Il pd e gli ex: pochi posti, tanti in corsa

Pochi sono i chiamati perché pochi saranno gli eletti: il detto evangelico rovesciato può essere la vera (e poco confessabile) ragione delle rispostacce piovute dal Pd sul figliol prodigo Massimo D’Alema. Che nell’auspicare il ritorno al Nazareno di Articolo 1, la frangia di sinistra uscita quattro anni fa perché bullizzata da Matteo Renzi, ha usato la frase giusta al momento sbagliato.

Infatti, affermare come ha fatto l’ex leader Maximo, che il renzismo era stata la malattia da cui fuggire, proprio perché vero ha suscitato la finta indignazione dei renziani rimasti nel Pd. In realtà finalizzata a molestare, una volta di più, il segretario Enrico Letta. Ma è stata soprattutto l’occasione di un vade retro, poiché il possibile rientro armi e bagagli dei fuoriusciti accrescerà l’affollamento degli aspiranti candidati quando, presto o tardi, arriveranno le elezioni.

Un sempiterno problema acuito dal robusto taglio dei parlamentari che riguarda adesso l’intero arco partitico. Comprensibile quindi che i numerosi trasferimenti in atto di girovaghi e frontalieri della politica – ex forzisti alla corte della Meloni, ex italovivi ed ex grillini dove capita – in genere non venga accolto nei luoghi di approdo con entusiasmo per le stesse motivazioni di cui sopra. Un si salvi chi può che nel caso di Articolo 1 porterebbe nel Pd pochi voti, ma alcuni nomi piuttosto ingombranti.

Se nel caso di D’Alema parliamo di un personaggio che si è ritagliato un meritato ruolo di padre nobile della sinistra, e da lì non si muove, un rientro di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza potrebbe creare seri problemi di competizione interna. Il primo per la notevole popolarità che ha saputo conservare, per la schiettezza tutta emiliana con cui dice pane al pane assai apprezzata nei decisivi salotti tv (in confronto allo stile non proprio frizzante di Letta). Come ministro della Salute che ha combattuto la pandemia, il secondo è molto salito in visibilità e sondaggi e nel governo non c’è ministro Pd capace di tenergli testa. Si chiama concorrenza, altro che malattia.

L’uveite, il replay del Caimano e l’inciucio sul Napolitano-bis

2013, 24-25 febbraio. Alle elezioni il Pdl guidato da Berlusconi perde 6,5 milioni di voti. Ma il Pd, malgrado la promessa del segretario Pier Luigi Bersani, non riesce a “smacchiare il Giaguaro”: dissanguato dalle politiche antisociali di Monti, lascia per strada 3,5 milioni di voti, pareggia con i 5Stelle (passati da zero al 25,5%) e incassa il premio di maggioranza del Porcellum solo grazie all’alleanza con Sel. Ma non ha i numeri per governare. È quel che sperava Napolitano, che ha già in mente la riedizione delle larghe intese montiane appena bocciate dagli elettori, per tagliare fuori l’unico vincitore: il M5S. Infatti incaricherà “con riserva” (cioè a condizione di una maggioranza numerica solida) Bersani per il nuovo governo, già sapendo che fallirà col suo progetto spericolato di un governo di minoranza Pd-Sel sostenuto dalle astensioni dell’ala moderata del M5S.

7 marzo. Il presidente della Bce, Mario Draghi, ostenta tranquillità sul dirompente risultato elettorale: “Gran parte delle misure di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico”. Berlusconi viene condannato a Milano a 1 anno di reclusione per violazione del segreto con la telefonata Fassino-Consorte passata al Giornale nel 2005. Il gup di Palermo Piergiorgio Morosini rinvia a giudizio Dell’Utri e gli altri imputati per la trattativa Stato-mafia.

11 marzo. Berlusconi precetta 150 fra deputati e senatori appena eletti e li fa sfilare sulla scalinata del Tribunale di Milano per protestare contro i giudici che stanno concludendo il processo Ruby. Una scena degna del film di Nanni Moretti Il Caimano. Che però non c’è: è ricoverato da giorni al San Raffaele per un’uveite: una forma di congiuntivite curabile con un banale collirio che i suoi medici e i suoi legali ritengono ostativa alla sua presenza alle udienze. Ma i giudici del processo Mediaset non hanno abboccato e hanno proseguito senza di lui. Alla fine i neoparlamentari, compreso il segretario Alfano, irrompono in tribunale per presidiare l’aula del processo Ruby, dove i giudici devono ancora decidere sull’impedimento oculistico. E, sotto quella pressione, lo accolgono, rinviando la requisitoria di Ilda Boccassini. L’indomani Napolitano riceve Alfano, Gasparri e Cicchitto che, reduci dalla gazzarra milanese, gli esprimono allarme per “l’accanimento giudiziario” e l’“emergenza democratica”. Poi convoca il vertice del Csm per invitare i magistrati a evitare “tensioni destabilizzanti” prolungando la tregua elettorale. Detto, fatto: i processi a Berlusconi sono rinviati fino al 20 aprile, cioè a dopo il voto per il Quirinale.

26 marzo. Nel secondo processo d’appello, la Corte di Palermo ricondanna Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

30 marzo. Bersani non può sciogliere la riserva perché i 5Stelle non vogliono donargli i loro voti “gratis” e lui non vuole chiederli a Berlusconi. Napolitano congela la crisi fino all’elezione del suo successore (che sarà sempre lui). E nomina dieci “saggi” per dettare al futuro esecutivo il suo programma, riforma costituzionale inclusa.

9 aprile. In un’anonima aula al quinto piano di Montecitorio si tiene in gran segreto il primo incontro fra Bersani e Berlusconi per parlare del Quirinale, organizzato dal coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini. I due leader, accompagnati da Letta jr. e Alfano, concordano sull’elezione di un presidente “condiviso” (da loro) e “super partes” (a parte le loro). L’indomani Berlusconi si fa intervistare da Repubblica, all’epoca considerata ancora ostile, e detta le sue condizioni per votare un presidente del Pd: un impegno contro “l’uso politico della giustizia”, cioè una bella amnistia. Napolitano continua a giurare che la sua rielezione sarebbe “un pasticcio ridicolo”.

16 aprile. Alle Quirinarie online fra gli iscritti 5Stelle vince il trio Milena Gabanelli-Gino Strada-Stefano Rodotà. Grillo, intervistato dal Fatto, invita il Pd a eleggere insieme la Gabanelli, dopodiché potrà nascere il governo col M5S, respinto sgarbatamente dai capigruppo Vito Crimi e Roberta Lombardi nel recente incontro in diretta streaming con Bersani: “Noi abbiamo alcune proposte come l’anticorruzione, la legge sul conflitto d’interessi e quella per l’ineleggibilità della Salma (Berlusconi, ndr). Bersani si prenda le sue responsabilità, sarebbe il primo passo per governare insieme”. Ma nessun dirigente del Pd lo degna di risposta. Su pressione di Napolitano, regge l’asse Bersani-Berlusconi sui nomi di Giuliano Amato o Sabino Cassese.

17 aprile. Dopo le rinunce di Gabanelli e Strada, Grillo lancia Rodotà: il giurista progressista, già presidente del Pds, è sostenuto anche da Sel e da ampi settori della base dem. Ma Bersani rivede Berlusconi, stavolta a casa di Enrico Letta. Rodotà è escluso in partenza. Il leader Pd ci prova con Sergio Mattarella, ma il Cavaliere lo stoppa, memore delle sue dimissioni contro la legge Mammì: il suo prediletto è Amato, che però rischia di spaccare il Pd. Così i due leader convergono su Franco Marini, che piace anche a Lega e Scelta civica. Il Cavaliere lo va a trovare nella sua casa ai Parioli per sapere che governo abbia in mente. La risposta è scontata: governo del Presidente, larghe intese, niente dialogo con Grillo, premier più probabile Letta jr..

18 aprile. Marini viene impallinato da 218 franchi tiratori, quasi tutti del Pd (renziani e non solo). La base si ribella ai vertici e invoca Rodotà contro l’inciucio con Berlusconi: nasce il movimento “Occupy Pd”.

19 aprile. L’assemblea dei grandi elettori del Pd, all’unanimità e per acclamazione, rompe l’asse con Berlusconi e candida Romano Prodi, da votare al quarto scrutinio (non più con i due terzi, ma solo con la maggioranza assoluta). Ma anche il Prof, nel segreto dell’urna, viene massacrato da almeno 101 cecchini del Pd. Principali indiziati: i renziani, i dalemiani e i fedelissimi di Napolitano. Bersani, delegittimato, annuncia che si dimetterà da segretario dopo l’elezione del capo dello Stato. Berlusconi gongola: l’asse Pd-5Stelle è definitivamente archiviato.

20 aprile. Tutti i leader dei vecchi partiti, da Bersani a Berlusconi, salgono in pellegrinaggio al Colle per “convincere” Napolitano al bis. Ma non ce n’è bisogno: il “pilota automatico” della Restaurazione non chiede di meglio. E nel pomeriggio Pd, Pdl e centristi lo rieleggono presidente. Sono le prove generali della “nuova” maggioranza di larghe intese. “Silvio ha parlato da statista”, fa trapelare Napolitano. “Meno male che Giorgio c’è”, canticchia a Montecitorio il Cavaliere. E si prepara a tornare nella maggioranza di governo, fresco delle condanne in primo grado per frode fiscale, corruzione di senatori e violazione di segreto e alla vigilia della sentenza Ruby per concussione e prostituzione minorile (senza contare otto prescrizioni per altri gravissimi reati). Dalla porta principale.

(26 continua)

“Silvio for president” Il Giornale tira la volata fino al Congresso Usa

Per la fortuna dei lettori, talvolta la corsa verso il Colle regala momenti di involontaria comicità. Merito soprattutto di un cavallo di razza della risata come Silvio Berlusconi, in questi giorni protagonista di una campagna elettorale che il “suo” Giornale porta avanti in spregio a ogni senso della misura.

Ieri, per esempio, il quotidiano diretto da Augusto Minzolini ha pensato bene di sequestrare due paginate per riprodurre fedelmente il discorso che Berlusconi pronunciò al Congresso americano il primo marzo 2006. Titolo: “Statista internazionale”. Ovvero: “Quando Berlusconi fu acclamato dal Congresso Usa come ospite d’onore”. Il tutto, secondo Il Giornale, trova attualità perché “nell’identikit del futuro presidente della Repubblica occorrerà anche una vasta esperienza internazionale e una rete di relazioni”, e d’altra parte Berlusconi a Washington “fu interrotto dagli applausi 18 volte in 25 minuti”.

Letta così viene quasi da crederci, ma basta fare un paio di ricerche online per rinsavire: il discorso di Silvio fu semmai il più megalomane degli spot elettorali, reso possibile dall’amicizia con George W. Bush.

È infatti l’inizio del 2006 quando Berlusconi, in crisi nei sondaggi e con le urne alle porte, tira fuori dal cilindro l’ospitata al Congresso. Uomini della diplomazia americana – si verrà a sapere grazie a Wikileaks – si scambiano messaggi preoccupati: bisogna essere “molto prudenti”, poiché Silvio “è imprevedibile” e “capace di grandi gaffe pubbliche”. Ma alla fine la passerella gli viene concessa e Berlusconi parla davanti al Congresso per poco meno di mezz’ora, infliggendo ai presenti una lenzuolata di buoni propositi sulla pace nel mondo (in italiano). Il colpo di teatro arriva alla fine. Silvio, fresco di trapianto di capelli, racconta in inglese di quando “alla fine degli studi liceali” fu portato dal padre “a visitare il cimitero dove riposavano molti giovani soldati americani” morti durante la Seconda guerra mondiale e lì giurò “eterna gratitudine” agli Usa.

Basta poco per fiutare qualcosa di strano. Il giornale americano In these times intercetta un paio di senatori annoiati. Il repubblicano Jim McDermott la butta lì: “Hanno riempito l’aula di stagisti”. Joe Shoemaker è più preciso: “C’erano forse 250 membri del Congresso, gli altri 300 posti li han riempiti con visitatori. Il senatore Durbin aveva come ospiti due proprietari di ristoranti di Chicago”. Intanto Silvio intrattiene i giornalisti italiani, racconta di quando “uno zio d’America” gli fece avere “il primo numero di Playboy”, poi, incalzato sulla visita al cimitero, cincischia: “Mio padre era un grande estimatore di De Gasperi e andava spesso a Roma da lui. Una volta portò anche me e l’indomani mi condusse al cimitero. Avevo vent’anni, era il 1956 o 1957”. Peccato che De Gasperi sia morto nel 1954, motivo per cui la storiella del cimitero verrà riproposta in diverse versioni nel corso degli anni. Nel 2008 per esempio, l’Ansa dà conto di una serata di gala con diplomatici americani in cui Silvio racconta di “quando suo padre, lui ancora piccolo, lo portò al cimitero militare di Nettuno”.

Oggi la visita al Congresso torna utile per bilanciare in chiave atlantica la notizia della telefonata con Vladimir Putin. E impreziosisce una galleria della propaganda quotidiana che sul Giornale sfiora l’Istituto Luce. A fine anno, con encomiabile sforzo di fantasia, Marco Gervasoni arriva a spiegarci che “il Cavaliere non è divisivo”: “La sua Italia è quella della maggioranza degli italiani”. E come fare a meno degli endorsement di Letizia Moratti e di Arrigo Sacchi (“Farebbe cose buone”), per non dire del commosso ricordo di Gianfranco Rotondi su “quando Berlusconi diede l’ok a 15 voti per Mattarella”. Antonio Tajani serve a ricordare che “Draghi deve restare al governo”, Andrea Cangini è addirittura apocalittico: “Draghi al Quirinale vorrebbe andarci. Ma sarebbe un rischio fatale per il Paese”. E poi c’è Minzolini, che non sa più come dirlo: siamo di fronte a “un’occasione unica che non va sprecata”. Certo, con un amico a Washington sarebbe più facile.

B. apre il derby con Draghi “Al quarto voto o lui o me”

Ha trasformato l’elezione del presidente della Repubblica in una campagna elettorale. Silvio Berlusconi si è candidato, conta le truppe e studia la strategia. L’ultima è la sfida aperta a Draghi: “O lui o me al quarto scrutinio” dice. Non solo: ha anche un programma elettorale. Ha studiato delle promesse da fare agli elettori (parlamentari e delegati regionali) e da rispettare una volta eletto. Non vengono espresse in comizi pubblici: vengono riferite ai peones per convincerli a scrivere “Berlusconi” sulla scheda.

La prima fa leva sul suo presunto “standing internazionale”. Dal Colle più alto Berlusconi sogna di ergersi a mediatore tra Usa e Russia. Lo ha detto, sentendosi già Capo dello Stato, anche il 31 dicembre all’amico Vladimir Putin nella telefonata per gli auguri di Capodanno: “L’Italia farà da mediatrice per la normalizzazione dei rapporti tra Russia e la Nato” ha detto Berlusconi allo zar di Mosca. Poi c’è la questione della squadra: il leader di FI va ripetendo a chi gli parla che, in caso di elezione, porterà al Quirinale solo persone “di alto profilo istituzionale”. Non ci sarebbero, dunque, i suoi avvocati né figure troppo legate a FI o troppo compromesse come Marcello Dell’Utri. Berlusconi porterebbe con sé Gianni Letta, con solidi legami coi poteri forti romani e come garante dei rapporti con gli altri partiti. Ma l’obiettivo – che ripete a chi è indeciso per il suo profilo “divisivo” – è anche quello di spogliarsi dalla casacca di leader di partito. Tant’è che negli auguri di fine anno si è rivolto agli italiani, senza riferimenti a FI. Poi promette di avviare “un percorso di pacificazione” senza colpi di mano sulla giustizia, tema che ha contraddistinto il ventennio berlusconiano. L’ultimo paradosso di un uomo che salirebbe al Colle con quattro processi in corso e allo stesso tempo sarebbe presidente del Csm.

Poi c’è la strategia: il leader azzurro vuole andare allo scontro con Draghi. Oltre a far sapere che in caso di elezione del premier FI farebbe “cadere il governo”, Berlusconi è convinto che Draghi si sia giocato tutte le chance di essere eletto al primo giro ed esclude di sostenerlo, almeno in partenza. Berlusconi vuole andare all’uno contro uno al quarto scrutinio. Un modo per sbarrare la strada al premier (che, dicono da FI, potrebbe ritirarsi prima) e fermare ogni “piano B” nel centrodestra. Se si arriverà allo scontro, alla fine ne resterà uno solo. E a quel punto, se sarà lui a decidere di cedere il passo, potrebbe essere lo stesso Berlusconi a intestarsi l’elezione al Colle dell’attuale premier.

“Al Quirinale una donna di sinistra”

Dacia Maraini, lei è la prima firmataria di un appello di intellettuali e artiste per il Quirinale: “È arrivato il tempo di eleggere una donna”. Bene, ma quale donna?

Non facciamo propaganda per una singola personalità. Vogliamo invece stabilire un principio: è il momento che sia una donna a rappresentare il vertice dello Stato.

Non intenderà dire che va bene una donna qualsiasi.

Sarebbe una sciocchezza, ovviamente si deve trattare di una persona di valore, competente e degna.

Mi dica almeno un nome, la sua candidata personale.

Uno no, ma gliene posso dire diversi, peraltro sono gli stessi che circolano sui mezzi di informazione. Rosy Bindi, Marta Cartabia, Emma Bonino, Anna Finocchiaro, Paola Severino, Roberta Pinotti. Sono tutte donne assolutamente all’altezza di questo onore e questa responsabilità.

Ne preferirebbe una di centrosinistra?

Penso sia normale, non esiste l’anonimato delle idee. Sono una donna di sinistra, vorrei al Colle una personalità di sinistra. Poi, ovviamente il capo dello Stato deve essere al di sopra delle parti, ma essere imparziali non significa non avere un pensiero e una storia personale.

La maggioranza parlamentare però è del centrodestra, magari con l’appoggio dei renziani, saranno loro a dare le carte.

E cosa faranno, davvero pensano di candidare Berlusconi? Sarebbe una scelta fuori dalla realtà. Un condannato per frode fiscale, con una lunghissima vicenda di accuse e di processi alle spalle. Non può diventare presidente. Destra e sinistra non c’entrano niente: è una questione di dignità di fronte al mondo intero. Oggi sono stata contattata da tre giornalisti spagnoli per parlare del nostro appello e sono esterrefatti all’idea che si parli davvero di Berlusconi al Quirinale.

Il vostro appello è rivolto a un Parlamento che finora non ha dato una brillantissima prova di sé e pare preoccupato soprattutto di sopravvivere. Si sente comunque di essere ottimista?

(Ride) Il mio ottimismo è un atto di volontà.

Molti eletti si appellano a Mattarella per un secondo mandato.

Sergio Mattarella è stato un eccellente presidente della Repubblica. Con Sandro Pertini, credo sia stato il migliore punto di riferimento su come si deve interpretare il ruolo. Penso che l’appello a Mattarella però sia legato soprattutto al desiderio che Draghi resti premier, un discorso che comprendo, visto il momento di crisi e il bisogno di stabilità. Ma il Parlamento non si deve perdere in piccoli giochi e minute strategie politiche, è il momento di una scelta coraggiosa.

Conte: un “tecnico” a Chigi . Ma Di Maio si sente in corsa

E poi c’è Luigi Di Maio. Il 5Stelle che sa stare ai tavoli, quello che già parlava con tutti e figurarsi ora in tempi di voto da Colle, il grillino che non è Giuseppe Conte e non deve agitarsi per dimostrarlo: “Gli basta stare fermo e lasciare spazio agli errori altrui” come sibila un big. Da Di Maio si dovrà passare per provare a evitare che i gruppi parlamentari del M5S si sfaldino sul Quirinale. Ma a lui si potrebbero avvicinare anche per cercare un’alternativa a Mario Draghi, cioè un presidente del Consiglio politico, opzione che nella maggioranza è sempre più invocata “perché se Draghi va sette anni al Quirinale non si potrà avere un tecnico anche a Palazzo Chigi” è – in sintesi – il pensiero di politici di vario ordine e peso.

Ma non di Conte, raccontano, che in queste ore ha ufficiosamente aperto al trasloco del premier al Colle. Al suo posto però preferirebbe un altro tecnico: possibilmente Daniele Franco, attuale ministro dell’Economia. “Un governo guidato da un politico potrebbe essere un grande problema” dice tutto d’un fiato una fonte contiana. Anche se resta grande la confusione sotto al cielo del M5S. Ieri, per dire, sul Piccolo il contiano doc Stefano Patuanelli ha insistito sull’esigenza di eleggere “una donna”, mantra che dal M5S ripetono da giorni anche per placare i gruppi parlamentari, timorosi che l’elezione di Draghi implichi un voto anticipato. Non a caso, in serata, i senatori si sono riuniti e in diversi hanno evocato un bis di Sergio Mattarella. Alcuni no, dritti, a Draghi. Non solo. “Abbiamo chiesto che i capigruppo partecipino alla scelta del presidente della Repubblica” trapela. In sostanza, un altro rilievo al leader del M5S (che i capigruppo, va detto, li consulta). Vista l’aria, per tenere tutto e tutti assieme servirebbe un accordo tra i partiti sul Quirinale e sul Colle, tenendo fuori dalla partita Silvio Berlusconi, il primo problema per Conte come per Enrico Letta.

Lo ha ribadito ieri il Pd, con un secco no al tavolo di tutti i leader proposto da Matteo Salvini: “Finché il centrodestra ha una posizione ufficiale attorno a Berlusconi, il dibattito resta congelato”. Ma il dibattito sì, servirebbe, perché senza un patto su un nuovo governo, portare Draghi al Quirinale diventerebbe complicato (e sarebbe la migliore delle notizie per Berlusconi). Da qui si ritorna a Di Maio, ultimamente parco di dichiarazioni e uscite pubbliche. “Ora è troppo presto, i giochi si fanno negli ultimi giorni” ripete da settimane ai tanti peones che gli chiedono lumi su Quirinale e destino del governo. Tra il ministro e Conte c’è un educato gelo. Anche se entrambi ritengono che la candidatura di Berlusconi possa far sbandare il centrodestra. Tutti e due avrebbero preferito un nome alternativo a Draghi. Ma tutti e due sanno che “lì si sta precipitando”, come conferma un big. Così Di Maio sente quelli che contano nei partiti, spesso. Osserva la partita, e gioca anche di silenzio. Sa che sta montando la spinta trasversale per un governo guidato da un politico. E sa che il suo nome è inevitabilmente sul tavolo come alternativa a Draghi, se non altro perché il M5S resta il partito di maggioranza relativa in Parlamento. “In caso bisognerebbe partire da loro, dai 5Stelle” confermano varie fonti dem. Anche se Dario Franceschini è in lizza, e Giancarlo Giorgetti è un nome da non dimenticare. Poi c’è Di Maio: ormai in confidenza con molti dei maggiorenti del Pd, forte di ottimi contatti in Forza Italia.

Conte dovrebbe comunque appoggiarlo, ovvio, e il corpaccione del M5S lo voterebbe senza sforzarsi. Certo, poi ci sono gli ostacoli, di quelli grossi: buona parte della Lega, parte del Pd, la variabile Matteo Renzi. Ma tutto è fluido, tutto si muove. E Di Maio c’è.

Milano, arrestato il rapper Escomar

La poliziadi Stato ha arrestato a Milano il rapper italo-marocchino Escomar, nome d’arte di Omar Bayouda, 22 anni. Il giovane, che conta quasi 400mila ascoltatori mensili sulla piattaforma di streaming musicale Spotify, deve scontare sette anni dopo una condanna del Tribunale di Monza per piccole rapine, commesse nel 2013 e 2014 nella provincia lombarda. Escomar è stato arrestato il primo gennaio, dopo che i suoi dati sono stati registrati in un bed and breakfast dove ha pernottato, a Milano: appena le informazioni sono state inserite nel sistema, in Questura è arrivata una notifica che ha avviato l’intervento delle forze dell’ordine.

Morte di Homonnay, Roma apre l’inchiesta

Il pmLuca Guerzoni ha aperto un fascicolo sulla morte di Gergely Homonnay, 52enne scrittore ungherese trovato senza vita la mattina del primo gennaio in un club privato nel quartiere San Giovanni, a Roma. Secondo la Procura, il decesso di Homonnay sarebbe avvenuto “come conseguenza di altro reato”: accanto al suo corpo sarebbero state trovate tracce di sostanze sia liquide che in polvere. Oggi verranno effettuati l’autopsia e gli esami tossicologici, mentre è stato sequestrato lo smartphone dell’uomo per capire chi potrebbe avergli venduto i presunti stupefacenti. Homonnay era noto per il suo impegno a favore della comunità Lgbt.

Drogò coppia e stuprò lei: chiesto il giudizio

La Procuradi Milano ha chiesto il processo con rito abbreviato per Omar Confalonieri, l’agente immobiliare accusato di violenza sessuale, sequestro di persona e lesioni nei confronti di una coppia, marito e moglie, interessata alla compravendita di un immobile: dopo aver narcotizzato i due con dosi massicce di benzodiazepine, Confalonieri avrebbe abusato della donna, lo scorso 2 ottobre. Nelle scorse settimane la Procura ha ascoltato altre quattro donne, che avrebbero subìto violenze con modalità simili da parte dell’agente immobiliare. L’uomo era già stato condannato per un fatto analogo a Monza, nel 2009.

Pedri prima di sparire: ‘Io morta che cammina’

“Questa voltanon ce la farò”. E ancora: “Sono un morto che cammina”. Sono alcuni degli ultimi pensieri che Sara Pedri, la ginecologa di 32 anni sparita il 4 marzo, ha affidato al suo pc pochi giorni prima di essere trasferita dall’ospedale di Trento a quello di Cles da cui si era dimessa 24 ore prima di scomparire. Oltre 20mila pagine di messaggi WhatsApp e ricerche web analizzate dalla psicologa Gabriella Marano, incaricata dalla famiglia di verificare la sussistenza di un nesso tra le possibili vessazioni subite in ospedale e la scomparsa. In tutto 119 pagine di perizia che l’avvocato della famiglia, Nicodemo Gentile, ha depositato in procura a Trento che ha indagato per maltrattamenti l’ex primario di ginecologia del Santa Chiara, Saverio Tateo e la sua vice Liliana Mereu.