui siamo quasi a 100 mila in un vuoto giuridico. Se la situazione non si risolve, siamo di fronte alla prossima generazione di jihadisti”. Il campo non avrebbe mai dovuto detenere tante persone: “Ci sono 30 mila persone di troppo – riporta una nota dell’Istituto americano per lo studio della guerra – una miscela esplosiva di civili e famiglie convertite all’Isis, che probabilmente tenterà di mettere nuove radici in questi campi”.

Camilleri e De Crescenzo, i “maturi” da best-seller

Le morti parallele di Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo ci inducono a considerare quanto siano stati paralleli anche i loro destini di bestselleristi seriali in un Paese dove il best-seller se va bene è unico e irripetibile (ma se ne insegue la ripetizione all’infinito). Dominatore delle classifiche degli anni Ottanta, De Crescenzo ha fatto il percorso netto dello scrittore di successo, gravato di due peccati mortali. Spacca con Bellavista al primo colpo, sulla soglia della cinquantina. È bello, charmeur, perfetto sia per la jazz-Tv di Renzo Arbore, sia per la commedia dell’arte del Costanzo show. A questo punto l’invidia ha già rotto il muro del suono; ma De Crescenzo, non pago, è pure un umorista, garanzia di serie B preconcetta nel Paese più retorico del creato.

A Camilleri, re degli anni Novanta, è andata meglio; fa debuttare Montalbano verso i settanta, quando si decade da soliti stronzi per limiti di età, ormai immuni dalle macumbe dei colleghi. Il suo commissario è un geniale gemello diverso del Maigret di Simenon; ghiottone, né marito modello né tenebroso solitario (italianissimo piede in due staffe), indaga con il sole a picco al posto delle nebbie, ma immergendosi anche lui fino al collo nell’ambiente del delitto. Come Simenon ha inventato il giallo europeo, Camilleri ha inventato il giallo all’italiana, inaugurando una schiera impressionate di vicequestori e viceMontalbano. Qualcuno dirà: però la letteratura è altrove. Probabile. Ma dove?

L’impegno civile di Camilleri per l’ambiente

“E macari stavolta la televisione aviva assolto al compito sò che era quello di comunicare ‘na notizia condendola con dettagli e con particolari o completamente sbagliati o del tutto fàvusi o di pura fantasia”
(da “La pista di sabbia” di Andrea Camilleri – Sellerio, 2007 – pag. 201)

 

Fu una campagna mediatica e civile, come non se ne vedono tante sui giornali italiani. “Camilleri salva Val di Noto”, s’intitolava il mio articolo pubblicato in prima pagina su Repubblica, il 16 giugno 2007, per annunciare lo stop alle trivellazioni che i petrolieri texani volevano eseguire nello scrigno del barocco siciliano. E in effetti quella campagna ottenne il patrocinio del grande scrittore appena scomparso.

L’avevo lanciata il 23 aprile con un’inchiesta sullo stesso quotidiano, dopo che la Regione Siciliana aveva autorizzato le ricerche petrolifere in Val di Noto, mettendo a rischio i capolavori del barocco e l’appeal turistico di quel territorio. Qualche tempo dopo, andai a trovare Andrea Camilleri nella sua casa romana, per chiedergli di sostenere l’iniziativa. “Maestro – gli proposi – vuole scrivere un articolo per il nostro giornale?”. “Lo farò volentieri, ma non mi chiamare Maestro”, mi rispose lui con garbo e modestia, regalandomi alla fine un libretto fuori commercio scritto per l’Arma dei carabinieri, dato che possedevo già tutti i suoi volumi.

Così il 7 giugno pubblicammo un appello a firma di Camilleri che in pochi giorni raccolse 80 mila firme e fece il giro del mondo; fu richiesto da diversi quotidiani europei e concesso dall’autore (gratuitamente) anche a un’importante testata americana. L’incipit era questo: “I milanesi come reagirebbero se dicessero loro che c’è un progetto avanzato di ricerche petrolifere proprio davanti al Duomo? Rifarebbero certo le Cinque giornate”. E continuava con altri esempi analoghi per i veneziani, i fiorentini, i romani, i genovesi e i torinesi, per concludere: “Non si sentirebbero offesi e scempiati nel più profondo del loro essere?”.

Con la passione e il trasporto per la sua terra, Camilleri raccontava quello che stava accadendo “in Sicilia, e precisamente in una zona che è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità, il Val di Noto, dove il destino e la Storia hanno voluto radunare gli inestimabili, irrepetibili, immensi capolavori del tardo barocco”. “In parole povere – proseguiva lo scrittore – questo significa distruggere, in un sol colpo e totalmente, paesaggio e Storia, cultura e identità, bellezza e armonia, il meglio di noi insomma, a favore di una sordida manovra d’arricchimento di pochi spacciata come azione necessaria e indispensabile per tutti”. Da qui, la conclusione accorata dell’appello: “Vogliamo, una volta tanto, ribaltare questo prevedibile risultato e far vincere lo sdegno, il rifiuto, la protesta, l’orrore (sì, l’orrore) di tutti, al di là delle personali idee politiche? Per la nostra stessa dignità di italiani, adoperiamoci a che sia revocata in modo irreversibile quella contestata concessione e facciamo anche che sia per sempre resa impossibile ogni ulteriore iniziativa che possa in futuro violentare e distruggere, in ogni parte d’Italia, i nostri piccoli e splendidi paradisi. Nostri e non alienabili”.

Quando poi la pressione dell’opinione pubblica costrinse i petrolieri a rinunciare, tornai da Camilleri per intervistarlo e lui mi confidò: “Mi hanno telefonato giornalisti da tutto il mondo, non avrei mai immaginato un’eco del genere. Ma è stata la vittoria del buon senso, un ritorno alla ragione”. Il grande giallista era diventato “verde” per difendere l’ambiente e il paesaggio.

Le fondazioni andrebbero chiuse tutte

Sul Fatto Quotidiano ho espresso più volte la mia opinione sul Maggio Musicale Fiorentino e la sua gestione. Dal momento che ieri l’amico Tomaso Montanari la commenta, vorrei ripetere la mia valutazione dei fatti.

Il soprintendente Cristiano Chiarot era alla Fenice da anni ove aveva accumulato un ingente debito di bilancio e, peraltro, acquistato azioni della Banca Popolare di Vicenza. È stato nominato al Maggio nella primavera del 2017: quando Salvo Nastasi era onnipotente in tutto il mondo dello spettacolo. Ch’egli dichiari di non aver buoni rapporti con costui è ridicolo, a Nastasi dovendo egli tutto.

Il Chiarot, cattocomunista veneto, fu persona umile e gentile finché rimase direttore marketing della Fenice. Da soprintendente, incominciò a credersi qualcuno, e soprattutto un grande direttore artistico, la reincarnazione di Francesco Siciliani e Roman Vlad. Con la sua cultura da Wikipedia, si è circondato di direttori d’orchestra e registi di quarta categoria che ritiene, grazie al suo insegnamento, migliori di Karajan e Toscanini. Un esempio: il direttore coreano Chung (una Sinfonia di Mahler riesce bene a chiunque) viene incaricato di importanti produzioni di Verdi, l’ultima delle quali è il Don Carlos: ch’è in francese. Costui, oltre che il coreano, conosce solo l’inglese? Come fa ad affrontare Verdi? Ascoltai il Boccanegra alla Fenice restandone basito.

Al Maggio è proseguito l’identico andazzo. Tomaso cita Esa-Pekka Salonen, effettivamente uno dei migliori direttori d’orchestra oggi esistenti. Quando si spara nel mucchio, a volte si fa centro. Ma si guardi l’attuale stato d’indebitamento della Fondazione.

Il punto è che tutto ciò che di deplorevole è ora avvenuto al Maggio è avvenuto all’interno di una (non dirò cosca) simpatica associazione di amici – Nastasi, Renzi, Nardella –, nella quale Chiarot era stato inserito come utile idiota. Il direttore d’orchestra Luisi (che stimo modestissimo) ne faceva pure parte. Si sono scannati i componenti della stessa banda. Non esistono i buoni e i cattivi, non si possono distinguere. Sono tutti eguali: per motivi che io non posso conoscere all’improvviso hanno incominciato a scannarsi.

La legge Madia, che mette Chiarot (e con lui rende non più nominabili la Purchia e Biscardi, altri del clan Nastasi) in pensione a dicembre, è secondo me non solo iniqua ma incostituzionale. Come mai se ne accorgono solo adesso? Come mai non hanno fatto un’azione di gruppo affinché la Corte si pronunciasse?

Secondo me, perché fino a quindici giorni fa il terremoto accaduto non lo immaginavano nemmeno. Erano sicuri di sé nei loro posti locupletatissimi. La superfetazione dell’ego di Chiarot che, mi ripeto, darebbe lezioni anche al maestro Karajan, lo faceva sentire il più sicuro di tutti. Dà lezioni pure ai compositori su come si scrivono le opere: se non gli sta bene, le cambia. Vedi il caso Carmen. “Così si parlerà di me in tutto il mondo!”. E, vedrete, lo faranno senatore a vita. Lì farà meno danni alla cultura che da soprintendente del Maggio.

La mia vecchia idea è sempre la stessa. Bisognerebbe prima chiudere le Fondazioni per qualche anno – tutte –; e poi fare una vera legge che le faccia gestire come musei della cultura musicale e non sfogo per nullafacenti e occasione per agenti e soprintendenti e segretari artistici e dirigenti per essere superpagati.

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Pd-M5S, matrimonio sul parabrezza

L’Italia è oggi il Paese della tripla verità. C’è la verità di governo, condita da contratti, idilli effimeri e frequenti risse in famiglia, secondo cui null’altro al mondo è possibile se non l’alleanza M5S-Lega, destinata a durare tutta la legislatura (“non c’è alternativa”). C’è la verità delle amministrazioni regionali e locali, dove la Lega governa, secondo tradizione e vocazione, con le destre berlusconiane e post-fasciste mentre il Pd, dove regge, si appoggia a liste civiche. E c’è la verità delle Europee, dove ognuno va per suo conto, e dunque l’Italia rischia di non contare nulla, non fosse che il presidente del Consiglio riesce a recuperare a Bruxelles lo spazio che a Roma gli vien negato.

La geometria variabile di queste alleanze non è calibrata né sui problemi del Paese né sui diritti fondamentali dei cittadini, ma su miopi calcoli elettorali mirati alla conquista o al mantenimento del potere. Intanto alle Europee si è registrata una massiccia astensione dal voto (astenuti 45,51%, il 4,19% in più del 2014); se si aggiungono le schede bianche, nulle o disperse fra micro-liste senza speranza (7,31%), la percentuale di chi ha scelto di non votare o di votare sapendo di non eleggere nessuno sale al 52,82%. Le percentuali ufficiali dei maggiori partiti (34% alla Lega, 22% al Pd, 17% al M5S) sono dunque “drogate” perché calcolate sui votanti e non sugli aventi diritto. Le cifre vere sono assai meno esaltanti (Lega 18%, Pd 12%, M5S 9% degli aventi diritto), eppure imperversa questa illusione ottica, la stessa che indusse in Renzi un’overdose di eccitazione per il preteso 40,81% alle Europee di cinque anni fa, che in realtà valeva 20,64% se rapportato all’insieme degli elettori. Campione di questa guerra di posizione che ci condanna alla deriva è il Pd, in crisi d’identità ma ancora e sempre all’ascolto di un Renzi mai pago delle batoste meritate e subìte, e dunque dedito alla dissennata strategia del popcorn. Ma anche tra le forze di governo una buona parte dei giochi della ​politique politicienne ​sono di cortissimo respiro: l’occupazione di cariche e prebende, lo scambio di critiche, insulti e ricatti, la cavillosa esegesi del contratto di governo, l’elucubrazione di slogan da sbandierare, tutta una gran navigazione di piccolo cabotaggio. Il crescente astensionismo dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per le sorti della democrazia, ma paradossalmente ha un effetto contrario: dà l’impressione che l’ondivaga massa degli incerti possa esser sedotta da un provvedimento-icona, ​flat tax​ o reddito di cittadinanza o quant’altro, migrando in blocco nelle ordinate file degli elettori di questo o quel partito. Nulla di tutto ciò sta accadendo, e intanto scadenze di bilancio e di impegni internazionali avvicinano il momento della verità, verso cui ci avventuriamo a occhi bendati. Nuove piattaforme, progetti, traguardi sembrano di là da venire. In compenso aleggiano vecchi fantasmi, come il Patto del Nazareno d’infelice memoria; e contro ogni verisimiglianza c’è chi, pur di non dare spazio ai “populisti”, agogna a una rinnovata convergenza con Forza Italia, senza nemmeno accorgersi che la straripante Lega di Salvini potrà governare con Berlusconi (e anche Meloni & C.) senza aver bisogno di schegge di un Pd in dissoluzione. Ci sarebbe, a dire il vero, una quarta verità, accuratamente occultata o rimossa dai suoi stessi protagonisti: e cioè il possibile incontro programmatico fra quel che resta della sinistra (inclusi segmenti del Pd) e quel che di simili inclinazioni è ancora vivo in un M5S che perde pezzi ogni giorno nell’elettorato e in Parlamento, ma anche in quella società civile che le liste civiche sanno mobilitare. Rompere la logica isolazionistica e ripartire dai temi sul tavolo stendendo una carta programmatica che non ha bisogno di “contratti” perché c’è già la Costituzione a dire quali sono i diritti dei cittadini (lavoro, salute, giustizia, cultura, dignità, eguaglianza, istruzione).

Vani appelli in tal senso si lanciarono dopo il 25 febbraio 2013 e dopo il 4 marzo 2018, ma c’è sempre chi ammonisce che “questo matrimonio non s’ha da fare né domani né mai”. Forse. Ma l’incontro tra M5S e Pd è comunque inevitabile, solo che di questo passo avverrà “sul parabrezza”, come in un icastico disegno dell’ottimo Fabio Magnasciutti (di lui va letto Nomi, cosi, animali​, edizioni Barta). Oggi mancano lungimiranza, coraggio, intelligenza politica per cercare una strada alternativa. Alle prossime Politiche, “tutti al parabrezza, ok?”. Al parabrezza della Lega, che la sua coalizione alternativa di governo ce l’ha già pronta. La stessa sperimentata in tante amministrazioni locali, la stessa con cui ha già occupato a lungo Palazzo Chigi con Berlusconi presidente, e può ora farlo con Salvini al suo posto. Intanto, esaurite le scorte di popcorn, dal parabrezza risuoneranno tardivi pianti e lacrime.

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Montanari, il “dissenso interno” non compete al vicesindaco

Caro direttore, il suo editoriale mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca. Verissimo che l’esternazione sulla grandine di Guido Montanari, di cui peraltro si è scusato, sia stata sciagurata, per la sindaca, per la giunta e per lo stesso Montanari. Tuttavia considerare l’attività di Montanari come un errore è esso stesso un errore. Il professore ha adempiuto con serietà ai suoi doveri di amministratore sia come vicesindaco di Torino e prima ancora come assessore all’Urbanistica di una cittadina della cintura torinese, battendosi per la riduzione del consumo di suolo nella provincia di Torino che negli ultimi trent’anni ha cementificato terreno quasi pari a città delle dimensioni di Madrid. Anche il giudizio sulle dichiarazioni di Montanari successive alla sua rimozione mi sembrano ingiuste. Ha dato una sua valutazione politica da cui si può dissentire ma non credo che si possano considerare come una mancanza di stile e di serietà. Lei considera poi la rimozione del vicesindaco come un discrimine tra chi vuole governare e chi è contrario a tutto. È possibile che ci sia anche questo. Ma preferisco annoverare l’episodio assieme all’allontanamento di Fini e Follini fatto da Berlusconi e a quello di Bersani e della sinistra Pd da parte di Renzi. Vale a dire la difficoltà dei leader moderni a tollerare e canalizzare il dissenso interno.

Flavio Olivero

 

Caro Olivero, un vicesindaco deve lavorare in piena sintonia con sindaco, oppure dimettersi. Non può incarnare il “dissenso interno” né esprimerlo con battutacce estemporanee. Il che non cancella le buone cose fatte da Montanari prima dell’“incidente” né il suo valore professionale e personale.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

“La mente del piano? L’uomo flop Meridiana”, l’articolo di D. Martini pubblicato il 16.07, è – all’evidenza – denigratorio e offensivo della mia reputazione professionale: mi si attribuisce il “flop” di Meridiana, che ha per 10 anni prima del mio arrivo avuto risultati negativi. Nel corso del mio mandato (gen. ’13 – nov. ’14) si è invece riusciti a ridurre in pochi mesi sia le perdite nette di oltre il 60%, sia a registrare per la prima volta un margine operativo lordo positivo. All’evidenza tali informazioni erano riscontrabili dai bilanci. Imputarmi poi i risultati (negativi) dei periodi successivi alla mia gestione è del tutto “scorretto”! Dire poi che io sia stato “cacciato” è semplicemente falso ed ha il solo scopo di pregiudicare la mia reputazione. Ho rassegnato le dimissioni, come chiaramente affermato nella mia intervista al Corriere della Sera del 16 novembre 2014, poi ripresa anche da Il Fatto Quotidiano del 19 novembre 2014, poichè l’azionista ritenne di non voler investire nel rinnovo della flotta così come era invece previsto nel piano di ristrutturazione da me promosso e approvato dal CdA. Preso atto del cambio di orientamento dell’azionista rispetto al rilancio della Compagnia, ritenni concluso il mio mandato. Quanto al rilievo che avrebbero le mie presunte “conoscenze”, rivendico competenze e credibilità professionale ed istituzionale frutto dell’attività manageriale che mi ha portato negli anni – a livello nazionale e internazionale – a interagire con rappresentanti del mondo delle imprese e delle Istituzioni. Con riferimento al mio incarico quale Presidente di Enav, è noto – e avrebbe potuto esser agevolmente verificato – che sono stato selezionato da primari head hunter internazionali non certo per le mie “conoscenze”, bensì per le mie competenze nel settore (n.b. il Governo in carica era quello del Presidente Gentiloni, non Renzi!). Del pari, è evidente che richiamare le vicende, assai risalenti, che riguardano mio fratello è stato fatto per continuare con la dietrologia che permea l’intero articolo. Per giunta, sulla vicenda richiamata le autorità competenti inglesi si sono pronunciate (con atti pubblici) senza nulla addebitare a mio fratello. Da ultimo, sul presunto “malumore” del MIT mi limito ad evidenziare che (i) il Piano redatto è stato approvato; (ii) i compensi previsti non sono quelli riportati senza alcuna verifica e sono stati determinati a valle di una procedura di selezione in conformità agli standard di mercato.

Ing. Roberto Scaramella

 

Capisco l’intenzione dell’ingegner Roberto Scaramella di valorizzare il suo lavoro di manager, ma i fatti a volte sono impietosi. Tra il 2010 e il 2014, periodo in cui egli è stato prima responsabile da Parigi di tutte le attività aeronautiche dell’Aga Khan, compresa Meridiana, e poi amministratore della stessa Meridiana, quest’ultima ha perso circa mezzo miliardo di euro. Centosessanta milioni solo nel 2014, il 34 per cento su un fatturato di 469 milioni. Un record mondiale. Nel decennio che precedette l’arrivo di Scaramella, la musica a Meridiana era assai diversa tanto che l’azienda generò complessivamente 150 milioni di euro di cassa positiva. Per quanto riguarda l’uscita di Scaramella da Meridiana, tutti i manager del mondo quando se ne vanno, o sono costretti a farlo, dicono che è stato di loro spontanea volontà. Negli ambienti aeronautici e a Olbia, dove la compagnia aerea ha sede, molti sapevano che l’Aga Khan era stufo delle perdite a ripetizione di Meridiana (vedi la Nuova Sardegna cronaca di Sassari del 19 novembre 2014). Non ho scritto che Scaramella si è messo in tasca 5 milioni di euro per il piano Alitalia, ho scritto che quel piano è costato almeno 5 milioni e lo ribadisco. Anche per quel che riguarda le vicende di Mario Scaramella, fratello di Roberto, la circostanza che le autorità inglesi non gli avrebbero addebitato nulla non cancella il fatto che il suo nome apparve per settimane sui giornali italiani in relazione alle indagini sull’assassinio dell’agente russo Aleksandr Litvinenko. Sulla sua nomina all’Enav, Roberto Scaramella è invece puntuale: essa non porta il timbro di Renzi, ma di Gentiloni, e di questa imprecisione chiedo scusa ai lettori e agli interessati. Ma guardando alla sostanza delle cose, considerando che in faccende del genere Gentiloni voleva dire Renzi, se non è zuppa è pan bagnato.

Daniele Martini

Legge sull’Editoria. Contestare il blocco agli sconti equivale a difendere Amazon?

Egregio dott. Feltri, nella sua difesa degli sconti praticati da Amazon e altri colossi online, mentre magnifica il libero mercato nel quale i piccoli librai dovranno inevitabilmente soccombere perché non competitivi, lei dimentica di menzionare il fatto che questi giganti della logistica praticamente non pagano tasse e sfruttano i lavoratori. I librai invece le tasse le pagano e i commessi pure. Dove starebbe la libera concorrenza a parità di condizioni? Quanto al paragone tra vender libri o pignatte, be’, è decisamente infelice e direi anche offensivo nei confronti dei venditori di pentole presi come pietra di paragone al massimo ribasso.
Antonio Giaretta

 

Caro Antonio, io non ho difeso gli sconti di Amazon e men che meno la sua spregiudicatezza fiscale. Lungi da me. Penso anzi che lo strapotere di Amazon sia un enorme problema di Antitrust anche se è un “paradosso”, come lo ha definito Lina Khan in un celebre articolo sul Yale Law Journal: di solito il pericolo del monopolio è che i consumatori si trovino costretti a pagare di più per servizi di qualità scadente, mentre Amazon offre servizi migliori a prezzi più bassi. Il costo qualcuno lo paga, ovviamente, tra questi ci sono i librai, gli operai della logistica dell’indotto, le aziende che vogliono vendere i loro prodotti sulla piattaforma… Ma se al problema Amazon si risponde con le misure sbagliate, cambierà ben poco. Limitare gli sconti offre un piccolissimo beneficio di breve periodo ai librai, non a spese di Amazon (che resta competitivo per la disponibilità, l’acquisto con un clic, il trasporto a domicilio fulmineo) ma dei “lettori forti”, quelli che comprano tanti libri e che – secondo i calcoli dell’Associazione editori – a parità di libri acquistati pagherebbero 70 milioni di euro in più all’anno. Una specie di tassa occulta che, tra l’altro, svilisce i libri al rango di qualunque prodotto di vasto consumo. Mi dispiace di ferire la sensibilità dei venditori di pentole, ma se l’unica dimensione che pare interessare ai librai è il prezzo, sono loro a banalizzare l’esperienza della lettura.

Stefano Feltri