La Repubblica che non c’è vuole l’“oro nero” di Cipro

È di nuovo crisi nel Mar di Levante, un angolo remoto di Mediterraneo tra Cipro, Turchia e Siria: accadde nel 2014, si ripete oggi, accadrà ancora. Protagonisti dello scontro, da una parte l’Unione europea e Cipro, dall’altra la Turchia e la Repubblica turca di Cipro del Nord (Stato fantasma, riconosciuto solo da Ankara); comprimari, la Grecia, che ci mette sempre il naso tra Cipro e la Turchia, e pure l’Italia, per via degli interessi di trivellazione dell’Eni: una nave dell’azienda, la Saipem 12000, venne bloccata nel febbraio 2018 a sud dell’isola.

Proprio lo sfruttamento delle risorse energetiche sottomarine è la posta in gioco: la Repubblica che non c’è, ‘Rtcn’ in sigla, vuole estendere la zona marittima economica esclusiva (Zee) e i relativi diritti. Ovviamente, Cipro ne contesta le pretese e l’Unione si schiera con Nicosia, ma con cautela, perché, in realtà, le questioni di delimitazione marittima non rientrano tra le competenze comunitarie.

Poi succede che, magari per qualche motivo di politica interna, la Turchia alzi i toni del confronto, al tavolo da poker delle trivellazioni. Bruxelles reagisce. E Ankara rilancia: “Se mettete le sanzioni, intensificheremo le nostre attività. Abbiamo tre navi nel Mar di Levante, ne invieremo una quarta”, dice il ministro degli Esteri di Ankara, Mevlut Cavusoglu, dopo che il Consiglio dei Ministri dell’Ue, riunito lunedì a Bruxelles, ha preso misure anti-turche per le trivellazioni in cerca d’idrocarburi al largo di Cipro.

Così la questione cipriota torna all’attenzione della stampa internazionale, che, dal New York Times a Le Monde, riscopre l’anomalia nel Mediterraneo. La Rtcn è una repubblica auto-proclamata e non riconosciuta dalla comunità internazionale che si estende nella zona settentrionale dell’isola dal 1983, nelle aree occupate e controllate dall’esercito turco dopo l’invasione attuata nel 1974, reagendo a un tentativo di colpo di mano sostenuto dalla giunta militare allora al potere in Grecia.. L’ammiraglio Fabio Caffio, esperto di diritto del mare, avverte che le questioni giuridiche sono sottili: “Per orientarsi, occorre guardare le mappe e valutare i principi di diritto applicabili”. Questo spiega, ad esempio, perché l’anno scorso la reazione dell’Ue e dell’Italia al blocco della Saipem 12000 fu prudente: “L’azione della marina turca era manifestamente illegale e ingiustificata, ma non era il caso di mettere in pericolo interessi economici ancora più vasti, né di offrire ad un alleato già difficile come la Turchia lo spunto per una prova di forza”.

Rispetto all’anno scorso, questa volta la tensione è più acuta. Dice Cavusoglu: “Gli europei sanno che la messa in atto delle sanzioni da loro decise è impossibile”. La Turchia può giocare la sua partita su più tavoli, compreso quello – delicatissimo – dell’accordo sui migranti, oneroso per l’Ue, ma difficilmente rinunciabile, allo stato attuale. In base all’intesa del 2016, Ankara trattiene sul suo territorio centinaia di migliaia di rifugiati dalla Siria, impedendo loro di cercare d’arrivare nell’Unione, come avveniva prima. Fra le misure anti-Turchia decise, c’è il taglio per il 2020 dei fondi pre-adesione. C’è qualcosa di surreale nelle prese di posizione dell’Ue e della Turchia: l’Unione si comporta come se qualcuno credesse ancora all’ipotesi di adesione, nonostante i negoziati siano da anni di fatto congelati e Ankara abbia ripetutamente detto di non essere più interessata; la Turchia fa come se la Repubblica di Cipro del Nord fosse realtà, non una finzione.

Ankara accusa Bruxelles di essere “prevenuta e faziosa” nell’ignorare la comunità turca del nord di Cipro. Nel dettaglio il Consiglio dei Ministri dell’Ue ha deciso “di sospendere i negoziati sull’accordo globale sul trasporto aereo e di non tenere, per il momento, il consiglio di associazione né ulteriori riunioni dei dialoghi ad alto livello tra l’Ue e la Turchia”. Inoltre il Consiglio ha approvato la proposta della Commissione europea “di ridurre per il 2020 l’assistenza pre-adesione”, invitando la Banca europea per gli investimenti a riesaminare gli interventi in Turchia. L’Ue e Cipro contestano le trivellazioni dei turchi perché le giudicano una violazione della sovranità territoriale cipriota; il governo di Erdogan le difende come legittime perché sarebbero condotte entro la sua piattaforma continentale.

Spread, Btp e quel dubbio maligno…

Pur col cuore in subbuglio, dobbiamo ammetterlo: essendo cottarelliani radicali, o giavazziani in purezza che dir si voglia, in questi giorni siamo attanagliati dai dubbi. Quel che ci inquieta è questa faccenda dello spread e dei relativi rendimenti dei titoli di Stato che scendono: ieri, per dire, i decennali italiani andavano via con un rendimento teorico dell’1,6%, meno che durante gran parte dei governi Renzi e Gentiloni. Ricordandoci degli insegnamenti dei nostri maestri ne dovremmo desumere che quel dio dell’Antico Testamento, vendicativo e insensibile, che va sotto il nome di “I Mercati”, ritenga i puzzoni populisti più affidabili dei meglio tecnici democratici. Impossibile. C’è chi sostiene, ma noi non vogliamo crederci, che a mettere a posto tutta questa sciarada dello spread basti alla fine che la Bce dica “T-Ltrlo” (liquidità “gratis” alle banche) e “Quantitative easing” (acquisto dei titoli sul mercato, in particolare quelli di Stato comprati dalle banche): ne conseguirebbe però che il dio imperscrutabile sia la Banca centrale, cosa impossibile perché – com’è noto – nessuna divinità è superiore a “I Mercati”. E dove vogliamo andare a finire? Di questo passo qualcuno dirà pure che legare lo spread alle riforme strutturali, la spesa pubblica improduttiva, la cura amara ma necessaria è una gran cazzata… Dai, su, non scherziamo.

Vantaggi grazie ai dati: si indaga su Amazon

Nell’ecommerce sono importanti i dati dei clienti, raccolti ed elaborati per scopi pubblicitari e monitorati da qualche tempo da vicino per contrastarne l’abuso. Da ieri, però, pare abbiano una certa importanza anche i dati dei venditori, soprattutto se si considera l’ipotesi in cui la piattaforma che offre loro la vetrina li utilizzi per far loro concorrenza ‘interna’.

Su questo sospetto ieri l’Antitrust europeo guidato dalla commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager ha fatto sapere di aver aperto una indagine formale sull’utilizzo, da parte della società statunitense di dati sensibili provenienti dai rivenditori indipendenti che utilizzano la sua piattaforma. “L’e-commerce ha dato impulso alla concorrenza nel settore retail portando più scelta e prezzi migliori – ha detto – dobbiamo assicurarci che le grandi piattaforme non cancellino questi benefici con comportamenti anti-concorrenziali”.

Amazon ha un doppio ruolo: da un lato vende prodotti come rivenditore diretto, dall’altro fornisce una vetrina in cui gli indipendenti possono vendere i prodotti direttamente ai consumatori. “Quando fornisce un mercato per venditori indipendenti, Amazon raccoglie continuamente dati sull’attività sulla sua piattaforma – spiegano da Bruxelles -. Sulla base delle informazioni preliminari della Commissione, Amazon sembra utilizzare informazioni sensibili dal punto di vista della concorrenza sui venditori, i loro prodotti e le transazioni”. L’antitrust esaminerà quindi anche gli accordi standard tra venditori Amazon e marketplace, che consentono al business retail di Amazon di analizzare e utilizzare i dati dei venditori di terze parti.

Altro aspetto riguarderà invece il ruolo dei dati nella selezione dei vincitori del cosiddetto “Buy Box”. È, in pratica, il riquadro in evidenza che appare accanto ad un prodotto con le diciture “aggiungi al carrello” o “acquista ora” ed è il metodo attraverso cui pare passi la maggior parte delle vendite. Amazon lo assegna a determinati venditori sulla base delle scelte del suo algoritmo, influenzato dal prezzo, dalle recensioni degli utenti, dalla capacità di rispettare la velocità di consegna richiesta dal servizio Prime.

Alcuni venditori temono però che possa essere manipolato per mostrare risultati di parte, favorendo alcuni a discapito di altri (in base, per ipotesi, al ricorso di alcuni servizi Amazon) e in linea con quanto era successo con Google Shopping che, per i vantaggi riservati nei risultati di ricerca, era stata multata per 2,4 miliardi di dollari. Amazon, le cui vendite nel 2018 hanno sfiorato i 233 miliardi di dollari e che potrebbe rischiare una multa fino al 10 per cento del fatturato globale, ha assicurato “massima collaborazione” con Bruxelles e ha annunciato la chiusura dell’inchiesta aperta dall’antitrust in Germania, sempre per problemi legati alla sua doppia veste. Il gigante è sotto inchiesta da metà aprile anche in Italia, dove l’antitrust vuole verificare se Amazon sfrutti la sua posizione dominante per obbligare i venditori terzi ad utilizzare i suoi servizi di logistica.

Descalzi è nei guai: ora l’Eni invoca l’interesse nazionale

Ed eccolo, finalmente, Vincenzo Armanna. Il grande accusatore dei vertici Eni, secondo i pm di Milano. Il complice di un confuso e intermittente “complotto” per depistare le indagini su Eni in Nigeria, secondo altri magistrati. Un ex dipendente infedele che ora diffama i suoi ex capi, secondo la compagnia petrolifera. Ieri Armanna era il teste previsto dal calendario del processo per corruzione internazionale in Nigeria, con imputati, tra gli altri, l’amministratore delegato Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, il responsabile dell’area sub-sahariana Roberto Casula, i mediatori Luigi Bisignani e Gianfranco Falcioni, oltre allo stesso Armanna, che all’epoca dei fatti era il vice di Casula. Ma in apertura d’udienza le difese hanno chiesto di rinviare il suo esame, per poter studiare gli atti depositati negli ultimi giorni dall’accusa e letti sui giornali.

Rinviarlo a settembre, come ha chiesto il difensore di Casula, Giuseppe Fornari. O almeno posticiparlo di qualche giorno, come hanno domandato Nerio Diodà (legale di Eni spa) e Paola Severino (difensore di Descalzi), che ha evocato addirittura “l’interesse nazionale” in questo processo ai vertici della più grande azienda italiana. Con gli atti appena depositati, si sarebbe creato uno “sbilanciamento tra accusa e difesa, a causa della diffusione di documenti provenienti da un altro procedimento; un grave vulnus, per dichiarazioni anticipate sui giornali che diventano verità”. Il riferimento è a due verbali provenienti dall’indagine sul “complotto” e soprattutto al memoriale difensivo di Piero Amara, depositato alle difese nel pomeriggio del giorno precedente all’udienza e raccontato sul Fatto Quotidiano di ieri. In quella memoria, Amara, avvocato esterno dell’Eni, considerato il regista del “complotto”, racconta di aver ricevuto l’incarico da Descalzi e dal suo braccio destro, Claudio Granata, di convincere Armanna a ritrattare le sue accuse contro l’ad di Eni. Sarebbe, se confermato, un pesante inquinamento probatorio. Eni ha reagito negando ogni accusa e facendo subito partire una serie di azioni legali: Descalzi ha querelato Amara per diffamazione, Granata ha denunciato Armanna per diffamazione Amara per calunnia.

Il pm Fabio De Pasquale ha spiegato: “Abbiamo depositato gli atti appena li abbiamo ricevuti” dai pm del procedimento sul “complotto”. “Potevamo tenerceli per noi, li abbiamo messi invece a disposizione del Tribunale e delle difese: per parità delle armi e simmetria informativa”. Il Tribunale, presieduto da Marco Tremolada, non ha concesso il rinvio: l’interrogatorio di Armanna dopo questa lunghissima schermaglia è cominciato, ma (per questa udienza) senza possibilità di porre domande sui temi del presunto inquinamento probatorio raccontato da Amara.

Così l’ex manager Eni, nel 2010 vice di Casula, ha ricostruito tutta la trattativa per l’acquisto in Nigeria dell’immenso campo petrolifero Opl 245, del valore di almeno 2 miliardi di dollari. Fu poi comprato nel 2011 da Eni e Shell con un versamento di 1,3 miliardi su un conto del governo nigeriano, subito girati però a politici locali, faccendieri e intermediari. Anche italiani, secondo l’accusa. Il racconto di Armanna chiarisce che i soldi sono andati, in gran parte, a Dan Etete, ex ministro del petrolio che aveva preso il controllo di Opl 245 attraverso la società Malabu. Il personaggio centrale dell’operazione è stato l’intermediario nigeriano Emeka Obi. In apparenza rappresentante di Dan Etete (e dunque dei politici nigeriani che con lui hanno diviso l’affare). In realtà – secondo Armanna – imposto dagli italiani, di cui faceva gli interessi sotterranei: Paolo Scaroni innanzitutto, allora amministratore delegato di Eni, e poi, a cascata, del mediatore Luigi Bisignani, molto vicino a Scaroni, e degli altri manager Eni a lui sottoposti, Descalzi e Casula.

Armanna si mostra quasi stupito di come si sviluppa la lunga trattativa per Opl 245: con modalità impensabili per i canoni Eni. Con contatti diretti con Dan Etete, che non solo non aveva titoli formali su Malabu, controllata attraverso prestanome, ma era anche già stato condannato per riciclaggio. Con la presenza di Emeka Obi, che non rappresentava affatto il venditore (Dan Etete), ma era anzi stato apertamente rifiutato da lui, e non aveva alcun mandato a vendere Opl 245. Ma niente da fare, spiega Armanna: Descalzi e Casula imponevano Obi, perché sopra di loro lo voleva Scaroni. Incredibili, poi, le sue pretese iniziali: 200 milioni di dollari per la sua mediazione. Una provvista per tangenti – fa capire Armanna – da distribuire tra nigeriani e italiani.

Ursula e Atlantia o della difficoltà di imparare tutti a volare

Va detto che lo straordinario uno-due gialloverde è straordinario, a suo modo poetico, almeno nella misura in cui è del poeta il fin la meraviglia. Allora, dopo aver bloccato il socialista olandese Timmermans, il governo italiano ha accettato la tedesca Ursula von der Leyen come presidente della Commissione Ue: per capirci una che, durante la crisi greca, apparve troppo severa persino a Schäuble. Per chiudere il cerchio i grillini, già wannabe alleati dei Gilet Gialli ma pure dei liberali, l’hanno votata all’Europarlamento salvandola da una ignominiosa sconfitta dopo aver ottenuto questo straordinario risultato politico: l’ex ministra di Merkel (candidata da Macron, che così si prenderà la Bce con la Lagarde) ha citato nel suo discorso programmatico – una cosa che vale meno di queste cinque righe – “il salario minimo orario” (in forma annacquata), “la riduzione delle emissioni” e – rullo di tamburi – la “riforma dell’immigrazione”. Nonostante questo grosso favore, però, non è chiaro se alla fine l’Italia avrà il commissario economico che chiede. Sorpresi? Mai quanto dopo aver saputo che il governo ha scelto Atlantia – la società controllata dai Benetton in multiplo conflitto di interessi e definita “decotta” da Di Maio solo a giugno – come partner per Alitalia: c’è da dire che, visto che la sua controllata Autostrade non è in grado di tenere in piedi i ponti che gestisce, imparare a volare potrebbe apparire una soluzione razionale. Forse è il caso che impariamo tutti, ma certo così, con le braghe alle caviglie, è parecchio difficile.

Scudo al contante, solo un condono senza giustificazioni

Ascoltando il sottosegretario all’Economia, Massimo Bitonci, la stagione della pace fiscale, ora “2.0”, sembra non finire mai. Questa volta il governo sembra orientato su misure strutturali, volte a potenziare istituti deflattivi del contenzioso quali l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale, soprattutto nei casi di accertamenti induttivi o presuntivi. Tuttavia siamo ben lontani dalle riforme sistematiche necessarie. Bitonci esorta a non classificare come “condono” la procedura per far emergere i contanti custoditi nelle cassette di sicurezza. Ma è in tutto e per tutto come una voluntary disclosure del contante tesa a far affiorare la ricchezza sommersa. Non coerente con la realtà è anche l’idea di applicare tale procedura solo alle somme relative a reati di “piccola evasione”, ovvero guadagni lecitamente ottenuti ma nascosti “sotto il materasso”. Ma distinguere tra contanti frutto di evasione o di “altri reati”, magari associativi o di riciclaggio, non è semplice. E il rischio di mettere in circolazione denaro sporco è alto.

Visto che il segreto bancario di fatto non esiste e nel sistema vi sono invece norme invasive sugli obblighi antiriciclaggio, perché non è stata preferita un’indagine a tappeto per verificare i contenuti delle cassette di sicurezza e colpire chi ha nascosto i soldi? Occorrerebbe una seria protezione dei diritti dei detentori delle cassette, a cominciare da un sistema probatorio ragionevole e non inquisitorio. Però, una volta tutelati i diritti dei cittadini, il risultato per le finanze dello Stato sarebbe ben diverso. Sarebbe percepita come più equa una norma invasiva che costringesse i detentori di cassette di sicurezza ad aprirle, piuttosto che una norma che premia gli evasori.

Se si vuole prima puntare su una “emersione spontanea”, il governo dovrebbe prevedere per la fase successiva a quella di emersione un inasprimento delle sanzioni (ma soprattutto la loro effettività) e un censimento certosino delle cassette e del loro contenuto. In un sistema giuridico che evolve in modo coerente, la stagione delle “amnistie” (fiscali e non) è corollario (spesso necessario) di un’epoca di riforme strutturali, di un passaggio epocale in cui si ha necessità di sancire una chiusura con il passato.

Uno dei più noti condoni (amnistie) della storia fu garantito ai sudditi Romani dall’imperatore Adriano che nel 118 d.C. celebrò la sua incoronazione con un condono tombale da quasi un miliardo di sesterzi (pare abbia distrutto in una notte i documenti relativi agli arretrati di 16 anni). Il condono precedette la grande riforma fiscale di Adriano. Anche la Stele di Rosetta descriveva una grande amnistia, anche tributaria, che il faraone Tolomeo V aveva emesso nel 196 a.C., al termine di una guerra civile, per creare consenso intorno a un cambio di regime.

L’Italia ha conosciuto una fase di grandi condoni, ma sempre correlati a grandi riforme del sistema tributario (all’inizio degli anni 70, in concomitanza con la riforma tributaria, e all’inizio degli ’80, con quella dei reati tributari). In seguito, invece, i condoni si sono fatti più frequenti (scudo fiscale, voluntary disclosure e pace fiscale) più per rispondere a un’esigenza di gettito che a una di “chiusura con il passato”.

Questa stagione legislativa si caratterizza per una sequela di condoni senza progettualità e senza obiettivi sistematici. Il condono non è in sé un male, non lo sarebbe neppure un “mega-condono” (ove compatibile con i vincoli posti dalla normativa e dalla Corte Ue), ma dovrebbe fare da corollario a una vera, drastica, sistematica riforma del sistema fiscale, senza la quale il giudizio verso questa serie di condoni(ni) non può che restare critico.

 

L’affaire russo e la coerenza del giuramento

Si era da poco conclusa l’accesa discussione su Carola e le Ong, e Socrate già affrontava un altro tema. È che in Italia era esploso l’affaire Lega-Russia, una storia di tangenti e petrolio, ed entravano in gioco questioni serie come la patria, la sicurezza nazionale, i finanziamenti occulti di una potenza straniera, la corruzione internazionale. Temi scottanti, sui quali il filosofo ateniese teneva banco da un’ora. “Insisto: un conto è parlare di città-Stato, o nazione come ora si dice, altro è difenderla davvero affrontando il pericolo. ‘Prima gli ateniesi’ per me non era uno slogan, andai in guerra a Potidea, a Delio, ad Anfiboli, per onorare la patria”. “E combattesti con coraggio, Socrate, a Potidea salvasti la vita ad Alcibiade ferito; a Delio salvasti Lachete”.

“A un certo punto contano i fatti, Critone, non puoi parlar sempre di patria e autonomia territoriale e poi svenderla per finanziare la campagna elettorale. Domina l’incoerenza. Mi proponesti di fuggire dal carcere (‘se non lo farai la gente ci biasimerà per non averti aiutato’) ricordi?”, “Rifiutasti, perché ‘l’esistenza di un uomo dev’essere coerente con le sue idee’”.

“Oggi però non è più così, la corruzione è solo un problema di prezzo: mettere il Paese nelle mani di Putin – se le accuse son vere – costa 65 milioni. Perché l’Italia deve uscire dall’euro? Perché Salvini è entrato nel rublo”.

“Questa battuta non è tua”.

“Certo che no, è di Ellekappa. Lucido anche il Fatto: ‘Io rublo, tu rubli’. Insomma, a lavorare per una potenza straniera era proprio il ‘difensore’ – stando all’accusa – degli interessi nazionali. Non è cosa di poco conto: il Paese è ancora sovrano?”.

“Non era poco, per te, nemmeno accettare la fuga”.

“Avrei rinnegato me stesso: ho sempre difeso le Leggi, non potevo tradirle fuggendo”.

“Ma si fugge dal proprio dovere in mille modi: sento che stai per dirlo”.

“Fuggi se cerchi finanziamenti occulti; se le tua politica è oggetto di mercato; ‘se non spieghi nulla, se non puoi nemmeno farlo, se rifiuti le domande…’”.

“Fuggi dal tuo dovere se non sai chi sei”, disse intervenendo Epitteto. Ma Critone si riprese subito la scena: “Cosa ti turba di più, Socrate, in questa storia?”

“Che Salvini neghi l’evidenza: Savoini? ‘Un mio rappresentante’ ma anche no. Nasconde un legame che selfie, tweet, fb, Instagram confermano. È un bugiardo”.

“Ama Protagora – suggerì Critone – ‘sostiene due tesi contrarie su ogni argomento’: ha qualche problema con la verità”.

Socrate non raccolse. “Mi turba inoltre che le scelte filorusse di Salvini – se è coinvolto nell’affaire – non fossero libere ma condizionate dal denaro. Delle due l’una, Critone, o il leader leghista ha gravi responsabilità, o Savoini dev’essere, in quanto millantatore, denunciato, espulso, trattato come il peggiore nemico della Lega: ma Salvini può farlo? Che prezzo pagherebbe? Quanti segreti conosce il fedelissimo rinnegato?”.

Era un fiume in piena Socrate, quando intervenne Simone Weil: “Sono domande legittime: la politica è ridotta a mera tecnica per la presa e il mantenimento del potere. Il potere però non è fine a se stesso – va gestito con prudenza, senza prevaricare: perché il leghista convoca i sindacati al Viminale? Che vuol dire? – il potere dovrebbe essere un mezzo per…”. “Dovrebbe essere”, sottolineò Critone, e tornò all’affaire: “Salvini deve riferire in aula, difendersi dalle accuse, chiarire, mostrare che non è ostaggio di Savoini & Siri”. “Parole giuste – disse Socrate –, io non dovevo riferire in Parlamento ma non mi sottrassi a nessuna domanda”, poi cambiò registro: “Savoini tace con i pm, non parla più, da giorni non fa che pregare: ‘Dio, dammi un assegno della tua presenza’”. Risate. Poi il filosofo avviò un altro dialogo di cui diremo.

Hong Kong, la storia che non leggerete

Non riportare mai la versione dell’altra parte in campo e limitarsi a ripetere la stessa storiella, senza il minimo approfondimento, sono diventati le regole seguite dai media mainstream nel trattare i fatti internazionali. Che si tratti di Cina, Venezuela, guerre, massacri e catastrofi, ogni volta che si deve informare si ricorre a una formuletta preconfezionata. Che coincide regolarmente con gli interessi dei proprietari dei mezzi di comunicazione, dei governi occidentali e dello 0,1% che tenta di governare le cose del mondo.

Per rompere questa corruzione mediatica, che svuota di senso il discorso democratico e ci mette nelle mani di una plutocrazia sempre più ristretta, occorre immergersi nel caos delle fonti alternative di informazione o fondare giornali indipendenti. Oppure essere dei premi Nobel come Paul Krugman. Il quale si può permettere dalle colonne del New York Times di elencare le forme attraverso cui lo 0,1% distorce a proprio vantaggio le priorità pubbliche. E produce, aggiungiamo noi, la comunicazione ipersemplificata, falsa e omissiva di cui siamo vittime. Ecco la lista di Krugman: 1) Corruzione hard: mazzette di soldi a politici e giornalisti. 2) Corruzione soft. Cioè “porte girevoli” tra governo e business, compensi per giri di conferenze, membership di club esclusivi. 3) Contributi elettorali. 4) Definizione dell’agenda politica attraverso la proprietà dei media e dei think tank, in modo da far prevalere priorità che fanno spesso a pugni con la ragionevolezza e il bene comune (P. Krugman, NYT 22.6.2019). Quando lo 0,1% decide che un Paese va attaccato – o perché privo di armi nucleari e ricco di risorse naturali, o perché in grado di competere sul piano economico e geopolitico, o perché attestato su posizioni ostili alla finanza neoliberale, o per una combinazione di questi motivi – scatta un assalto coordinato al suo governo. Le altre priorità di politica estera scompaiono, e parte la crociata mediatica. Poiché viviamo in un’epoca di diffusa avversione alla guerra, il pretesto preferito per aggredire un Paese è diventato quello umanitario e della violazione dei diritti umani.

La corruzione mediatica ha di recente preso di mira la Cina, attraverso la disinformazione sulle proteste che avvengono a Hong Kong in queste settimane presentate come manifestazioni di difesa delle libertà politiche dei cittadini da un trattato di estradizione che consentirebbe alla Cina di prelevare da Hong Kong i dissidenti per imprigionarli nella madrepatria. Non una parola viene sprecata per ricordare: A) che Hong Kong fa parte della Cina, ed è una regione a statuto speciale tornata a far parte della Cina stessa dal 1997 dopo essere stata per oltre un secolo colonia inglese in conseguenza delle guerre vinte dalla Gran Bretagna nell’Ottocento in nome della libertà di vendere l’oppio ai milioni di tossicodipendenti cinesi. B) che la Cina ha rispettato le istituzioni democratiche introdotte a Hong Kong dagli inglesi all’ultimo minuto prima della loro dipartita. C) che la maggioranza degli elettori della città sono pro-Cina e che i partiti anticinesi continuano a perdere consensi. D) che il trattato riguarda i reati comuni sopra i 7 anni di carcere (omicidi, rapine, stupri, etc.) puniti in entrambi i sistemi. Ed esclude quindi qualunque possibilità di uso politico. E) che la Cina lamenta il fatto che Hong Kong ha firmato solo 20 trattati di estradizione con paesi esteri ed è diventata perciò un ricettacolo della delinquenza cinese ed internazionale di ogni risma: dagli assassini di alto bordo ai contrabbandieri, dai politici corrotti ai mega-truffatori finanziari che risiedono sul posto imboscando il loro malloppo (Hong Kong è ancora uno dei massimi paradisi fiscali). A proposito di quest’ultimo punto, è stato a Hong Kong che, da vicepresidente della Commissione antimafia, il sottoscritto ha trovato le tracce, nel 1995, di qualche soldino depositato per conto di Bettino Craxi. F) che il vero problema che sta alla base del disagio degli abitanti di Hong Kong è il suo declino come centro finanziario rispetto alla crescita impetuosa della madrepatria e della zona confinante di Shenzhen dopo il 1997. Crescita dovuta allo sviluppo di una vasta industria manifatturiera che sta agli antipodi della finanza semi-criminale di Hong Kong. Scavalcata ampiamente, tra l’altro, nella sua componente legale, dalle Borse di Shanghai e Guangzhou.

Una parte degli abitanti di Hong Kong, perciò, coltiva il sogno di un ritorno al passato che preservi uno status di hub finanziario che per la Cina ha perso rilevanza. E che non è sintonia con le politiche di Pechino volte a favorire l’economia reale a scapito della finanza privata. Ma è una storia non facile da raccontare. Lo 0,1% preferisce far passare una storiella più sbrigativa, con il tiranno Xi Jinping da un lato e gli eroi della democrazia liberale dall’altro.

Mail box

 

Bocelli non è un tenore come ci fanno credere

Egregio Dottor Isotta, grazie per lo stupendo articolo su Von Karajan. Ne rispecchia perfettamente il carattere dell’uomo e della musica. Posso chiederle per quale motivo ci spacciano e ci sciroppano in tutte le salse Andrea Bocelli come tenore? Non è un tenore a mio avviso. Al contrario, un ottimo cantante al livello di Claudio Villa o Modugno.

P.S. Per mia fortuna ho sentito cantare i veri tenori… Del Monaco, Di Stefano, Corelli e il Pavarotti del primo periodo.

Rodolfo Kaufmann

La risposta se l’è data Lei stesso, quando parla di “veri tenori”. Viviamo in tempi cattivi, nei quali la moneta cattiva scaccia la buona. Ma non tocchi il grande Claudio Villa, né osi paragonargli Bocelli.

Paolo Isotta

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’articolo “Addio sicurezza sui binari. I soliti burocrati bloccano la nuova super agenzia”, pubblicato il 10 luglio 2019, l’Agenzia Nazionale per la Sicurezza delle Ferrovie, intende chiarire quanto segue: l’affermazione per cui l’Agenzia non manderebbe “mai un ingegnere a controllare” non corrisponde a verità. L’Ansf ha compiti di tipo normativo, autorizzativo e di supervisione in materia ferroviaria ed effettua audit ed ispezioni sui soggetti vigilati. A titolo esemplificativo, nel 2018 sono stati svolti controlli sul campo su 1460 treni di 33 imprese ferroviarie (8.994 elementi verificati), 112 località ferroviarie (verifiche sulla manutenzione di 10.719 elementi), 81 audit presso gli operatori ferroviari, 4 audit presso i centri di formazione riconosciuti, 3 visite ispettive per il trasporto di merci pericolose.

Tali numeri, ancorché condizionati dal limitato organico attualmente disponibile, smentiscono la presunta assenza di controlli. La citazione delle 66 autorizzazioni rilasciate prima dell’entrata in vigore del IV Pacchetto ferroviario deve essere inquadrata in un contesto più ampio che vede l’Ansf rilasciare circa 3.500 titoli autorizzativi l’anno. Le 66 autorizzazioni in valore assoluto non rappresentano quindi una condizione di eccezionalità, ma assumono particolare rilevanza nell’attuale momento di cambiamento della normativa comunitaria.

La mancata conclusione dei procedimenti prima del 16 giugno avrebbe avuto un forte impatto sulle aziende e sugli utenti del trasporto ferroviario, rendendo necessario il riavvio dell’iter autorizzativo. Gran parte delle 66 autorizzazioni riguardano nuovi treni tra cui i Rock e Pop destinati ai pendolari.

Non si comprende, quindi, come l’accelerazione, per non disperdere il lavoro svolto, anziché un fatto di buona amministrazione, possa essere considerato degno di biasimo, dal momento in cui le nuove procedure presentano comunque contenuti tecnici conformi a quelli delle precedenti. È d’obbligo ricordare, infine, che anche dopo il 16 giugno 2019 l’Ansf continua a svolgere i compiti di presidio della sicurezza ferroviaria fino a quando non verrà realizzata la piena operatività di Ansfisa, come previsto dal vigente quadro legislativo.

Deborah Appolloni, Ufficio stampa ANSF

La lettera conferma l’assunto dell’articolo, cioè che la principale attività dell’Ansf è la produzione di carta a mezzo di carta. Ai rilievi sul monitoraggio dei binari (che si rompono sempre più spesso) si oppone il controllo di fantastiliardi di vagoni. E però solo 3 volte in un anno, per celebrare il decennale della strage di Viareggio, si è trovato il tempo di occuparsi delle merci pericolose. Infine l’ufficio stampa non si è accorto che le “ben” 66 autorizzazioni in due settimane sono state definite un fatto eccezionale non dal Fatto, ma dal direttore dell’Ansf nella sua lettera.

G. Me.

 

Gentile Stefano Feltri, ho letto la sua rubrica che mi riguardava. Volevo rassicurarla che non c’è nessuna “ossessione” del Pd per i valori di Borsa di Atlantia. La mia lettera a Consob ha preso le mosse dalle dichiarazioni del vice premier e ministro dello Sviluppo, Luigi Di Maio, per sottolineare l’imprudenza di un esponente di governo che ha anche un ruolo primario nella vicenda Alitalia, nell’esprimersi in quei termini (“decotta”) nei confronti di un gruppo quotato in Borsa. La mia preoccupazione era per le possibili ripercussioni sui 31 mila dipendenti di Atlantia. Se dovessero esserci perchè un ministro, per di più del Lavoro, gioca con le parole in tv, sarebbe ancora più grave. Mi fa piacere notare che lei condivida il mio giudizio su questo. Sono ligure e ho vissuto l’enorme dramma del crollo del Ponte Morandi. Per le vittime, per i feriti, per la città di Genova, per l’intero Paese auspico che vengano individuate le responsabilità da parte degli organi competenti, in sede penale e amministrativa. Fu un governo di centrosinistra a limitare i vantaggi delle concessionarie e uno di centrodestra a fare retromarcia, col voto di Salvini, attuale alleato di Di Maio. Ossessioni e contraddizioni riguardano altri, non il Pd.

Raffaella Paita, parlamentare Pd e capogruppo in Commissione trasporti

Fu un governo di centrosinistra a generare il problema, con la privatizzazione di Autostrade nel 1999 e un altro a peggiorare la situazione con la convenzione del 2007. Preoccuparsi dei dipendenti di un quasi-monopolista che prospera grazie a regole scritte su misura da politici compiacenti e non del danno alla collettività che tale posizione di indebito predominio procura è una precisa scelta politica.

Ste. Fel.

Von der Leyen. Dopo quello italiano, ora per i 5 Stelle c’è la prova del governo Ue

La mia impressione è che il voto italiano alla Von der Leyen si sia rivolto a promesse secondarie quando mancava la cosa più importante che era un cambiamento sostanziale del trattamento del debito europeo. Inutile dire che il programma di Ursula era ambientalista quando poi i Verdi europei le hanno votato contro. Inutile perorare la raccolta di naufraghi quando non si parla delle quote. Il punto importante non è l’ambientalismo o la raccolta dei naufraghi in mare, ma è l’austerità, se deve continuare questo sistema perverso del debito per cui sono vietati i debiti da investimenti produttivi e si continua con le sanzioni distruttive e con l’usura delle banche a danno dei popoli. E noi sull’austerità e sul debito non abbiamo sentito nulla. Abbiamo votato per delle promesse secondarie quando è rimasto intoccato il sistema distruttivo dell’austerità, del Fiscal compact, del debito assassino, del neoliberismo nemico delle libertà delle Nazioni, di tutte quelle regole a favore delle banche e contro i popoli che hanno portato alla distruzione della Grecia e minacciano l’Italia. Con Ursula l’impianto neoliberista europeo non è cambiato e i 5Stelle, alla fine, hanno votato contro se stessi e contro il mandato dei loro elettori.
Viviana Vivarelli

 

Da un punto di vista di coloro che lavorano e che pagano le tasse, che hanno fatto sacrifici enormi in termini di tagli allo stato sociale, incessanti da quando esiste il Trattato di Maastricht, non credo che l’elezione di Ursula von der Leyen possa rappresentare una svolta. In questo senso il tema dell’austerità è senz’altro centrale e nel discorso della neo presidente l’unico riferimento è stato quello a una possibile “flessibilità” nell’applicazione dei trattati, termine di cui sentiamo parlare ormai da anni. La sua elezione, però, è stata molto risicata e, in qualche modo, riflette la portata delle elezioni europee del 26 maggio, con la vittoria di forze nazionaliste, ma anche di Verdi e liberali. I 327 voti contrari lo confermano. Quanto al Movimento 5 Stelle, posso solo propormi di analizzare le sue scelte. E queste si spiegano con il tentativo, guidato in particolare dal presidente del Consiglio e da Luigi Di Maio, di farne risaltare il profilo governista e “responsabile”. Anche sul piano europeo. Ovviamente i 5Stelle si propongono di spostare l’asse dell’Unione europea e cercheranno di rivendicare al meglio tutte le possibili riforme che ci saranno. Ma intanto hanno compiuto una virata rilevante: dopo il governo del Paese si sono insediati, sia pure lateralmente, al governo dell’Unione europea. Con quel che ne consegue.
Salvatore Cannavò