M5S dichiara guerra al canone Rai e vuole abolirlo. Questa è la richiesta del movimento di Luigi Di Maio con una proposta di legge presentata in Parlamento. “In attesa di una vera e propria riforma delle Rai e del mercato pubblicitario, vogliamo aiutare le famiglie italiane abolendo il canone. Ovviamente questo comporta l’inevitabile scelta di eliminare anche il tetto pubblicitario, dando il via a una vera e propria concorrenza che oggi non c’è tra Viale Mazzini e gli altri canali televisivi”, afferma Gianluigi Paragone (M5S), presentando la proposta. L’idea non dispiace alla Lega, che guarda con interesse. “L’importante è che si trovino risorse in altro modo e non si vada a indebolire la tv pubblica”, fa sapere il partito di Salvini. La proposta viene invece bocciata da FdI: “Idea surreale”. Sulle barricate pure l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti di Viale Mazzini. Che snocciola dati secondo cui a ogni singolo cittadino il canone non costa 90 euro l’anno, ma solo 29, contro i 98 euro della Germania e i 52 della Francia. E si fa notare che solo 74,73 euro sui 90 finiscono nelle casse della tv pubblica, ovvero l’83%, contro il 98% della Germania e il 96% della Francia.
Europei Nuoto: Raggi li vuole, ma servono circa 16 milioni
Gli Europei di nuoto 2022 a Roma. Il Comune di Virginia Raggi ci crede e avvia il processo di candidatura. Anche se per organizzare la manifestazione serviranno circa 16 milioni, e quindi un aiuto consistente del governo.
La storia (tormentata) del M5S con i grandi eventi sportivi continua: no alle Olimpiadi di Roma 2024, “ni” a quelle di Milano-Cortina 2026, sì alle Atp finals di tennis a Torino. E ora anche agli Europei di nuoto 2022, in collaborazione con la Federazione del presidente Barelli: la sindaca ha firmato la proposta, a 10 anni di distanza dai Mondiali 2009 che hanno lasciato sprechi (come la famosa Vela di Calatrava) ma anche le piscine al Foro Italico e a Ostia dove potrebbe svolgersi la manifestazione. La memoria di giunta non prevede “ristrutturazioni di impianti” né spese a carico del Campidoglio. Un po’ di soldi, però, ci vorranno: le prime stime sono di 16 milioni, per cui il Comune dovrà tornare a bussare al governo (sperando non si ripeta il tormentone del tennis a Torino). Giorgetti per ora prende tempo: “Aspettiamo una proposta formale, documentata di costi e ricavi”.
Due settimane, 52 nazioni, 1.500 atleti: gli European Aquatics Championships sono un evento di grande prestigio, anche se forse non quanto sognavano a Roma. Nell’ultimo anno diverse Federazioni avevano lavorato a un progetto ancora più ambizioso: un nuovo Europeo multidisciplinare, che riunisse vari sport, principalmente nuoto e atletica (ma anche golf, canottaggio, ciclismo, ecc.). Una mini-Olimpiade europea. Alla fine non se n’è fatto nulla, per problemi sui diritti tv. Nel 2022 l’Italia punta a ospitare il nuoto (per ora c’è da battere la concorrenza della russa Kazan). Mentre l’atletica ci riproverà con l’edizione 2024 (qui siamo ancora in fase embrionale). Con gli Europei di calcio 2020, Roma diventerebbe capitale dello sport continentale.
Appendino perde una consigliera M5S
Meno due. Chiara Appendino perde un altro pezzo in Comune: se ne va anche la dissidente Marina Pollicino, a seguito del caos scatenato dalla perdita del Salone dell’Auto e la revoca delle deleghe al vicesindaco Guido Montanari. È la seconda consigliera che lascia il M5S, dopo l’uscita di Deborah Montalbano a inizio 2018. Così la maggioranza è sempre più risicata: alla sindaca restano 2 voti di margine e un gruppo diviso, non più solo dalle critiche di una manciata di dissidenti, ormai spaccato 50 e 50. Stasera la riunione di maggioranza rischia di trasformarsi in una resa dei conti in vista dell’assemblea di lunedì.
Il trasloco del salone dell’Auto alla rivale Milano (altra beffa dopo le Olimpiadi) è diventato un caso politico. Ieri la consigliera Pollicino ha ufficializzato il suo addio. “Non mi riconosco più nel Movimento, le parole della sindaca sono inaccettabili: prova a scaricare su alcuni di noi una responsabilità personale, nel tentativo maldestro di nascondere le sue giravolte”. Era una delle dissidenti più intransigenti, la sua fuoriuscita però certifica l’equilibrio sempre più precario della maggioranza.
“Il clima è pesante ma non da ora, con alcuni colleghi da mesi non ci rivolgiamo più la parola”, raccontano da Palazzo civico. Fino ad oggi, però, i dissidenti hanno (quasi) sempre votato con la maggioranza: la questione è se continueranno a farlo in futuro. La frattura interna non è più limitata a quei 4-5 consiglieri che negli ultimi tre anni hanno fatto sentire la loro voce di dissenso sui temi più sensibili, come Tav e Olimpiadi. Dopo la cacciata del vicesindaco Montanari (“Se secondo la sindaca la città viaggiava con il freno a mano tirato, ora si può dire che sia davvero inchiodata”, ha detto ieri), il malcontento è diffuso. Lo lasciano intendere anche le dichiarazioni della capogruppo Valentina Sganga: “Ci troviamo a vivere un momento difficilissimo, la cui soluzione è in capo alla sindaca che ha scelto di adottare una strategia dura e complicata per ricompattare la maggioranza. Questa strategia non è stata condivisa con noi”.
Insomma, non tutti hanno apprezzato la linea della fermezza adottata da Appendino, che potrebbe spaccare definitivamente la maggioranza. E forse persino farla cadere. Ormai la prima cittadina può contare su uno zoccolo duro di soli 10 consiglieri, oltre ai dissidenti “storici” ce ne sono altri 4-5 incerti, che a questo punto saranno decisivi. Se la sindaca dovesse essere sfiduciata e andare sotto nelle prossime votazioni in consiglio la sua esperienza potrebbe addirittura concludersi. Per capire la tenuta della maggioranza non servirà aspettare tanto: stasera (alle 19) ci sarà una riunione interna della sindaca con i consiglieri. Già vedere se si presenteranno tutti (al netto di un paio di assenze giustificate per ferie) sarà un’indicazione importante. Poi sarà tempo di contarsi.
La pena del realista Di Maio: “Non mi sopporto neanch’io”
Siccome si è stancato di sentirsi dire che il Movimento è cambiato e non ne può più della retorica dei duri e puri, di quelli che gli ricordano che “una volta” non era così, martedì sera Luigi Di Maio ha deciso di incenerire gli attivisti petulanti: “È vero: a volte, quando mi sento parlare e dico cose che un tempo erano da espulsione, mi sto sul cazzo da solo anch’io”.
Al teatro Orione di Roma, il vicepremier è venuto per incontrare i militanti Cinque Stelle, una delle tappe del tour che sta facendo in giro per l’Italia in vista della riorganizzazione interna annunciata per ottobre. E qui più che altrove deve vedersela con la base riottosa. Quella, per intenderci, che assai si riconosce in Alessandro Di Battista, l’ex deputato che ha dato dei “burocrati” ai colleghi finiti al governo. Così Di Maio ha deciso di non presentarsi a capo chino. E i 750 che lo volevano mettere sulla graticola li ha zittiti così, con l’ammissione dell’ovvio: lo sa anche lui, insomma, che tutto è cambiato, che “una volta” non era così. E pazienza se gli capita di sentirsi diviso tra loyin e lo yang. “Dobbiamo aprirci al nuovo, smetterla con i fanatismi: abbiamo scritto e detto cose che erano valide dieci anni fa e oggi non lo sono più. Non si tratta di tradire, ma di andare avanti”.
Di Maio porta numeri, spiega che i militanti sono pochi, i meet up solo 500 su 8 mila Comuni. E quindi il potenziale di crescita è enorme, ma non si può “sospettare di chiunque arrivi”. Certo, non pare il capo politico dello stesso Movimento che lì, fuori dall’Orione, ha appena imposto varchi d’ingresso severissimi. Controlli doppi per evitare infiltrati e perlustrazioni continue della sala, durante l’incontro durato cinque ore, per accertarsi che nessuno stesse riprendendo con il telefonino. Eppure, assicura chi c’era, lo streaming avrebbe dato una grandissima prova di democrazia interna: 90 interventi da due minuti l’uno, con Di Maio in prima fila a prendere appunti ininterrottamente, nonostante buona parte degli speaker non abbia rispettato la preghiera del capo politico: “Risparmiamoci l’analisi del voto”.
La fanno, l’analisi. Ma Di Maio non ha nessuna voglia di parlare con loro di “quell’altro”. Salvini non lo nomina mai, preferisce indicarlo così. E l’unico accenno che concede alle questioni di governo è sul fatto che l’autonomia può diventare la chiave di volta per alzare il livello delle richieste con gli alleati di governo, che tanto “mollarli” – come gli suggerisce qualcuno – aprirebbe solo la porta all’ennesimo “inciucione”. “Abbiamo imparato come si fa”, è il senso del ragionamento di Di Maio sui compromessi che tocca fare quando hai delle responsabilità.
Di Battista – su cui pesa l’accusa di giudicare con le mani in tasca – è qualche fila più in là, nel lato sinistro della sala. Non si è seduto vicino a Di Maio, anche perché è arrivato prima del vicepremier. Non c’è stato, a quanto pare, nessun contatto tra i due, o almeno nulla di plateale. C’è invece Virginia Raggi, a cui Di Maio cede il palco prima delle conclusioni. E non manca un elogio a Chiara Appendino, la sindaca di Torino che ha appena subìto il voltafaccia dei suoi consiglieri sul Salone dell’auto.
Di Davide Casaleggio, al contrario, Di Maio parla poco, pochissimo. E per null’altro che non riguardi il suo ruolo di tecnico: “Rousseau ha raggiunto risultati importanti, sono sei mesi che non ‘cade’ più”. Cita l’eredità di Beppe Grillo e mostra grande compassione per “la situazione che ha passato Beppe” quando doveva occuparsi di ricorsi, simboli e certificazioni: “Lo staff sono io, mi aiutano solo cinque persone: se a volte non rispondiamo, un motivo c’è. La realtà – li saluta – è diversa dal non-Statuto”.
La flat intervista: Siri, chi era costui?
Ma come saràquesta flat tax? Dove troverete le risorse? Ma non rischia di complicare il sistema? Sicuro sicuro che il “saldo e stralcio” per le imprese sia fattibile? Tante domande e a ognuna l’intervistato risponde giudiziosamente e con sicurezza: “La nostra proposta originaria prevedeva il 15% per tutti con una deduzione fino a 3 mila euro. Questa è una fase intermedia ed è articolata sulle dimensioni del nucleo e sui redditi disponibili: fino a 30 mila euro per un single, fino a 55mila euro per i nuclei monoreddito con figli e stiamo pensando di arrivare a 65mila euro per i nuclei con figli ma con più redditi disponibili. L’adesione al nuovo sistema sarà volontaria: il contribuente dovrà calcolare quale regime gli converrà di più, se la flat tax o quello vecchio”. Chi risponde giudiziosamente alle domande del Sole 24 Ore è Armando Siri, che – ci informa il giornale – “è stato estromesso da qualsiasi ruolo di governo” ed ha avuto delle “vicende giudiziarie” che lo “hanno coinvolto”. Chissà quali sono queste vecchie vicende giudiziarie? Si domanderà il lettore. Forse il vecchio patteggiamento per bancarotta? E perché lo avranno “estromesso” dal governo? Mistero. Che giusto un paio di giorni prima l’imprenditore in odor di mafia Vito Nicastri abbia dato ai pm elementi per corroborare l’accusa di corruzione all’ex sottosegretario lo sapranno dalla tv. O no?
Pure la Corte dei Conti boccia l’autonomia: “Attenti sui tributi”
Il regionalismo”differenziato” – ovvero l’ampia autonomia richiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna e avallata dalla ministra Erika Stefani (nella foto) – non piace troppo nemmeno alla Corte dei conti, che ieri è stata audita sul tema dalla Commissione per il federalismo fiscale: né la Costituzione, né la legge del 2009 consentono, dicono i giudici contabili, “una diversa modalità di finanziamento delle materie aggiuntive (concesse alle Regioni, ndr), né la loro sottrazione al meccanismo di perequazione interregionale previsto dalla legge”. Insomma, non solo il sistema deve essere “solidale” tra aree ricche e povere, ma non si può nemmeno arrivare a venti modelli di trasferimento fiscale per accontare Zaia e soci: intanto le competenze andrebbero passate alle Regioni solo quando c’è un vantaggio per i cittadini, e poi “talune materie, di competenza sia concorrente, sia esclusiva, definite come devolvibili, non sembrano così facilmente ‘spacchettabili’, come ad esempio ‘il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario’: appare necessaria una riflessione”. Di più: servirebbe “un’analisi costi benefici”. Altra carne al fuoco per domani, all’ennesimo vertice di governo.
Più gattini, meno Savoini: Matteo si rifugia dai felini
“Ministro, il gatto! Prenda in braccio il gatto! Lo accarezzi, ministro!”. L’immagine è a suo modo straordinaria: fotografi e cronisti schiacciati contro una recinzione verde invitano il vicepremier, dall’altra parte della rete, ad accudire un felino maculato, dall’aspetto docile, un po’ incimurrito. Ognuno fa il suo lavoro: i primi cercano la foto da mettere in pagina, il secondo quella da pubblicare sui social. Matteo Salvini infatti sorride, obbedisce, afferra l’incolpevole quadrupede.
Il tema è abbastanza chiaro: più gattini e meno Savoini. Mentre tutti gli chiedono qualche parola chiara sui soldi dei russi, Salvini allegramente se ne frega: fugge al Verano, il cimitero monumentale di Roma, per visitare una delle più grandi colonie feline della Capitale. C’è poco da ridere: il rapporto con gli animali è diventato uno dei principali filoni della sua comunicazione politica. I post su cani e gatti su Facebook e Instagram sono di sicuro affidamento: la gente li ama. È un continuo: foto del poliziotto che fa le coccole a una micetta incinta (89 mila like); diretta Facebook per trovare una sistemazione ai 117 cani del Cara di Mineo (con titolone di Libero in prima pagina: “Salvini aiuta i cani e la sinistra abbaia”); video-denuncia con un bastardino trascinato al guinzaglio (per errore) da una macchina in corsa (risultato, caccia all’uomo: centinaia di messaggi di minacce ai proprietari). E così via: la letteratura sul capitano zoofilo è vasta; “il popolo” apprezza, lo sente più umano, ancora più normale.
In questa speciale categoria la visita di ieri al gattile del Verano è destinata a diventare un momento apicale, diciamo. Molto al di sopra della questione rubli e dei litigi con i 5Stelle, il ministro arriva di mattina con l’inevitabile scorta. Un esercito di scooter – i giornalisti – lo insegue nelle vie del cimitero, turbando il riposo (eterno) dei suoi inquilini. Si arriva al gattile: ad accogliere Salvini c’è un buon numero di volontari e un piccolo rinfresco con tramezzini, pizzette, Coca cola. Poi se ne va in mezzo ai felini e i giornalisti restano fuori (non bisogna stressare i gatti, alcuni già piuttosto malconci). Ne uscirà con indosso l’ultima divisa: la maglietta nera con zampone bianco dell’associazione “I gatti del Verano”.
Il gattile regala una storia nella storia: pare che la struttura riesca ad accudire circa 400 mici, i cosiddetti “residenti”. Il problema è che la gente non smette di abbandonare altre bestie nei pressi della colonia, che quindi continua a sovrappopolarsi. I volontari sono furiosi: “Non portate gatti – il messaggio – non siamo una struttura comunale, la colonia è piena, la situazione è disperata”. Ecco il passaggio cruciale: “I gatti abbandonati non si integrano con gli oltre 400 residenti che li cacciano e li feriscono, molti vagano per giorni senza mangiare e sfiniti si lasciano morire spaventati nelle tombe”. È chiaramente una guerra tra poveri: nel gattile c’è un drammatico problema di integrazione. I gatti migranti abbandonati da famiglie scafiste vengono respinti dai felini regolari, che presidiano i confini della struttura senza rinunciare alla violenza: per i sans papier del Verano non c’è futuro. Ne parliamo con la signora Bruckova, “gattara da 30 anni”, nata a Praga ma intrisa di nazionalismo italiano: “Proviamo ad accogliere tutti, ma non è possibile”. Non è questione di gatti neri e gatti bianchi.
Salvini riemerge dalla visita col solito sorriso. È circondato dai giornalisti, ma inutile insistere su Savoini. Risposte automatiche, poi svicola: “Parliamo di vita reale”. I gatti? Infine si allontana, passeggia per il cimitero, visita la tomba di Alberto Sordi. Si ferma per un minuto buono, in assoluto silenzio, a guardare all’interno della cappella. Magari riflette sul suo destino di super-italiano.
Memoria scritta del ministro: Conte detta le condizioni
Giuseppe Conte vuole sapere la verità su Gianluca Savoini e l’incontro con i russi del Metropol di Mosca. Il premier non ha intenzione di far insabbiare il caso: la vicenda è seria e non sarà lasciata cadere. A Matteo Salvini chiede trasparenza. Sarà Conte a presentarsi di fronte al Senato per l’informativa sul “caso rubli”, come richiesto dall’opposizione: “Il Parlamento è sacro – ha detto – e io, che sono la massima autorità del governo, riferisco”.
Farà da “scudo” al suo vice che continua a negarsi alle Camere. Ma allo stesso tempo vuole avere una memoria scritta da Salvini, l’unico che può spiegare i contorni della vicenda. Una verità ufficiale la cui responsabilità sia formalmente tutta del capo della Lega; un documento tangibile, che resti agli atti, in attesa che i pm milanesi portino a termine l’inchiesta sui fatti di Mosca. Salvini dovrà finalmente chiarire le circostanze per cui Savoini, suo ex portavoce e rappresentante degli interessi del Carroccio a Mosca, sedesse a un tavolo in cui si discuteva l’ipotesi di un finanziamento illecito da quasi 65 milioni di dollari dalla Russia, come si sente nell’audio pubblicato da Buzzfeed (che alcuni accigliati leghisti, nei corridoi del Parlamento, definiscono “il Lercio americano”).
Salvini però non vuole rispondere nemmeno alla richiesta del premier. La sua memoria entro poche settimane potrebbe essere smentita dai risultati dell’indagine. E l’uscita di Conte non è stata presa affatto bene: “Mi dite che il premier mi vuole scrivere una lettera sui fondi russi? – ha chiesto Salvini ai cronisti, in missione in Finlandia –. Che scriva pure. Io posso rispondere via mail, via Whatsapp, via carta e penna che non abbiamo chiesto un euro fuori posto”.
Sull’affaire Savoini il capo della Lega è in trincea da giorni. Per la prima volta appare stizzito, nervoso, in difficoltà. Non sembra aver elaborato una strategia difensiva: prova a spostare l’attenzione altrove, aspetta che il clamore mediatico diminuisca. Prima di partire per Helsinki, Salvini ha dedicato la mattinata a una visita a un “gattile” di Roma, una scelta apparentemente bizzarra, il luogo idealmente più lontano possibile dalle questioni moscovite. Le domande dei giornalisti però, ovviamente, l’hanno riportato subito lì. Perché non va in Parlamento a riferire sul caso? “Riferisco sulle cose che esistono, non sulla fantasia. Aspettiamo la chiusura delle indagini”. Perché prima ha affermato di non sapere chi fosse Savoini e poi lo ha difeso, dicendo di conoscerlo da anni? “Io ho detto che semplicemente non avevo organizzato io alcune iniziative. Poi lo conosco, come persona corretta, da 25 anni. Se mi chiedete chi invita a cena chi non lo so, non me ne occupo”. Perché Savoini parlava a nome della Lega in quell’incontro di Mosca? “Se c’è un reato io sono intransigente con i miei collaboratori, ma solo se c’è un reato”. C’è un audio però, piuttosto chiaro. “Gli audio rubati non mi interessano. Quello che lei dice a casa sua, a nome di chi, non mi interessa. Faccio presente ai giornalisti, che sono un po’ distratti, che il pm di Milano ha detto che non serve ascoltare Salvini”. Non c’è nemmeno una questione di opportunità politica? “L’opportunità politica la valuto io”. Un muro.
Dall’altra parte del muro c’è il resto del Parlamento. Il Pd vuole portare la questione a Bruxelles e proporrà l’istituzione di una commissione speciale sulle influenze russe sulle elezioni europee. E poi ci sono le parole di Conte, che suonano come una denuncia dell’imbarazzata difesa del “Capitano”: “Quando le forze parlamentari chiamano – dice il premier – il governo risponde. Per la trasparenza nei confronti dei cittadini e dei loro rappresentanti ho una concezione sacrale”. Andrà in Senato il 24 luglio, nell’aula in cui la presidente Casellati aveva definito “pettegolezzi” la questione russa.
Il patto Ue tradito: mollato da Salvini, Giorgetti se ne va
Il voto favorevole dell’Europarlamento alla nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen rischia di avere conseguenze durature sul governo Conte e sul ruolo del numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti, la cui nomina a commissario europeo è ormai saltata e che quindi potrebbe addirittura lasciare l’esecutivo in cui ricopre la carica cruciale di sottosegretario a Palazzo Chigi.
Secondo quanto riferiscono al Fatto fonti di governo, la crisi matura nella serata di martedì: i Cinque Stelle decidono di appoggiare la Von der Leyen e si rivelano decisivi, con i loro 14 voti. La Lega tentenna: prima valuta l’appoggio, poi prevale la linea ostile oggi rivendicata dal capo delegazione leghista a Strasburgo, Marco Zanni, e dall’euroscettico Claudio Borghi a Roma. Appena si sparge la voce che la Von der Leyen è disposta a incontrare Zanni e a discutere di un possibile appoggio leghista, a Strasburgo si allarmano in tanti, a cominciare dalla famiglia socialista, cui afferisce il Pd. I socialisti non vogliono la Lega in maggioranza, l’ormai ex ministra della Difesa tedesca capisce che qualunque segnale di apertura alla Lega potrebbe costarle il sostegno dei socialisti, già indispettiti per aver dovuto incassare il veto sul loro candidato, Frans Timmermans. E quindi niente incontro con Zanni, la Lega vota contro la Von der Leyen, sperando di risultare decisiva e scoprendosi invece irrilevante. Una scelta che implica un sacrificio pesante: quello di Giancarlo Giorgetti.
In parallelo ai negoziati nell’Europarlamento, infatti, si era attivato anche Palazzo Chigi: il premier Giuseppe Conte aveva avuto l’ennesima garanzia dalla Von der Leyen che all’Italia sarebbe spettato il Commissario alla Concorrenza, una casella strategica da cui passano decisioni importanti su aiuti di Stato, Antitrust, fusioni e che riguarda tutti i Paesi Ue. Quindi, è il calcolo politico, se il commissario sarà italiano, Roma potrà sempre avere argomenti negoziali con i partner interessati alle decisioni dell’Antitrust europeo. La Von der Leyen conferma l’accordo maturato il 2 luglio. Bruciato il nome di Timmermans, nella fase convulsa del negoziato a un certo punto il pendolo mosso da Emmanuel Macron oscillava verso la scelta della liberale Margrethe Vestager alla Commissione e, di conseguenza, del tedesco Jens Weidmann alla Bce. Il veto di Conte su quel pacchetto ha contribuito ad arrivare allo schema finale, con una tedesca alla Commissione e una francese, Christine Lagarde, alla Bce. E quindi la Von der Leyen ha un certo riguardo per Conte e, dopo il voto di martedì, anche per i Cinque Stelle. Ma non per la Lega.
L’accordo dentro il governo gialloverde era fatto da settimane: Giorgetti Commissario alla Concorrenza. Una soluzione che assecondava le ambizioni del sottosegretario, risolveva un po’ di tensioni interne alla Lega (Salvini e Giorgetti sono due poteri che convivono, ma senza fondersi) e garantiva a Conte una certa serenità in vista della legge di Bilancio: avere un commissario vicino a Salvini avrebbe impedito alla Lega di trasformare i negoziati sui conti d’autunno in un rodeo anti-europeista, così da scaricare tutte le responsabilità di ogni compromesso su tagli e tasse. Ora che la Lega, già vista con grande sospetto a Bruxelles anche per i legami con la Russia, si è ufficialmente schierata contro la Von der Leyen, inserire il numero due del partito nella Commissione è impossibile: ci sarebbero veti dall’alto e una quasi sicura umiliante bocciatura in Parlamento, come fu ai tempi di Rocco Buttiglione nel 2004. Resta il dato politico italiano: alla fine Salvini ha avallato una scelta di voto che ha stroncato l’ascesa di Giorgetti.
Nei corridoi di Palazzo Chigi l’opinione prevalente è che questo sia un punto di non ritorno: adesso Giorgetti non tornerà in buon ordine nel suo ruolo di sottosegretario, “il prossimo passo è l’addio al governo”, dicono da Palazzo Chigi. L’interessato continua a negare ogni interesse per la poltrona. Ma sui suoi destini italiani non conferma e non smentisce nulla.
Giorgetti ha cominciato la sua carriera con Umberto Bossi, è sopravvissuto all’ostilità di Roberto Maroni, alle stagioni del disastro e degli scandali, e ha accompagnato – con uno stile diverso – l’ascesa di Salvini. La popolarità del vicepremier può rivelarsi effimera, ma il potere di Giorgetti è solido e duraturo e un passo di lato può essere una mossa per puntare più in alto.
La Lega dovrà affrontare questi traumi, mentre i Cinque Stelle, dopo essersi rivelati decisivi per la Von der Leyen, si preparano ad accasarsi in un gruppo al centro dei nuovi assetti: i liberali di Renew Europe, che includono l’Alde a cui il M5S tentò di affiliarsi già nel 2017. Resta il nodo del Commissario: escluso ogni politico leghista, restano i tecnici di area (perché spetta comunque alla Lega fare il nome per conto del governo). Giulio Tremonti resta una suggestione poco concreta, inizia a circolare un altro nome: Franco Frattini, già commissario europeo tra 2004 e 2008. Difficile far digerire ai Cinque Stelle un ex ministro di Silvio Berlusconi, ma oggi Frattini è tornato al Consiglio di Stato dove è presidente di sezione. Un ambiente in cui il premier Conte, da ex membro dell’organo di autogoverno dei giudici amministrativi, ha radici e connessioni solide.
Il nostro caro Andrea
Ci vedemmo un anno e mezzo fa, prima delle elezioni-terremoto del 4 marzo 2018. Nella sua casa romana, più biblioteca che casa, in via Asiago, a due passi dal palazzo di Radio Rai. Andrea Camilleri l’avevo incontrato qualche mese prima a teatro, alla prima di uno spettacolo con Moni Ovadia su un suo racconto. E mi aveva invitato a fare due chiacchiere. Non ci vedevamo da quando aveva aderito con entusiasmo alla campagna del Fatto per il No alla schiforma costituzionale Renzi-Boschi. Come del resto a tutte le nostre campagne di impegno civile, da quelle contro il berlusconismo a quella contro le interferenze del Quirinale nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia e in difesa dei pm di Palermo. La novità, rispetto all’ultima volta, era la sua completa cecità, che però non gli aveva tolto il buonumore e nemmeno la voglia di scrivere, di raccontare, di combattere. Parlammo un po’ di tutto, per un’ora e mezza. Anche della sua menomazione e di come, da scrittore impenitente, ci conviveva. Ma soprattutto di politica: dell’annunciata vittoria dei 5Stelle alle imminenti elezioni, della sua sinistra violentata dal renzismo (all’epoca si parlava di una lista guidata da Giuliano Pisapia), del Rosatellum fatto apposta per propiziare l’ennesimo governo di larghe intese fra Pd e B.
Fu lì che, fra un aneddoto e l’altro, mi confidò di essersi un po’ pentito di aver sempre respinto le proposte di candidatura per fare politica anche direttamente: da parlamentare e non da intellettuale. A un certo punto però s’interruppe: “Ora sono un po’ stanco, se non ti dispiace tieni gli appunti in freezer e riprendiamo la nostra chiacchiera tra qualche settimana, quando sarò tornato dalla Sicilia”. Dopodiché, fra impegni miei e suoi (aveva sempre un nuovo libro in uscita e le esigenze di promozione editoriale escludono le interviste “politiche”), quel colloquio interrotto e mai pubblicato restò lì nel congelatore, scavalcato dagli eventi tumultuosi dell’ultimo anno (Renzi sconfitto e tramontato, Pisapia scomparso dai radar, il voto del 2018, il governo giallo-verde, l’ascesa di Salvini: tutto un altro mondo, che non gli piaceva per nulla).
Ieri ho ripreso in mano quel taccuino con quegli appunti, alla notizia che Andrea non c’è più. E, per quanto monca della seconda chiacchierata rimasta nelle intenzioni di entrambi e dei suoi pensieri sull’ultimo anno, mi è parsa una bellissima intervista.
La trascrivo così com’era, con le parti invecchiate e quelle freschissime, quasi di giornata. Sperando che Andrea, di Lassù, non se ne abbia a male.
Andrea, cosa faresti se ti affidassero le sorti della sinistra italiana?
Dedicherei tutto il mio tempo all’unica cosa seria che c’è da fare: il lavoro. Qui invece si parla di legge elettorale: importante, per carità, ma nulla di concreto, nulla che si mangi. L’altro giorno sono venuti a trovarmi mia nipote e 14 ragazzi suoi compagni del liceo Mamiani, erano lì davanti l’uno sull’altro. Mi sono scusato con loro: sono un vecchio che ha creduto in questa Italia e non vi lascio nessuna eredità, in un Paese che ormai va accettato con beneficio d’inventario. La sento su di me come una colpa personale.
Ma tu non hai mai fatto politica.
Vero, l’ho sempre accettata da esterno e sono fuggito da due proposte di farla da interno. Forse per il rispetto che ho per questa funzione altissima, perché non avrei mai avuto il tempo di farla seriamente.
Pentito?
Sì, forse ho sbagliato a non impegnarmi direttamente. Ora almeno potrei dire di averci provato, invece non posso dire nemmeno questo.
Chi ti voleva candidare?
Il Pci, poco dopo la morte di Enrico Berlinguer, sotto la segreteria di Alessandro Natta. Venne Pietro Folena, allora segretario della Fgci, quello che Cossiga dileggiava come ‘braccia rubate all’alta moda’, e mi offrì un collegio sicuro al Senato. Risposi di no. Un’altra volta, nei primi anni Duemila, i vescovi siciliani proposero al presidente Ciampi di nominarmi senatore a vita. Accadde ad Agrigento, dove eravamo scesi entrambi a inaugurare dopo 40 anni il teatro tanto amato da Leonardo Sciascia. Dalla sua segreteria mi fecero sapere che il presidente voleva incontrarmi, infatti venne da me con la moglie Franca. Mi offrì il laticlavio, io lo implorai di non farlo: ‘Per carità!’. Così mi fece solo Grand’Ufficiale.
Pentito anche di quel no?
Un po’ lo rimpiango. Non avrei fatto molto, ma qualcosa magari sì. Ti racconto una storiella senegalese. Una foresta prende fuoco per un terribile incendio e tutti gli animali scappano. Tutti tranne uno: il leone che, essendo il re, non può dileguarsi per dovere d’ufficio, e resiste fino all’ultimo. Poi però non ce la fa più e corre via anche lui. Mentre scappa, vede venirgli incontro in senso inverso un colibrì con una goccia d’acqua sul petto. Gli domanda dove vada e come possa sperare di spegnere l’incendio con quella goccia d’acqua. Il colibrì risponde: ‘Non importa, intanto vado a fare la mia parte’.
Ma tu, con i tuoi libri e i tuoi interventi pubblici, hai fatto molto di più di una goccia d’acqua.
Sicuro? Il mio consuntivo sono cento e più libri, di cui 25 romanzi e cinque raccolte di racconti sul commissario Montalbano. Ma quanto hanno inciso sulle persone? La gente li legge solo come romanzi, come storie di fantasia, temo che non abbia mai preso sul serio quello che volevo dire con quelle storie.
Io non ne sarei così sicuro.
Forse fa eccezione Il giro di boa, dove racconto che Montalbano vuole dimettersi dalla Polizia dopo i fatti del 2001 al G8 di Genova. Quella volta alcuni sindacati di Polizia mi presero sul serio e organizzarono una serata di dibattito al teatro Eliseo. C’era anche “il Cinese”, Sergio Cofferati, nel suo ultimo giorno da segretario della Cgil. La conclusione del dibattito fu questa: la democrazia ha bisogno di una manutenzione quotidiana. Avevano capito che quello non era solo un romanzo.
Ora però pare tutto dimenticato, anche le vergogne del ventennio berlusconiano. Tant’è che Renzi vuole riportarlo al governo e tutti, anche nell’intellighenzia di sinistra, ne parlano come di una cosa tutto sommato accettabile, o comunque inevitabile, per salvare l’Italia dai “populisti”. Con il più populista di tutti…
Già, heri dicebamus… Ci scusiamo per la breve interruzione e riprendiamo le trasmissioni… Mi ricorda l’immediato dopoguerra: ci eravamo appena liberati di Mussolini e già si sentiva dire ‘Ridateci il puzzone, rivogliamo il capoccione nostro!’. Gli italiani purtroppo ricordano due sole cose: la storia del calcio e le canzoni di Sanremo.
Dici?
Guardi i quiz alla televisione e scopri che c’è gente che ricorda perfettamente la formazione della Juventus del 1926 o l’elenco completo dei vincitori del Festival. Poi gli domandano la data delle leggi razziali e rispondono con grande sicurezza: il 1952! Non sanno nulla! Quei quindici liceali del Mamiani mi hanno fatto un sacco di domande sul fascismo e ho capito che a scuola non gli avevano detto niente. Mi è toccato pure spiegare il referendum costituzionale a un gruppo di studenti universitari: buio completo. Scuola e università non danno più alcun aiuto. E con la smemoratezza si giustifica tutto.
Neppure la cosiddetta informazione aiuta.
Da quando non ci vedo più, ho smesso di leggere. Ma mi faccio leggere molti giornali e ascolto i notiziari in tv. Non so tutto quel che vorrei, ma abbastanza per essere aggiornato. Eppure ho una curiosità che tu mi devi soddisfare: qualche mese fa arrestano i fratelli Occhionero che pare avessero intercettato tutti i più alti vertici dello Stato. Esplode il caso in tv, per due giorni non si parla d’altro, anche sui giornali. Poi silenzio totale. Nessuno ne sa più nulla. Perché? Che è successo? Dove sono finiti? Chi avevano effettivamente intercettato? Ogni giorno pare che crolli il mondo, poi cala il black out e si passa al crollo successivo.
Sul Fatto Quotidiano abbiamo la rubrica “Com’è andata a finire”, dove spesso riprendiamo le notizie scomparse o dimenticate, aggiornandole agli ultimi sviluppi. E giuro che ti faremo sapere dei fratelli Occhionero. Intanto dimmi una cosa tu: ti spaventano l’“antipolitica” e il “populismo”?
No, perché non capisco il senso di queste parole. L’antipolitica è una forma di politica, spesso comprensibile visto come si è ridotta la cosiddetta politica. E i populisti, a sentire i politici, sono sempre gli altri, di solito quelli che prendono più voti. Ma allora sono popolari, non populisti. È scaduto il peso-massa delle parole, che un tempo avevano un loro potere, un loro senso. Erano pietre.
Che ne pensi di Renzi?
Mi faceva paura prima, me ne fa ancor di più oggi. Lui ha voluto quella riforma costituzionale orrenda, lui ha personalizzato il referendum, lui ha promesso di ritirarsi se l’avesse perso: e allora che ci fa ancora lì? È un giocatore d’azzardo e un presuntuoso, che mi fa perdere quel poco di fiducia che avevo ancora nella politica e nel centrosinistra.
C’è sempre la sinistra-sinistra, che si agita dalle sue decine di sigle e siglette.
Quelli mi ricordano quei poveri naufraghi che arrivano sulle nostre coste a nuoto, stremati. Spero che Pisapia o chi per lui faccia il miracolo che fece Alexis Tsipras in Grecia, almeno all’inizio. Riuscì a riunire e a placare tutti quei corpuscoli che si muovevano a sinistra senza una mèta, ciascuno tronfio sul piedistallo delle sue vacue ambizioni. Ci siamo sentiti qualche volta, quando tentai di dare una mano alla nascente Lista Tsipras per le elezioni europee. Ma poi è finito male anche lui, ricattato dalla troika e costretto ad attuare politiche di austerità che sono l’esatto contrario del programma su cui era stato eletto. Quello della Grecia è stato il matricidio dell’Europa: abbiamo ucciso le radici della nostra cultura.
Renzi l’hai mai incontrato?
Mai. Però l’ho sentito una volta al telefono, in una circostanza buffa. Ricordo anche la data: sabato 25 aprile 2016. Alle 10 del mattino squilla il telefono di casa: ‘È la segreteria di Palazzo Chigi, lei dottor Camilleri sarebbe disposto a ricevere una telefonata dall’estero?’. Rispondo: ‘Mi dica chi mi deve chiamare e io le dirò se gradisco o meno’. Ma il centralinista non osa o non può nominare il sacro personaggio: ‘Non sono autorizzato a dirglielo’. Gli dico di passarmi qualcuno che sia autorizzato e finalmente un funzionario svela l’arcano: ‘Il presidente Renzi, che si trova a New York, vorrebbe parlarle’. A quel punto penso: vuoi vedere che è una presa per il culo di qualche cornuto, tipo Fiorello o quelli della Zanzara?
Perché escludesti che fosse davvero Renzi?
Ma perché erano le 10 del mattino e perché avevo sempre parlato male di lui. Comunque, pensando allo scherzo, mi misi in posizione gelida e, quando mi passarono la comunicazione, risposi: ‘Mi dica’. E quello cominciò a raccontare che la sera prima era a cena con alti papaveri dell’Onu e della Casa Bianca, i quali gli avevano detto una cosa bella su di me che gli aveva fatto piacere e sperava avrei gradito anch’io.
E qual era?
A quel punto Renzi – perché era proprio lui – svelò che alla cena c’era anche l’ex presidente Bill Clinton, che gli aveva chiesto se conoscesse Camilleri. ‘Camilleri chi?’, aveva domandato lui. E Clinton: ‘Lo scrittore’. Renzi tirò un sospiro di sollievo e disse: ‘Ah sì, lo conosco, l’autore di Montalbano’. Ma Clinton ribatté: ‘Sì, Montalbano è bello, ma Il birraio di Preston è un capolavoro’. E temo proprio che Il birraio Renzi non sapesse nemmeno cosa fosse. Clinton gli disse che voleva conoscermi e gli chiese di procurargli un incontro con me, non appena fosse venuto a Roma. Io ringraziai Renzi e lui mi inviò l’indirizzo email di Clinton, pregandomi di scrivergli due righe di cortesia per non fargli fare una mala figura.
E poi?
Nel giro di due o tre giorni mi arrivò l’indirizzo email di Clinton. Allora chiamai Valentina Alferj, la mia collaboratrice che mi aiuta a scrivere sotto dettatura da quando sono diventato cieco: ‘Valentì, dobbiamo scrivere una email a Clinton. Io detto, tu traduci e scrivi… Caro Presidente, l’ho sempre ammirata per il modo distaccato e sereno in cui, dalla sua scrivania alla Casa Bianca, è riuscito a vedere i problemi del mondo… Le sono grato per l’apprezzamento… Sarò felice di incontrarla quando verrà a Roma…”. Mi rispose il giorno stesso, in una lettera allegata alla email su carta intestata ‘William Jefferson Clinton’, che era felice di avere un contatto col suo scrittore preferito. Gli mandai il mio libro storico sulla politica e le donne, La rivoluzione della luna, e ora lo aspetto. Ma m’immagino ancora il povero Renzi tutto sudato, come diciamo dalle mie parti pigghiato dai turchi, che non capiva bene chi fosse questo birraio di Coso. Le risate!
Dei 5Stelle cosa pensi?
Che devono prepararsi bene, perché certamente vinceranno, in questa politica senza ricambio. E dovranno essere all’altezza per governare, perché si capisce benissimo che toccherà a loro. Mi auguro che funzionino, perché non rimanga delusa anche questa speranza. Che è grande: gli italiani sono disperati e impazienti, come si dice in Toscana sono ‘alle porte coi sassi’. Io non escludo che ce la possano fare: certo, hanno dato anche esempi negativi, ma per esempio a Torino la sindaca Appendino e la sua squadra sono un modello positivo, e vengono dopo un sindaco come Fassino che funzionava benino: perché non se ne parla mai? Io credo che l’unica soluzione, specialmente dopo questa truffa dei voucher cancellati per ammazzare il referendum della Cgil e poi ripristinati il giorno dopo, sia che nasca un’unica formazione a sinistra del Pd, che ormai è destra, e cerchi un’intesa con i 5Stelle sulle politiche sociali: lavoro e reddito minimo. Tutto il resto non conta.
(Squilla il telefono: è Antonio Manzini, il giallista, che si complimenta con Andrea per il nuovo romanzo): Antonio è stato mio allievo all’Accademia, ha anche recitato in quattro-cinque commedie prima di darsi alla scrittura. Siamo amicissimi e ci sfottiamo di continuo. Lui mi chiama quando un suo romanzo supera in classifica il mio: ‘Come godo, ti ho sorpassato!’. Io faccio sempre notare che non è una gara sui 100 metri piani e non è lo sprint che conta: è la tenuta, la durata nel tempo… Ci vogliamo bene.
(Risquilla il telefono: è la Sellerio che comunica le vendite de La rete di protezione).
A proposito, Andrea: quando inizi a scrivere il prossimo?
Quando finisco, vorrai dire? Ogni mattina Valentina e io ci mettiamo lì al nostro tavolo matrimoniale, a due piazze. Io ormai intravedo solo ombre: detto e lei riporta, rilegge e corregge sul suo computer. Due ore filate di scrittura ogni giorno, prima che inizi l’assedio di quelli che chiamano per un parere su un fatto di cronaca, quelli che vogliono premiarmi col Bullone d’Oro, quelli che vorrebbero due paginette sull’evoluzione del fico d’India… Col nuovo Montalbano siamo a buon punto: l’altro giorno abbiamo scoperto chi era l’assassino e ora dobbiamo capire se è quello giusto… Così ci siamo fermati prima dell’ultimo capitolo.
In poco più di un’ora hai acceso e spento cinque sigarette. Quante ne fumi?
Diciamo due pacchetti e mezzo, ma solo per finta. In realtà sono molte meno. Accendo, do due o tre tiri, poi spengo. Essendo cieco, non sono più costretto a vedere quell’orrenda scritta sui pacchetti “Il fumo rende ciechi”. Già fatto, grazie… Per il resto sto benone, compatibilmente con i miei 90 anni suonati. Mia madre diceva: ‘Passata la sittantina, un dolore ogni matina’. I medici continuano a visitarmi alla ricerca di qualche intoppo, stanno qui per ore, ma alla fine non trovano mai nulla e ci restano male. Se ne vanno con l’aria sconsolata: ‘Che le devo dire, dottò, è tutto nella norma. Se vuole, si faccia un po’ di vitamina B…”. Ma poi ritornano: esami, analisi, accertamenti. E il sangue, e l’aorta, e l’eco-coso… Niente, li deludo sempre. Se mi levassero le sigarette ora, mi ammazzerebbero.