Non solo mafie italiane. L’ultimo rapporto semestrale della Dia mette in luce la pervasività delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, da nord a sud dello Stivale. Autoctone o estere, tutte negli ultimi sei mesi del 2018 hanno dimostrato di saper stare al passo con i tempi, sempre pronte ad adattarsi ai nuovi meccanismi dell’economia legale pur restando legate alle tradizioni. Ciò che emerge, si legge nel report, è “una nuova mafia imprenditrice, che adotta modelli manageriali per la gestione delle risorse”. A entrare in gioco sono i professionisti che, “sebbene esterni, si prestano per schermare e moltiplicare gli interessi economico-finanziari dei gruppi criminali”. Da luglio a dicembre, il numero di confische e sequestri ha subito un incremento del 1000% e del 400% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: risultati eccezionale che, sommati a quelli conseguiti dal 1992, hanno permesso alla Dia di sequestrare patrimoni per oltre 24 miliardi di euro e di confiscarne per oltre 11 miliardi di euro, con più di 10.500 arresti. Su un totale di 103.576 operazioni, il 46,3% (n. 47.909) sono state realizzate al Nord, il 33,8% (n. 35.034) al Sud, mentre il 18,7% (n.19.396) nel Centro Italia.
Il pasticciaccio del murales antimafia: cancellata la cronista Federica Angeli
I ritratti di Falcone, Borsellino e Impastato non c’erano. Ma sono apparsi ex presidenti di municipio di centrosinistra e il nuotatore Manuel Bortuzzi. Quando il M5S locale ha chiesto all’associazione assegnataria di modificare l’opera, introducendo i volti dei simboli antimafia concordati, è sparita anche la sagoma della giornalista Federica Angeli. Facendo scoppiare il finimondo. È polemica a Ostia sul caso del murales dello street-artist Lucamaleonte, realizzato nell’ambito di un progetto sulla legalità finanziato dal Miur e patrocinato dal Municipio X di Roma e dalla società Atac. Nella proposta di giugno dell’associazione a.Dna, si leggeva che “l’artista ha previsto di includere nell’opera i volti di simboli della lotta alla mafia”, tra i quali “Peppino Impastato, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Piersanti Mattarella, Giancarlo Siani”. Secondo a.Dna, in realtà, si trattava di “nomi esemplificativi, poi l’elenco finale si sarebbe dovuto concordare con gli studenti coinvolti nel progetto”. Nella presentazione, si legge che “i ritratti già presenti sono soltanto dei modelli dimostrativi”, ma il rendering cui la frase fa riferimento contiene dei volti generici, non comprendenti quelli elencati prima.
Fatto sta che il M5S si aspettava altro. “Evitiamo di fare il pantheon della sinistra”, la frase incriminata del consigliere M5S, Antonio Di Giovanni. E la pezza è peggio del buco. Municipio e associazione concordano di lasciare solo i volti dei morti, ma tra i vivi c’è anche la cronista di Repubblica, “l’unico personaggio davvero antimafia”, sottolinea Di Giovanni. Al loro posto un letto di foglie, che Lucamaleonte disconosce. “Sono emotivamente provato, lasciamo perdere”, dice l’artista. Il consigliere chiarisce: “Non ho nulla contro la Angeli, volevo evitare polemiche e chiedere il rispetto degli accordi”. Troppo tardi.
“Fine pena mai” per Ciccio Pakistan, ma il boss sulla sedia a rotelle è latitante
Di nuovo latitante sulla sedia a rotelle. “Ciccio Pakistan”, Francesco Pelle di San Luca, ha gabbato lo Stato e si è reso irreperibile prima della sentenza della Cassazione che lo ha condannato all’ergastolo come mandante della strage di Natale del dicembre 2006 quando fu uccisa Maria Strangio, moglie del boss Giovanni Luca Nirta. Un agguato maturato nell’ambito della faida di San Luca poi sfociata, otto mesi più tardi, nella strage di Duisburg dove morirono sei persone ritenute vicini ai Pelle-Vottari. La strage di Natale era stata la risposta proprio al tentato omicidio di Pelle del 31 luglio 2006 quando “Ciccio Pakistan” rimase ferito alla schiena perdendo l’uso delle gambe. Questo non gli ha impedito la carriera da boss, organizzare la rappresaglia contro la cosca Nirta-Strangio e, soprattutto, di darsi alla latitanza per ben due volte.
La prima fu interrotta da un blitz del Ros di Reggio Calabria. Mentre tutti gli davano la caccia, “Ciccio Pakistan” era ricoverato sotto falso nome a Pavia, nel reparto di Neuroriabilitazione della Fondazione Maugeri. Francesco Pelle era curato a spese del servizio sanitario e dalla sua stanza in ospedale comunicava attraverso Skype con gli uomini della cosca rimasti liberi dopo l’operazione “Fehida”.
Nel settembre 2017 Francesco Pelle era tornato libero per scadenza dei termini di fase del processo alle cosche di San Luca. La sua condanna era stata annullata con rinvio dalla Cassazione. Da allora si trovava all’obbligo di dimora a Milano in attesa della sentenza definitiva. Ma quando, nei giorni scorsi, la Suprema Corte ha messo i sigilli al suo “fine pena mai”, l’imprendibile “Ciccio Pakistan” non c’era più. Di nuovo latitante e sempre sulla sedia a rotelle.
“Era occupato a pilotare le nomine con Palamara”
“Non m’interessa”: parole di Fiammetta Borsellino battute dall’Ansa alle 11.45. La figlia del giudice Paolo le pronuncia andando via dopo avere aspettato davanti alla questura di Palermo l’inizio della cerimonia in ricordo delle vittime della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, subito dopo l’arrivo del cantante napoletano Gigi D’Alessio. Passa qualche ora e Fiammetta smentisce: “Non sono andata via perché è arrivato D’Alessio, è falso. Ma ho avuto un impegno personale e mi sono dovuta allontanare. Ho contribuito alla manifestazione in questura con la presenza di Gero Riggio che ha cantato una canzone su mio padre”.
Alle 16.58 poi Palermo si ferma, polemiche comprese, per il minuto di silenzio seguito alla lettura dei nomi delle vittime della strage: Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina ed Eddy Walter Cosina. Ma la giornata comincia sempre con Fiammetta protagonista, per l’intervista rilasciata al Quotidiano del Sud in cui parla di una lettera firmata dall’ormai ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, ricevuta alla vigilia del 27° anniversario della strage. Per Fiammetta “è l’ultimo affronto, da parte di uno Stato che non ha mai voluto fare niente per individuare i veri colpevoli del depistaggio sulla morte di mio padre”. Una lettera, continua Borsellino, “che vengono i brividi a leggere, che mi indigna e che indignerebbe anche mio padre e tutti i magistrati che fanno e che hanno fatto il loro dovere: è incredibile e vergognosa, scrive di non essere riuscito a far nulla per avviare una indagine per l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio, indagati dalle procure di Messina e Caltanissetta: una indagine che avrebbe dovuto portare a individuare i magistrati responsabili del depistaggio”. Fuzio, prosegue Fiammetta Borsellino, “sostiene di non avere avuto il tempo di occuparsi di questa vicenda perché era impegnato in altre vicende giudiziarie. Quali lo abbiamo scoperto in queste ultime settimane, perché era occupato a pilotare con Luca Palamara le nomine dei procuratori di Roma, Torino ed altre procure. Una vera e propria indecenza”. Allo Stato, la figlia di Paolo Borsellino chiede ancora una volta “semplicemente di fare il proprio dovere. Questa è una storia molta amara, se ognuno avesse fatto il proprio dovere, di non girarsi dall’altra parte, non avremmo magistrati indagati e poliziotti indagati”.
Presente alle commemorazioni di ieri il capo della polizia Franco Gabrielli: “Quando leggo le dichiarazioni della figlia di Borsellino provo solo una grande amarezza, che non è un giudizio di valore sulle parole che lei dice, che trovo sacrosante. Cosa può dire una figlia che a distanza di 27 anni non ha ancora avuto la verità, che anzi ha preso coscienza di una verità mistificata?”. Anche il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, commenta: “Le parole di Fiammetta Borsellino sono per me fonte di riflessione ed uno stimolo forte e deciso che accolgo in pieno. La commissione Antimafia sta descretando il materiale in suo possesso e continuerà a farlo, senza tentennamenti. Ci auguriamo che anche i materiali della commissione Stragi, la cui desecretazione non dipende dall’Antimafia, possano diventare patrimonio dei cittadini, così come quelli gestiti da altre istituzioni. Il rispetto dell’immenso dolore dei familiari delle vittime è per me principio inamovibile. In qualità di presidente della commissione e interpretando lo spirito di abnegazione di tutta la commissione lavoreremo per trovare la verità e non per un titolo di giornale”.
È la prima commemorazione senza Rita, la sorella del giudice Paolo, mancata lo scorso agosto. Mentre il fratello Salvatore non si dà pace: “Io sotto processo voglio vedere chi ha preordinato e ideato il depistaggio e voglio che gli organi istituzionali e la magistratura indaghino contro quei magistrati che quei depistaggi hanno avallato”.
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sembra rispondergli: “Rimane forte l’impegno per Paolo Borsellino, e per tutte le vittime di mafia, di assicurare, oltre al tributo doveroso della memoria, giustizia e verità”.
“Censura” all’Ice: si dimettono direttore e comitato editoriale
Doveva solo essere presentato, il rapporto annuale dell’Ice (Istituto per il commercio con l’estero) su “L’Italia nell’economia internazionale”. A descriverlo, una sintesi che analizza le tendenze commerciali e il ruolo dell’Ue, con approfondimenti sull’economia italiana. Problema: la sintesi è stata bocciata dal nuovo presidente Ice, Carlo Maria Ferro, e ha generato uno scontro con il comitato editoriale autore del rapporto: il primo a dimettersi contro quella che è stata definita “censura” è stato il direttore Fabrizio Onida, poi l’intero comitato, esperti di numerose università. La decisione del presidente Ferro, scrivono i membri del comitato su lavoce.info col titolo “Così il presidente dell’Ice censura l’analisi economica”, è stata comunicata con una email nella quale “si sostiene, tra l’altro, che il testo della sintesi avrebbe elementi di pessimismo e di critica… inficiato da un‘apologia della Commissione Ue”. Una decisione “gravemente offensiva della serietà professionale degli autori”, che aggiungono: “Un’agenzia pubblica ha l’obbligo di offrire una rappresentazione corretta… e non un’immagine deformata da malintese finalità di comunicazione esterna o, peggio, piegata a logiche di parte politica”.
Il precario 40enne va in pensione a 73 anni
Prendiamo come riferimento Marco, personaggio di fantasia ma con una storia verosimile: è un uomo che ha iniziato a lavorare come cassiere nel 1996, ma da allora si barcamena tra contrattini part-time che si alternano, in media ogni tre anni, con uno di disoccupazione.
La festa di pensionamento la farà a 73 anni suonati, ma visto che il suo assegno sarà di soli 690 euro (a valori attuali) probabilmente preferirà non offrire nulla ai suoi amici e risparmiare quei pochi spiccioli per campare. Giulia, che è entrata in servizio nello stesso anno di Marco, fa l’impiegata full time, ma anche lei subisce qualche interruzione: un anno ferma ogni cinque. Le cose le andranno un po’ meglio del suo coetaneo: saluterà i colleghi a 69 anni e prenderà poco meno di 1.200 euro.
A elaborare queste proiezioni è stata, ieri, la Cgil: il sindacato di Maurizio Landini ha colto l’occasione per rilanciare la proposta di una pensione di garanzia per i giovani. Un tema che da diverso tempo viene sfiorato dall’agenda politica ma non è mai stato preso seriamente in considerazione. Eppure, come dimostrano le previsioni, i tanti ragazzi che iniziano a lavorare tardi e hanno carriere molto discontinue saranno costretti a ritirarsi in età molto avanzata, e per giunta con trattamenti da fame. Conseguenza di un mix micidiale: precarietà e metodo di calcolo contributivo, che in Italia è stato introdotto totalmente per quelli che hanno fatto l’esordio nel mondo del lavoro dopo il 1996.
Il retributivo adottato fino a quella data era molto più generoso: ogni anno di lavoro costituiva il 2% della pensione, quindi dopo 40 anni di servizio si riusciva a tirare fuori un assegno pari all’80% dello stipendio medio dell’ultimo decennio. Oggi, invece, a contare sono i contributi versati. Quindi per assicurarsi una vecchiaia serena bisogna sperare di avere una carriera lunga e piena. Come nei tre esempi “fortunati” contenuti nello studio della Cgil. L’operaio assunto nel 1996, con uno stipendio di 15.000 euro all’anno riuscirà a lasciare a 67 anni con una pensione pari all’81% della retribuzione. L’impiegato che porta a casa 20 mila euro potrà uscire un anno prima, se si accontenta di un assegno pari a poco meno del 70% del suo stipendio. Stesso discorso per il dirigente che ha cominciato con 25.000 euro annui, ma a lui spetterà meno del 63% dei suoi guadagni da lavoratore.
Confrontati con i pensionati di oggi, e soprattutto degli scorsi decenni, sono trattamenti molto sfavorevoli. Eppure, questi tre casi nel 2035 saranno considerati degli autentici privilegiati. Perché, come detto, se iniziamo a considerare quelli che avranno collezionato vari buchi nella vita lavorativa, l’età di uscita non avverrà prima dei 69 anni. Un guaio che non risparmierà né i dipendenti né tantomeno i lavoratori parasubordinati, specialmente per i cosiddetti “sotto-occupati”, quelli che hanno un impiego che però tiene impegnati solo poche ore alla settimana. Un esercito che si è ingrossato con la crisi, al punto che in questi anni di lenta ripresa abbiamo assistito a un aumento degli occupati molto più veloce di quello relativo alle ore lavorate. Un fenomeno che crea i cosiddetti working poor, persone con un reddito da lavoro che non permette di uscire dalla povertà. A questa categoria svantaggiata appartengono molte lavoratrici domestiche. Una collaboratrice che oggi ha 35 anni e ha avviato l’attività nel 2014, dovrà aspettare di compierne 73 per ottenere una pensione da 265 euro.
Oddio, e se Cairo va in politica? Panico e voci in casa Corriere
“Ma noooo… dai… È una stronzata galattica! Perché mai dovrebbe farlo? Ma chi glielo fa fare? Per guidare cosa, un partitino del 3%? Ha molto più potere come editore del Corriere e di La7… Oddio, poi però non vorrei essere smentito dai fatti. Ecco, se poi succede ti autorizzo a richiamarmi e dirmi che sono un cretino!”. Uno dei pochi a prenderla un po’ alla leggera, a stare al gioco, divertendosi, è Pigi Battista. Gli altri non solo non vogliono metterci la faccia, ma rispondono con aria da funerale.
Parliamo del Corriere della Sera, il principale quotidiano italiano, e dei suoi giornalisti. La domanda è: come viene presa, in redazione, l’ipotesi che Urbano Cairo, editore del giornale come presidente e amministratore delegato di Rcs Media Group dall’agosto del 2016, possa entrare in politica? Come ci si pone di fronte a questo scenario che, al momento, non è alle viste ma, come ha detto lo stesso Cairo, “mai dire mai”. Quello che abbiamo trovato, facendo un po’ di telefonate ai suoi giornalisti, sono silenzi imbarazzati, nervosismo, musi più o meno lunghi, terrore puro di fronte a un’ipotesi del genere. “Io non ne so assolutamente nulla, dovresti sentire Milano, la testa pensante del giornale”, dicono a Roma. “Ma non saprei, forse è meglio sentire Roma, il cuore della redazione politica è lì”, ribattono da Milano. “Non ho sentito nulla, non se ne parla proprio”, altra reazione. “Io sono la meno adatta, vado poco al giornale e non mi occupo di gossip aziendali”, dice una cronista. “Su questo non dico niente!”, un altro. Poi, però, come sempre, qualcuno che parla si trova. “Cairo in politica al Corriere è un argomento tabù perché la sola idea ci terrorizza. Se dovesse scendere in campo sarebbe la fine del giornale, della sua autorità e della sua indipendenza. Non è mai accaduto, ci sarebbe il terremoto in sala Albertini. Chiaro che non potrebbe essere più lui il nostro editore… In realtà nessuno di noi crede davvero che Cairo, un editore puro che con giornali e tv ci fa pure i soldi, si butterà in politica, ma il solo pensiero crea nervosismo e tensioni, specialmente ai piani alti. E la sua iper presenza nelle pagine del gruppo non aiuta…”, racconta un giornalista che, naturalmente, chiede l’anonimato. Urbanetto, infatti, è iper presente su Corriere e Gazzetta. Una volta come presidente del Torino, un’altra come capo di La7, un’altra ancora come imprenditore del settore editoriale. Una foto di qua, un’intervista di là. Poi, che questo sia prodromico ad acquisire notorietà tra i lettori in vista di un impegno in politica, ce ne corre. “Rientra più in un suo mood caratteriale, un po’ da bauscia milanese: mi sun chi a fa i danè, mica balle…”, dicono.
Alloratorniamo a Pigi. “Non siamo nel 1994, quando arrivò Berlusconi. Ora c’è un Salvini pigliatutto, non c’è lo spazio politico e nemmeno le condizioni. Che si dovrebbero creare. La situazione dovrebbe peggiorare al punto da vedere in Cairo un salvatore della patria, un po’ come Monti nel 2011. Col Corriere e La7 ci guadagna. Perché dovrebbe rovinarsi?”. Le sirene della politica, però, sono spesso irresistibili. Al richiamo non ha saputo resistere, appunto, neppure il compassato Mario Monti. Figuriamoci il “berluschino”, come lo chiamavano in certi ambienti milanesi negli anni 90. Il fatto che lui non lo escluda ma si diverta a lasciar correre la voce genera, però, timore e scompiglio. Francesco Verderami, per esempio, a un convegno sulla rinascita del centro qualche giorno fa, ha lasciato cadere queste parole: “Non è più il tempo in politica dei leader provenienti dalla società civile…”. A chi pensava? Secondo alcuni ogni tot Cairo commissiona sondaggi, che finora pare non siano andati benissimo. “Per il mio successore avevo pensato a Cairo. Ma visto quello che ho subìto io, ha declinato”, ha detto qualche mese fa Berlusconi.
Che i due ne abbiano parlato in un paio di occasioni, risulta a più persone. Del resto Cairo, dopo esser nato professionalmente con lui, finora ha seguito le orme del Cavaliere in tutto. Manca solo la politica.
I 5 Stelle presentano i facilitatori: faranno da tramite con la base
Saranno da tre a otto, a seconda della Regione, e avranno il ruolo di intermediari tra i vertici nazionali e gli attivisti locali. Ieri il Movimento 5 Stelle ha presentato sul suo blog la prima novità della sua riorganizzazione dopo la batosta alle europee. Si tratta dei “facilitatori”, che saranno eletti su Rousseau dagli iscritti in ogni Regione e avranno almeno tre deleghe: “relazioni esterne, relazioni interne e formazione-coinvolgimento”. Compito dei facilitatori sarà dunque “curare i rapporti con i sindaci, anche non 5 Stelle, e andare a parlare con gli enti territoriali, con le associazioni, con gli assessori regionali”. Per quanto riguarda la dinamiche interne, queste figure dovranno facilitare “i rapporti con i gruppi locali” e organizzare “le liste per le elezioni comunali”. Infine, il M5S spera di avere in questi intermediari qualcuno che possa “coinvolgere nuove persone”, allargando la base dei 5 Stelle. Sul blog compaiono anche i paletti per le candidature: “Il facilitatore può essere un portavoce, ma non un presidente di Commissione, sottosegretario, ministro, presidente di un’assemblea. Allo stesso tempo può anche non essere un portavoce eletto ma deve comunque essere una persona di comprovata partecipazione”.
“Salvini fa il servo sciocco di due padroni”
Un Ogm. La Lega di oggi, per i padani della prima ora, è un organismo geneticamente modificato. A cominciare dal nuovo varco russo.
Alessandro Cè appartiene al filone lombardo del Carroccio. Già deputato, presidente del Gruppo parlamentare della Lega nord alla Camera, presidente di varie Commissioni parlamentari ha poi lasciato Roma per la Lombardia. Al Pirellone guidato dal governatore Roberto Formigoni è stato assessore della Sanità. È il fondatore di “Lombardi verso nord”.
Il suo punto di vista rispetto a questo cordone ombelicale tra la Lega e l’estremo est di Putin.
Un suicidio.
In che senso?
Può pagare nell’immediato ma è un colossale errore politico e strategico. Significa abbandonare ogni visione e attitudine democratica. Accadono cose molto misteriose e gravi a giornalisti e leader dell’opposizione in Russia. Questo legame, dal mio punto di vista, è devastante per la collocazione dell’Italia a livello europeo. La Lega si sta dimostrando come il servo sciocco di due padroni.
Magari la visione della Lega di oggi è quella del piede in due scarpe. Non è detto che non paghi.
Essere accondiscendente con Trump e contemporaneamente entrare in così stretta sintonia con governi di stampo totalitaristico è di fatto una scelta di politica estera disastrosa che scaraventa l’Italia fuori dall’Europa. Essere dalla parte degli Stati del patto di Visegrad – che di fatto non sono interessati all’Europa – dimostra insipienza politica. Il federalismo non passa da una svolta nazionalista.
Una ragione deve pur esserci per questa “strategia del millepiedi”.
Di certo è una modalità che può pagare in termini di potere di uno o di pochi, non per l’Italia.
Conosce Gianluca Savoini?
Sono entrato nelle Lega nel 1991. Savoini c’è sempre stato e non si è inventato dal nulla. Tanto per intenderci non è il Siri di turno.
Seduto ai tavoli istituzionali come rappresentante di un’associazione oppure come uomo di affari.
Il presidente di un’associazione come molte altre al massimo può portare a casa un contratto ma, se non è accreditato dalle altissime sfere di un partito, non si siede con Putin.
Come vede i lavori in corso sull’autonomia?
Trovo sia un pasticcio: prima si dovrebbe stilare una carta delle autonomie per individuare le differenze di attribuzione delle materie e poi attuare il federalismo fiscale. Se un leader non capisce questa cosa ha altri interessi.
La Lega di oggi veleggia su massimi storici in termini di consenso popolare.
Salvini ha acquisito grande consenso, ma alla base non c’è nessun progetto chiaro del partito. È una Lega di grande potere, circoscritto a pochi, ma di grande potere. Chiariamo: la politica è compromesso. Ma l’argomento è un altro: un leader di partito vicepremier è giusto che adotti comportamenti imprudenti? Anche Grillo se non ricordo male ad un certo punto ha spiegato a Di Maio che se voleva fare il vicepremier doveva farlo in un altro modo. Chi confonde la sede istituzionale con via Bellerio ha problemi di democrazia. La domanda che dobbiamo porci è: il Paese ha gli anticorpi per rendersene conto?
L’intesa coi pm fa risparmiare alla Lega un milione all’anno
Che quella maxi-dilazione – solo 600 mila euro all’anno spalmati sul tempo biblico di ben 76 anni – nella restituzione dei famosi 49 milioni (ridotti a 45,6 milioni dato che 3,36 milioni sono già stati sequestrati) del tesoro dei rimborsi elettorali illeciti della Lega fosse più che un trattamento di favore lo si era intuito da subito. Ora c’è la prova concreta della corsia preferenziale concessa a Salvini per onorare il suo debito con lo Stato. La prova è nel bilancio del 2018 pubblicato ieri. Quel debito alla Matusalemme è stato attualizzato a oggi e, sorpresa generale, viene iscritto per soli 18,4 milioni. Sconcerto generale per quello che appare un maxi-sconto. Eppure è tutto regolare.
Il tesoriere che firma il bilancio, Giulio Centemero, non ha fatto altro che applicare correttamente quella che si chiama in gergo finanziario l’attualizzazione del debito futuro, cioè quanto valgono quei 45,6 milioni se venissero saldati tutti insieme a oggi senza protrarli per oltre 70 anni pagandoci ovviamente gli interessi. Più il debito è lungo e più gli interessi sono elevati meno è il conto da pagare se venisse rimborsato oggi all’istante. Il bilancio non dice nulla (grave opacità) sul tasso applicato. Il Fatto ha ricostruito la dinamica e appurato che è stato applicato un tasso intorno al 2,93% per arrivare ai 18,4 milioni del valore attuale. In fondo è un tasso a metà strada tra il BTp decennale e il trentennale. Fin qui nulla di anomalo.
L’anomalia vera è alla base dell’accordo con la Procura di Genova che ha consentito quella gigantesca rateizzazione a tasso zero per una durata mai vista. È la restituzione a rate bibliche senza alcun tasso d’interesse la ciambella di salvataggio offerta a Salvini nell’accordo. Se fosse avvenuto per la Lega quel che avviene per qualsiasi persona normale che paga un mutuo, un fido o quant’altro nel tempo – e ci paga come d’obbligo gli interessi – la somma che la Lega avrebbe dovuto restituire sarebbe stata ben oltre i 45 milioni.
Da una simulazione – prodotta dalla società di consulenza indipendente Ifa Consulting per Il Fatto Quotidiano – si avrebbe, applicando un tasso di mercato a 50 anni (a 70 anni non esiste) dell’1,51% annuo, un importo totale di ben 76,7 milioni. Se addirittura si applicasse il tasso al 2,93% usato dal tesoriere della Lega si otterrebbe la cifra monstre di 114 milioni. Ecco il “favore” doppio concesso al partito di Salvini. Poter saldare a oltre 70 anni senza nessun interesse da pagare. Risparmiando così la bellezza di oltre 30 milioni nel caso di un tasso all’1,51% e di ben 69 milioni di soli interessi a un tasso del 2,93%.
La Procura però difende la sua linea. Spiegano al Fatto fonti della Procura: “Nessun trattamento di favore, non potevamo fare altrimenti per legge. Qui non si tratta di una normale rateizzazione di un debito, ma dell’esecuzione di un provvedimento di sequestro che non prevede per legge interessi”. Inoltre il tema in questione, aggiungono, era ottenere la restituzione del dovuto o rischiare di non ottenere nulla. Si è trovato un compromesso con gli avvocati del partito: “Abbiamo valutato che fosse meglio avere la restituzione a rate, anche con una scadenza lunga, piuttosto che trovarci con un pugno di mosche. Se avessimo chiesto tutto e subito, il partito sarebbe collassato e lo Stato avrebbe perso tutto”.
La forma è indubbiamente salva, tutto secondo regole e norme, ma la sostanza è ben diversa. Una dilazione di quasi 80 anni non si era mai vista e, anche concedendo l’importanza democratica di tutelare la sopravvivenza di un partito politico, forse qualcuno è stato troppo prudente: quei 600 mila euro l’anno, ad esempio, sono meno del 10% dei contributi che militanti e simpatizzanti hanno versato alla Lega nel 2018. Deputati, senatori, iscritti, semplici elettori e imprese hanno versato infatti nelle casse del partito ben 7,1 milioni. Una svolta. Salvini ha chiamato alle armi e voilà il popolo leghista ha risposto. Nel 2017 i contributi volontari erano fermi sotto il milione.
Insomma, se c’è da restituire il maltolto, il partito può farcela da solo, come ha già dimostrato l’anno scorso e senza diluire in 80 anni. La salute ritrovata ha fatto registrare alla Lega il primo utile dopo anni di perdite. Il bilancio ha chiuso infatti in positivo per 2,5 milioni. Senza farsi mancare nulla nella sua attività. Non solo: quest’anno, visto il consenso crescente, è attesa un’impennata dei contribuiti del 2 per mille che dovrebbe più che raddoppiare i 900 mila euro del 2018. E allora quella misera rata di 600 mila euro annui concessa ai tempi appare davvero un bel “regalo” a Salvini. Di fatto senza gli interessi con cui Centemero ha attualizzato il debito, lo Stato rinuncia ogni anno e per 75 anni a quasi un milione di euro che gli spetterebbe. Ecco il maxi-sconto a Salvini.