Stop alla scuola regionale, ora la battaglia è sui soldi

Le intese sulla cosiddetta “autonomia differenziata” per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono il primo banco di prova per governo e maggioranza dopo la quasi crisi di giovedì e il vertice di ieri a Palazzo Chigi dimostra che, al momento, la nuova posizione “attiva” e direttamente politica di Giuseppe Conte tiene alla dimostrazione muscolare di Matteo Salvini: i 5 Stelle rivendicano lo stop alla regionalizzazione della scuola, chiesta in particolare dalle giunte lombarda e veneta, ma resta sul tavolo la questione delle questioni: i soldi. Sul punto – se le regioni più ricche potranno trattenere per sé più soldi rispetto a ora e quanti – un compromesso è difficile: qualcuno dovrà perdere.

Gli interessati, al momento, non hanno preso benissimo l’ennesimo rinvio alla settimana prossima e il cedimento sull’istruzione: “Ho dei dubbi sul fatto che all’interno del Consiglio dei ministri siano tutti d’accordo su quel che si sta decidendo, per cui non comprendo tutti questi festeggiamenti. Conte può dire quel che vuole, ma non può parlare per noi: sta tentando di fare una bozza da proporci e diremo noi se ci va bene o no. La misura è colma”. In ogni caso, dice il presidente veneto, sui fondi non si tratta: “Ferme le 23 materie (su cui il Veneto ha chiesto l’autonomia, ndr), c’è un punto fondamentale: la norma finanziaria. Noi non vogliamo intaccare l’unità nazionale, non vogliamo affamare chi va peggio di noi, ma fare in modo che i virtuosi siano premiati”.

Se Zaia è irritato, il collega lombardo Attilio Fontana è fuori dalla grazia di dio: “Abbiamo perso un anno in chiacchiere. Aspettiamo di vedere il testo definitivo, ma se le premesse sono queste non sono disponibile a sottoscrivere l’intesa”. E non è solo una questione di tempi. Il sistema Lombardia, fin dagli anni di Formigoni, è assai generoso con gli istituti privati e ora vuole la “sua” scuola: “E invece anche sull’istruzione – dice Fontana – si è dimostrato di far prevalere logiche sindacal-corporative alle esigenze dei nostri studenti”. Tecnicamente parlando, infatti, dalle bozze di intesa sarebbe stato stralciato l’articolo che prevedeva l’assunzione regionale dei docenti e la possibilità per quelli già assunti di passare al contratto regionale, magari più generoso di quello statale nei territori più ricchi: una eventualità che avrebbe spaccato il sistema e, ovviamente, malvista dai sindacati di categoria.

I governatori non hanno gradito neanche i toni del premier: “L’autonomia si sta realizzando – ha detto – ma senza che questo possa recare danno alle altre Regioni: non vogliamo un’Italia frammentata. I governatori non avranno tutto quel che hanno chiesto, ma ci sta: è un negoziato…”. Più in generale, rispondendo a una domanda, Conte la mette così: “Lo Stato cede delle competenze alle Regioni, che debba cederle tutte può essere un suo auspicio, ma non è il mio. Se delego tutte le funzioni quale strategia nazionale posso perseguire? La mia linea è cedere quelle competenze che possono essere efficacemente svolte a livello regionale, ma certe cose, come le infrastrutture o la Protezione civile, ho bisogno che siano a livello nazionale”.

La ministra titolare del dossier Erika Stefani, leghista e veneta, la racconta invece in questo modo: “Su sanità, ambiente, sviluppo economico sono state accolte le richieste delle Regioni. Una svolta per il territorio, per i cittadini e per le imprese. L’autonomia funziona però se c’è quella finanziaria. Non accetteremo nessun compromesso”. La partita dei soldi, insomma, è ormai quasi tutta la partita. Il meccanismo infilato nelle bozze finora è davvero un enorme favore alle Regioni ricche (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna fanno il 40% del Pil): lo Stato, infatti, assieme alle funzioni trasferisce anche un pezzo di imposte statali per “pagarle”. Problema: fissata la cifra sotto cui non si può scendere, l’extragettito finisce in tasca alle Regioni autonome.

L’Ufficio parlamentare di bilancio ha calcolato che, guardando alla dinamica della sola Iva, la Lombardia tra 2013 e 2017 avrebbe avuto 500 milioni in più (e, ovviamente, qualcuno 500 milioni in meno). Questo sistema, peraltro, è a forte rischio di incostituzionalità non prevedendo alcuna perequazione coi territori meno ricchi, una cosa prevista persino dalla legge sul federalismo fiscale del 2009.

Infante, Di Mare e Fiore: Rai1 sceglie i nuovi vicedirettori

Dopo uno stallo di settimane, sono arrivati i nuovi vicedirettori di Rai1, la rete ammiraglia guidata da Teresa De Santis. Si tratta di Milo Infante, Franco Di Mare e Maria Teresa Fiore. Il bottino più ricco è quello della Lega con Infante che, oltre alla nomina a vicedirettore vicario (il vero numero due), ha ottenuto le deleghe sull’informazione e il territorio. Di Mare (area 5 Stelle) avrà le deleghe all’approfondimento e alle inchieste: settori che però rischiano di essere una scatola vuota visto che su Rai1 trasmissioni d’inchiesta non ce ne sono e l’unica di approfondimento è quella di Bruno Vespa. Infine Fiore (area Forza Italia) ha ottenuto l’intrattenimento due, ovvero il cosiddetto day time. Restano al loro posto gli altri due vice Claudio Fasulo e Paola Sciommeri. De Santis ha tenuto per sé le deleghe a fiction, palinsesti, cinema e marketing. Intanto, in attesa del voto in Vigilanza sulla risoluzione forzista che invita Fabrizio Salini ad astenersi dalle nomine prima del via libera al piano industriale da parte del Mise, ieri l’ad ha nominato una serie di project leaders con il compito di iniziare proprio il percorso di realizzazione del piano.

Due ministri in trincea nel nome della Marina

Si sono tanto odiati, Elisabetta Trenta e Matteo Salvini, e di certo non si amano ancora. Un’ostilità lunga quanto il governo, alimentata con punzecchiature reciproche e quasi quotidiane (via tweet, facebook, interviste, dichiarazioni, eccetera eccetera). Al di là del rumore di sottofondo mediatico, la sostanza dello scontro è politica: l’invadenza di Salvini sulla gestione della Marina militare (che risponde alla Trenta, ministro della Difesa), ovvero la pretesa del Viminale di disporre delle navi dell’esercito, da usare come pedine per realizzare il suo piano sull’immigrazione. Una contesa legata alla fine dell’operazione Sophia, la missione militare che pattugliava il Mediterraneo al largo della Libia, sotto la bandiera dell’Unione europea.

Salvini ha preteso sin dal suo insediamento il ritiro della Marina italiana e la chiusura di Sophia, la Trenta invece è sempre stata contraria. E nei giorni della Sea Watch ha attaccato il ministro dell’Interno con un’intervista sul Corriere della Sera: “Lo avevo detto a Matteo Salvini: senza la missione torneranno le Ong. Non ha voluto ascoltare e adesso si lamenta”.

La ministra dei Cinque Stelle ha difeso i risultati di Sophia in termini di salvataggi e interventi umanitari, il Viminale invece ribalta la logica: “126 interventi nel 2017 per 15.218 persone soccorse; 29 interventi nel 2018 per 3.172 immigrati soccorsi”. In totale sono 18.390. Sottolinea Salvini, “tutti arrivati in Italia”.

Il leghista, piuttosto, vorrebbe usare le navi della Marina militare (insieme a quelle della Guardia di finanza) per sigillare i porti italiani. Proposta lanciata dal leader leghista lunedì 8 luglio e accantonata dopo appena tre giorni (di polemiche) durante l’ennesimo vertice “riparatorio” con il premier Giuseppe Conte. E dopo che la Trenta si era fatta una risata: “Le navi della Marina prendono ordini dal ministro di riferimento”.

Insomma, non passa settimana senza che la miccia si riaccenda. Un giorno Salvini ironizza in diretta Facebook (“Io difendo i miei uomini in divisa, vorrei che anche altri ministri difendessero i loro”), e un giorno la Trenta lo accusa di boicottare l’emendamento che stanzia i fondi per pagare gli straordinari dei militari.

Un giorno il Viminale mette alla berlina la Difesa per un tweet sbagliato, in cui annuncia la notizia (non verificata e falsa) di un intervento di soccorso della Marina a pescherecci italiani presi di mira dai libici, e un giorno il Movimento Cinque Stelle pubblica un intervento sul blog per dire che “Trenta non si tocca!” . Gli episodi e le dimostrazioni di reciproca ostilità in questi mesi di convivenza forzata sono già decine e decine. L’ultimo atto – un’indiscrezione lanciata da Dagospia – sarebbe l’impegno attivo della ministra della Difesa nell’elezione dell’omologa tedesca Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea (“errore gravissimo”, Salvini dixit).

È per queste ragioni che il nome di Elisabetta Trenta è uno dei primi che viene menzionato ogni volta che si ipotizza un rimpasto di governo. Fino a oggi Di Maio è sempre riuscito a blindarla al suo posto. Ma Salvini insiste.

Ora la Lega vuole il rimpasto. Ma sulla Difesa il Colle fa muro

Alla fine, lo spauracchio della crisi che per ventiquattr’ore ha aleggiato su Palazzo Chigi si è tradotto nella solita manfrina: se restiamo insieme, che cosa mi dai?

Nessuno però ha il coraggio di metterla giù così. E allora Matteo Salvini, quello che due giorni fa minacciava fulmini e tempeste, ieri era insolitamente pacato e silenzioso. Tranne che su un punto: le poltrone. Dice di non volerne, ma nel dubbio ne prende di mira due, assai appetitose nell’ottica leghista: le Infrastrutture e la Difesa. La prima è il salvadanaio delle Grandi opere, la cabina di regina del Tav. L’altra, con il controllo della Marina militare, rappresenta l’unico vero contraltare alle politiche del Viminale nel Mediterraneo. Che poi è la ragione per cui – non da ieri – il Quirinale ha decisamente storto il naso di fronte all’ipotesi che Infrastrutture e Difesa possano finire entrambi nella sfera di influenza della Lega.

I Cinque Stelle lo sanno e sanno anche che, al contrario, la partita per Toninelli ha una fine quasi segnata. Da settimane i rapporti tra il ministro e il Movimento si sono raffreddati. Tant’è che il titolare delle Infrastrutture rivendica a ogni occasione il sostegno che ha invece ricevuto da Beppe Grillo (e per interposta persona, ieri, dalla consigliera ligure Alice Salvatori). Ma il garante è fuori dalle logiche del palazzo, che invece raccontano un’altra storia: Toninelli è un nome ormai “legato al No Tav, con lui sarebbe insostenibile un cambio di linea”.

Come ha raccontato il Fatto ieri, la settimana prossima il ministro si confronterà con la sua omologa francese per sondare la sua disponibilità a interrompere, o modificare, il progetto dell’Alta velocità Torino-Lione che, come noto, senza un intervento procederà la sua corsa in avanti. Ma a Roma sono più che consapevoli che il colloquio voluto da Conte sia un tentativo disperato, i cui esiti potrebbero fare assai male ai Cinque Stelle. Così, da dopo le Europee, si ragiona sull’ipotesi di mollare la patata bollente nelle mani di un leghista, in modo da allontanare il simbolo del Movimento dalla retromarcia sul Tav.

Ieri, però, questi discorsi sono rimasti sotto traccia. Perché, capita l’antifona, Di Maio e i suoi hanno deciso di non rispondere, almeno ufficialmente, alle provocazioni di Salvini. “Aspettiamo che chieda lui il rimpasto”, hanno detto, notando solo che anche loro hanno perplessità sull’efficienza di alcuni ministri leghisti, come Marco Bussetti (Istruzione) e Gian Marco Centinaio (Agricoltura). Sono stati un po’ meno diretti del premier Giuseppe Conte, che invece ha gelato il suo vice leghista: “Io difendo i miei ministri contro tutti, se qualcuno ha qualche osservazione viene da me e me la rappresenta”. Aggiunge che non “sta vivacchiando” e che lui i suoi impegni “li porta a termine”. E fa infuriare i capigruppo della Lega, “esterrefatti” – così dice il senatore Romeo – dal fatto che il premier non veda che “l’azione di governo è innegabilmente frenata da incomprensibili ‘no’ e continui pareri ostativi”.

È ormai evidente che lo scontro si è alzato al livello più alto della Presidenza del Consiglio. La guerra adesso è tra Conte e Salvini. Anche perché Luigi Di Maio, nel frattempo, si concede lussi a dir poco pericolosi: “Se avessi sospetti su Salvini non sarei al governo”, ha detto ieri a proposito dell’inchiesta sulla presunta tangente russa. Ha chiesto all’alleato di vedersi subito, per chiarire l’incidente di giovedì con cui Salvini ha minacciato la crisi. Ma a quanto pare il ministro dell’Interno prima di lunedì non ha intenzione di tornare a Roma.

Chi salverà Salvini

Che Salvini non sia più lo stesso si vede a occhio nudo. L’altroieri il Grande Twittatore aveva aperto la giornata con uno stentoreo “traditori” ai 5Stelle, rei di aver votato la Von der Leyen perché nominasse commissario alla Concorrenza il leghista Giorgetti. Poi, nel pomeriggio, aveva ringhiato: “Con Di Maio c’è una mancanza di fiducia personale, perché io mi sono fidato per mesi”. E aveva preso appuntamento con Mattarella. Infine, in serata, la serenata sotto casa di Giggino: “Mi correggo, io in Luigi Di Maio ho avuto e ho fiducia, secondo me è una persona per bene”. E la disdetta del rendez vous con Mattarella, peraltro già a nanna da ore. Ieri, dopo aver contestato i presunti “tre No” del M5S su giustizia, manovra economica e autonomie, ha chiesto la testa dei ministri Trenta (Difesa) e Toninelli (Trasporti e Infrastrutture), che non c’entrano una mazza con i tre presunti No. Un delirio. Le ragioni dello stato confusionale sono cinque.

1) Il trionfo alle Europee ha caricato Salvini di responsabilità più grandi di lui in Italia, proprio alla vigilia di una legge di Bilancio difficilissima, mentre in Europa l’ha lasciato più isolato di prima, con Orbán che resta nel Ppe e vota disciplinatamente la Von der Leyen e la Lega all’opposizione schiacciata sulla Le Pen e gl’impresentabili nazi di Alternative für Deutschland. 2) Il 34% del 26 maggio, i sondaggi in crescita (ma fino a quando?) e l’avvicinarsi del redde rationem autunnale consiglierebbero il voto finché gli italiani ci cascano. Ma Conte lo mette nel sacco un giorno sì e l’altro pure. E i 5Stelle non gli regalano pretesti abbastanza popolari per buttare all’aria il governo senza pagare pegno: l’autonomia differenziata non frega niente a nessuno, mentre piace a tutti la flat tax, sempreché riguardi il ceto medio e non i riccastri, ma su quella Di Maio non fa l’errore di opporsi, anzi dice sì, ma lo sfida a trovare i soldi. 3) Lo scandalo russo è difficile da comprendere, anche per lo stato comatoso dell’informazione, ma anche chi ne sa poco ne ricava una sgradevole sensazione di pericolosità (i russi non sono popolarissimi e ancor meno i rubli) e cialtroneria (gli emissari salvinisti a Mosca hanno facce a metà fra i film di Pierino e il Museo Lombroso): infatti Salvini cerca ogni giorno un diversivo per parlare d’altro, compreso il finto attentato ucraino, ma invano. 4) Le sole voci di una possibile maggioranza alternativa M5S-Pd, anche se molto improbabili, lo fanno letteralmente impazzire, abituato com’era a ricattare Di Maio col secondo forno di centrodestra, mentre l’alleato non aveva vie di fuga. 5) Giorgetti, lanciato verso l’Europa e impallinato in volo, non l’ha presa bene e medita financo di lasciare Palazzo Chigi. Perdere l’unico leghista di governo serio, nonché garante del partito dei governatori nordisti già in subbuglio per l’autonomia, non è di buon auspicio, in una Lega molto meno monolitica e più fibrillante di un anno fa. Intanto la finestra del 20 luglio, ultima data utile per sciogliere le Camere, votare il 29 settembre e avere un governo pronto per la manovra, si sta chiudendo: dopodiché è tutto affidato al caso e gli imprevisti – carte, bobine, trojan e altre polpettine dalla Russia con amore – che Salvini non sa se sia meglio beccarsi da ministro in carica o da ex. Non è questo lo scenario che sognava la sera dell’eurotripudio. Ma non tutto è perduto. C’è sempre chi, tra i suoi presunti avversari, lavora per lui.

Eurocrati. Nel breve volgere di 24 ore Monti, Von der Leyen e Merkel si sono scatenati sullo scandalo russo, dipingendolo come una grave deviazione della politica estera italiana dal fronte occidentale a quello orientale. Invece è grave perché tre fedelissimi di Salvini hanno contrattato una tangente con tre o quattro fedelissimi di Putin, ma la politica estera dell’Italia non s’è mossa di un millimetro (anche perché il Cazzaro ha virato a U da Mosca a Washington). Più gli eurocrati fanno simili sortite, più Salvini potrà svicolare dai fatti e buttarla in caciara con la teoria del complotto antisovranista.

Pd. È scientifico: appena Salvini è in difficoltà, arriva il Pd a salvarlo. Zingaretti continua a parlare di Conte, Di Maio e Salvini come se fossero la stessa cosa. Poi ci sono i renziani, vera costola della Lega: non contenti di avergli regalato un anno fa il palcoscenico del governo rifiutando il contratto con Di Maio, ora ci riprovano con la mozione di sfiducia a Salvini, affidata alle manine sante della Boschi: “Che deve fare ancora Salvini per essere sfiduciato?”. La risposta è ovvia: deve fare come lei, che giurò in Parlamento di non essersi mai occupata di Etruria, poi si scoprì che non aveva fatto altro, ma non solo non fu sfiduciata: restò ministro, divenne sottosegretario alla Presidenza con Gentiloni e fu paracadutata in un collegio blindato in Alto Adige. La mozione anti-Salvini in realtà è pro: ricompatterà i giallo-verdi, mai così divisi; garantirà ai renziani le loro poltrone senza rischi di elezioni; e bloccherà sul nascere le avance di Franceschini, Sassoli & C. ai 5Stelle che tanto turbano Salvini. Qui non basta ringraziare con qualche telefonatina furtiva: qui ci vuole una tessera della Lega a Renzi&Boschi, ad honorem.

Ong. La ferale notizia che la carissima nemica Carola è ripartita per la Germania prima che Salvini riuscisse a espellerla l’ha gettato nel più cupo sconforto. Anche perché, a parte qualche barchino ogni tanto, l’invasione africana tarda ad arrivare. Urge un’Ong prêt-à- porter che prelevi centinaia di migranti in acque libiche e faccia rotta su Lampedusa, insultandolo via radio e violando tutti i divieti, possibilmente con Delrio, Faraone e Fratoianni a babordo. Gli amici, del resto, si vedono nel momento del bisogno.

Dal 1979 al 2019: è tornata presto “L’era del cinghiale bianco”

Nel 1979 si respirava il vento della new wave. Dagli Stati Uniti si ascoltavano i Talking Heads mentre il punk aveva dato all’Inghilterra Siouxsie And The Banshees, i Clash e i Beat. E in Italia? Tutto piuttosto immobile. Ma non per Franco Battiato: dopo un percorso sperimentale e all’avanguardia riesce nell’impresa di sintetizzare il suo stile e creare il suo primo vero album pop, strizzando l’occhio al movimento della new wave. A distanza di quarant’anni, L’era del cinghiale bianco suona ancora come un disco contemporaneo, con i suoi testi esoterici e uno sguardo di rara sensibilità artistica, preludio al più popolare La Voce del Padrone che diventerà l’album più venduto nella storia discografica in Italia. Il produttore Angelo Carrara (deceduto nel 2012) scelse di affidarsi allo studio di Alberto Radius – collaboratore storico di Lucio Battisti e membro della Formula Tre – per arrangiare le canzoni. A Radius abbiamo chiesto di rievocare l’atmosfera durante la registrazione dell’album, nei negozi da oggi con tre demo inediti, due versioni in spagnolo e inglese e tre tracce da vivo. “In un primo tempo Carrara fece sentire all’etichetta l’album ma si decise di fare un lavoro ulteriore per la musica e mi chiamò” racconta il musicista. “All’epoca in studio facevo barba e capelli, seguivo dalla A alla Z l’artista. Avevamo un registratore a 24 piste e dopo aver sentito le canzoni decisi di tenere il violino di Giusto Pio e la voce di Franco. Avevo la migliore linea ritmica dell’epoca, Tullio De Piscopo alla batteria e Julius Farmer al basso. Non c’era la tecnologia di oggi e un missaggio finale poteva rovinare l’intero lavoro. Tullio sentì le tracce e con il solo aiuto delle bacchette creò il tempo della sezione ritmica. Oggi i dischi si fanno con le macchinette ma una volta curavamo ogni minimo dettaglio come poteva fare l’artigiano. Si arrangiava il brano tutti insieme, stavamo in due stanzette vicino a Viale Argonne a Milano. Franco era il comandante ma si fidò completamente di me e diventammo amici. Riuscì a capire che mi stava a cuore questo disco e da allora collaborammo fino a Mondi lontanissimi. Lo conobbi al Parco Lambro durante una sua esibizione: faceva cose sperimentali, un po’ strane per me, sicuramente all’avanguardia. Dal vivo utilizzava anche i primissimi computer. L’era del cinghiale bianco, però, aveva una marcia in più, era musica bella fatta con amore. Ricordo lo stupore ascoltando una sovraincisione di un violino su una chitarra, vissuta come la creazione di un suono nuovo. Era una cosa nuova veramente diversa dalle solite cafonate italiane di allora. Franco ha preso la canzone italiana e l’ha rivoltata”.

Alla sua uscita il disco non ha venduto tanto ma dopo il successo de La Voce del Padrone venne “ripescato” e riscoperto”. Tra i musicisti del disco spicca Giusto Pio al violino e alla direzione dell’orchestra, Roberto Colombo alle tastiere (sua l’intuizione di avvalersi dell’aiuto di Radius), Antonio Ballista, Michele Fedrigotti, Danilo Lorenzini oltre a De Piscopo e Farmer. “Tutti coloro che hanno suonato con Franco in quel periodo si rendevano conto di vivere un momento speciale, di appartenere a una nuova epoca per la musica italiana”.

Syd e i primi anni 70: la magia dei Pink Floyd è sempre viva

Una bella idea. Proprio una bella idea. Non è venuta a Nick Mason, storico batterista dei Pink Floyd, ma a Lee Harris. Nei Talk Talk era batterista, qui sontuoso chitarrista. È stato lui a ipotizzare un tour che ridesse vita ai primi Pink Floyd: non “solo” quelli di Syd Barrett, che evaporò in una nuvola rossa già a fine 1967, ma anche quelli che arrivarono a tutto il 1972. Ovvero il mitologico periodo pre-The Dark Side Of The Moon, quando la band era ancora coesa – forse addirittura felice – e non dilaniata da quegli scontri interni (anzitutto David Gilmour versus Roger Waters) che portarono però anche ai loro dischi più indimenticabili.

Con Mason e Harris, in questo progetto chiamato A Saucerful of Secrets come il titolo del secondo album in studio dei Pink, ci sono il tastierista Dom Beken, il bassista Guy Pratt (che “sostituì” Waters nei Pink fin dal 1987) e Gary Kemp. È lui la presenza all’apparenza più aliena: ex chitarrista degli Spandau Ballet, presente pure come attore nel film The Bodyguard. L’effetto è però solo inizialmente straniante, come non può non esserlo vedere – e sentire – un ex Spandau che trent’anni dopo l’edonismo malsano degli Ottanta si mette a cantare Syd Barrett. Ossimoro nell’ossimoro, azzardo nell’azzardo. Al confine quasi con la blasfemia. Eppure funziona davvero tutto, e a dirla tutta pure parecchio. Beken se ne sta in disparte, ma contrappunta in maniera decisiva. Harris, con la sua presenza scenica da gelataio timido, impreziosisce tutto con atarassia.

È uno dei più apprezzati dai 4mila paganti che mercoledì hanno gremito la smisurata Arena Santa Giuliana dell’Umbria Jazz di Perugia. Pratt ostenta ironia e regala smorfie, ma è a lui a dettare i tempi. E Kemp – il più divo – stupisce e convince: come chitarrista, come cantante (strepitoso nella finale Point Me At A Sky). Mason se ne sta inabissato a fondo palco, proprio come faceva con i Pink Floyd, quando gli toccava l’ingrato compito di reinventarsi spesso paciere e Waters si divertiva a dargli i compiti più ingrati: magari recitare il “testo” truce di One Of These Days, oppure – e questo era molto peggio – leggere la versione eretica del Salmo 23 nascosta tra le pieghe di Sheep, durante il tour di Animals del 1977. Quando Nick parla appare stanco, poi – con quella sua flemma mai abbandonata, neanche quando provava a darsi un tono con baffi e cappello alla Buffalo Bill – insegue adrenaline personalissime e regala crescendo perfetti in Set The Controls For The Heart Of The Sun e A Saucerful Of Secrets.

Quasi due ore di musica e 21 brani, di cui 7 del periodo Barrett (spesso più contemporanei oggi di ieri, si pensi a Interstellar Overdrive e Astronomy Domine). Ci sono anche recuperi dai sottovalutati More e Obscured by clouds; una versione condensata della suite Atom Heart Mother, incastonata dentro due estratti della rarefatta If; e la mirabile Fearless. Mason e la sua band hanno recuperato in via teorica “solo” i Pink Floyd meno noti, eppure qualsivoglia traccia a caso del periodo 1965-72 mangia oltremodo in testa al 99% della musica contemporanea. A tratti il livello del concerto è parso inaudito, nonché sommamente irreale. Pareva quasi che suonassero dalla Luna (il lato oscuro, ovviamente). Non è dato sapere se Mason fosse conscio, con questo progetto, di regalare così tanti incanti e madeleine. Di sicuro, se ne avesse voglia e forza, dovrebbe andare avanti ancora un bel po’ col tour. Magari reinventandosi un altro Live at Pompeii. Per poi eternare su disco serate come quella di Perugia: ne nascerebbe un live destinato a suonare così bene, e così definitivo, da darci quasi l’illusione che Syd e Rick siano ancora e per sempre con noi.

#MeToo, Kevin Spacey non è poi così cattivo

Kevin Spacey: meno uno. Cadono le prime accuse penali al premio Oscar, quelle per molestie sessuali e aggressione in Massachusetts: “Indisponibilità del teste che sporge denuncia”, sicché l’attore, sessant’anni il prossimo 26 luglio, può tirare un sospiro di sollievo. Ne serviranno molti altri, ma forse chi ben comincia è a metà dall’essere scagionato. Il Frank Underwood di House of Cards era alla sbarra per i presunti abusi ai danni di un cameriere del Club Bar di Nantucket: secondo l’accusa, il 7 luglio 2016 avrebbe fatto ubriacare e quindi aggredito il figlio diciottenne – ma proclamatosi ventitreenne – della reporter di Boston Heather Unruh, che ha poi sporto denuncia. Spacey rischiava cinque anni di prigione, e sarebbe stato registrato anche quale sex offender. Invece no, caso chiuso, e le avvisaglie c’erano tutte. Due settimane fa, il giovane aveva ritirato la denuncia civile intentata a giugno per “disagio psichico e danni emotivi”. A detta del suo avvocato Mitchell Garabedian, la revoca non sarebbe il risultato di un accordo extragiudiziale. Se dopo la chiusura del fronte penale i legali del protagonista de I soliti sospetti tacciono, Garabedian si trincera dietro “il mio cliente e la sua famiglia hanno mostrato un enorme coraggio in circostanze difficili”, e più non dimandare.

Nello scioglimento trova spazio un telefonino: gli avvocati di Spacey avevano ottenuto che la presunta vittima non potesse modificare né cancellare i dati del proprio smartphone, giacché in un video di Snapchat inviato dal ragazzo alla fidanzata si sarebbe vista una mano – di Spacey, secondo l’accusa – palpare una zona vestita. Per la difesa, al contrario, il telefono avrebbe custodito le prove, messaggi e foto, dell’innocenza dell’attore. Comunque sia, la richiesta copia “completa e non alterata” dei dati non era mai stata consegnata, e a un certo punto lo smartphone – aveva asserito Garabedian – era stato addirittura perso. La capitolazione era dietro l’angolo: passibile di aver distrutto delle prove, il ragazzo si è appellato al Quinto Emendamento per evitare di auto-accusarsi, ritirandosi de facto dal poter testimoniare contro Spacey. Abbandonando la prima udienza dello scorso 7 gennaio, l’attore era stato omaggiato dell’urlo solitario di un fan, “Underwood 2020!”: la candidatura alle elezioni americane rimane improbabile, ma mai dire mai. Nel frattempo, la via crucis iniziata nell’ottobre del 2017, allorché Anthony Rapp accusò il più celebre collega di averlo molestato – all’età di quattordici anni – nel 1986, ha conosciuto una stazione importante in maggio: Scotland Yard, la polizia metropolitana londinese, ha interrogato Spacey su suolo americano. L’attore si è sottoposto volontariamente alle domande del Complex Case Team, che sta indagando su sei abusi sessuali che lo vedrebbero coinvolto: dal 2003 al 2015 Spacey è stato direttore dell’Old Vic Theater nella capitale britannica, i fattacci risalirebbero al periodo 1996 – 2013. Nessuna accusa è stata a oggi formalizzata. Vale ricordare che nel settembre del 2018 il procuratore distrettuale della Contea di Los Angeles aveva rinunciato a perseguirlo per la supposta violenza ai danni di un uomo a West Hollywood nel 1992. I casi che lo riguardano sono una trentina, ma per ora vince lui; postando sui social il video Let me be Frank la vigilia dello scorso Natale, Spacey l’aveva promesso: “Se non ho pagato per quello che ho fatto, di sicuro non pagherò per quello che non ho fatto”.

Mutatis mutandis, ci sono novità importanti anche per Harvey Weinstein, il primo pezzo da novanta dello scandalo da cui è scaturito il movimento #MeToo. Atteso in aula il prossimo 7 settembre, il produttore accusato da 80 donne – due fin qui l’hanno portato sul banco degli imputati, per stupro e sesso orale praticato senza consenso – ha compiuto un passo sul versante civile, proponendo un accordo tombale da quaranta milioni alle proprie vittime, i dirigenti del suo studio e l’ufficio del procuratore generale di New York. In attesa che un giudice si esprima definitivamente, non mancano le voci di dissenso, né un documentario per tenere desta l’opposizione al mogul: Untouchable, diretto da Ursula Macfarlane e dal prossimo 2 settembre su Hulu, dà ascolto a Rosanna Arquette, Paz de la Huerta, Zelda Perkins e mette in guardia, giacché “era il sistema che lo permetteva”.

 

‘Face App’ è russa e il Senato chiama l’Fbi

È un gioco. O è un’arma. Una app pensata per ingannare il tempo potrebbe rivelarsi uno strumento di spionaggio capillare. Se già non avevano avuto l’idea, i creatori di Face App, applicazione ormai divenuta virale – l’avrebbero già scaricata in 80 milioni, disponibile su App Store e Google Play Store –, se la faranno venire ora, dopo che il leader dei democratici nel Senato degli Stati Uniti, Chuck Schumer, senatore dello Stato di New York, ha chiesto all’Fbi e all’Ftc, la commissione federale per il commercio, d’indagare.

Su che cosa? Su che fine fanno i dati personali di milioni, anzi decine di milioni, di cittadini Usa. Face App, lanciata nel 2017, ma il cui successo è recente, è sviluppata da Wireless Lab 000, società russa basata a San Pietroburgo. L’applicazione altera le foto degli utenti e li fa apparire più giovani o più vecchi. In una lettera pubblicata sul web, Schumer considera “profondamente preoccupante” che dati personali di cittadini Usa possano finire nella mani di una “potenza straniera ostile”.

L’azienda proprietaria di Face App garantisce che i dati non vengono trasferiti in Russia e che dati e immagini non sono immagazzinati in modo permanente. Le foto sono però caricate sui server dell’infrastruttura ‘cloud’ di Wireless Lab 000 per essere elaborate e vengono conservate – afferma la società – per un periodo non superiore alle 48 ore, solo per evitare che gli utenti debbano nuovamente caricarle per farne altri editing e per analisi interne a fini statistici. La società russa dichiara, inoltre, di non rendere accessibili i file né le informazioni private a terzi.

È vero che numerose vicende del recente passato, a cominciare da quella che coinvolse Facebook e Cambridge Analytica, hanno ormai dimostrato che i dati ce li rubiamo già fra di noi, senza aspettare che lo facciano i russi. Ma, prima della mossa di Schumer, utenti ed esperti avevano già espresso preoccupazioni perché Face App carica le foto sul cloud: l’elaborazione delle immagini non viene dunque eseguita localmente. Nessun dato degli utenti, assicura la società, viene “trasferito in Russia”. E Wireless Lab 000 dice che non “vende o condivide i dati degli utenti con terzi”, s’impegna a cancellarli a richiesta e sostiene che la stragrande maggioranza degli utenti non effettua il login e che, quindi, l’app non sa associare le foto alle identità.

“Abbiamo sviluppato una nuova tecnologia che sfrutta le reti neurali per modificare in maniera realistica il volto nelle foto”, ha spiegato al sito TechCrunch il fondatore e ad di Wireless Lab 000, Yaroslav Goncharov. Con l’aspetto ludico s’intrecciano, però, i dubbi sulla privacy. Che un’avvertenza della stessa app alimenta, riservandosi il diritto di “condividere contenuti e informazioni degli utenti con altre aziende dello stesso gruppo”.

Strage nella casa dei manga: Sol Levante, deriva violenta

L’orrore viene dal Paese del Sol Levante. Un incendio criminale appiccato in uno studio d’animazione di Kyoto fa almeno 33 vittime. Un uomo di 41 anni, la cui identità non è stata rivelata, ha sparso liquido infiammabile al secondo piano dell’edificio e, dandogli fuoco, ha gridato “Crepate!”. Il bilancio del rogo non è ancora definitivo e la dinamica dell’attacco non è stata ancora ricostruita dalle forze dell’ordine. Il presunto responsabile, rimasto ustionato e ricoverato in ospedale avrebbe avuto rancore verso la casa di produzione, ma non sono emersi altri dettagli. I feriti sono decine, molti in condizioni critiche.

L’incendiario non risulta essere un dipendente, o un ex dipendente, dello studio d’animazione: mettendo in atto il disegno criminale, ha pronunciato frasi sconnesse.

La Kyoto Animation, fondata nel 1981, è un’azienda importante del suo settore. L’edificio che la ospita ha tre piani e una superficie complessiva di 700 mq: al momento del rogo, vi si trovavano una settantina di persone. All’interno, sono stati rinvenuti dei coltelli, ma non è chiaro se li abbia introdotti il piromane assassino o se fossero già lì. I vicini hanno riferito di avere sentito una serie d’esplosioni prima di vedere lingue di fuoco uscire dal palazzo. La maggior parte delle vittime sono state trovate al secondo piano, dove l’incendio s’è sviluppato. Kyoto, un tempo capitale del Giappone, sorge sull’isola di Honshu, a sud di Tokyo: è città famosa per i suoi templi classici buddisti, i santuari shintoisti, i palazzi imperiali, i giardini, le case di legno tradizionali, oltre che per le geishe del quartiere di Gion.

Di solito, le notizie di stragi vengono dagli Stati Uniti. Un po’ per effetto del fuso: la cronaca dall’Estremo Oriente arriva sui nostri schermi all’ora di colazione e, quand’è sera, è già vecchia; invece, la cronaca dall’America arriva all’ora di cena e resta buona per i giornali dell’indomani. E un po’ perché del Giappone abbiamo un’immagine d’ordine e di disciplina.

Ma gli scoppi di violenza non sono rari e succede che del Giappone si parli tra cronaca nera e minacce terroristiche. Senza risalire alla strage nel metro di Tokyo, un attentato con il sarin che fece 13 morti e oltre 6.000 intossicati il 20 marzo 1995 e che resta il più grave attacco terroristico verificatosi nel Paese dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il 28 maggio di quest’anno, un uomo di 50 anni ha accoltellato le persone in attesa a una fermata dell’autobus in un parco di Kawasaki: c’erano in fila molti alunni di una scuola elementare cattolica. L’aggressore, il cui movente non è mai stato chiarito, uccise una bambina e un adulto e fece una ventina di feriti, poi si suicidò colpendosi al collo con lo stesso coltello.

Nel luglio 2016, un uomo armato sempre di coltello entrò in piena notte in un centro per disabili di Sagamihara, non lontano da Tokyo, e compì una strage: 19 morti e venti feriti. Poi si consegnò alla polizia, dicendo di avere agito “per liberare il mondo dai disabili”. Altri attacchi col coltello – qui non è facile come negli Usa procurarsi armi da fuoco – ci furono nell’area di Tokyo nel 2010 e ancora nel 2008, quando l’8 giugno avvenne il massaro di Akihabara. Il conducente di un furgone prima investì un gruppo di persone in un’area pedonale, poi scese dal mezzo e ne accoltellò altre: vi furono in tutto sette morti e una ventina di feriti.