Altro che fratellanza Uiguri, la Cina li interna l’Islam fa finta di nulla

Le contraddizioni etiche degli Stati di religione islamica, in questo frangente geopolitico che vede la Cina ormai unica super potenza, sono diventate ancora più evidenti la scorsa settimana quando 22 Paesi, per lo più occidentali, hanno lanciato la prima grande sfida collettiva a Pechino contro la repressione della minoranza uigura. Si tratta di circa 25 milioni di persone, discendenti dei nomadi delle steppe e delle tribu anatoliche, che parlano una lingua di derivazione turca, osservano l’islam sunnita e vivono da secoli in quella che oggi è la regione autonoma dello Xinjiang, la più ricca della Cina in termini di risorse naturali, al confine con il Kazakhstan e l’Afghanistan. In una dichiarazione congiunta all’Alto Commissario del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, queste 22 nazioni hanno criticato Pechino per quelle che hanno definito “notizie preoccupanti di detenzioni arbitrarie su larga scala” e “sorveglianza e restrizioni diffuse” da parte delle autorità cinesi nei confronti degli uiguri.

Il giorno successivo alla redazione del documento, altri 37 Paesi ne hanno scritto un altro prendendo le difese di Pechino. L’agenzia Reuters che ne ha reso noti i contenuti, spiega che gli Stati firmatari elogiano il comportamento della Cina nell’ambito dei diritti umani e respingono la notizia della detenzione di almeno due milioni di uiguri nei campi di rieducazione allestiti nello stesso Xinjiang. Ciò che sconcerta, a prima vista, è che la metà dei 37 firmatari sono Nazioni a maggioranza musulmana come Pakistan, Qatar, Siria, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Secondo l’agenzia di stampa inglese nel documento si legge: “Di fronte alla grave sfida del terrorismo e dell’estremismo, la Cina ha messo a punto una serie di misure di antiterrorismo e deradicalizzazione nello Xinjiang, tra cui la creazione di centri di istruzione e formazione professionale”.

Ma i rapporti sugli abusi della maggioranza cinese Han contro i musulmani dello Xinjiang sono sempre più numerosi grazie anche alla tecnologia che ha permesso a chi è stato internato di far sentire la propria voce attraverso Internet fornendo prove inequivocabili. I resoconti rilasciati a chi scrive pochi mesi dopo l’11 Settembre – quando Pechino sfruttò il giro di vite mondiale nei confronti dei musulmani allo scopo di bollare di terrorismo la minoranza uigura e sottrarle ulteriormente la già debole autonomia e, soprattutto le risorse naturali – e recentemente a vari media tra cui Cnn da ex detenuti dei lager del Terim, la zona desertica dello Xinjiang, descrivono il consolidamento di un clima di terrore che non lascia scampo. Un rapporto del Council of Foreign Relations comprova che gli ex detenuti riusciti a fuggire dalla Cina sono stati costretti a rinunciare all’Islam e a giurare lealtà al partito comunista cinese. Nonostante ciò molti paesi a maggioranza musulmana, tra cui l’Arabia Saudita strettissima alleata degli Stati Uniti sostengono la politica del Dragone.

“Sono rimasto sorpreso dal fatto che (i Paesi musulmani) l’avessero messo per iscritto e messo i loro nomi e firmato un documento per elogiare la Cina”, ha detto alla Cnn Azeem Ibrahim, direttore del Center for Global Policy. “Una cosa è tacere e astenersi, un’altra cosa è sostenere apertamente (le politiche) quando non è necessario che lo facciano. Penso che sia indicativo dell’influenza e del potere che ha la Cina nel mondo contemporaneo”.

Del resto non c’è da stupirsi dato che il mondo islamico da secoli è spaccato tra sunniti e sciiti, ma anche da rivalità e lotte per il potere tra stati appartenenti alla stessa confessione. Per esempio la Turchia e l’Arabia Saudita, ai ferri corti dopo l’omicidio del giornalista saudita Khashoggi nell’ottobre del 2018.

Alcuni mesi dopo l’omicidio del dissidente saudita, il principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS), più che sospettato di essere il mandante dell’efferata esecuzione, in seguito alle critiche espresse dal Congresso statunitense, ha deciso di intraprendere una visita di stato in Cina, dove, ovviamente, è stato accolto con calore. La Cina è il principale partner commerciale dell’Arabia Saudita. Visto attraverso la prospettiva dell’obiettivo economico, il sostegno del principe ereditario a Pechino suona logico, specialmente ora.

Sulla Cina, molti Paesi musulmani sembrano cantare la stessa canzone. “Il trattamento da parte di Pechino della propria popolazione musulmana non è una questione del mondo arabo”, ha detto Hellyer, senior associate al Royal United Services Institute di Londra e all’Atlantic Council di Washington, DC.

“Anche se non sono d’accordo su un gran numero di altre questioni, come la crisi (araba del Golfo), la Siria, lo Yemen, l’Iran e così via – ha ribadito Hellyer – nessun leader musulmano nel mondo arabo o nella regione più ampia, compresa la Turchia, sembra avere dubbi riguardo al fatto di scegliere di stare al fianco di Pechino”. Essendo uno dei maggiori istituti di credito del mondo, la Cina esercita un’influenza formidabile. In Pakistan, in genere, il portavoce delle lotte musulmane in tutto il mondo, la critica alla Cina è un tabù.

Qui a Torino sono come Malaussène: un capro espiatorio

Caro direttore, il suo articolo su Torino coglie soltanto in parte una situazione non semplice da spiegare, a partire dal mio defenestramento da vicesindaco e assessore e dalle fibrillazioni della maggioranza in Comune. In primo luogo l’accostamento del mio nome a quelli di personaggi come Pasquaretta e Giordana non ha senso: quelli sono stati beccati in alcune vicende poco chiare; io sono stato scelto come assessore per un discreto curriculum accademico e una esperienza di gestione amministrativa sperimentata a Rivalta nel nome dell’ambientalismo e di un’urbanistica di qualità. Come lei ricorda la mia infelice frase sulla grandine sui padiglioni del Salone auto al Valentino non ha alcuna relazione con l’abbandono dei proponenti da Torino, pianificato da tempo, ma insieme alle uscite di alcuni consiglieri avrebbe indebolito la sindaca nella sua lotta contro la visione propagandata dai “giornaloni” di una Torino in decrescita e in via di marginalizzazione. Leggenda costruita a tavolino tralasciando i segnali positivi (salvataggio delle aziende pubbliche, aumento del turismo e degli investimenti) e amplificando elementi di una lunga crisi non risolta e in gran parte causata dal debito maturato nella scelta olimpica del 2006.

Purtroppo io sono stato identificato come capro espiatorio, il Malaussène perfetto per tutte le difficoltà e il “capo” della fronda dei grillini estremisti inconcludenti, quelli che sono “contro la contentezza”. Ecco: io respingo questa narrazione per il semplice fatto che sono il protagonista degli stessi provvedimenti sui quali la sindaca vuole avere la fiducia e mi sono sempre mosso per unire, per operare tra i margini incerti, costituiti dal programma elettorale (che ho contribuito a elaborare) e la sua realizzazione concreta. Al punto tale che in alcuni ambienti sono identificato come il cementificatore (!) e in altri invece come il capo degli estremisti. La revisione del Piano regolatore ha suscitato speranze di sburocratizzazione (che dovrebbe essere il vero obiettivo di ogni politica del nostro Paese) in tanti settori di operatori e professionisti, tutti i progetti di rilevanza territoriale che ho coordinato sono stati improntati a risparmio del suolo libero (recuperati 70.000 mq di verde dove prima c’era il cemento), a incremento dei servizi e della sostenibilità ambientale ed energetica, sempre in dialogo con cittadini, le imprese, le associazioni, secondo modalità di partecipazione mai prima sperimentate. La giusta scelta della sindaca di ricompattare la sua maggioranza è fatta con obiettivo e metodi sbagliati. Non sono io l’obiettivo e colpire me suscita l’indignazione dei tanti consiglieri che hanno apprezzato il mio impegno nell’azione concreta, nel dialogo e nel “metterci la faccia”, sempre. Il metodo della coercizione pura non funziona e ha già portato al secondo abbandono dalla maggioranza grillina.

La giusta esigenza di agire come forza di governo non può basarsi su modi dittatoriali e sull’abbandono del programma. Il metodo è il dialogo (attività nella quale la sindaca non eccelle), l’approfondimento fino allo sfinimento dei temi e poi il decidere uniti, anche con la necessaria forza contro chi non vuole rispettare i voleri della maggioranza. La ricchezza delle individualità del Movimento non può diventare limite all’azione di governo: che è mediazione, ma anche decisione. Però non ci si può rassegnare alla scelta tra No e Sì: la politica è proposta, visione di un futuro condiviso. Da questo punto di vista il Movimento deve fare ancora molta strada. Dalle numerose espressioni di sostegno che ricevo in questi giorni dai mondi più disparati (dagli ambientalisti ai costruttori, dai progettisti ai tecnici degli uffici) credo che questa posizione di mediazione propositiva, basata su visioni condivise e di lunga prospettiva, sia la strada giusta.

* già vicesindaco e assessore a urbanistica, edilizia e lavori pubblici di Torino

Quel pasticcio del maggio fiorentino

“Ma chi crede di essere, Renzi?”. La più perfida tra le battute che girano per Firenze coglie nel segno: dopo la sua rielezione plebiscitaria, Dario Nardella ha perso la testa, combinando un disastro dietro l’altro. Prima una giunta troppo maschile (e che dunque non rispettava una legge del governo… Renzi), poi un brutto pasticcio intorno alla presidenza della Fondazione di Palazzo Strozzi. Ma, soprattutto, la catastrofe del Maggio Musicale.

Dopo un decennio burrascoso segnato dall’alternarsi di commissariamenti e soprintendenti pessimi, la sede del più antico festival operistico europeo sembrava aver finalmente pace. Due anni fa, il nuovo auditorium dai costi di gestione faraonici aveva trovato una guida prudente e lucida in Cristiano Chiarot. In quel momento la Fondazione, che ha rischiato a più riprese la liquidazione coatta, era schiacciata da oltre 75 milioni di debiti (più del 200% del suo bilancio). La sala vuota, i sindacati stremati da un’agitazione permanente contro la dieta imposta dal renzianissimo Francesco Bianchi, succeduto come commissario all’esiziale e renzianissima Francesca Colombo, aveva portato all’espulsione di quasi un centinaio di dipendenti. Chiarot azzera un costosissimo e inefficiente management, mette alla porta la Bain & Co., una società di consulenza che, per circa un milione l’anno, di fatto, governava la Fondazione al posto dei mandarini di cui Bianchi si era circondato. Con una piccola squadra riporta il pubblico in teatro, paga regolarmente l’Irpef (cosa che i suoi predecessori non facevano), economizza ossessivamente, ritorna a produrre: e una serie stellare di direttori, fra cui Esa-Pekka Salonen, risponde alla sua chiamata. In 24 mesi il debito si riduce di un quarto, viene approvato un piano di risanamento triennale, avviato un concordato col fisco, avviata la ricapitalizzazione. Chiarot non sarà Mosè, ma restituisce all’orchestra e alle maestranze l’orgoglio di appartenere a un’istituzione che ha fatto la storia della cultura italiana negli ultimi 90 anni.

Fino a domenica scorsa. Con un atto inspiegabile, il sindaco Nardella decide di lasciare la presidenza del Consiglio di Indirizzo a favore di Salvo Nastasi: autore fra l’altro della cosiddetta Legge Franceschini sulle fondazioni-lirico sinfoniche, e per un quindicennio padre-padrone dello spettacolo dal vivo in Italia. Una scelta irricevibile per chi negli anni si è opposto senza risultati a questa bulimia di potere: il sindaco lo sa, ma tira diritto. Il vertice del teatro – cosa rara in Italia – non ci sta, e si dimette. A questo punto, da Palazzo Vecchio si alza una cortina fumogena di ricostruzioni insensate, gaffe grossolane, smentite contraddittorie e grottesche ripicche. I toni di un Nardella in evidente difficoltà si fanno ribaldi e aggressivi. Un assessore viene costretto a mentire in consiglio comunale assicurando che sì, il soprintendente accetterà il rinnovo dell’incarico e la presenza di Nastasi: quando, mezz’ora prima, lo stesso assessore era uscito dallo studio di Chiarot con in tasca l’ennesimo rifiuto non negoziabile. Nardella stesso che dice che il Mibac intende rottamare Chiarot perché prossimo alla pensione: con il direttore generale Mibac Onofrio Cutaia che lo smentisce in diretta telefonica coi sindacati.

Una storia imbarazzante, da dilettanti allo sbaraglio. Una figuraccia planetaria: le dimissioni gemelle del direttore d’orchestra Luisi e di Chiarot fanno il giro del mondo, e in pochi minuti raggiungono a Los Angeles un attonito Zubin Metha. Sacrificare un soprintendente che in due anni salva dal commissariamento una Fondazione e la riporta verso la normalità è un atto di arroganza difficile da spiegare. Tanto che lo stesso Nastasi fa ora sapere che si guarderà bene dall’andare al Maggio, evidentemente infastidito dai pasticci del suo amico Nardella. Il quale, volendo dimostrare di saper ormai giocare in proprio, ha clamorosamente rotto il giocattolo. Che era fragile e importante. E non era suo.

Salvini, nove idee per perdere consensi

Cosa deve fare Salvini per calare nei consensi? Le polemiche aumentano, le criticità si moltiplicano. Ma lui, nei sondaggi, non scende mai. Se Renzi è durato meno di una flatulenza di Bombolo, Salvini pare dotato di un consenso – per quanto in sé volatile – ben più radicato. La sinistra dice che dipende da un elettorato meno intransigente, il buon senso suggerisce molto più banalmente che lui resti mediaticamente il più furbo. È però surreale come, nonostante i Savoini e i Russiagate, a cui peraltro Salvini oppone difese debolissime, la Lega non scenda. Quanto potrà andare avanti tutto questo? Vien da chiedersi se ci sia qualcosa che, qualora avvenisse, porterebbe a una reale implosione di Salvini e Lega. Qualcosa che gli faccia davvero male, come Banca Etruria alla Boschi, il caso Diciotti a Di Maio e Renzi a Renzi. Insomma: qualcosa di politicamente esiziale. Cosa dovrebbe accadere per far scendere Salvini? Qualche ipotesi.

Salvini prende tre lauree. Per lui sarebbe qualcosa di politicamente devastante. Non alludiamo a diplomi albanesi farlocchi, bensì a lauree vere. L’effetto sarebbe verosimilmente quello che tramortisce il povero Pietro Sermonti in Smetto quando voglio, che durante un colloquio di lavoro infimo si lascia scappare due parole (“diatribe legali”) troppo colte. E il “padrone”, uno zozzone patentato, lo sgama subito: “Tu sei laureato. Te l’ho detto che io non prendo laureati: non siete affidabili”. Sermonti prova ad accampare scuse, poi però ammette imbarazzato: “Sì, sono laureato, ma è stato un errore di gioventù!”. In questo Paese ti perdonano tutto, ma la competenza unita alla cultura proprio no. Del resto, quando andava in tivù per vincere quiz Fininvest, il ventenne Salvini si definiva con orgoglio “nullafacente”. Aveva già capito tutto.

Comprare l’ultimo disco di Marco Carta (addirittura pagandolo). Per carità: in quelle sue playlist musicali che non manca di pubblicare sui social, Salvini passa con agio sconfortante da De André a Marcella Bella e da Ivan Graziani ad Al Bano. Lui non è neanche trasversale e nazionalpopolare: è proprio musicalmente bipolare. È però immaginabile che Marco Carta, ancor più di questi tempi, sarebbe troppo. Persino per la sua curva adorante.

Giocare il doppio in Davis con Fedriga. Così, a occhio, quei due lì in coppia sarebbero un colpo ferale contro qualsivoglia nazionalismo patrio.

Una sorta di Fantozzi e Filini in chiave polenta & volley.

Sostituire Axl Rose come frontman nei Guns ‘n’ Roses. Per quanto entrambi pasciuti e satolli, in termini prettamente vocali il gap tra i due resta ancora considerevole. Più facile immaginare Salvini come suonatore di banjo in tour con Amedeo Minghi. Saprebbe senz’altro esaltare le masse.

Dichiarare guerra agli shampoo. Idea banale: ci ha già pensato Cruciani. E non ha portato fortuna neanche a lui. Men che meno al suo tricologo.

Tornare al governo con Berlusconi. No, questa è un’ipotesi che non regge. Il suo elettorato gli perdonerebbe anche questa. Anzi: gli perdonerà.

Candidare Diaco, la Maglie e magari pure Capezzone. Più che una mossa, sarebbe il preambolo per una nuova e definitiva apocalisse.

Marciare su Roma. Non lo farà mai. Non perché sia ideologicamente contrario all’idea, ma solo perché è un tipo pigro. E camminare costa fatica.

Partecipare a Masterchef. Se solo Salvini proponesse a Bastianich certe sbobbe che posta garrulo sui social, tipo la pasta col ragù Star, quello lo sgozzerebbe a mani nude. Tra il giubilo della folla.

Si potrebbe andare avanti in eterno, ma forse Salvini comincerà a perdere consensi solo quando la realtà smetterà di accettare questa assurda dittatura italica del tragicomico. Quindi, prima che spiova sul serio, passerà ancora tanto tempo.

Mail box

 

Di Camilleri non rimarrà soltanto Montalbano

Mi sono commosso, come tutti noi, per la morte di un Grande uomo, buono, gentile. Un nonno che non ho mai avuto, che mi ha raccontato storie. Ma i ricordi televisivi, che hanno ricordato un monumento della nostra cultura contemporanea, parlano solo di Montalbano. Ci sono romanzi Fantastorici, fondamentali come “Il re di Girgenti”. Peccato ricordare un genio come il Nostro Camilleri, solo per Montalbano. C’è di più, molto di più, dietro, dentro e intorno all’immenso contributo che questo uomo ha dato come produttore televisivo, teatrale, come regista, come insegnante, ultimamente…

Luigi Alessandro Perego

 

Deluso dai 5S per il voto europeo alla Von der Leyen

Devo complimentarmi con i 5 Stelle per aver votato a favore della Von der Leyen. Così hanno contribuito a far eleggere una degna rappresentante del potere finanziario che ha creato solo danni alle economie con politiche di austerità. Vedasi il caso Grecia. A questo punto come ex elettore grillino non vedo alcuna alternativa al non voto. Delusione totale.

Massimo Cantarella

 

Soldi russi alla Lega, e se Salvini avesse paura?

Ci sono due versioni sui soldi alla Lega dalla Russia, quella del Pd e di Repubblica, e quella di Salvini ma c’è anche una terza opinione della minoranza della Lega: in sostanza dicono che Salvini non ha preso soldi dalla Russia ma non denuncia chi lo ha spiato per paura o perché anche lui – o Maroni – ha fatto spiare leghisti bossiani, vedi su twitter @renzobossi.

Marco Rosa

 

I missili di Pavia forse erano contro le “balle spaziali”

Poteva il nostro “Cazzaro Verde” rimanere fuori dal ritrovamento dei missili a Pavia? No, non poteva. E non lo poteva in quanto sta per battere il record di mister B. nel raccontare cavolate di ogni colore. Ne ha sempre raccontate smentendo, come faceva B., anche in barba all’evidenza dei fatti e dei filmati e dunque attribuendosi l’utilizzo finale di tale arma. Il problema dell’attuale missile francese Matra super 530S è che è aria-aria, cioè può essere lanciato solo da un aereo o un elicottero contro un bersaglio in aria. Il nostro super ministro ha dunque di che preoccuparsi in quanto con le sue “balle spaziali” può divenire un bersaglio. Ma c’è una cosa che forse non è stata valutata bene, il costo del missile, stimato diverse centinaia di migliaia di euro che, francamente, mi sembra che il gioco non valga la candela. Faccio, ovviamente, i migliori auguri al “nostro” ministro di buona salute, ricordandogli che senza le sue “verità inoppugnabili” giornaliere, cui siamo abituati, ci mancherebbe come i vecchi nonni di una volta che ripetevano le stesse cose ogni giorno, spacciandole per news.

Franco Novembrini

 

Costretto a pagare la Rai pure per i black out sul digitale 

Grazie, Travaglio, per l’analisi impietosa sulla Rai. Ricordo con nostalgia i grandi, da Arbore a Barbato (del quale sembra si siano dimenticati tutti) fino al nostro Biagi… E oggi devo pagare in modo coatto un servizio pessimo, non solo nei contenuti, che ha già ricordato lei, ma anche i totali “black out” di un segnale che, per ore, non c’è sul digitale. E questa è una truffa. Un servizio mediocre, a volte approssimativo. Come sempre, salvo solo Rai3 e le sue idee, i suoi Blob, il buon Iacona, Report e le iniziative che vengono sempre proposte (come da regime) in ultima serata.

Luigi Alessandro Perego

 

Bimbi “rubati”, l’interesse del minore non c’è più

L’orrendo caso dei “ladri di bambini” mi induce a ribadire ciò che già nel 2013, con l’ex magistrato Morcavallo e il neuropsichiatra infantile Valgimigli evidenziavo nel mio libro Come ai tempi di Erode. Venivano trattati gli elementi critici, le deviazioni, le anomalie nella gestione di un caso di sottrazione di tre bambini alla loro madre. La vicenda, narrata nel libro, accaduta nella Regione Emilia-Romagna, spacciata come un modello di buona amministrazione evidenziava un problema di mancata tutela dei diritti umani, percepito dalla società civile, ma non dalle forze istituzionali quali i servizi sociali, giudici e amministratori. La spiegazione di questa anomalia, come scriveva Morcavallo era “amara e capace di atterrire”. In sostanza, il controllo sulla vita delle famiglie – scrivevamo – è uno strumento efficacissimo di potere sociale, culturale ed economico. La vicenda di Reggio Emilia conferma che la violazione continua dei diritti umani e le anomalie procedimentali nascondono interessi diversi da quelli della giustizia e tutela dei minori. Ancora più drammatico è il fenomeno delle adozioni. I relativi procedimenti evidenziano una lunga serie di elementi di criticità, se non di vero e proprio malfunzionamento e cattive prassi. Più in generale, la vicenda di Reggio Emilia pone un problema che appare un fallimento della buona politica di cui si vanta la Regione amministrata dal Pd: la rottura di un patto di fiducia tra gli utenti e quei servizi i quali, originariamente concepiti per offrire un supporto e un sostegno ai soggetti più deboli e vulnerabili, vengono oramai rappresentati e percepiti come una minaccia. Sarà difficile ricomporre un clima di serena accettazione del ruolo e funzione dei Servizi sociali. L’allontanamento di un bambino o di un adolescente dal proprio ambiente familiare e il suo collocamento-inserimento in un diverso contesto necessitano, infatti, di interventi articolati, complessi che coinvolgono varie figure con ruoli e competenze diverse. La necessità che venga ripensato il rapporto tra il ruolo del giudice del Tribunale per i minorenni e quello dei Servizi sociali è, dunque, più che mai urgente e inderogabile ma sarà difficile che ciò avvenga da parte di una forza politica qual è il Pd intrisa di una cultura statalista e nello stesso tempo sensibile al clientelismo.

Avvocato Salvatore Di Grazia

 

I lavoratori muoiono, la sinistra resta assente

Dove si trovano i cosiddetti uomini e donne di sinistra quando i lavoratori muoiono sui cantieri o su altri luoghi di lavoro: a Capalbio, al supermercato oppure sulle navi cariche di merce umana che i trafficanti scaricano in Sicilia dalla Libia e dalla Tunisia? Dove si trovavano quando Renzi, pure lui uomo cosiddetto di sinistra, smantellava definitivamente lo Statuto dei Lavoratori con l’annesso Articolo 18? Cito, in ordine alfabetico, uomini e donne – loro sì di sinistra – che si stanno rivoltando nelle loro tombe: Amendola, Berlinguer, Cossutta, Iotti, Longo, Pajetta, Pertini.

Francesco Bulzomi

Il “Fatto” sulla tomba di Pertini: un regalo per il nostro decimo compleanno

Cari amici del Fatto Quotidiano, sono stato pochi giorni fa sulla tomba del Presidente! Credo che i miei amici lettori fedeli gradiscano vedere la foto di questa tomba con il nostro giornale accanto. Sono certo, avendolo conosciuto di persona quand’era presidente della Camera, che Sandro Pertini sarebbe stato un lettore di questo bel giornale. A lui piaceva la chiarezza vera e voi la esercitate. Bravi!

Caro Guido, miglior regalo per il nostro imminente decimo compleanno non potevi farci. Prendiamo il tuo accostamento fra il grande Pertini e il nostro piccolo giornale come un incoraggiamento a fare sempre meglio sulla strada dell’onestà e della verità. E come una speranza di poterci un giorno meritare fino in fondo il tuo magnifico complimento.

Pandetta condannato per spaccio, è stato ospite da Enrico Lucci

Aveva trasformato la sua casa, dove si trovava agli arresti domiciliari, in una rivendita di cocaina e marijuana da ordinare via sms. Per questo motivo il cantante neomelodico Vincenzo Niko Pandetta è stato condannato in primo grado, con rito abbreviato, a sei anni e otto mesi. Originario di Catania, nipote del boss ergastolano Turi Cappello, l’artista recentemente era stato tra i protagonisti del programma Realiti, condotto da Enrico Lucci. Il servizio, andato in onda su Rai2 il 5 giugno scorso, aveva acceso i riflettori sul fenomeno della musica neomelodica all’ombra dell’Etna. Settore in cui Pandetta ha fatto molta strada, grazie a milioni di visualizzazioni su Youtube e concerti in giro per l’Italia, dopo un primo cd “finanziato con i soldi delle rapine”, racconta lui stesso in televisione. Ma la fama non gli ha mai fatto dimenticare le proprie radici e lo zio ergastolano. Per lui, Pandetta ha scritto la canzone dal titolo Dedicata a te: “Sei stato tu la scuola di questa vita – canta il neomelodico catanese – mi hai insegnato a vivere con onore”.

“Cin cin” al cemento: hotel al posto di stalle

Appena dieci giorni. Neanche il tempo di deporre i calici di prosecco usati per il brindisi o aspettare la vendemmia nelle colline da Valdobbiadene a Conegliano, che l’Unesco ha riconosciuto il 7 luglio come patrimonio paesaggistico dell’umanità. La giunta veneta del leghista Luca Zaia ha sfornato a tempo di record un provvedimento che consentirà – senza oneri di urbanizzazione e in deroga ai vincoli urbanistici – di ristrutturare ruderi agricoli, pollai e stalle, per trasformarli in strutture di locazione turistica o dipendenze di albergo diffuso.

Tanti piccoli alberghi cresceranno accanto alle vigne, in mezzo ai filari che producono ogni anno 500 mila bottiglie e generano un fatturato di due miliardi e 300 milioni di euro. Il modo migliore per far fruttare il riconoscimento dell’Unesco.

“La legge è arrivata giusta, giusta… perché siamo bravi. Ma è un anno che ci lavoravamo”. Silvia Rizzotto, capogruppo Lista Zaia in consiglio regionale cavalca l’onda dell’entusiasmo per un’approvazione fortissimamente voluta dal governatore, che elogia come “una deroga di buon senso, per dotarsi di strutture ricettive moderne, a costo zero, senza costruire nuovi alberghi”. A fare da contraltare il consigliere Andrea Zanoni, del Pd: “È una gigantesca deroga a tutte le leggi. È la riscossa della betoniera, il consumo zero di suolo è diventato uno sbiadito ricordo, perché si consente la cementificazione di milioni di metri cubi”. Il dito è puntato contro la Lega: “All’ultimo minuto hanno introdotto un emendamento pensato per la zona Unesco. Ogni stalla può diventare una casa. Alcune migliaia di persone possono brindare, perché si arricchiranno. E siccome non è previsto il cambio di destinazione d’uso, i turisti dormiranno in fienili o pollai, anche se rifatti”. Tecnicamente si tratta di una sperimentazione, che inizia dal nuovo sito Unesco, nel Trevigiano, dove si prevede l’arrivo di due milioni di turisti all’anno. “Albergo diffuso vuol dire che si realizzeranno sedi dislocate rispetto a quella centrale dotata di reception e servizi. Sarà la giunta a decidere i criteri”, spiega Rizzotto. L’opposizione replica. “Si tratta di una delega in bianco”. “Macché, saranno coinvolti i Comuni, non ci saranno ampliamenti…”, è la parola d’ordine della consigliera che ha introdotto l’emendamento. Ma chi ristruttura un rudere, poi può rivendere la casa e ci guadagna. “In effetti, lo può fare, non ci sono vincoli, ma resta la destinazione agricola…”.

Il nomignolo di Hotel Unesco, l’emendamento se l’è trovato appiccato nel momento in cui è stato presentato. “Non pagheranno contributi di costruzione e le strutture potranno essere ampliate sino a 120 metri cubi. Sono circa un migliaio, fate i conti”, infierisce il consigliere Zanoni. La norma stabilisce che “la trasformazione riguarda solo le strutture agricolo-produttive non più utilizzate per esigenze dell’agricoltura e dell’allevamento” e può avvenire “in deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e territoriali e dei regolamenti edilizi”. Basta decidere di renderli inattivi e si può cominciare la ristrutturazione, per farne appartamenti da affittare o dépendance di hotel. “È una sperimentazione in zona Unesco, ma circoscritta e protetta”, assicura il leghista Francesco Calzavara, presidente della commissione Urbanistica. Il provvedimento comunque vale per tutto il Veneto, dal mare alla montagna. E sarà la giunta regionale a individuare “i limiti dimensionali massimi di volume o superficie coperta utilizzabile”. Il governatore Zaia li ha definiti, bucolicamente, “piccoli lodge in mezzo ai vigneti”. Gli replica ironicamente Gilberto Carlotto, vicepresidente del Wwf di Conegliano: “Essendo tra i vigneti, saranno anch’essi irrorati dai pesticidi. E per giunta con i turisti dentro”.

Carola: “Lascio Sea Watch e spero nella nuova Europa”

Ritorna ad Agrigento sicura di sé Carola Rackete, la comandante della Sea Watch che davanti al procuratore Salvatore Vella e ai sostituti Alessandra Russo e Cecilia Baravelli, ha risposto alle domande per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e disobbedienza a nave da guerra. La comandante protagonista dell’approdo a Lampedusa nonostante l’alt della Guardia di finanza ha sostenuto un interrogatorio di quattro ore in cui ha ribadito di aver agito per necessità e perché lo sbarco a Lampedusa era l’unica via per salvare le vite delle persone a bordo della Sea Watch.

Questa spiegazione arriva però il giorno successivo alla deposizione del ricorso firmato da Luigi Patronaggio contro la mancata convalida dell’arresto: il pm sostiene che i migranti sulla Sea Watch erano già in uno stato di sicurezza grazie all’assistenza fornita dalle autorità. Due tesi in aperto contrasto. Lei però è convinta e ribadisce le sue intenzioni all’uscita del tribunale di Agrigento, assediato da giornalisti italiani, tedeschi e francesi. “Ringrazio tutti coloro che sono venuti qui – ha detto in inglese Carola Rackete – sono felice di poter spiegare i dettagli del salvataggio avvenuto il 12 giugno. Spero che la nuova Commissione europea che si è insediata riesca a prevenire quello che è successo e che tutti i Paesi europei lavorino insieme in futuro per accettare le persone in fuga che i soccorsi civili portano in salvo”. La giovane comandante non risponde invece alla domanda su cosa pensa di Salvini: “Niente” afferma in tedesco, sorridendo. A sostenere la sua causa, fuori dal tribunale, una sparuta rappresentanza di associazioni, tra cui Amnesty International: alcuni di loro hanno gridato il loro saluto alla capitana tedesca, come già fatto nell’approdo avvenuto dopo l’arresto nel porto di Porto Empedocle. “Salvare in mare non è un reato – si legge sulla maglia di uno dei sostenitori – rubare i milioni sì”. Altre persone espongono striscioni in favore dei migranti, altri si fermano lì solo per salutare la capitana, aspettandola per ore sotto il sole cocente. Lei adesso tornerà in Germania dove andrà a lavorare, ma non salirà più a bordo della Sea Watch: “Non è più un membro dell’equipaggio quindi farà altro – precisa al termine della conferenza l’avvocato Alessandro Gamberini che assiste, insieme a Leonardo Marino, Carola Rackete – nella vita non fa solo la capitana”. La veloce conferenza di appena due minuti al termine dell’interrogatorio finisce con le grida dei sostenitori che applaudono un’ultima volta Carola Rackete: “Lei si difenderà bene nelle sedi opportune per far valere le sue ragioni – dice una delle sostenitrici – fanno specie le malefatte che ci sono in giro nei confronti della capitana. Ha subito minacce e io da semplice cittadina voglio esprimere un sostegno nei confronti di una persona che ha fatto un grande gesto di umanità. Salvini se ne faccia una ragione”.

In un clima di tensioni, con circa venti lettere minatorie che sono arrivate negli ultimi giorni al procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio e la prima indirizzata anche al giudice Alessandra Vella, nel giorno del Carola-day è stato approvato dalle commissioni Affari costituzionali e giustizia della Camera, l’emendamento al decreto Sicurezza bis che introduce l’arresto obbligatorio in flagranza per il comandante della nave in caso di resistenza o violenza contro una nave da guerra. La modifica era stata proposta dalla Lega proprio dopo il caso della comandante tedesca.

Insider trading, Consob multa il costruttore Toti

La Consob, l’autorità che vigila sulla Borsa, ha comminato ieri a Pier Luigi Toti una sanzione amministrativa pecuniaria di 250 mila euro per abuso di informazioni privilegiate (insider trading) nel caso della fusione tra Sorin e Cyberonics. Nel bollettino dell’Authority viene ricostruito l’accaduto: Pier Luigi Toti avrebbe sfruttato l’informazione avuta dall’avvocato Andrea Gemma sulla progettata fusione resa poi pubblica il 26 febbraio 2015. L’informazione è servita al costruttore romano per acquistare 350 mila azioni di Sorin tra il 20 e il 23 febbraio (investendo circa 755.430 euro) e poi rivenderle dopo l’annuncio della fusione, realizzando così una plusvalenza di 179.867 euro.

Ad Andrea Gemma, attualmente consigliere di amministrazione indipendente dell’Eni, la Consob ha comminato una sanzione amministrativa pecuniaria pari a 80 mila euro e una sanzione amministrativa interdittiva accessoria obbligatoria di 6 mesi. In questo lasso di tempo la sua carica nel cda del colosso petrolifero sarà sospesa.