Gronda di Genova, Toti & C. in rivolta ma lo stop è vecchio

L’ultima uscita di Danilo Toninelli sulla gronda genovese, opera da 4,6 miliardi, scatena le polemiche. L’iter autorizzativo per l’opera, che deve essere realizzata da Autostrade per l’Italia dei Benetton, “è sospeso perché è in corso di avanzamento il procedimento amministrativo che potrebbe portare alla revoca della concessione” di Aspi, ha il ministro delle Infrastrutture e trasporti Danilo Toninelli ieri. Subito è arrivata la protesta del governatore ligure Giovanni Toti (FI), che definisce “incredibile che sia ministro delle Infrastrutture qualcuno che le infrastrutture non le vuole fare”, dell’ex viceministro per le infrastrutture leghista Edoardo Rixi (“dica apertamente che è favorevole e che troverà un modo di farla anche senza Aspi”) e pure dei sindacati. La realtà, però, è che non ci sono novità. Fonti del Mit hanno spiegato che “l’iter del progetto non era affatto concluso e andava bollinato il Piano economico finanziario aggiuntivo della concessione Aspi, che contemplava l’investimento nella gronda”. Il progetto, approvato dal governo Gentiloni, prevedeva peraltro che fosse finanziato con un prolungamento di 4 anni della concessione. Ipotesi impraticabile, visto lo scontro in atto dopo il disastro del Morandi.

La Appendino resta in sella (per adesso)

Pericolo scampato. Chiara Appendino resta sindaco di Torino e nomina il suo nuovo vice: Sonia Schellino, 53 anni, già assessore alle Politiche sociali. Ma la sopravvivenza della giunta M5S non era scontata ieri sera all’inizio della riunione di maggioranza: “Può succedere di tutto”, sussurrava qualche consigliere. Chissà se fosse vero pericolo o piuttosto il tentativo di far sentire il fiato sul collo alla sindaca e strapparle qualche concessione in più a favore dell’ala movimentista dei Cinque Stelle. I toni sono stati pacati.

É finita con una nota di ottimismo: “Abbiamo ricostruito il dialogo”, assicura Appendino. “Una gran bella riunione”, conferma anche Viviana Ferrero, fra i consiglieri più polemici. “La sindaca era positiva per trovare una strada comune”. Anche se – come aggiunto dalla prima cittadina – “abbiamo condiviso anche il nome del nuovo assessore all’urbanistica, ma per questo ci prenderemo qualche giorno in più, rimandando a lunedì il dialogo sugli aspetti politici sui temi che risultano essere ancora oggi divisivi.” Insomma, non proprio tutti i nodi sembrano risolti. Di sicuro siamo lontani anni luce dai sondaggi bulgari dei primi mesi del mandato, quando Appendino guidava la classifica dei sindaci. Poi qualcosa si era rotto, forse lo spartiacque è stata la tragedia di piazza San Carlo, in occasione della finale Champions. Nelle ultime settimane ecco il pasticciaccio del Salone dell’Auto. Le dichiarazioni del vicesindaco Guido Montanari, presto defenestrato. “C’è stata una drammatizzazione incomprensibile”, sostiene Bruno Babando che cura il sito di informazione politica lospiffero. Aggiunge: “Pochi credono davvero che il Salone sia emigrato a Milano per colpa delle parole di Montanari”. Eppure il numero due della giunta, con delega all’Urbanistica, è saltato. Lasciando Appendino scoperta verso l’ala movimentista. Lunedì se n’è andata la consigliera Marina Pollicino. Il margine della maggioranza grillina si è assottigliato: due voti più quello della sindaca. Pochi per governare tranquilli, visto lo scontento evidente di altri consiglieri.

La sindaca sta lanciando segnali di mediazione con la nomina del nuovo vicesindaco (scelto tra i vecchi assessori) e l’individuazione del futuro assessore all’Urbanistica. Ma la stessa Valentina Sganga, capogruppo in Comune, prima della riunione evitava facili entusiasmi: “Stasera ce la facciamo, ma la vera prova verrà con il tempo. Quando saranno affrontate questioni concrete e importanti per la gente”. Un primo esame è già lunedì, quando in consiglio si voterà sul motovelodromo, un progetto che potrebbe ridare fiato a chi accusa Appendino di non rompere con il passato.

A pesare, dicono in tanti in città, potrebbero essere state considerazioni non solo politiche. C’è il fattore umano, come nel caso di Flavio Versaci, da sempre vicino ad Appendino. Eppure il consigliere M5S non ha risparmiato attacchi alla sindaca. “Non è stato giusto liquidare così Montanari”. Motivi personali, come quella stanchezza della sindaca, che secondo qualcuno l’avrebbe spinta a forzare la situazione. Ma ci sono due elementi da considerare. Il primo torinese: se Appendino cade, si deve far ricorso al Commissario. Partiti e consiglieri rinuncerebbero al palco del Comune per molti mesi e la città resterebbe paralizzata. Il secondo è nazionale: data per persa da molti Roma, i 5 Stelle sentono di non potersi permettere un flop a Torino.

A Roma c’è già la Ryder Cup: niente Europei di nuoto 2022?

Il sogno di vedere il grande nuoto a Roma rischia di finire prima di cominciare. Il Comune vuole gli Europei 2022, Raggi ha firmato la candidatura. C’è un piccolo dettaglio però che può diventare ostacolo insormontabile: nel 2022 a Roma ci sarà già la Ryder Cup di golf. E l’Italia si è impegnata formalmente a non ospitare altri eventi sportivi nello stesso periodo.

Della Ryder si ricordano tutti: manifestazione planetaria, polemiche infinite sui 60 milioni stanziati (anzi, nascosti) in manovra dal governo Pd. In pochi sanno, invece, che all’interno dell’accordo sottoscritto con la società organizzatrice c’è una clausola che impedisce al nostro Paese di ospitare altri tornei che potrebbero “avere un impatto sul successo pubblico e mediatico” della manifestazione, nei 6 mesi precedenti e successivi. E gli Europei di nuoto rientrano nella categoria: di solito si tengono in estate, la Ryder è a settembre.

È una clausola di non concorrenza. Il contratto prevede spiragli: l’Italia dovrebbe dimostrare che non c’è impatto sul golf. Ma gli inglesi sono gelosi del loro torneo, sarà difficile convincerli che un altro evento internazionale (di una disciplina per altro molto più popolare nel nostro Paese) non avrebbe conseguenze. Si rischiano penali, addirittura la revoca. Dettaglio dimenticato o sottovalutato, comunque non potrà essere trascurato da Palazzo Chigi, che già aveva accolto freddamente l’annuncio (anche per i costi: 16 milioni). La sindaca Raggi e il presidente della Federnuoto Barelli credono nella candidatura: la partenza, però, è già in salita.

Tav, l’ultima mossa di Conte Toninelli tratterà con Parigi

L’indicazione è arrivata da Palazzo Chigi, da Giuseppe Conte in persona: cercare un’ultima mediazione con la Francia per provare a risolvere in qualche modo la grana Tav. Il destinatario è il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli (M5S), a cui il premier ha chiesto nei giorni scorsi di incontrare l’omologa francese Élisabeth Borne per “sondare” la disponibilità di Parigi. Toninelli non ha perso tempo, concordando un confronto che sulla carta è ad ampio raggio e riguarderà tutti i dossier infrastrutturali che interessano i due Paesi (l’ultima grana è il nuovo tunnel di Colle di Tenda). Ma il piatto forte, almeno nelle intenzioni dell’Italia, sarà proprio il futuro della Torino-Lione. Il confronto dovrebbe avvenire nei prossimi giorni, ma potrebbe anche risolversi in un colloquio telefonico.

Ammesso che il governo sopravviva all’estate, a settembre la bomba Tav deflagrerà e con esso i malumori interni ai 5Stelle. Le “manifestazioni di interesse” per i lavori del tunnel su entrambi i fronti sono partite. A maggio scorso Telt, la società italo-francese incaricata di realizzare l’opera, ha dato il via alle procedure dal lato italiano; a marzo era toccato agli avis de marchés per i lavori dal lato francese (2,3 miliardi). Per questi ultimi si è chiusa la fase di pre qualifica e ora Telt stilerà l’elenco delle aziende che hanno i requisiti per presentare le offerte. In settembre sarà avviata la seconda fase della gara: saranno pubblicati i capitolati d’appalto e partirà la procedura per scegliere i vincitori. Il progetto Tav sta andando avanti e non fare nulla equivale a un via libera.

Presentando l’analisi costi-benefici degli esperti del ministero sul Tav (che stronca l’opera), a inizio marzo Conte spiegò di essere contrario all’opera e “se avessimo dovuto cantierarla oggi direi no”, contestando la disparità di costi per un tunnel pagato per due terzi dall’Italia (al netto del contributo Ue) pur essendo per due terzi in territorio francese. Ma purtroppo per il M5S anti-Tav il progetto è regolato da un trattato internazionale.

La contrarietà del premier ha dovuto scontrarsi con una realtà molto complicata e con l’ostracismo francese. Il presidente Emmanuel Macron, che non ha mai amato l’opera, ne ha parlato solo in un mini-vertice bilaterale il 22 marzo a margine del Consiglio europeo, risolto con un nulla di fatto e qualche sgarbo a mezzo stampa (“è un problema solo italiano”, disse a fine vertice). Nel frattempo Iveta Radicova, coordinatrice europea del Corridoio mediterraneo (che include il Tav), ha annunciato che Bruxelles è pronta ad alzare dal 40 al 55 per cento il contributo europeo all’opera, anche se la decisione spetterà alla nuova Commissione, che ancora non è neppure insediata, e con una procedura, come ha spiegato Toninelli, che durerebbe almeno un paio d’anni.

L’incontro Toninelli-Borne è considerato da Conte l’ultimo tentativo possibile dopo il flop del dialogo con Macron. Il ministro pentastellato dovrà sondare la disponibilità francese a interrompere l’opera, ipotesi assai improbabile, o quantomeno a ridiscutere gli impegni finanziari per riequilibrare i costi a carico dei due Paesi. L’unica arma in mano all’Italia – considerato che non ci sono i numeri in Parlamento per stracciare il trattato – è la mancanza di garanzie sui finanziamenti. Parigi infatti non ha ancora stanziato i fondi per i lavori (a differenza dell’Italia) e mancano ancora buona parte di quelli europei. La promessa francese di aumentare il proprio contributo permetterebbe almeno a Conte di mostrare un risultato.

L’Agenzia del Demanio denuncia CasaPound: “Abusivi, sfrattateli”

Anche l’Agenziadel Demanio si accoda al coro di richieste per sfrattare CasaPound. E non è un atto da nulla, visto che l’Agenzia legata al ministero dell’Economia è anche la legittima proprietaria dell’immobile occupato abusivamente dai cosiddetti “fascisti del Terzo millennio”. Dopo anni di inerzia, è stata depositata in Procura a e su carta bollata l’esposto che chiede di avviare la procedura di sgombero. Il palazzo al numero 8 di via Napoleone III, nel cuore dell’Esquilino a Roma, originariamente affidato al ministero dell’Istruzione, è occupato dal 2003 ed è diventato uno dei simboli dell’estrema destra romana. Vale circa 12 milioni di euro, e infatti il Demanio, oltre alla richiesta di sfratto, allega una richiesta di risarcimento danni milionari per tutti gli anni di morosità. Anche perché gli abitanti dello stabile non sono affatto nullatenenti, come scoperto da una recente inchiesta dei pm contabili. Il passo formale da parte dell’Agenzia dovrebbe servire a far salire il caso CasaPound in cima alla lista di priorità degli sgomberi.

Era contro il bavaglio di B., Bongiorno ora vuole la stretta sulle intercettazioni

Chi si fosse distratto un po’ negli ultimi mesi forse la ricorda ancora come argine alla legge bavaglio di Berlusconi. Era il 2011 e Giulia Bongiorno, all’epoca deputata dei finiani di Fli, si batteva contro il ddl Intercettazioni voluto dall’allora presidente del Consiglio, una imponente stretta sulla possibilità di intercettare gli indagati e sulla libertà della stampa di pubblicare le trascrizioni.

Tempo di girarsi un attimo dall’altra parte e oggi, otto anni dopo, ritroviamo la Bongiorno controparte in un’altra trattativa sulle intercettazioni, questa volta in rappresentanza della Lega. I ruoli, rispetto al 2011, sono ribaltati: se allora l’avvocata era il baluardo in difesa dell’informazione, oggi i negoziati con il Guardasigilli 5 Stelle Alfonso Bonafede la indicano come sponsor di nuovi limiti alla pubblicazione delle telefonate. Il ministro della Giustizia lo ha spiegato in un’intervista al Fatto il mese scorso: “Con me non ci sarà alcun bavaglio. Il diritto all’informazione non può essere limitato”. Posizioni diverse da quelle sostenute dalla Bongiorno, che nei giorni scorsi ha sottolineato la necessità di una “riforma sulle intercettazioni”: “Occorre evitare la pubblicazioni dei verbali nelle fasi precoci del procedimento”, ha detto, auspicando anche sanzioni per le cosiddette “intercettazioni gossip”.

E così tornano alla mente quelle lotte di quasi dieci anni fa. A tener banco c’erano le pretese di Berlusconi, inguaiato ora dal caso Noemi Letizia ora dallo scandalo Ruby. Ne uscì un disegno di legge che superò la Camera blindato dalla fiducia, prima di impantanarsi tra il Senato e la successiva lettura a Montecitorio.

Il testo, oltre a rendere più difficile l’utilizzo delle intercettazioni, aveva una ampia ricaduta sulla stampa: un emendamento a firma del pdl Manlio Contento prevedeva infatti il carcere (da sei mesi a tre anni) per i giornalisti che avessero pubblicato “intercettazioni irrilevanti”. Non solo: il progetto stabiliva l’assoluto divieto di pubblicazione (anche solo del riassunto del contenuto, senza la trascrizione esatta) fino all’udienza filtro, ovvero quella a conclusione delle indagini preliminari. Condizioni all’epoca ritenute inaccettabili dalla Bongiorno, che nell’ottobre 2011 si dimise in polemica dalla Commissione Giustizia, oltreché da relatrice del testo: “Non sarò la relatrice di quest’obbrobrio”, disse, dicendosi “irritata” per come la nuova riforma, ormai lontanissima dalla iniziale mediazione tra lei e Angelino Alfano, avrebbe causato “un black out dell’informazione”.

La riforma, anche per l’opposizione della Bongiorno e dei finiani, che si unì a quella della sinistra e della stampa, non arrivò mai all’approvazione. Ma certe tentazioni, pur con lo scorrere degli anni, non passano mai di moda: cambiano solo riferimenti politici.

Silvio padrone dell’Avanti? A rischio le concessioni tv

Dopo un forte legame in passato, i rapporti tra Valter Lavitola e l’ex premier Silvio Berlusconi sembrano essere davvero ai ferri corti. Tanto che l’ex faccendiere l’8 luglio scorso ha avviato una mediazione davanti all’organismo forense di Roma, il cui chiamato in causa è proprio “Silvio Berlusconi”. Nell’atto, in sostanza, Lavitola sostiene di essere stato un mandatario dell’ex premier, in particolare per i fatti de L’Avanti!, il quotidiano di area socialista di cui Lavitola è stato editore e anche direttore. Proprio per la truffa legata al giornale (per la quale l’ex faccendiere è stato condannato con sentenza definitiva), la Corte dei conti del Lazio nel 2015 ha chiesto a Lavitola, all’ex senatore Sergio De Gregorio e alla società editrice della testata, 23 milioni di euro affinché venga risarcita la presidenza del Consiglio per i contributi all’editoria percepiti indebitamente dal 1997 al 2009.

Ed è con questa spada di Damocle sulla testa che Lavitola oggi ha riprovato a ricominciare: lontano dalla politica, si è dato alla ristorazione aprendo un ristorante di pesce nella zona romana di Monteverde. Nella nuova vita dell’ex faccendiere però il passato torna spesso a bussare, vuoi per tutti i guai giudiziari in cui si è cacciato che si stanno ancora dibattendo nelle aule di giustizia, vuoi per la grana ancora aperta per L’Avanti!.

Il quotidiano fondato nel 1996, inizialmente viene pubblicato da Sergio De Gregorio, il senatore dell’Italia dei Valori che ha patteggiato un anno e otto mesi di reclusione per aver intascato 3 milioni di euro da Berlusconi per passare dal centrosinistra al centrodestra votando la sfiducia al governo Prodi nel 2008.

È questa peraltro una delle vicende che lega Lavitola a Berlusconi: i due, per questa che fu denominata “Operazione Libertà”, sono stati condannati in primo grado a luglio 2015 a tre anni di reclusione ciascuno. In Appello però è stata dichiarata per entrambi la prescrizione, confermata poi in Cassazione, dove peraltro il reato è stato riqualificato in corruzione impropria.

Non è andata così bene a Lavitola per i fatti de L’Avanti!, dove è stato condannato a 3 anni e 8 mesi con sentenza passata in giudicato. In questo caso l’indagine riguardava la truffa ai fondi all’editoria, ossia quei circa 23 milioni di euro concessi al quotidiano socialista dal 1997 al 2009: secondo l’accusa, facendo ricorso a fatture per operazioni inesistenti e a documenti che attestavano, contrariamente al vero, che la società editrice, la International Press, possedeva i requisiti di tiratura delle copie vendute.

Il Dipartimento per l’Editoria sarebbe stato indotto in errore in quanto erano state comunicate vendite in blocco o mediante strillonaggio del quotidiano, in realtà mai effettuate. Imputati quindi De Gregorio e Lavitola che ha patteggiato 3 anni e 8 mesi per i reati di truffa aggravata ai danni della presidenza del Consiglio; bancarotta fraudolenta ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Su questo, poi, è intervenuta anche la Corte dei conti del Lazio, che ha consegnato ai due un conto salato: 23 milioni di euro da risarcire alla presidenza del Consiglio.

Nel dispositivo, i giudici contabili spiegano che “le prove raccolte in sede di istruttoria di responsabilità circa l’illecita percezione dei contributi da parte della International Press scarl dimostrano il ruolo di ‘cartiere’ di società riconducibili sia a Lavitola sia a De Gregorio”.

In particolare – continuano i lanci di agenzia che riportarono stralci della sentenza – è emersa “la fittizietà dei servizi di strillonaggio allo scopo di aumentare la diffusione del quotidiano, nonché la formazione di fatture false per operazioni inesistenti sia, ovviamente, per sostenere e avallare la richiesta della contribuzione pubblica ma anche al fine dell’evasione fiscale da parte dell’Inps che otteneva la riduzione degli oneri fiscali computando le fatture relative ad operazioni inesistenti al reddito imponibile”.

L’Avanti! quindi a oggi, a distanza di anni, diventa una questione centrale nella causa di mediazione proposta lo scorso 8 luglio da Lavitola contro Silvio Berlusconi, con l’ex faccendiere che sostiene di essere stato un tuttofare dell’ex premier. Non solo. Sulla stessa linea potrebbe muoversi anche lo stesso De Gregorio, rivolgendosi alla magistratura. Obiettivo: far emergere che Silvio Berlusconi fosse il vero proprietario del quotidiano socialista. In caso di riscontro positivo (e siamo nel campo delle ipotesi), l’intenzione dei protagonisti è di arrivare addirittura alla sospensione cautelativa delle concessioni tv di Mediaset, per gli effetti del divieto di incrocio tra carta stampata e televisioni della legge Gasparri.

Il vicepremier: Savoini non ha chiesto nulla, così mi hanno detto

La giornataera stata lunga e piena di impegni e dichiarazioni, ma a sera Matteo Salvini dà una piccola notizia: per la prima volta dalla diffusione dell’audio dell’incontro in ottobre a Mosca tra Gianluca Savoini, due faccendieri italiani e tre misteriosi russi per un presunto traffico di petrolio da cui far uscire finanziamenti illeciti per la Lega, il vicepremier – pur difendendo il suo ex portavoce – ammette di avergli chiesto conto di cosa è successo nel famigerato hotel Metropol. “Savoini è stato massacrato come Siri, Rixi e Garavaglia. È stato messo in frullatore mediatico – dice Salvini a una festa della Lega a Barzago (Lecco) – Mi è sempre stato detto che non è stato fatto nulla fuori posto, che non è stato chiesto e ottenuto nulla. E quindi io mi fido della buona fede delle persone fino a prova contraria”. Insomma, Salvini ha chiesto lumi e gli è stato risposto che non è vero nulla. D’altra parte è impossibile che il vicepremier non sapesse nulla di quell’appuntamento visto che Fabrizio Candoni, ex presidente di Confindustria Russia, ha dichiarato: “Ero con Salvini a Mosca il giorno prima dell’incontro al Metropol. Non mi ricordo se me lo ha chiesto Salvini o uno dei suoi, ma io gli ho sconsigliato di partecipare”.

Von der Leyen: “Italia, vigilerò sui conti. Dublino da riformare”

Sui conti ci sarà “un monitoraggio” dell’Italia, mentre sui migranti è necessario “rivedere l’accordo di Dublino”. La nuova presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha rilasciato ieri un’intervista a vari giornali europei, citando alcuni dei temi più delicati per il nostro Paese. Riguardo ai conti pubblici, Von der Leyen ribadisce la necessità di garantire gli investimenti rispettando però i vincoli europei: “La Commissione attuale ha deciso di non aprire una procedura d’infrazione eccessiva. Questa Commissione monitorerà molto da vicino la situazione in Italia come in altri Paesi. Il nostro obiettivo è di riuscire a investire per stimolare la crescita senza contravvenire alle regole esistenti”. Come il Patto di Stabilità, ad esempio: “Contiene opzioni di flessibilità che dovremmo usare senza ledere le regole, che restano necessarie”. Più netta invece, sul tema immigrazione, la lontananza dalle norme attuali: ”Ciò che vuole l’Italia, principalmente, è una riforma del sistema disfunzionale di Dublino. E devo ammettere che mi meraviglia come un accordo così sbagliato possa essere stato firmato”.

Renzi e Boschi in soccorso del governo: mozione di sfiducia per ricompattarlo

La giornata del Partito democratico è concitata, confusa, con la tensione che cresce via via che avanzano le ore. Telefonate, colloqui, contatti per capire se davvero la Lega ha intenzione di far cadere il governo. E che cosa dovrà fare il Pd a quel punto (ammesso che abbia lo spazio per farlo). Ma nel frattempo, non mancano né le mosse in varie direzioni, né le guerre interne.

Comincia Maria Elena Boschi, in mattinata. “Salvini fugge dal Parlamento. Il M5S tiene come sempre i piedi in due staffe. C’è solo un modo per essere seri: presentare oggi stesso una mozione di sfiducia a Salvini alla Camera. Così scopriremo finalmente che cosa dirà Salvini e come voteranno i grillini”, twitta la Boschi, rilanciata da Matteo Renzi, tanto per chiarire che il sodalizio tra i due è ripartito. Una mossa che provoca sconcerto, irritazione e sospetti ai vertici del Nazareno. Tanto è vero che in serata dal partito diffondono un’agenzia Adnkronos, che cita un deputato molto vicino a Nicola Zingaretti secondo il quale “la mozione di sfiducia ora sarebbe un regalo inaspettato a Salvini e Di Maio, in quanto li ricompatterebbe”. E dunque, si spiega ai vertici del Nazareno, l’opzione resta sullo sfondo, ma presentare ora una mozione di sfiducia a Salvini sarebbe una mossa sbagliata, soprattutto alla Camera, dove la maggioranza è schiacciante. D’altra parte, i renziani sarebbero i primi a essere penalizzati da elezioni anticipate: molti di loro non tornerebbero in Parlamento, con le liste fatte da Nicola Zingaretti. Non solo: c’è chi ricorda un asse tra Renzi e Matteo Salvini, che non sarebbe mai venuto meno da inizio legislatura. E in questo caso, l’ex segretario del Pd avrebbe fatto una mossa per offrire al ministro una mano. Che voglia andare al voto non ne è convinto fino in fondo nessuno, che voglia aprire la crisi neanche. Tanto più che in casa leghista si lanciano ipotetici scenari, come un governo composto da Pd, Cinque Stelle e magari pezzi di Forza Italia.

Nel Pd smentiscono categoricamente. Ma è vero che una serie di manovre sono in corso. La prima in Europa: a votare Ursula von der Leyen sono stati Pd e Cinque Stelle, con la benedizione e la regia di Giuseppe Conte. E proprio il premier intrattiene rapporti costanti con il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, soprattutto per quel che riguarda la questione dei migranti.

A Roma, a mantenere una interlocuzione costante con il Movimento sono Dario Franceschini, Lorenzo Guerini, Antonello Giacomelli. Franceschini era quello che, a inizio legislatura, aveva cercato di offrire una sponda a Mattarella per un governo Pd-Cinque Stelle. Guerini e Giacomelli, i big di Base Riformista (la corrente di Luca Lotti), stanno cercando il modo di allontanare il voto ormai da settimane. E per Giacomelli ci sarebbe anche la partita dell’Agcom. In realtà, a un governo del Movimento con i Dem non ci credono neanche loro (anche perché Zingaretti e Paolo Gentiloni sono fermamente contrari), ma sono tutte mosse di destabilizzazione del quadro.

Sullo sfondo resta l’ipotesi di un governo tecnico o meglio di unità nazionale, per fare la manovra: sia i vertici del Pd sia il Quirinale hanno sempre smentito che ci sia un lavoro che va in questa direzione. Ma nessuno si è mai sentito di escludere categoricamente in questi mesi che il Pd possa votare una legge di Bilancio in nome dell’interesse nazionale. E del suo: perché se per i renziani la difficoltà è evidente, neanche i Dem sono pronti ad andare a votare.