Nuoto, niente Europei a Roma per la Ryder? “Clausola assurda”

Non un ostacolo ma “un traino da sfruttare”. O semplicemente una clausola “assurda e illegittima”. Il giorno dopo la notizia rivelata dal Fatto dell’esistenza di un impegno da parte dell’Italia a non ospitare altre manifestazioni vicine alla Ryder Cup, che potrebbe far saltare gli Europei di nuoto 2022, c’è agitazione a Roma. La sindaca Raggi ha firmato per portare nella Capitale la rassegna acquatica, ma la candidatura è in conflitto col contratto della Ryder. Sottoscritto non dal Comune di Roma (formalmente si gioca a Guidonia), ma da FederGolf, col benestare dell’allora governo Pd. Un’esclusiva che non convince i 5 stelle romani: “Falsa la polemica che vede la Ryder in contrapposizione ai numerosi eventi che ogni anno ospitiamo”, commenta l’assessore Daniele Frongia. “Nessun impatto negativo”, aggiunge il consigliere Diario. Meno conciliante il presidente FederNuoto, Paolo Barelli: “Apprendo con sconcerto la clausola assurda e illegittima stipulata dalla FederGolf, perché coinvolge volontà altrui mai interpellate e impegna federazioni che promuovono le proprie discipline”. E Palazzo Chigi che dice? La candidatura agli Europei di nuoto ha bisogno dell’appoggio (e dei soldi) del governo.

Commissione extra-large per De Ligt alla Juve

La Juventus ha presentato il colpo da novanta del suo mercato, Matthijs de Ligt, il difensore dell’Ajax di 19 anni (ne compirà 20 il 12 agosto) che con il suo gol eliminò i bianconeri nell’ultima Champions League. Le cifre (ufficiali): 75 milioni all’Ajax e 10,5 di “oneri accessori”, voce in bilancio con cui la società definisce l’intermediazione dei procuratori (in questo caso il potentissimo Mino Raiola). Tutto chiaro, tutto nero su bianco. Anche regolare?

Non più tardi di un mese fa, il 10 giugno 2019, la Federcalcio ha approvato il nuovo “Regolamento Agenti Sportivi”, che all’articolo 5.8 (“Remunerazione dell’agente sportivo”) recita: “Il mandato deve specificare l’ammontare della remunerazione prevista per l’agente sportivo, che può essere stabilita o in una somma forfettaria ovvero in una percentuale calcolata sul reddito complessivo lordo del calciatore o sui valori della transazione. Nel caso di opzione percentuale, le parti possono fare riferimento ai seguenti criteri per la sua determinazione: a) l’ammontare totale della remunerazione dovuta all’Agente sportivo non dovrà eccedere il 3% della retribuzione fissa complessiva lorda del calciatore; b) l’ammontare totale del corrispettivo dovuto all’Agente sportivo per l’assistenza fornita ad un club non dovrà eccedere il 3% del valore del trasferimento”. La Figc, insomma, suggeriva un tetto (non vincolante). La Juventus l’ha completamente ignorato. Raiola ha strappato per sè una commissione di 10,5 milioni: che se calcolata sul valore del trasferimento (75 milioni) supera di cinque volte il massimale, che sarebbe 2,25 milioni. 10,5 milioni sono il 3% di un trasferimento da 350 milioni, molto più ricco dell’affare più ricco della storia, quello di Neymar al PSG per 222 milioni. Se invece questo 3% fosse calcolato sulla base dello stipendio lordo del giocatore, ciò significherebbe che la Juve corrisponderà a De Ligt nei prossimi 5 anni 350 milioni lordi, molti più dei 240 milioni in quattro stagioni pattuiti con CR7. In ogni caso i conti non tornano. L’ingaggio di De Ligt, per la cronaca, è di 7,5 milioni a stagione che diventano 12 con i bonus. E allora? Al presidente della Figc Gravina, che proprio in questi giorni sta stilando una black list di “dirigenti indesiderati”, quelli che determinano voragini nei bilanci e fallimenti dei club, va bene che il più importante club italiano (ma l’andazzo è diffusissimo, purtroppo) paghi a un agente una parcella da 10,5 milioni per un affare da 75 e 10 a un altro agente (la mamma di Rabiot) per un’acquisizione a parametro zero? Alla voce “oneri accessori” dei suoi ultimi tre bilanci, soldi dati agli agenti che escono e non rientrano più, la Juventus ha iscritto 51,8 milioni nel 2016 (l’anno di Pogba ceduto per 105 milioni: Raiola ne intascò 27 e se ne fece dare altri 2,6 dal giocatore e 19,4 dallo United: in tutto 49), 42,3 milioni nel 2017 e 24,3 milioni un anno fa (battuta dall’Inter: 24,9). Quest’anno con Raiola e mamma Rabiot siamo già a 20,5: e siamo solo all’inizio. In tutto fanno 138,9 milioni con cui la Juve avrebbe potuto acquistare Mbappè, che costò al Paris Saint-Germain 135 milioni.

Il Barcellona, che era interessato a De Ligt, e il Manchester City, che voleva Cancelo (giocatore di Mendes), di fronte alle richieste sanguinose dei procuratori, ormai fuori controllo, hanno preferito farsi da parte. Secondo uno studio Fifa, negli ultimi 5 anni il calcio ha buttato 2 miliardi di dollari per i procuratori: dai 241 milioni del 2014 siamo passati ai 548 del 2018. È giusto continuare a vivere sotto un ricatto così vergognoso?

Dilettanti nel pallone: guerra sui conti della Lega

I dilettanti nel pallone sono quasi un paradosso: pensi a piccoli tornei amatoriali, invece politicamente sono la Lega che pesa più di tutte, anche della Serie A (vale da sola il 33% dei voti, da lì viene l’ex presidente Tavecchio). Economicamente hanno costruito un impero. Continuano a muovere interessi e trame di potere: intorno al buco di un comitato regionale e a un paio di debiti fra Lega e Federazione è in corso uno scontro che rischia di sconvolgere il calcio italiano.

La questione nasce in Campania, territorio in passato al centro di illeciti che hanno portato alla squalifica per un anno dell’ex presidente Pastore ora rinviato a giudizio). Il Comitato fu commissariato, di lì è iniziata l’ascesa di Cosimo Sibilia, nome noto nel mondo del pallone (figlio dello storico patron dell’Avellino), senatore di Forza Italia, che sarebbe poi stato eletto a capo dei Dilettanti e vicepresidente Figc. Nemmeno la gestione straordinaria, però, sembra riuscita a risolvere i problemi, almeno a detta dei revisori federali, che in una relazione riservata muovono pesanti contestazioni.

Nel 2015 la società immobiliare del Comitato ha svalutato uno stabile, comprato a prezzi spropositati in passato e poi adeguato a una perizia: così ha perso oltre un milione e mezzo. Il problema è che da quel buco, a catena, ne sono nati altri. Il Comitato non ha svalutato la partecipazione di tale società, mettendo a bilancio un credito di un milione non più esigibile. E queste poste avrebbero dovuto avere un impatto anche nel bilancio della Lega. “Il Comitato – scrive la Procura federale, che pure si è occupata della vicenda – si trova in un conclamato stato di crisi finanziaria-patrimoniale, che non si è ancora trasformato in insolvenza solo per intervento della Lnd”. Non è tutto. La Figc contesta anche debiti diretti nei suoi confronti: per i revisori c’è uno scostamento di 1,8 milioni fra le poste certificate nei conti federali e quelle nel bilancio Lnd (che comunque è sempre positivo).

La relazione fa notare che chi doveva controllare, in quel momento, era però anche il controllato: Felicio De Luca, ancora oggi capo dei revisori Lnd, nel 2017 è stato vicecommissario del Comitato. Per la Figc c’è incompatibilità, per la Lnd no (c’è un precedente in Serie A, l’ex reggente Simonelli ha avuto una sovrapposizione simile). La questione di opportunità resta, e sfiora il conflitto d’interessi se si aggiunge che De Luca è anche comproprietario del nuovo domicilio del Comitato: in seguito a un’aggressione, nel 2016 fu deciso il trasferimento e nella fretta fu scelto un immobile nel centro direzionale di Napoli. Prezzo di favore (500 euro al mese per un anno, poi 1.450), fin troppo: è della Immobilstudio srl, in cui proprio De Luca ha una partecipazione del 20%. Controllato, controllore e pure padrone di casa. Rischia il deferimento dalla Procura federale anche per un’altra indagine sull’attività svolta in Lnd nella stipula di contratti.

Sarebbe solo una noiosa querelle contabile, se non coinvolgesse le due più alte cariche del pallone italiano: la Figc del presidente Gabriele Gravina, di fatto, sostiene che il bilancio della Lnd di Cosimo Sibilia (suo vice e più potente alleato) non è corretto. La Lnd ha risposto per le rime: sostiene che il credito dell’immobiliare da svalutare non era scaduto, che sui debiti si sbagliano i revisori federali. Soprattutto, che per statuto è autonoma, non è disposta a sottoporsi a “indagini ispettive” e ritiene “definitivamente conclusa la questione, esente da ogni critica”. In realtà la relazione chiesta e ricevuta dal presidente Gravina di critiche ne evidenzia molte. Ora è nel suo cassetto, in un momento delicato per le nomine sulla giustizia (alcuni potrebbero approfittarne), a un anno dalle elezioni che prevedono il passaggio di consegne proprio fra Gravina e Sibilia (c’è un accordo scritto). Dalla loro alleanza è nato il governo che ha permesso di uscire dal commissariamento Coni e riprendere le riforme. Ma la tregua rischia di finire. Forse è già finita.

Concessioni tv, Lavitola si smarca da De Gregorio

“Non ho nulla a che vedere, e a condividere, con tal De Gregorio, che non considero una persona seria. E non è mai stata mia intenzione procurare danno a Silvio Berlusconi. Lo ha dimostrato la mia condotta, che non è mai stata ispirata da lui o da altri, ma solo dal mio modo di concepire la vita”. Valter Lavitola interviene dopo che Il Fatto ieri ha rivelato il ricorso all’organismo forense di conciliazione in cui l’ex faccendiere ha citato Silvio Berlusconi. Nell’atto, in sostanza, Lavitola sostiene di essere stato un mandatario dell’ex premier, in particolare per i fatti de L’Avanti!. Ieri dunque Lavitola ha preso le distanze dall’ex senatore Sergio De Gregorio, il quale potrebbe rivolgersi alla magistratura. Obiettivo: far emergere che Berlusconi fosse il vero proprietario del quotidiano socialista. L’intenzione dell’ex senatore (ma che Lavitola invece allontana da sé) potrebbe essere quella di arrivare addirittura alla sospensione cautelativa delle concessioni tv di Mediaset, per gli effetti del divieto di incrocio tra carta stampata e televisioni della legge Gasparri. Al Fatto fonti vicine all’ex premier spiegano: “Sì, c’è una richiesta di mediazione. Ma ritenere Berlusconi il proprietario de L’Avanti! fa ridere”.

Firme fasulle a Bologna, consigliere M5S a processo

“Massima fiducia nella magistratura, Marco Piazza dimostrerà la propria correttezza e innocenza. Non ho alcun dubbio”. Parola di Massimo Bugani, socio di Rousseau e componente dello staff del vicepremier Luigi Di Maio a Roma.

Ieri Piazza, suo ex braccio destro in consiglio comunale a Bologna, è stato rinviato a giudizio. Contro di lui una ventina di firme raccolte per le scorse elezioni regionali emiliano-romagnole: alcune non sarebbero state riconosciute dai sottoscrittori e altre sarebbero state raccolte durante ua Roma, extra regione e quindi fuori legge.

Il processo inizierà nel 2020, ma la vicenda risale al 2014. In quei giorni in Emilia-Romagna il clima è teso dopo le epurazioni dei consiglieri Giovanni Favia e Andrea Defranceschi e il gruppo pentastellato teme, come poi avverrà, di non riuscire a scalzare il Partito Democratico. Tra i vari che raccolgono o autenticano le firme per presentare la lista ci sono Piazza – poi autosospesosi dal M5S –, il suo collaboratore Stefano Negroni e l’ex attivista Giuseppina Maracino, adesso accusati di violazione della legge elettorale. La quarta persona coinvolta, l’ex attivista Tania Fiorini, è stata condannata a sei mesi con pena sospesa, avendo scelto di farsi processare con rito abbreviato. Oltre alle firme raccolte extra regione al centro dell’inchiesta ci sono un altro paio di firme disconosciute dai sottoscrittori e certificate invece come autentiche dal M5s. Per l’avvocato Davide De Matteis, che difende il consigliere comunale, il modulo “romano” era stato cestinato ma anche se fosse finito, per sbaglio, fra quelli consegnati “mancherebbe comunque l’elemento soggettivo del dolo e l’offensività del fatto”. Venti firme false a fronte di centinaia corrette, per il legale sono una “contestazione inconsistente da più parti”.

Uranio, la relazione Trenta-Grillo usata contro un carabiniere malato

Le ministre M5s della Difesa e della Salute, Elisabetta Trenta e Giulia Grillo, hanno minimizzato. Trenta ha riconosciuto che quel documento, secondo il quale i militari reduci da missione nella ex Jugoslavia stanno meglio degli altri, era “superato”. Ma ora la relazione che ha irritato le associazioni delle vittime dell’uranio impoverito, finisce in Tribunale, a Livorno. L’Avvocatura di Stato l’ha depositata, su indicazione della Difesa, contro un ex parà passato ai carabinieri e affetto da tumore, un uomo di 54 anni che è stato nei Balcani e in Afghanistan e chiede, assistito dall’avvocato Angelo Fiore Tartaglia dell’Osservatorio militare, lo status di “vittima del dovere”.

Il documento, firmato e trasmesso alle Camere il 10 maggio scorso dalle ministre, proviene dagli uffici dei due ministeri e dice quel che gli Stati maggiori hanno sempre sostenuto: “I dati non sembrano supportare l’ipotesi che la partecipazione alle missioni operative nei Balcani abbiano rappresentato un rischio specifico per l’insorgenza di neoplasie maligne”. Una sberla alle commissioni parlamentari di inchiesta e a decine di sentenze che invece hanno accertato che i proiettili all’uranio impoverito, bruciando a temperature elevatissime le corazze dei carri, hanno prodotto nanoparticelle di metalli pesanti ritenute all’origine dei tumori; che i militari italiani non erano adeguatamente protetti. Una sberla anche alle battaglie dei grillini. Lo studio dei ministeri, peraltro, riguarda un piccolo campione di militari volontari che neppure si sono sottoposti a tutte le visite del protocollo, ignora quelli in congedo, è stato elaborato in assenza di un comitato scientifico. Per i ministeri è stata depositato solo perché previsto dalla legge (ignorata dai governi precedenti). Uno studio pubblicato quest’anno sulla rivista Epidemiologia&Previdenza, a firma dell’epidemiologo Valerio Gennaro del San Martino di Genova, di Omero Negrisolo dell’Agenzia veneta per l’ambiente, dalla farmacologa Loretta Bolgan e dall’ex parlamentare Ivan Catalano, registra un’incidenza dei tumori fra i militari inviati all’estero ben superiori a quelli dei “non missionari” per l’Aeronautica, i carabinieri e l’Esercito: dal 7 al 107 per cento in più. Per l’Osservatorio militare le vittime sono oltre 367, i malati 7.500

La ministra Trenta ha promesso per settembre un intervento legislativo, ha ipotizzato l’inversione dell’onere della prova in modo che sarebbe la Difesa, in futuro, a dover dimostrare che la patologia non dipende da cause di servizio. Per ora, tuttavia, la Difesa resiste alle richieste di risarcimento. Solo qualche giorno fa Domenico Leggiero, presidente dell’Osservatorio militare, polemizzava con la ministra per la mancata esecuzione di una sentenza a favore dei familiari di un militare deceduto: sono stati costretti a tornare al Tar. Il contenzioso in corso vale centinaia di milioni.

“Corrotti politici e tecnici per lo stadio della Roma”

Quando nel 2012 il progetto per il nuovo stadio della Roma è stato presentato, il costruttore Luca Parnasi aveva due obiettivi: rilanciare l’immagine imprenditoriale della sua famiglia e realizzare un avveniristico complesso sportivo. Per realizzarlo, però, avrebbe corrotto e finanziato politici e dirigenti amministrativi per favorire le procedure di autorizzazione dell’impianto.

Parnasi sarà processato il prossimo 5 novembre per associazione a delinquere, finanziamento illecito e corruzione; insieme a lui, anche l’ex vicepresidente del Consiglio della Regione Lazio, Adriano Palozzi (Forza Italia), l’ex assessore regionale Michele Civita (Pd), il soprintendente ai beni culturali, Francesco Prosperetti. A giudizio anche Daniele Leoni del Dipartimento Urbanistica del Comune di Roma, Giampaolo Gola ex assessore allo sport del X Municipio, l’architetto Paolo Desideri, i manager del gruppo Parnasi Nabor Zaffiri e Gianluca Talone, l’ex capo di gabinetto del ministero dei Beni culturali Claudio Santini. Il ministero ha fatto sapere di aver avviato le procedure per una sua eventuale sospensione disciplinare.

Il giudice Massimo Di Lauro ha invece accolto il patteggiamento a due anni per i tre manager Luca Caporilli, Giulio Mangosi e Simone Contasta dell’Eurnova Srl, la società che fa capo a Parnasi.

Secondo l’inchiesta del procuratore aggiunto Paolo Ielo e della sostituta Barbara Zuin, Parnasi sarebbe la mente dell’associazione per delinquere, che avrebbe impartito direttive e compiti ai propri collaboratori, e mantenuto “i rapporti con gli esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario”. Per raggiungere i propri interessi, l’immobiliarista romano avrebbe elargito somme di denaro e promesse a tutti gli schieramenti politici. Circa 53 mila euro a Santini, che a sua volta avrebbe sfruttato le sue relazioni con il direttore della soprintendenza Prosperetti, affinché si superasse la “proposta di vincolo sull’ippodromo”. Altri 25 mila euro a una società riconducibile al consigliere regionale azzurro Palozzi, la promessa d’assunzione del figlio dell’assessore Civita, i 1.500 euro al funzionario Leoni per la fondazione “Fiorentino Sullo”. In più, “l’incarico lavorativo” con “l’As Roma, il Coni” o una delle sue società, promesso da Parnasi a Gola.

Luca è il rampollo della famiglia Parnasi, figlio di Sandro, già fondatore della Parsitalia Costruzione Srl e scomparso a luglio 2016. È amministratore unico dell’Eurnova Srl, che insieme alla Neep, del presidente italoamericano James Pallotta, nel 2012 presenta il progetto dello stadio della Roma, che sarebbe dovuto sorgere nell’ex ippodromo di Tor di Valle. Un impianto da circa 60 mila posti, correlato da un business park e due grattacieli, disegnati dall’archistar Daniel Libeskind.

A due anni di distanza, l’amministrazione di Ignazio Marino vota l’interesse pubblico alla realizzazione del progetto, in cambio sarebbero state realizzate delle opere a vantaggio della città. Ma quando in Campidoglio sale il M5S, si decide, dopo una lunga trattativa, di tagliare del 40% le cubature, eliminare le torri, e anche le opere pubbliche necessarie.

All’interno del Movimento, Parnasi avrebbe trovato la compiacenza di Marcello De Vito e Luca Alfredo Lanzalone. Il primo, indagato per corruzione, sfruttando la sua posizione di presidente dell’assemblea capitolina si sarebbe interessato al progetto stadio, ricevendo in cambio denaro dall’immobiliarista. L’avvocato Lanzalone, ex presidente della partecipata Acea e consulente del Campidoglio sotto la giunta Virginia Raggi, siederà tra gli imputati al processo di novembre, perché avrebbe sfruttato la sua posizione vicina al Movimento per favorire il progetto di Parnasi, ricevendo in cambio consulenze per il suo studio legale.

Mamoiada cancella le strade dedicate ai Savoia “sfruttatori”

La scelta. Mamoiada, comune del Nuorese noto per i “mamuthones” (maschere di Carnevale tradizionali), rimuove i nomi dei Savoia dalla toponomastica e intitola le due arterie principali, il Corso Vittorio Emanuele II – dove ha sede del Comune – e la via Vittorio Emanuele III, a due sardi illustri: Giovanni Maria Angioy ed Eleonora D’Arborea. “Le motivazioni che hanno portato la Giunta alla scelta di bandire dalla toponomastica i nomi delle strade dedicate ai Savoia – si legge nella delibera – sono sostenute da un’ampia storiografia che dimostra come questi agirono sempre contro gli interessi del popolo sardo e della Sardegna, sino a costruire, con la violenza, l’oppressione e la rapina, un forte sottosviluppo per super sfruttamento. Una delle massime responsabilità storiche di Vittorio Emanuele III fu l’aver favorito l’avvento e l’affermarsi del fascismo”. Riguardo ai nomi scelti, “Giovanni Maria Angioy ed Eleonora d’Arborea con le loro gesta sono diventati dei personaggi di spicco nel panorama storico isolano, simbolicamente ricacciano via i Savoia, gli invasori e usurpatori. Cancellando un periodo buio per l’isola e aprendo la strada a una nuova memoria”.

Il semestre Ue con lo sponsor. “Basta, è conflitto d’interessi”

La presidenza di turno finlandese del Consiglio dell’Unione europea non comincia sotto i migliori auspici. Prima di raccogliere il testimone dalla Romania, all’inizio di luglio, Helsinki aveva ricevuto una richiesta da parte di un centinaio di europarlamentari: fate finire la pratica della sponsorizzazione del semestre di presidenza. Tra gennaio e giugno, infatti, Bucarest aveva ottenuto il supporto di due grandi case automobilistiche come Renault e Mercedes e di una multinazionale come Coca Cola. Ma di fronte alle polemiche e ai dubbi di associazioni e legislatori europei, un portavoce del governo del Paese scandinavo ha risposto dal quotidiano online Eu Observer che “non verrà aperta nessuna discussione riguardo alla pratica della sponsorizzazione aziendale del semestre di presidenza”.

In realtà la Finlandia è solo l’ottavo Paese di fila che chiede aiuto ad aziende private per coprire una parte delle spese sostenute durante la presidenza di turno. Negli anni precedenti lo avevano fatto Olanda, Slovacchia, Malta, Estonia, Bulgaria, Austria e Romania, appunto, mentre da parte della Slovenia, che subentrerà il 1º gennaio 2020, già trapela l’intenzione di voler proseguire sulla stessa strada.

Nel caso della Finlandia, il gigante automobilistico Bmw ha deciso di mettere a disposizione della delegazione del Paese scandinavo in Ue un centinaio di macchine. La concessione avviene nonostante l’azienda tedesca sia sotto indagine e rischi una multa da parte dell’antitrust Ue a causa del mancato sviluppo di tecnologie meno inquinanti per i motori diesel e benzina.

La possibilità di sponsorizzazione da parte di aziende automobilistiche, di software o agroalimentari era stata definita “politicamente dannosa” in una lettera che un centinaio di eurodeputati di vari gruppi aveva indirizzato lo scorso aprile all’allora presidente finlandese Juha Sipila, chiedendo che Helsinki si adoperasse per farla finire.

Il “danno politico” evocato dagli eurodeputati è evidente. Quando uno Stato permette di essere veicolo di pubblicità di una grande azienda con interessi nel condizionare a proprio favore il processo decisionale in Ue, diventa esso stesso parte del processo di lobbying. Durante il semestre rumeno, il caso che aveva fatto più discutere era stato quello di Coca Cola. Il gigante americano aveva versato a Bucarest la cifra di 40.000 euro, ottenendo in cambio di poter associare il proprio brand con il logo istituzionale “Romania 2019”. Un palese “conflitto di interessi”, come ha segnalato l’ong Food watch se solo si considera che l’Ue legifera in materia di salute alimentari, riduzione degli zuccheri nelle bevande al fine di contenere l’obesità e le malattie che ne derivano.

Le sponsorizzazioni di Bmw e Coca Cola sono due facce della stessa pratica opaca e in palese conflitto di interessi che i Paesi alla guida di turno del Consiglio Ue non hanno nessuna volontà di cambiare. “È diventato tutto normale”, dice al quotidiano britannico Independent Vicky Cann, ricercatrice dello European Corporate Observatory. “Multinazionali come Bmw spendono milioni per influenzare i processi decisionali in Ue”. Poi sottolinea: “Il rischio di queste sponsorizzazioni è di oliare le ruote della macchina lobbistica di Bruxelles nobilitando l’immagine di un marchio nei confronti dei legislatori europei”.

Chi sicuramente non è tenera con le multinazionali è invece la commissaria uscente alla Concorrenza, la liberale danese Margrethe Vestager. Solo l’altroieri è arrivata una multa da 242 milioni di euro a Qualcomm – primo produttore mondiale di chip – per abuso di posizione dominante. Mercoledì, Vestager aveva aperto un’inchiesta su Amazon, colosso dell’e-commerce, chiamato in causa per l’uso di dati dei rivenditori indipendenti, che rischia di violare le regole della concorrenza Ue. Durante il suo mandato in Commissione, la commissaria danese non ha risparmiato sanzioni per Google, Facebook e Apple. Il suo successore (un italiano?) ha molto da imparare.

“Ecco le trame nascoste dietro la nomina di Lo Voi”

Il 12 giugno, la Procura di Perugia convoca Piero Amara. Parliamo dell’ex legale esterno dell’Eni che, tra i parecchi guai giudiziari, a Perugia è indagato per aver corrotto, in concorso con l’avvocato Giuseppe Calafiore e l’imprenditore Fabrizio Centofanti, il pm romano Luca Palamara. È in questa veste che il 12 giugno viene interrogato. Il magistrato perugino Mario Formisano gli pone una domanda su un’imprecisata registrazione che riguarda Nicola Russo. Si tratta del giudice estensore della sentenza del Consiglio di Stato, con presidente del collegio Riccardo Virgilio, che ricollocò Francesco Lo Voi a capo della Procura di Palermo, dopo che il Tar ne aveva annullato la nomina.

Sia Virgilio sia Russo sono indagati, in un’altra inchiesta, per corruzione giudiziaria proprio con l’accusa di essersi venduti ad Amara. Ed ecco la risposta dell’ex legale dell’Eni: “C’era una registrazione effettuata da Calafiore in cui Russo parlava della sentenza Lo Voi e dell’interessamento di Palamara e Pignatone perché venisse nominato come procuratore Lo Voi. Russo lasciava intendere che vi era stato una sorta di condizionamento, ovvero un do ut des. Lui avrebbe favorito la conferma della nomina di Lo Voi, mentre Palamara e Pignatone avrebbero fatto in modo di risolvere i suoi procedimenti penali. Russo infatti era indagato per il reato di pedopornografia e di corruzione. Calafiore aveva deciso di registrare Russo, in quanto voleva procurarsi una prova per creare un caso ove fosse stata applicata nei suoi confronti una misura cautelare dalla Procura di Roma. Con tale documento pensava di poter creare imbarazzo a Pignatone e Palamara”. Contattato dal Fatto l’ex procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, ha preferito non commentare. Di certo c’è che, durante la sua reggenza, Russo è stato arrestato per corruzione. Il procuratore Lo Voi invece replica: “Non ho la più pallida idea di che cosa si tratti e non vedo che cosa c’entro io in questa storia”.

Della sua nomina parla anche Palamara, sentito sempre a Perugia: “Quando parlai con Cascini (Giuseppe, consigliere del Csm, ndr) egli mi chiese pure di qualcosa in merito alla vicenda del ricorso al Consiglio di stato sulla nomina di Lo Voi, vicenda che mi aveva visto impegnato a sostenere la candidatura di Lo Voi. Io con Pignatone ho sempre avuto un rapporto stretto e con lui ho parlato di tante nomine (…). Io non seppi rispondere a Cascini su fatti inerenti il procedimento al Consiglio di Stato relativi alla vicenda Lo Voi. (…). Quando Pignatone venne a Roma parlavamo spesso della Procura di Palermo e della vicenda della nomina del procuratore di Palermo, la mia corrente portava Lo Forte mentre Mi e una forte componente laica portava Lo Voi, e Area Lari, quindi, il voto di Unicost diventava decisivo. Ebbi in quel periodo una consultazione con Pignatone importante per determinarmi sulla scelta…”.

Palamara è accusato di essere stato pagato 40 mila euro, proprio da Amara, per favorire la nomina dell’ex pm Giancarlo Longo alla Procura di Gela. Nomina mai avvenuta. Circostanza negata da Palamara. Nega anche Amara: “In merito alle dichiarazioni di Longo che afferma che avrei consegnato 40 mila euro a Palamara per favorire la sua nomina di procuratore di Gela, posso dire che sono farneticanti e mendaci”. Nega anche di aver mai dato utilità al pm romano Saverio Francesco Musolino – secondo le accuse una Smart, mai rinvenuta dagli investigatori, per la moglie del pm – affinché trasferisse un fascicolo da Roma a Siracusa: “Nego di aver corrisposto una qualsiasi utilità al dottor Musolino e non sono a conoscenza che la stessa sia stata corrisposta da altre persone a me legate”.

Poi Amara punta il dito sul pm Stefano Rocco Fava, lo stesso che aveva chiesto il suo arresto. I pm perugini gli chiedono come facesse, nel 2017, ad avere informative della Guardia di Finanza che lo riguardavano. “Le ho ricevute da Sarcina”. Francesco Loreto Sarcina è un maresciallo dei carabinieri, con un passato nei servizi segreti, arrestato per questa vicenda e per il quale, lo stesso pm Fava, ha chiesto il massimo della pena.

Amara aggiunge: “Sarcina chiese dei soldi per conto di Fava. (…). Per accreditarsi ulteriormente ci mostrò una pen drive su cui vi era un’istanza di fallimento presentata dal dottor Ielo (Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Roma, ndr) nei confronti della P&G che è una società di cui siamo soci io e Calafiore. Aggiunse che della vicenda fallimentare se ne sarebbe occupato Fava, come poi accadde. Ci invitò a consegnargli prima 10 mila euro e poi 30 mila da dare a Fava in modo che potesse agevolarci nella gestione fallimentare che sarebbe succeduta. Affermava che il denaro sarebbe servito per ‘tranquillizzare il n. 4’. Lui era solito indicare Fava con questo numero, mentre Ielo era il ‘n. l’, Cascini era il ‘n. 2’, Tescaroli (Luca, ora procuratore aggiunto di Firenze, ndr) il ‘n. 3’ . Io e Calafiore non abbiamo mai creduto alle affermazioni di Sarcina (…)”. Tutto questo, racconta Amara, è stato già riferito a Roma durante un interrogatorio alla presenza di Ielo e Fava che, proprio per questo motivo, avrebbe dovuto astenersi: “Fava era in plateale obbligo di astensione rispetto alla vicenda Sarcina che aveva richiesto del denaro per comprare i suoi favori. Fava, poi, ha chiesto la misura cautelare nei confronti di Sarcina. Fava o doveva essere iscritto per corruzione o doveva essere considerato persona offesa del delitto di millantato credito”. In realtà Fava non aveva alcun obbligo di astensione. Contattato dal Fatto, quest’ultimo, oltre a smentire di aver mai avuto simili contatti con Sarcina, ha precisato di aver chiesto subito che il verbale di Amara fosse inviato a Perugia affinché i pm verificassero la correttezza del suo operato; che per Sarcina è stato proprio lui a chiedere il massimo della pena; che Sarcina, interrogato da Ielo, smentì la ricostruzione di Amara.

Ma Amara a Perugia aggiunge: “Ho appreso dai giornali” che Fava ha “dichiarato di aver appreso di recente” che “avevo nominato mio consulente, nel 2014, il fratello del procuratore Pignatone, Roberto, in un processo a Siracusa”. Amara ricorda che, per questo motivo, Fava riteneva che Pignatone dovesse astenersi dalle inchieste su di lui. “Se è vero quello che scrivono i giornali”, dichiara Amara, “posso dire che Fava ha dichiarato il falso. Quando furono fatte le perquisizioni presso il mio studio (…) era presente anche Fava (…) Nel corso della perquisizione visionò alcuni fascicoli, tra cui anche” quello “in cui vi era la lista testi con l’indicazione del nome del fratello del procuratore”. Fava smentisce: della lista testi venne a sapere grazie al coordinamento investigativo con i pm di Messina. Il Fatto ha visionato il verbale di perquisizione di Amara, ma non emerge traccia del fascicolo e dei dialoghi in questione.