2013, 24-25 febbraio. Alle elezioni il Pdl guidato da Berlusconi perde 6,5 milioni di voti. Ma il Pd, malgrado la promessa del segretario Pier Luigi Bersani, non riesce a “smacchiare il Giaguaro”: dissanguato dalle politiche antisociali di Monti, lascia per strada 3,5 milioni di voti, pareggia con i 5Stelle (passati da zero al 25,5%) e incassa il premio di maggioranza del Porcellum solo grazie all’alleanza con Sel. Ma non ha i numeri per governare. È quel che sperava Napolitano, che ha già in mente la riedizione delle larghe intese montiane appena bocciate dagli elettori, per tagliare fuori l’unico vincitore: il M5S. Infatti incaricherà “con riserva” (cioè a condizione di una maggioranza numerica solida) Bersani per il nuovo governo, già sapendo che fallirà col suo progetto spericolato di un governo di minoranza Pd-Sel sostenuto dalle astensioni dell’ala moderata del M5S.
7 marzo. Il presidente della Bce, Mario Draghi, ostenta tranquillità sul dirompente risultato elettorale: “Gran parte delle misure di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico”. Berlusconi viene condannato a Milano a 1 anno di reclusione per violazione del segreto con la telefonata Fassino-Consorte passata al Giornale nel 2005. Il gup di Palermo Piergiorgio Morosini rinvia a giudizio Dell’Utri e gli altri imputati per la trattativa Stato-mafia.
11 marzo. Berlusconi precetta 150 fra deputati e senatori appena eletti e li fa sfilare sulla scalinata del Tribunale di Milano per protestare contro i giudici che stanno concludendo il processo Ruby. Una scena degna del film di Nanni Moretti Il Caimano. Che però non c’è: è ricoverato da giorni al San Raffaele per un’uveite: una forma di congiuntivite curabile con un banale collirio che i suoi medici e i suoi legali ritengono ostativa alla sua presenza alle udienze. Ma i giudici del processo Mediaset non hanno abboccato e hanno proseguito senza di lui. Alla fine i neoparlamentari, compreso il segretario Alfano, irrompono in tribunale per presidiare l’aula del processo Ruby, dove i giudici devono ancora decidere sull’impedimento oculistico. E, sotto quella pressione, lo accolgono, rinviando la requisitoria di Ilda Boccassini. L’indomani Napolitano riceve Alfano, Gasparri e Cicchitto che, reduci dalla gazzarra milanese, gli esprimono allarme per “l’accanimento giudiziario” e l’“emergenza democratica”. Poi convoca il vertice del Csm per invitare i magistrati a evitare “tensioni destabilizzanti” prolungando la tregua elettorale. Detto, fatto: i processi a Berlusconi sono rinviati fino al 20 aprile, cioè a dopo il voto per il Quirinale.
26 marzo. Nel secondo processo d’appello, la Corte di Palermo ricondanna Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
30 marzo. Bersani non può sciogliere la riserva perché i 5Stelle non vogliono donargli i loro voti “gratis” e lui non vuole chiederli a Berlusconi. Napolitano congela la crisi fino all’elezione del suo successore (che sarà sempre lui). E nomina dieci “saggi” per dettare al futuro esecutivo il suo programma, riforma costituzionale inclusa.
9 aprile. In un’anonima aula al quinto piano di Montecitorio si tiene in gran segreto il primo incontro fra Bersani e Berlusconi per parlare del Quirinale, organizzato dal coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini. I due leader, accompagnati da Letta jr. e Alfano, concordano sull’elezione di un presidente “condiviso” (da loro) e “super partes” (a parte le loro). L’indomani Berlusconi si fa intervistare da Repubblica, all’epoca considerata ancora ostile, e detta le sue condizioni per votare un presidente del Pd: un impegno contro “l’uso politico della giustizia”, cioè una bella amnistia. Napolitano continua a giurare che la sua rielezione sarebbe “un pasticcio ridicolo”.
16 aprile. Alle Quirinarie online fra gli iscritti 5Stelle vince il trio Milena Gabanelli-Gino Strada-Stefano Rodotà. Grillo, intervistato dal Fatto, invita il Pd a eleggere insieme la Gabanelli, dopodiché potrà nascere il governo col M5S, respinto sgarbatamente dai capigruppo Vito Crimi e Roberta Lombardi nel recente incontro in diretta streaming con Bersani: “Noi abbiamo alcune proposte come l’anticorruzione, la legge sul conflitto d’interessi e quella per l’ineleggibilità della Salma (Berlusconi, ndr). Bersani si prenda le sue responsabilità, sarebbe il primo passo per governare insieme”. Ma nessun dirigente del Pd lo degna di risposta. Su pressione di Napolitano, regge l’asse Bersani-Berlusconi sui nomi di Giuliano Amato o Sabino Cassese.
17 aprile. Dopo le rinunce di Gabanelli e Strada, Grillo lancia Rodotà: il giurista progressista, già presidente del Pds, è sostenuto anche da Sel e da ampi settori della base dem. Ma Bersani rivede Berlusconi, stavolta a casa di Enrico Letta. Rodotà è escluso in partenza. Il leader Pd ci prova con Sergio Mattarella, ma il Cavaliere lo stoppa, memore delle sue dimissioni contro la legge Mammì: il suo prediletto è Amato, che però rischia di spaccare il Pd. Così i due leader convergono su Franco Marini, che piace anche a Lega e Scelta civica. Il Cavaliere lo va a trovare nella sua casa ai Parioli per sapere che governo abbia in mente. La risposta è scontata: governo del Presidente, larghe intese, niente dialogo con Grillo, premier più probabile Letta jr..
18 aprile. Marini viene impallinato da 218 franchi tiratori, quasi tutti del Pd (renziani e non solo). La base si ribella ai vertici e invoca Rodotà contro l’inciucio con Berlusconi: nasce il movimento “Occupy Pd”.
19 aprile. L’assemblea dei grandi elettori del Pd, all’unanimità e per acclamazione, rompe l’asse con Berlusconi e candida Romano Prodi, da votare al quarto scrutinio (non più con i due terzi, ma solo con la maggioranza assoluta). Ma anche il Prof, nel segreto dell’urna, viene massacrato da almeno 101 cecchini del Pd. Principali indiziati: i renziani, i dalemiani e i fedelissimi di Napolitano. Bersani, delegittimato, annuncia che si dimetterà da segretario dopo l’elezione del capo dello Stato. Berlusconi gongola: l’asse Pd-5Stelle è definitivamente archiviato.
20 aprile. Tutti i leader dei vecchi partiti, da Bersani a Berlusconi, salgono in pellegrinaggio al Colle per “convincere” Napolitano al bis. Ma non ce n’è bisogno: il “pilota automatico” della Restaurazione non chiede di meglio. E nel pomeriggio Pd, Pdl e centristi lo rieleggono presidente. Sono le prove generali della “nuova” maggioranza di larghe intese. “Silvio ha parlato da statista”, fa trapelare Napolitano. “Meno male che Giorgio c’è”, canticchia a Montecitorio il Cavaliere. E si prepara a tornare nella maggioranza di governo, fresco delle condanne in primo grado per frode fiscale, corruzione di senatori e violazione di segreto e alla vigilia della sentenza Ruby per concussione e prostituzione minorile (senza contare otto prescrizioni per altri gravissimi reati). Dalla porta principale.
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