Il Colle: se cade tutto voto a settembre. Ma M5S non ci crede

Il colloquio si è tenuto nell’appartamento del Presidente, quello che si sceglie per gli incontri riservati. Venti minuti o poco più, in cui il sottosegretario Giancarlo Giorgetti ha spiegato a Sergio Mattarella che rinuncia al posto da commissario europeo. E forse anche a qualcosa di più. È il governo che adesso rischia. Tant’è che il Quirinale si mette in allerta. E non esclude di ricevere già oggi la visita del ministro dell’Interno. Un appuntamento che, secondo fonti 5 Stelle, sarebbe già fissato per questa mattina e che invece in serata Matteo Salvini smentisce.

Succede tutto in un pomeriggio, precipitoso come non si era visto mai, alla vigilia della fatidica scadenza del 20 luglio che era stata indicata, seppure a torto, come il termine ultimo per andare a votare a settembre. E non è un caso che i Cinque Stelle, ancora a sera, siano storditi, annebbiati, increduli.

C’è preoccupazione per una “situazione grave”, certo, e già si immaginano la diretta Facebook con cui Matteo Salvini comunicherà al mondo, prima che a loro, l’apertura della crisi. Ma c’è pure la malcelata convinzione che possa essere l’ennesimo “bluff”, una “straordinaria messa in scena” costruita per metterli ancora di più con le spalle al muro, a cominciare dalla partita sulle autonomie, che oggi ha in calendario l’ennesimo vertice senza decisioni.

Non ci credono, non ci vogliono credere che Salvini possa davvero scegliere di andare a votare. Perché “un conto è se arrivano nuovi sviluppi giudiziari mentre sei al governo, un altro se ti colpiscono mentre sei in campagna elettorale. Non può rischiare così”. Si aggrappano alla “tempesta giudiziaria” sul Rubli-gate per scongiurare lo spettro delle elezioni anticipate. Che loro, sia chiaro, non vogliono. E che invece saranno l’unica soluzione praticabile se davvero la Lega dovesse staccare la spina al governo Conte: il Colle vuole un governo regolarmente in carica per approvare la legge di Bilancio 2020. E altre maggioranze disponibili a portare avanti la legislatura, al momento, non se ne vedono.

Il problema, per i Cinque Stelle, è quale altra strada abbiano di fronte. La indicava bene il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, ieri in commissione Affari costituzionali: “Dai, dai, approviamo che poi c’è la crisi”, scherzava durante l’esame del decreto Sicurezza bis. Ma non deve aver colto l’ironia il capogruppo del Movimento alla Camera, Francesco D’Uva, che invece rivendicava serio: “L’approvazione del nostro emendamento sulla confisca delle navi è la migliore risposta a chi parla di crisi”.

Continuano a battere sul tasto della “responsabilità”: quella mantenuta da loro, che “vanno avanti” nonostante la Lega stia giocando “sporco e su più tavoli” e li abbia “pugnalati alle spalle” nel voto per la commissione europea (i leghisti hanno votato in difformità rispetto agli alleati). Ma la “responsabilità” è anche quella che Salvini si assume se fa venire giù tutto.

Vivono come un “ricatto” l’ira dei leghisti sul voto grillino a Ursula von der Leyen. E citano il caso opposto, che si è verificato ieri al Parlamento europeo con la risoluzione sulle nuove sanzioni al Venezuela: la Lega ha votato con Pd, Forza Italia, Merkel e Macron, come i 5 Stelle hanno fatto nell’elezione della presidente della Commissione. “Noi invece ci siamo ci siamo astenuti. E ora?”, domandano dal Movimento, come a dire che non è da questi episodi che si giudica la tenuta dell’alleanza giallo-verde. La realtà è che a Palazzo Chigi si è tornati al clima pre-Europee: Salvini non parla più né con Conte né con Di Maio. Anche se non salirà oggi al Quirinale, sono tutti certi ormai che con il Colle bisognerà parlare presto.

Salvini minaccia la crisi, festa leghista su Twitter: “Era ora”

La notizia di giornata, oltre alla crisi gialloverde mai così vicina, è che i governi in Italia non sono più tre, ma due: con le ultime evoluzioni a Bruxelles, infatti, Giuseppe Conte (e il partito del Colle) hanno inglobato i 5 Stelle e ora, semplificando, la partita è Conte contro Salvini. E il capo leghista, se si fidava il giusto di Luigi Di Maio, del presidente del Consiglio non si fida affatto: i rumors di Palazzo danno una caduta del governo per imminente, addirittura già oggi. Come ci si è arrivati? I canali di comunicazione tra i due sono chiusi da tempo ed ermeticamente da quando il premier ha fatto sapere ai giornalisti di aver chiesto a Salvini una sorta di memoria difensiva da presentare in Parlamento quando risponderà sull’incontro “petrolifero” di Mosca tra il leghista Savoini, un paio di improbabili brasseur d’affaires e tre misteriosi russi, uno dei quali forse del partito di Putin. Quella richiesta è stata giudicata un atto ostile da Salvini: qualunque cosa metterà nero su bianco, potrà poi – come dicono nei film americani – essere usata contro di lui in un momento in cui non sa che sorprese gli riserverà l’inchiesta. L’appoggio di Conte e poi dei 5 Stelle a Bruxelles a Ursula von der Leyen è stata l’ennesima conferma che l’altro azionista del governo sta giocando in attacco per mettere all’angolo la Lega con l’appoggio dell’establishment europeo.

Infine la ricostruzione della trattativa sulla prossima Commissione Ue fatta da Palazzo Chigi e uscita ieri su molti giornali – all’ingrosso, la Lega ha trattato sulle poltrone con Von der Leyen e poi, non avendo ottenuto nulla, ha detto no alla neo presidente mettendo in difficoltà l’Italia – è stata considerata da Salvini una provocazione: il primo effetto, già evocato dal “retroscena” di Conte (fatto proprio anche dal M5S), è stata l’uscita di scena del candidato commissario leghista, Giancarlo Giorgetti.

Qual è il punto? Semplice: non solo ogni leghista giura che quella ricostruzione sia falsa – a partire dall’uomo che ha gestito la partita, l’eurodeputato Marco Zanni – e che il no alla ex ministra tedesca non sia mai stato in discussione, ma Salvini l’ha considerata una dichiarazione di guerra, un’uscita frutto del nuovo “peso” guadagnatosi da Conte salvando la candidata di Merkel e Macron nel consesso europeo. E, dunque, il cosiddetto “Capitano” twitta già di prima mattina: “5Stelle e Pd? Da due giorni sono già al governo insieme, per ora a Bruxelles”. E poi: “Tradendo il voto degli italiani che volevano il cambiamento, i grillini hanno votato il presidente della nuova Commissione europea, proposto da Merkel e Macron, insieme a Renzi e Berlusconi. Scelta gravissima, altro che democrazia e trasparenza”.

Molti leghisti lo interpretano come l’agognato segnale del via libera alla rottura dell’alleanza, su cui pressano il leader da mesi. Il viceministro agli Esteri, Guglielmo Picchi, sempre su Twitter, la spiega così: “Spero domani sera il cielo sia così (sereno come nella foto allegata, ndr). Si chiude. Era ora”. Poi, forse temendo di essere stato poco chiaro: “Game Over. Lo hanno capito?”. E la vaticinata fine del governo gialloverde si diffonde in fretta in una Roma già quasi vacanziera e l’unico dubbio che resta in testa ai leghisti è se il M5S – in procinto di entrare tra i liberalissimi europei del gruppo Renew Europe, quello in cui si sarebbe seduta la Bonino se avesse avuto i voti – non abbia già in serbo un governo alternativo col Pd e transfughi vari: “Ricordo a chiunque sognasse governi alternativi che i presidenti di commissione non decadono col governo. Auguri”, twitta Claudio Borghi, che presiede la fondamentale commissione Bilancio della Camera e preannuncia vita dura ai reprobi.

Salvini rinfocola l’aria di crisi da Helsinki, dove una volta tanto è andato di persona a una riunione europea, nel pomeriggio: liquida Di Maio (“le sue teorie arrivano lontane, lo lascio ai suoi sfoghi”) e prende “atto della svolta storica dei 5 Stelle che hanno votato assieme a Merkel, Macron, Berlusconi e Renzi”.

I rapporti sono al minimo da sempre: “Purtroppo si è persa la fiducia anche a livello personale, perché io mi sono fidato per mesi e mesi. Domani non vado al Consiglio dei ministri, né al vertice sull’autonomia per altri impegni”. Oggi la vox populi indica il ministro dell’Interno atteso sul Colle più alto, ma lui smentisce: “Non vado, domani (oggi, ndr) non cade nessun governo”. Salvini, infatti, la mette anche così: “L’autonomia, la riforma della giustizia, la manovra: con questi tre passi vado avanti, con tre no cambia tutto”.

Insomma, è vero che “dopo questo governo ci sono solo le elezioni” (e il Colle pare convinto che un’altra maggioranza non ci sia), ma magari – anche se è un’ipotesi residuale – dopo il governo Conte c’è un altro governo Conte che tenga conto della nuova forza elettorale della Lega tanto in termini di programma che di poltrone: è il “rimpastone” di cui si parlava dopo le Europee.

Resta da capire se Luigi Di Maio vuol vendere tutta la bancarella a 5 Stelle pur di restare al governo. La prima prova sarà sulle autonomie: se va male, Salvini potrebbe decidere di fare l’ennesima diretta Facebook, l’ultima per Conte. Tanto più che la base della Lega ha già scelto: “Elezioni! Elezioni!”, gli gridava la gente ieri sera a Barzago.

La crisi del rublo

Chi ripete a macchinetta che Salvini è il nuovo Mussolini trascura un’altra, più banale eventualità: che sia il nuovo Ridolini. Noi non sappiamo che ne sarà del governo giallo-verde, dato ieri per morto sotto gli ultimi colpi del pirotecnico onniministro, in gita a Helsinki: potrebbe cadere oggi, o domani, o mai. La politica non è una scienza esatta nemmeno quando è in mano a politici seri e veri, figurarsi quando a menare le danze è questo strano soggetto che cambia idea e umore col tasso di umidità. E gioca a fare tutti i mestieri fuorché il suo: quello di ministro dell’Interno (il che, intendiamoci, è una fortuna). Fino a un mese fa, aveva se non altro il pregio di seguire non dico una strategia, ma almeno una linea retta: quella del suo interesse elettorale. Ora però, da quando è esploso il Caso Rubli con protagonisti, comparse e sviluppi sempre nuovi (Rubli-bis, Rubli-ter ecc.), s’è buscato la savoinite e pare un tantino suonato. Ha perso la lucidità e il tocco magico. Non ne azzecca una manco a pagarlo (nemmeno in euro). Ed è arduo seguirlo nel labirintico arabesco delle sue evoluzioni. Procede a zigzag, poi avanti e ’ndrè, poi in tondo, sbattendo di qua e di là come mosca (anzi, Mosca) sotto vetro.

Prima Savoini è un carneade imbucato. Poi si scopre che, essendo l’ex gestore dei Bagni Ondina di Laigueglia e dunque presidente di Lombardia-Russia, è membro ufficiale del suo staff al vertice bilaterale col ministro dell’Interno russo e in tante altre missioni estere. Prima Savoini non l’ha invitato lui alla cena per Putin. Poi si scopre che l’ha invitato Claudio D’Amico, fan degli Ufo e dunque “consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale del vicepresidente del Consiglio” (sempre Salvini). Il M5S e il Pd gli chiedono di riferire in Parlamento. Lui potrebbe cogliere l’occasione per spegnere l’incendio appiccato dai suoi incauti tour operator russo-padani. Invece annuncia che mai ci andrà (come in Antimafia, dov’è atteso da quattro mesi per spiegare i rapporti con Arata, l’amico di Siri, e Nicastri, l’amico di Messina Denaro). Allora, per rispetto istituzionale, Conte dice che ci andrà lui, previa informativa scritta di Salvini con la sua versione ufficiale. Il quale risponde che magari, se parla il premier, ci fa un salto anche lui: vedi mai che Conte dica qualcosa che lui non sa. Intanto convoca al Viminale le parti sociali per ragguagliarle sulla Flat tax e sulla legge di Bilancio, che nessuno conosce (tantomeno lui): come vendere la fontana di Trevi. E le parti sociali ci vanno, salvo poi scoprire che il ministero è quello sbagliato, per non parlare del ministro.

Intanto, in preda alla sindrome della mosca cocchiera tipica dell’ex amico B., “ai matrimoni vorrebbe essere lo sposo e ai funerali il morto” (Montanelli dixit). E si imbuca insalutato ospite nel blitz sul traffico d’armi scoperto a Torino dall’Antiterrorismo, con l’arresto di tre neonazi reduci dal conflitto ucraino e il sequestro di un missilone di tre metri e mezzo: “Tutto è nato da una mia denuncia sulla minaccia dettagliata di un gruppo ucraino che attentava alla mia vita”. Purtroppo la Procura e persino l’Ucigos (che dipende da lui) lo smentiscono: la segnalazione veniva da un’ex spia del Kgb e sul presunto attentato non c’è riscontro. A furia di riunire sindacati, inventare attentati e salvare gattini al Verano, il Cazzaro non più Verde ma Multicolor si scorda di una cosuccia da niente: l’elezione della presidente Ue Ursula von der Leyen. Conte, capo dell’unico governo della vecchia Europa estraneo alla maggioranza del 26 maggio, riesce a sventare l’asse Parigi-Berlino che vuol portare il turborigorista tedesco Weidmann alla Bce. E rompe l’isolamento rendendo decisivi i voti giallo-verdi in cambio del commissario alla Concorrenza. Poltrona cruciale, destinata a Giorgetti. Bisogna semplicemente votare la nuova presidente tedesca, cioè il male minore per l’Italia. Il M5S la vota, salvandola dallo smacco e acquisendone la riconoscenza. Ma i leghisti dicono astutamente no, sperando nello smacco per Conte e Di Maio. Che invece la spuntano. Risultato: bye bye Giorgetti.

La mossa volpina è spiegata da Salvini come un atto eroico contro il complotto ordito da “Merkel, Macron, Berlusconi e Renzi” e naturalmente Di Maio, che ora “governa col Pd”. Tesi singolare: sia perché i giallo-verdi sono un’esigua minoranza nell’Ue e non possono decidere nulla, salvo evitare guai peggiori; sia perché Salvini governa con B. in 12 regioni su 20, ha votato il Rosatellum con Renzi e B. e sta con FI&Pd su Tav e altre grandi opere inutili, Autostrade, Radio Radicale, Tap, inceneritori, trivelle, F-35, Venezuela, bavaglio alle intercettazioni, separazione delle carriere e no al salario minimo. Da un simile monumento di coerenza c’è da aspettarsi di tutto, anche la crisi di governo con annessa campagna elettorale allietata da nuove intercettazioni sul caso Rubli. I pretesti sono avvincenti: “I tre no dei 5Stelle su autonomia, giustizia e manovra al Consiglio dei ministri”. Quello di oggi, talmente decisivo che Salvini lo diserterà. La classica crisi per futili motivi, che notoriamente sono un’aggravante. L’autonomia è in alto mare perché la legge leghista fa acqua da tutte le parti (anche per la Corte dei Conti). La giustizia è una parola buttata lì: non c’è un testo né un emendamento leghista contro la riforma Bonafede. E la manovra, prevista per l’autunno, è una supercazzola come la Flat tax senza coperture. Ma l’assenza di serie ragioni di rottura potrebbe essere per Salvini un motivo validissimo per rompere. Il concetto di serietà, associato al nuovo Ridolini, diventa un ossimoro. L’unica cosa seria è il caso Rubli. E l’abbiamo capito. Lo capiranno anche gli italiani?

La banda di “carta” ora colpisce per amore

Tutta colpa dell’amore. Basta una sola telefonata romantica, ma fatale, tra Rio (Miguel Herran) e Tokyo (Ursula Corberò) per dare il via alle nuove rocambolesche avventure de La casa di carta, la serie creata da Álex Pina giunta alla terza edizione. Le nuove puntate saranno disponibili in 190 Paesi da domani. La banda rivoluzionaria in tuta rossa con la maschera di Salvador Dalì, che canta Bella ciao e mette a segno il colpaccio alla Zecca Nazionale spagnola con un miliardo di euro in tasca, torna per una missione, sulla carta impossibile, per salvare un compagno in pericolo. L’obiettivo per Il Professore (Alvaro Morte) e soci si focalizza sulla Riserva Nazionale della Banca di Spagna, per rubare l’oro e sfidare le forze di polizia che tengono in ostaggio, tra le torture, uno dei loro soci. A Milano per la presentazione alla stampa erano presenti – scortati dalle guardie del corpo – le due coppie della serie Ursula Corberò con Miguel Herran, Jaime Lorente (Denver) con Esther Acebo (Stoccolma) e il misterioso Luka Peros (Marsiglia). Bocche cucite da parte di tutti, per non cadere nella tentazione di svelare cosa accadrà ai rispettivi personaggi. “Il successo di questa serie – spiegano all’unisono – è dovuto al processo di identificazione dello spettatore verso i buoni, che in realtà sono i cattivi, perché sono uniti come una famiglia contro quel manipolo di persone che detengono il potere. La crisi economica ha accentuato questo sentimento e ondata di simpatia verso i nostri ladri”. Infatti nelle prime due puntate della nuova stagione vengono mostrate foto vere che ritraggono diversi manifestanti nelle piazze o negli stadi inneggiare alle tute rosse. La terza serie vede al centro sempre di più le donne. L’ex ispettore Raquel Murillo che si innamora perdutamente del Professore e lo segue in capo al mondo, cambiando nome in Lisbona. Tokyo, sempre più vulcanica alla ricerca di emozioni estreme e Stoccolma, che è madre e moglie ma non vuole rinunciare al suo ruolo e al suo contributo nella missione. “Anche se può sembrare una serie femminista – dice Ursula Corberò – non lo è. Semplicemente, i personaggi femminili della serie sono molto potenti”. E poi c’è Luka Peros che interpreta Marsiglia. Un personaggio misterioso ed elegante che risolve problemi o forse li crea: “Proteggo tutto il piano e faccio della vita della banda la mia missione principale per difenderla”. Da segnalare la new entry, l’ingegnere Palermo, interpretato da Rodrigo de la Serna. La vera mente del piano, legato da affetto profondo al Professore. Non si riesce a estorcere nulla di più dai cinque attori se non che una quarta serie ci sarà. Notizia che farà felice in molti.

FaceApp, siamo capaci di invecchiare solo se è per finta

Ve lo dico subito. Ho usato anche io l’app per vedermi invecchiata e ho scoperto che a 70 anni, se ci arrivo, sarò un mix tra mia madre, Marta Marzotto e Iva Zanicchi, quindi da ieri ho smesso di ridere, di prendere il sole e di leggere i tweet di Salvini perché quando li leggo aggrotto la fronte lanciando improperi che scavano profondi solchi sul mio volto.
Naturalmente ho anche sperimentato l’invecchiamento di coppia. Ho quindici anni in più del mio fidanzato e contavo sul fatto che con 30 anni in più per entrambi la differenza d’età si sarebbe in qualche modo confusa e appianata. Quindi ho caricato una nostra bella foto in Bolivia e il risultato è stato sorprendente.

Se l’app ha ragione, io tra trent’anni sembrerò Gollum, il mio fidanzato Matthew McConaughey. Comunque, considerato che ormai coppie che arrivano alle nozze d’argento non ce ne sono più, questo giochino scemo è l’unico modo per invecchiare insieme.

Il perché nella giornata di ieri invecchiarsi artificialmente tramite FaceApp sia diventato virale in tutto il mondo non è chiaro. Qualche tempo fa era esploso allo stesso modo il “10 year challenge” ovvero il confronto via social tra una foto attuale e una di dieci anni prima. Naturalmente aveva attecchito in modo particolare tra quei mitomani che volevano sentirsi dire “non sei cambiato per nulla!” o addirittura “Sei meglio adesso!”. Quelli che dieci anni prima erano 25 chili in meno e con tutti i capelli in testa, avevano preferito chiudere l’account Instagram per un paio di giorni o fingere insuperabili problemi col wi fi.

Comunque – e questo è interessante – a diventare virale su Instagram, ovvero il social che per eccellenza tra filtri ringiovanenti e app per rimpicciolire il culo cerca di fermare il tempo, sono proprio i salti nel tempo. Dieci anni indietro, trent’anni avanti. La mania di FaceApp racconta come l’idea di invecchiare sia accettabile solo se avviene per finta. Per gioco. Per un cameratesco, enorme cazzeggio collettivo.

Invecchiarsi tramite una app sembra una momentanea sospensione del narcisismo, ma ne è la massima espressione. In un mondo di Benjamin Button 2.0, di disperati che su Instagram trovano sempre un filtro per sembrare più giovani di anno in anno, usare un filtro “per sembrare vecchi” è un modo per illudersi e raccontare agli altri che la vecchiaia sia un artifizio, mica la verità. La foto al mare con la luce verticale in cui si vedono le zampe di gallina attorno agli occhi va modificata col filtro “D’Urso” perché racconta che si sta invecchiando davvero, la foto elaborata da FaceApp in cui la Ferragni sembra una vecchia pensionata svedese in visita alle piramidi va postata e condivisa perché quelle rughe le ha messe una app, mica un’espressione, il tempo, un sorriso, un lutto.

Tra i vip che sono entrati nel brutto tunnel del finto invecchiamento ce ne sono alcuni per cui l’applicazione non fa abbastanza. Alessandro Gassmann, per esempio, è uguale all’altro Gassman. Da qui pare gli sia venuta l’idea di finanziare un altro software, ActApp, per vedere se pure le capacità recitative siano passibili di qualche tipo di avvicinamento a quelle del padre. Per ora ActApp va in crash al primo ‘Essere o non essere’. Tra le file delle vittime ci sono un sacco di calciatori, come Gomez dell’Atalanta o Piatek del Milan, e pare che sia tutto un grande gesto di solidarietà nei confronti di Buffon che torna in Serie A a 41 anni e gli sembra di giocare nei pulcini. Fedez ne ha postate un sacco, tra le quali ne spicca una in cui sembra un vecchio pirla a torso nudo in giardino. Nella foto originale sembrava semplicemente un giovane pirla a torso nudo in giardino, con l’aggravante di non potersi nemmeno appellare alla demenza senile.

David Guetta, il famoso Dj, invecchiato diventa molto simile a Gianluca Vacchi. Gianluca Vacchi, dietro la consolle, purtroppo non diventa molto simile a David Guetta. A quel punto ha chiamato Gassmann per sapere a che punto fosse con l’app e se ne avesse in progetto qualcuno sulla musica ma Gassmann ha riattaccato. Apprendiamo sempre da Instagram che Simona Ventura, a novant’anni, sarà ancora in riva il mare, probabilmente a sorbirsi sconsolata l’ennesimo falò di confronto del suo ex marito Stefano Bettarini a Temptation Island Over che avrà lasciato il segno della dentiera sulle chiappe di una tentatrice novantenne. Giorgia Meloni invecchia con FaceApp aspettando, con parole sue, “che il governo faccia il blocco navale proposto da Fratelli d’Italia”: una lucida didascalia, visto che una minchiata del genere, si spera, non vedrà mai la luce, ma anche di pessimo auspicio se si intende che il governo sarà sempre lo stesso tra altri quarant’anni. Non potrei resistere a mezzo secolo di Salvini, nemmeno a un Salvini anzianotto e pacioso come quello pubblicato da Enrico Mentana, che completamente rapito dalle meraviglie dell’applicazione ieri ha postato più foto invecchiate della Ferragni e di Fedez messi insieme. E questa è la dimostrazione più lampante del fatto che possiamo invecchiare o invecchiarci quanto vogliamo, ma con un account Instagram tra le mani restiamo tutti dei clamorosi, irrecuperabili bimbiminkia.

Attento Pessoa, (il tuo) de Campos insidia Ophélia

L’impiegato Fernando Pessoa conobbe Ophèlia Queiroz nel marzo del 1920, nella ditta di trapani di suo cugino, dove lei lavorava come segretaria. Un giorno nell’ufficio entra un uomo che guardando la ragazza dice a Fernando: “Ci vorrebbe un bacetto su quel collo, non trova?”. “Non trovo”, risponde Pessoa, scuro in volto dietro gli occhiali tondi. Fernando ha 32 anni, è solo. Porta il lutto per il patrigno morto, cammina per le strade di Lisbona calzando un cappello con la falda nastrata e una cravatta a farfalla. Fuma molto; ha la punta delle dita gialle.

Inizia con Ophèlia un namoro, un periodo di casta intimità fatto di lettere tenere, geniali e soprattutto ridicole, come pensava fossero tutte le lettere d’amore. La accompagna a casa e al lavoro a piedi e in tram; passa sotto le finestre di lei facendo smorfie per farla ridere; le regala caramelle. Per capire lo strano mistero che seguì a quei giorni fino all’“onda nera” che si abbatterà sul suo spirito a metà ottobre, bisogna visitare la tomba di Pessoa a Lisbona, nel chiostro del Monastero dos Jerónimos. La tomba è un parallelepipedo addossato al muro, sulle cui tre facce visibili sono incisi i versi di tre poesie, attribuita ciascuna a un autore diverso: Alberto Caeiro, Ricardo Réis, Àlvaro de Campos. Sono tre dei 72 eteronimi di Pessoa, non semplici pseudonimi, ma incarnazioni immaginarie del poeta, ciascuno con una sua biografia: Caeiro, il contadino anticlericale; Réis, il medico monarchico; Àlvaro de Campos, l’ingegnere navale dai tratti somatici da ebreo sefardita. In basso sulla faccia centrale della stele, quasi illeggibile per il riverbero del sole, è inciso con carattere più grande l’ortonimo: Fernando Pessoa, nato nel 1888, morto nel 1935.

Nelle lettere di quel 1920, Fernando chiama la 19enne Ophèlia Bebè, Nininha, Piccolina, Belva, Vipera, Cattiva. La aggiorna quotidianamente sulle sue malattie, sulla secchezza di gola, sul trasloco da Benfica alla Estrêla, sulla difficoltà a prendere sonno e a incontrarla presso la libreria inglese di Rua do Arsenal – la stessa strada in cui José Saramago farà dormire, in un alberghetto sentimentale, l’eteronimo Ricardo Reis appena tornato dal Brasile, dove era emigrato nel 1919 (Reis torna a Lisbona nel ’35, dopo la morte di Fernando). Alberto Caeiro, invece, era morto nel 1915, dopo aver trascorso la vita in provincia presso una vecchia zia. È per questo che nessuno dei due, all’epoca del namoro con Ophèlia, è con Fernando. È con lui, invece, Àlvaro de Campos.

Àlvaro compare la prima volta in una lettera del 27 aprile: “Menomale che eri allegra e che hai dimostrato piacere a vedermi (Àlvaro de Campos)”. Non si capisce se sia Àlvaro a parlare e Fernando ne riporti il pensiero, o se si tratti di un’intrusione automatica, come quella delle scritture spiritistiche che Pessoa amava frequentare. Certo è che l’eteronimo non vede di buon occhio la ragazza.

Il 6 maggio scrive (scrivono): “Prendi ancora in giro il tuo nininho? (Àlvaro de Campos)”. E il 22 maggio: “Se tu vorrai stare alla finestra vedrai passare il tuo Nininho. Se lei non lo vorrà, lo vedrà. (È autore di questa ultima frase il mio caro amico Àlvaro de Campos)”.

Nelle sue memorie, Ophèlia scriverà: “A volte era un po’ assente, ad esempio quando si presentava come Àlvaro de Campos. In quei momenti era completamente diverso, sconclusionato, diceva cose senza senso”.

Il 28 maggio Fernando dice dell’avversario: “Oggi hai dalla tua parte il mio vecchio amico Àlvaro de Campos, che in generale è sempre stato soltanto contro di te. Rallegrati!”. L’11 giugno si schiera con lei contro l’intruso: “Mi sentirei molto meglio se potessi vederti subito e scendere con te verso la Baixa da soli, senza Àlvaro de Campos, dato che a te non piacerebbe certamente che quel distinto ingegnere apparisse”.

Ma cosa vuole Àlvaro? Forse vuole Ophèlia tutta per sé, lui che è destinato all’oblio di una vita parallela. Forse, poiché è un essere razionale e perciò capace dell’ovvio, vuole la sua porzione d’amore, che Fernando non conosce. Ma Àlvaro non è un semplice doppio: è l’incarnazione di una girandola allucinatoria di cui Fernando è, come nella sua tomba, il centro irradiante.

A ottobre arriva l’“onda nera”: “Il mio destino appartiene ad altra Legge, della cui esistenza Lei è all’oscuro, ed è subordinato sempre più all’obbedienza a Maestri che non permettono e non perdonano”, comunica alla ragazza. Poi entra nella clinica psichiatrica di Cascais (dove conoscerà un altro suo eteronimo, lo psiconevrotico vestito da antico romano Antònio Mora).

Nel 1929, dopo un incontro casuale e una breve ripresa del namoro, Ophélia riceve una lettera firmata Àlvaro de Campos, che le intima di dimenticare Fernando: “Gentilissima Signora Ophélia Queiroz, da parte mia, come intimo e sincero amico di quel poco di buono della cui comunicazione, seppur con sacrificio, mi faccio carico, consiglio la Signoria Vostra di prendere l’immagine mentale che eventualmente possa essersi fatta dell’individuo la cui menzione sta rovinando questo foglio di carta soddisfacentemente bianco, e di buttarla, quest’immagine mentale, nel buco dell’acquaio. Voglia gradire i complimenti di Àlvaro de Campos (Ingegnere Navale)”.

Come Kafka, Pessoa è “fuori dal territorio dell’amore”. Ophélia non poté guarirlo dalla sua affollata solitudine: “Io sono triste, sono matto, e nessuno mi vuole bene”, scrive nell’ultima lettera; “Vuole bene a me perché me è me, o perché no?”.

L’unico che ebbe potere su di lui, che lo seguì sempre frequentando i suoi bar e le sue strade come se fosse lui il vivo di cui Fernando era il fantasma, è e sarà sempre, fino alla morte, l’ingegnere omosessuale Álvaro de Campos.

 

Strage del 2017 alle Ramblas: i jihadisti erano spiati dagli 007

I servizi segreti spagnoli ascoltavano le conversazioni telefoniche dei terroristi fino a 5 giorni prima della strage di Barcellona. Lo rivela il quotidiano Público, che è entrato in possesso di un rapporto del Cni (Centro nacional de inteligencia). Era il pomeriggio del 17 agosto 2017, quando un furgone invase la zona pedonale della Rambla e uccise 15 persone. La sedicesima vittima fu il conducente di un’auto rubata dall’attentatore in fuga. Centinaia i feriti. Quello stesso giorno, in serata, nella località balneare di Cambrils, ci fu un altro attacco. L’attentato fu parzialmente sventato. Una donna perse la vita e i terroristi furono uccisi dalla polizia. A capo della cellula jihadista composta da 12 membri, di cui otto sono morti e quattro arrestati, c’era l’imam Abdelbaki Es Satty, informatore dei servizi segreti spagnoli dal 2014. L’uomo perse la vita un giorno prima dell’attentato, durante l’esplosione accidentale del covo in cui si progettavano gli atti terroristici. Ora, dai documenti resi pubblici dal quotidiano spagnolo, emerge che la Cni sorvegliava costantemente alcuni membri della cellula, attraverso le intercettazioni telefoniche. Sapeva, infatti, che due di loro (tra cui l’esecutore materiale dell’attacco alla Rambla), tra l’11 e il 12 agosto, erano stati a Parigi, dove avevano pensato di tornare una volta compiute le stragi.

Corbyn antisemita spacca il Labour

“Il Partito laburista accoglie tutti, senza distinzioni di razza, credo, età, identità di genere e orientamento sessuale. Eccetto, a quanto pare, gli ebrei. Questa è la tua eredità, Mr Corbyn”.

La fronda laburista arriva dove non si era mai spinta prima: acquista una intera pagina del Guardian, il quotidiano tradizionalmente vicino ai laburisti, per condannare Jeremy Corbyn e la sua gestione dei casi di antisemitismo nel partito. A esporsi, con nome e cognome, sono in 64, un terzo dei laburisti alla Camera dei Lords. Nominati, non eletti, non corrono quindi il rischio di venire sospesi e non ricandidati, come potrebbe accadere ai molti parlamentari alla Camera dei Comuni altrettanto insofferenti ma timorosi delle conseguenze. Un malcontento esteso: “In migliaia si sono dimessi e altrettanti non si sentono a loro agio nel partecipare alle riunioni a causa della cultura tossica che hai consentito…. […] fallendo nel difendere i valori antirazzisti del nostro partito e, di conseguenza, fallendo come leader”.

Il Labour non è storicamente associato a sospetti di antisemitismo. L’elezione di Jeremy Corbyn però ha spostato l’equilibrio su posizioni critiche nei confronti della politica di Israele: in alcuni casi le critiche sono degenerate in abusi a sfondo antisemita, che la dirigenza è accusata di non aver gestito con fermezza. Secondo una recente inchiesta di Panorama, il principale programma di approfondimento della Bbc, l’ufficio del segretario avrebbe interferito nella gestione dei casi di antisemitismo, intervenendo direttamente per indirizzare o mitigare azioni disciplinari. La dirigenza si è arroccata su se stessa, accusando la Bbc di parzialità con una protesta formale, e ha ribadito che “malgrado accuse false e tendenziose da parte dei nemici della linea politica di Jeremy Corbyn, il Labour sta agendo con decisione contro l’antisemitismo” che lo stesso Corbyn ha definito “un veleno …inaccettabile in qualsiasi forma”. Un ‘serrate i ranghi’ che ha provocato una ampia rivolta. Sconfessando pubblicamente le attuali procedure di indagine interna, il vice di Corbyn, Tom Watson, martedì ha proposto una mozione per espellere automaticamente gli iscritti accusati di ogni tipo di pregiudizio, chiedendo la creazione di un organo di inchiesta ad hoc e autenticamente autonomo. Il giorno prima più di 200 impiegati avevano richiesto le dimissioni del segretario, sostenendo di non avere più fiducia nella sua leadership. Lunedì prossimo è convocata una riunione straordinaria del ‘governo-ombra’ proprio sul dossier antisemitismo, con Corbyn chiamato a riferire il giorno stesso alla Camera dei Comuni. Una crisi seria che indebolisce il Labour in una fase politica delicata, con Brexit e possibili elezioni alle porte. Il Times riporta che martedì sera il conservatore Boris Johnson, ormai quasi certo nuovo primo ministro, avrebbe dichiarato di volere andare ad elezioni “finché c’è ancora Corbyn”. Lo scopo è capitalizzare sulla debolezza dell’avversario: secondo un sondaggio YouGov dei primi di giugno nulla, nemmeno il desiderio di una Brexit rapida e netta, unisce l’elettorato conservatore quanto l’avversione per il segretario laburista. Le ambiguità su dossier cruciali come antisemitismo e Brexit gli stanno costando consensi anche fra i suoi.

Ergastolo per El Chapo, il nuovo boss è El Mencho

Ergastolo, 30 anni di carcere aggiuntivi e la restituzione di 12,6 miliardi di dollari ritenuti proventi dei suoi crimini. Questa la sentenza nei confronti di Joaquin Guzman, detto “El Chapo” narcotrafficante considerato fra i più pericolosi del Centro America, protagonista di fughe rocambolesche e film dedicati alla sua ascesa. Ma quella è storia, più o meno romanzata, la realtà sta nel verdetto pronunciato nell’aula blindata del tribunale di Brooklyn; era presente anche Emma Coronel Aispuro, terza moglie del boss. Guzman sconterà la pena nel carcere-fortezza Adx di Florence, in Colorado: una prigione di livello Super-maximum security, il più alto grado di sicurezza esistente nel sistema penitenziario americano. Nell’Alcatraz of the Rockies, cioè l’Alcatraz delle Montagne Rocciose, sono rinchiusi Ted Kaczynski ‘Unabomber’ e Zacarias Moussaoui, l’uomo conosciuto come il ‘ventesimo dirottatore’ dell’attacco alle Torri Gemelle.

Nei minuti che gli sono stati concessi, con l’aiuto di un traduttore, l’ex capo del cartello di Sinaloa ha ribadito che gli americani lo hanno trattato male: “Una tortura psicologica, emotiva e mentale 24 ore al giorno” è stata la sua detenzione fino a ora.

Il suo legale ha ribadito che i giurati sono stati influenzati dalla risonanza dei media sul personaggio e sul dibattimento, e ha chiesto un nuovo procedimento. Ma il verdetto era prevedibile: in febbraio Guzman era già stato giudicato colpevole di 10 capi di imputazione, fra cui associazione per delinquere nell’ambito della criminalità organizzata, traffico di droga, riciclaggio di denaro, traffico di armi da fuoco. Il processo è stato anche una sfida fra il procuratore capo Andrea Goldbarg e l’avvocato difensore Jeffrey Lichtman. Goldbarg è uno specialista nel mettere ai ferri corti i narcotrafficanti e aveva inchiodato anche il colombiano Jorge Cifuentes Villa, che poi è diventato testimone d’accusa; il procuratore ha attirato l’attenzione dei giurati parlando dinanzi a foto che mostravano file di kalashnikov e “mattoni” di cocaina – il “corredo” del Chapo – ricordando storie di omicidi, torture e corruzione fra cui quella raccontata da un testimone: El Chapo aveva pagato una tangente di 100 milioni di dollari all’ex presidente messicano Peña Nieto.

Proprio sfruttando questa testimonianza, Lichtman – che nella sua carriera aveva ottenuto una parziale assoluzione del boss della mafia italo-americana John Gotti – ha giocato la sua carta migliore: Guzman era stato incastrato dal co-fondatore del cartello di Sinaloa, Ismael El Mayo Zambada García: era lui il vero leader dell’organizzazione. Ed era stato lui, non Guzman, a pagare nel 2012 quei 100 milioni di dollari a Peña Nieto. Quest’ultimo, così come il suo predecessore, Felipe Calderón, ha negato questa circostanza. Concluso il processo, chiude i battenti anche il circo mediatico: frotte di inviati, turisti che andavano a Brooklyn sono per provare a entrare e assistere a un’udienza.

Con la condanna del capo del cartello di Sinaloa le agenzie federali segnano un punto a loro favore ma i narcos messicani hanno già scelto un nuovo punto di riferimento: il Cartello di nuova generazione di Jalisco (Cjng) che ha oscurato la fama del clan del Chapo, tanto che per l’agenzia antidroga americana Dea “è uno dei cartelli più potenti del Messico e ha cellule operative anche negli Stati Uniti”. Il Cjng è nato nel 2009 come una sorta di organizzazione periferica del clan di Sinaloa, ma ha avuto una rapidissima espansione grazie ai suoi metodi violenti e alla corruzione; si è preso la zona di Tijuana al confine con la California scontrandosi con i narcos del Chapo che, privi del boss, si sono defilati.

Il ministero del Tesoro americano ora punta il dito contro Nemesio Oseguera Cervantes, detto El Mencho o “Blondie”. È lui il nuovo ‘numero 1’ del narcotraffico messicano e sulla sua testa c’è già una taglia di 7 milioni di dollari.

Borne, ministro all’Ecologia che non difende l’ambiente

Il nuovo ministro francese della Transizione ecologica non è esattamente quello che si può definire un ecologista. Dopo le dimissioni di François de Rugy, sospettato di spendere i soldi pubblici in cene e sfarzi, Emmanuel Macron ha nominato al suo posto Élisabeth Borne, già responsabile dei Trasporti. Borne ha un ottimo curriculum. Diplomata alla prestigiosa École Polytechnique, ha un passato di manager alla SNCF e alla RATP, le società che gestiscono le ferrovie francesi, la prima, e la metro di Parigi, la seconda. Prima di diventare “macronista”, è già stata braccio destro della socialista Ségolène Royal, proprio al ministero dell’Ecologia. Ieri Élisabeth Borne si è detta “pronta a portare avanti la battaglia essenziale della transizione ecologica”. Ma in tanti si chiedono quanto “verde“ sarà il suo ministero. Per Les Républicains, a destra, la nomina della Borne è “una brutta notizia per l’ecologia”. Per La France Insoumise, a sinistra, è il segno che l’ecologia non una priorità per Macron: “Già la nomina di de Rugy mostrava la scarsa ambizione ecologica del governo, ora ecco una ministra che non ha mai neanche tenuto un discorso sull’ecologia”, ha detto “l’indomito” François Ruffin. Per le Ong, il nome di Élisabeth Borne è associato alla riforma delle ferrovie del 2018 che ha tagliato i fondi alle linee delle regioni rurali, favorendo quei “deserti” di servizi pubblici denunciati dai Gilet gialli. Macron inoltre non solo ha inglobato l’ecologia in un altro portafoglio (come era ai tempi di Sarkozy e Hollande), ma non ha neanche riconosciuto alla Borne il titolo di “ministro di Stato”, assegnato a quei ministri la cui azione è considerata prioritaria. La Borne è dunque una ministra “normale”: “Vuol dire che l’urgenza climatica di Macron era solo un inganno”, ha commentato l’associazione Réseau Action Climat.