Di Maio incontra M5S: c’è anche Di Battista. Controlli all’ingresso

L’incontro fa parte del ciclo di appuntamenti per confrontarsi con gli attivisti locali in vista della riorganizzazione del Movimento. Ma siccome parliamo della tappa romana, per evitare le abbondanti fughe di notizie degli ultimi eventi, i Cinque Stelle hanno deciso di sottoporre i partecipanti a un protocollo più che stringente. Controlli all’ingresso, successiva verifica dei requisiti con il codice qwerty e documento. Perfino il sequestro di bottigliette in plastica e borracce (non sia mai che la discussione dovesse degenerare).

Così, un migliaio si sono ritrovati ieri al teatro Orione. L’obiettivo, come già avvenuto in altre grandi città d’Italia, è raccogliere i malumori della base e confrontarsi sulle nuove linee guida del Movimento, uscito male – e con la metà dei consensi – dalle ultime elezioni europee. La novità di ieri però è già nelle presenze: a fianco a Luigi Di Maio arriva infatti Alessandro Di Battista, il più noto degli esponenti romani del Movimento ma anche quello più ingombrante, che più volte è stato in contrasto con il capo politico negli ultimi mesi, soprattutto dopo l’uscita del libro Politicamente scorretto in cui non ha risparmiato critiche a ministri e al capo politico dei 5 Stelle. Un tentativo di riavvicinamento che peraltro arriva a due settimane di distanza dall’incontro con gli attivisti milanesi, quando il vicepremier Di Maio aveva ammesso di essersi “incazzato” con chi, durante la campagna elettorale per le Europee, “era andato in giro a promuovere libri”. Presenti all’incontro anche la sindaca di Roma Virginia Raggi, la vicepresidente del Senato Paola Taverna e Roberta Lombardi, capogruppo dei 5 Stelle in Regione Lazio. Tra i temi dell’assemblea si è parlato ancora dei “facilitatori”, quelle figure intermedie che dovrebbero far da tramite tra i vertici nazionali del Movimento e gli attivisti nei territori. Figure che, fanno sapere dal Movimento, “non sarebbero retribuite”. Tra gli interventi, anche quello della presidente del municipio romano che ospitava la kermesse, Monica Lozzi. Una Cinque Stelle piuttosto in vista, nell’ultimo periodo. Tanto che si è parlato di lei come possibile candidata sindaco al prossimo turno.

Madrid-Catalogna, faida anche a Bruxelles: Borrell “spia” il nemico e rischia la nomina

La guerra diplomatica tra la Catalogna indipendentista e il governo spagnolo arriva a Bruxelles e mette in discussione la candidatura di Josep Borell ad Alto Rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri. Già presidente dell’Europarlamento, catalano ma difensore dell’unità del Paese, il ministro degli Esteri spagnolo potrebbe veder sfumare la successione a Federica Mogherini per via dei documenti riservati pubblicati dal quotidiano online eldiario.es.

Si tratta di un dossier sulle attività svolte nelle capitali europee dagli uffici di Rappresentanza della Catalogna. Di fatto – secondo Madrid – delle ambasciate autonome dedite più alla sensibilizzazione sulla causa indipendentista che alla promozione della cultura catalana. Il dossier sarebbe stato consegnato dal ministero di Borrell all’Avvocatura di Stato in allegato alla richiesta presentata dallo stesso dicastero al Tribunale Superiore di Giustizia della Catalogna per la sospensione delle attività delle delegazioni. “Non esiste nessuna ambasciata di Catalogna all’estero, né ci sono spie al ministero”, ha commentato Borrell da Bruxelles. Ma se i catalani potranno far pesare questa storia in Europa contro la candidatura del ministro a loro inviso lo faranno, lui stesso se ne è detto convinto.

D’altra parte stando al dossier dal titolo “Catalogna. Il punto della situazione. Ambito internazionale”, che riporterebbe gli ordini dal carcere dell’ex vicepresidente della Generalitat in prigione, Oriol Junqueras, alle delegazioni, risulta ad esempio che la rappresentante in Germania, Marie Kapretz, il 21 dicembre del 2018 richiedesse l’appoggio del braccio destro di Junqueras, Joan Capdevilla e dell’Abbazia di Montserrat per trovare contatti ecclesiastici attraverso i quali ottenere appoggio per gli indipendentisti in prigione.

Risalirebbe invece al 14 dicembre l’incontro tra la presidente dell’Assemblea Nazionale del Galles, Elin Jones e il consigliere per le relazioni esterne della Catalogna, Alfred Bosch, da cui sarebbero derivate le istruzioni al delegato della Generalitat a Londra, Sergi Marcén, perché prendesse contatti con Amnesty International Uk per una campagna per la liberazione dei “prigionieri politici”. In un altro punto del dossier si riporta la nota: “Avvicinarsi di più a Nicola Sturgeon (prima ministra scozzese, ndr) vista la sua importanza politica nel Regno Unito e proporle un accordo di collaborazione o un memorandum tra i governi catalano e scozzese”. Si tratta di informazioni riservate per cui Marcén ha accusato il ministro Borrell di aver spiato la corrispondenza sua e degli altri delegati all’estero mentre giura di non aver “mai agito come un’ambasciata o un ambasciatore, ma da semplice delegato del governo catalano”.

Di certo Borrell, in corsa per la nomina a capo della diplomazia europea, ora è in imbarazzo. E la guerra è appena iniziata: tra quest’ennesimo scontro tra governo centrale e Catalogna e l’elezione di Borrell, in calendario tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, potrebbe esserci la sentenza ai leader indipendentisti in carcere per sedizione, oltreché la nascita del nuovo governo spagnolo.

“O Europa o morte”. Ursula fa la sinistra, ma si salva con Conte

Ce la fa per soli 9 voti, con i 5Stelle decisivi a valle di un discorso europeista, ecologista e con aperture sul tema dei migranti. Troppo di “sinistra” per la Lega che vota contro anche se dire “di sinistra” è un modo superficiale di esprimersi. Ursula von der Leyen segna una linea netta tra europeisti e oppositori che, come il voto dimostra, divide a metà l’emiciclo di Strasburgo. E porta dalla sua parte il M5S e in particolare il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che acquista un ruolo nuovo in Europa dopo questo voto.

La mia Europa La candidata inizia con la demarcazione della linea di confine: “Sono nata a Bruxelles come un’europea e solo più tardi ho scoperto di essere una tedesca” ha detto Von der Leyen. E quindi “chiunque è con me per un’Europa più forte può contare su di me. Ma chiunque voglia dividere o indebolire l’Europa troverà in me una fiera oppositrice”. E così, dopo aver ribadito la Nato come pietra angolare della Difesa, propone di rilanciare il progetto di Difesa europeo. E alla Gran Bretagna propone di prendere tempo sulla Brexit.

Un’Europa alla Greta Sull’ecologia si è notato il grande sforzo di parlare al gruppo dei Verdi, tra i vincitori delle ultime Europee, con un occhio alla Germania dove i sondaggi danno i Grunen in testa. “Voglio un’Europa che sia il primo continente neutrale sul clima entro il 2050. L’obiettivo di ridurre le emissioni del 40% entro il 2030 non è sufficiente, occorre arrivare al 55%. La neo presidente propone un “Green Deal per l’Europa” nei primi 100 giorni, “una legge sul clima europeo” e un “Piano di investimenti per lo Sviluppo sostenibile, trasformando la Banca europea degli investimenti in una Banca del clima” con circa 1.000 miliardi di investimenti nel prossimo decennio. Von der Leyen propone anche una Carbon tax europea.

Flessibilità nel Patto La presidente della Commissione rilancia la sua visione di un’economia di mercato a carattere sociale, fondata su “le piccole e medie imprese” a cui servirebbe una vera “Unione dei mercati del capitale”. Quanto al Patto di Stabilità e Crescita, che non va toccato, la proposta è di “utilizzare tutta la flessibilità consentita dalle regole” perché “nella nostra economia sociale di mercato dobbiamo riconciliare il mercato con il sociale”.

Salario all’europea In questa visione “sociale”, e forse anche nelle trattative avute con il M5S, la neo presidente apre a “un salario minimo che consenta una vita dignitosa”. Il sistema proposto è di quelli che piacciono ai sindacati, un salario “contrattato tra imprese e sindacati”. Ce n’è anche per chi perde il lavoro con l’idea di “un regime europeo di riassicurazione dei sistemi di disoccupazione” che sorregga i vari sistemi nazionali.

Salvare migranti Dopo aver fatto un elogio della Rule of Law in chiave europea, Von der Leyen segna il punto che più dà fastidio ai “sovranisti”, una politica umanitaria verso i migranti. Certo, una politica “europea”, quindi ambigua. Ma comunque segnala che “negli ultimi cinque anni più di 170 mila persone sono annegate nel Mediterraneo” e noi abbiamo “il dovere di salvare vite umane”. La linea è quella di difendere i confini europei, ridurre l’immigrazione irregolare, combattere i trafficanti, difendere il diritto di asilo, pensare “a corridoi umanitari in cooperazione con l’Unhcr”. “Propongo un nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo che includa il rilancio della riforma di Dublino”. Va rafforzata un’Agenzia di Guardia coste delle frontiere con “un corpo di 10 mila unità Frontex entro il 2024”. Apertura su un “comune sistema di asilo” con un aiuto “agli Stati membri che sopportano la maggiore pressione a causa della loro posizione geografica”. .

Come Simone Weil Infine, il riferimento alle donne e alla parità di genere con l’impegno ad assicurare “la piena parità nella mia Commissione”. E se gli Stati “non proporranno un numero adeguato di donne non esiterò a chiedere altri nomi”. Del resto dal 1958 si sono alternati 183 commissari e solo 35 erano donne. Proposto anche l’inserimento della violenza contro le donne nella lista “dei crimini Ue definiti dal Trattato”. Nella sua premessa si era riferita a Simone Weil, “eletta esattamente 40 anni fa come prima presidente del Parlamento europeo”: “40 anni dopo, posso dire con orgoglio che finalmente abbiamo una candidata donna alla presidenza della Commissione europea”.

Von der Leyen per un soffio: 80 voti in meno, decisivi i 5S

Non smette un attimo di sorridere e di ringraziare per “la fiducia”, Ursula von der Leyen, dopo la sua elezione a presidente della Commissione europea. Ma la realtà è che i 383 voti che ha preso (9 in più dei 374 necessari) sono veramente pochi.

Il responso dell’aula di Strasburgo arriva subito dopo le 19:30, alla fine di una giornata piena di vertici, trattative, colpi di scena. E prima di tutto evidenzia un dato: l’Europa è spaccata a metà. E la neo presidente poco ha convinto chi – forte del voto del 26 maggio – chiedeva un cambiamento. D’altra parte, la von der Leyen è una candidata che fa fortemente parte dell’establishment. Le aperture che ha fatto nel discorso di ieri mattina sono state tutte in senso europeista e hanno guardato soprattutto ai Socialisti e agli ambientalisti.

In prospettiva italiana, il voto di ieri sancisce la spaccatura tra Cinque Stelle e Lega, con un avvicinamento tra Pd e Movimento, in una tela che vede tra i protagonisti il premier, Giuseppe Conte e il presidente del Parlamento, David Sassoli. Tra i grandi elettori, pure Silvio Berlusconi.

Nella maggioranza che la sostiene – Ppe (182), Pse (147) e Alde (109) – alla fine mancano un’ottantina di voti. Ed è determinante il sì dei 14 Cinque Stelle. A dire sì sono stati anche una parte dei Conservatori polacchi (26, ma non l’hanno votata tutti). I numeri sono risicatissimi e la maggioranza (quella originaria) non c’è. Un terzo dei socialisti ha detto no (tedeschi, francesi, belgi, greci, olandesi e austriaci). Tra i Popolari, nessuna delegazione si è sfilata ufficialmente, anche se pare che non sia piaciuta la promessa della Von der Leyen di ridurre le emissioni Co2 al 50%. I sospetti si appuntano su una parte degli ungheresi di Orban (il passaggio sulla difesa dello Stato di diritto non è troppo piaciuto), ma soprattutto su una parte della Cdu tedesca (il suo partito, che si è però visto imporre un nome dal Consiglio europeo e ha dovuto rinunciare alla candidatura di Manfred Weber).

“In democrazia la maggioranza è maggioranza. E due settimane fa non ce l’avevo ancora, perché non mi conoscevano e perché c’era molto risentimento, che comprendo bene, per il processo degli Spitzenkandidaten – ha detto appena eletta la von der Leyen – Credo che una maggioranza pro-europeista sia una buona base per iniziare”. La parola chiave è “pro-europeista”, che è stato lo spartito del suo discorso di ieri mattina. E che le è valso il no del gruppo sovranista, Identità e democrazia. Non senza un travaglio andato avanti per giorni nella Lega. In tutti i modi il partito di Salvini ha cercato di barattare un ipotetico sì con un Commissario europeo di peso. Non ha trovato troppo ascolto. Non solo. “Le voteremo contro”, ha detto in aula il vicepresidente del gruppo Identità e Democrazia Joerg Meuthen, di Alternative fuer Deutschland. Solo per sentirsi replicare che non avere i loro voti era solo un sollievo.

La Lega si è trovata all’angolo, e spaccata all’interno. “Le dobbiamo dare uno schiaffo, dobbiamo dire di no”, diceva un Antonio Maria Rinaldi combattivo in ascensore a Marco Zanni, il capogruppo, che dalla mattina stava cercando di minacciare e trattare allo stesso tempo (“I voti di chi sta da questa parte conteranno”, aveva detto in aula).

Giuseppe Conte, oltre ad aver lavorato in Consiglio per il pacchetto che contiene anche Ursula, si è schierato già di mattina con un tweet: “Ho apprezzato il discorso della candidata Presidente”. Un modo per prendere posizione ed esortare sia Lega che Cinque Stelle a votarla.

A sera, fonti di Palazzo Chigi ribadivano che il premier ieri aveva parlato più volte con la neo presidente e aveva anche ricevuto rassicurazioni sugli impegni presi con l’Italia, compreso il portafoglio della Concorrenza. Difficile che lo prenda un leghista però, visto che la bocciatura da parte della Commissione di appartenenza sarebbe scontata. Tanto è vero che a Palazzo Chigi a sera ragionavano sul fatto che sarà il Carroccio ad assumersi le conseguenze della sua decisione. E i leghisti a loro volta definivano “gravissimo” il voto pro-Ursula del Movimento.

“Voglio una commissione che lavori per rafforzare l’Europa”, ha detto la neo eletta a sera. Tradotto: lavorerà per costruire una Commissione fortemente europeista. Di più: la scelta dei commissari le servirà a rafforzarsi. Ieri mattina alla fine del suo intervento la applaudivano pure i Verdi che non l’hanno votata. Il primo tentativo sarà di conquistare loro alla sua maggioranza.

 

Tutto tutto niente niente

Il discorso di Chiara Appendino, sindaca 5Stelle di Torino, in Consiglio comunale per licenziare il vicesindaco Guido Montanari e dare l’ultimatum agli oltranzisti della maggioranza è un reperto d’epoca. E non perché imprima una “svolta governista” al M5S, come scrivono stancamente i giornaloni prigionieri abituati a dipingere i “grillini” come dei cavernicoli con l’anello al naso, nemici del progresso, della corrente elettrica e forse anche della ruota. Ma perché impone al movimento una scelta non più rinviabile fra le sue due anime: quella di chi vuole governare cambiando le cose possibili secondo i principi fondanti dei 5Stelle e assumendosi la responsabilità di decidere per il bene di tutti; e quella di chi invoca il “ritorno alle origini” solo per scassare tutto, polemizzare su tutto, bloccare tutto in nome di una “purezza” che diventa sinonimo di irresponsabilità e settarismo. Da quando sono andati al governo di alcune grandi città e poi dell’Italia, i 5Stelle sono passati da movimento di protesta-opposizione a forza di proposta-governo. E hanno iniziato a misurarsi con la vera politica, che è l’arte del possibile: ciò che tentava di spiegare Federico Pizzarotti, primo sindaco M5S di un capoluogo (Parma, dal 2012), incompreso fino alla rottura per aver accettato un inceneritore che le leggi non consentivano più di bloccare. Ora tocca a Di Maio inghiottire scelte sgradite – il sì a opere inutili come il Tap e il Terzo Valico, il contratto con Mittal per l’Ilva, l’ingresso di Atlantia (Benetton) nella nuova Alitalia – perché prive di alternative realistiche.

Per chi vuole cambiare le cose e non fa parte del sistema, governare è infinitamente più difficile: ha sempre tutti contro, sia quando riesce a cambiare qualcosa, sia quando non ci riesce. Ne sanno qualcosa le sindache Raggi e Appendino, che in tre anni hanno retto l’urto del sistema politico-mediatico-affaristico e talora anche giudiziario, che ha tentato in ogni modo di sabotarle e spesso ci è riuscito. Anche perché il M5S non ha strutture territoriali che stiano accanto agli amministratori. Nemmeno la sindaca della Capitale, con tutti i suoi errori, ha avuto la necessaria vicinanza in partite decisive come le nomine di assessori e manager, i rifiuti, il taglia-debiti. E quando i vertici le hanno portato qualche assessore o consulente, raramente era gente all’altezza. Anche la Appendino ha sbagliato di suo, dal capo di gabinetto Giordana (poi beccato a far levare la multa a un amico) al portavoce Pasquaretta (indagato per strane consulenze) al vicesindaco Montanari (appena sfiduciato per le battutacce sul Salone dell’Auto).

Ma di solito i guai peggiori arrivano da alcuni consiglieri comunali, che da tre anni costringono le due sindache a sfibranti mediazioni interne: cioè a doversi guardare, oltreché dai mille potentissimi nemici esterni, anche da quelli interni. A Roma, se il nuovo stadio non si farà e sfumerà un raro investimento privato da un miliardo, sarà perché il club giallorosso cambia continuamente le carte in tavola: ma tutti daranno la colpa agli oltranzisti M5S che, anche dopo l’onorevole compromesso sul taglio di metà cubature (quelle speculative), hanno continuato a remare contro un progetto che riqualificherebbe un’area degradata (Tor di Valle) e porterebbe lavoro. A Torino la balla del no alle Olimpiadi invernali 2026 (la Appendino aveva regolarmente candidato la città, forte delle strutture e dell’esperienza del 2006, ma Coni e governo hanno preferito Milano e Cortina) si è diffusa anche per colpa degli ultrà M5S che han fatto di tutto per boicottarle. Idem per il Salone dell’Auto: la decisione di traslocarlo in Lombardia è di diversi mesi fa, ben prima che Montanari vi invocasse la grandine, perché i promotori vogliono una kermesse totalmente diversa dal passato (con le corse delle auto di lusso su un circuito che né Torino né Milano possiedono: infatti si punta a Monza); ma le sortite del vicesindaco e di alcuni consiglieri hanno indebolito la sindaca al tavolo del negoziato e consentito ai giornaloni di spacciare la solita bufala dei 5Stelle allergici al progresso e amanti della decrescita infelice (come se non fosse stata proprio l’Appendino a battere Tokyo, Singapore e Manchester per aggiudicarsi le finali Atp di tennis, che valgono molto più di un’Olimpiade, costano zero e durano 5 anni anziché 20 giorni). Ora il deposto Montanari evoca imprecisati “poteri forti” e accusa la sindaca di perdere la “rotta” per la “svolta governativa” pro Di Maio. Proprio lei che a febbraio, insieme a Raggi, Nogarin, Fico, Morra e altri, criticò Di Maio&C. per il salva-Salvini dal processo Diciotti. Altro che governativa.
Più che di sostanza, è una questione di stile e di serietà. Chi governa deve tenere un contegno consono al dovere di rappresentare tutti i cittadini, non solo i suoi iscritti, militanti ed elettori. Il Salone dell’Auto era dannoso per il Parco del Valentino? Perfetto: al posto di proteste e battute sterili, ci si sedeva al tavolo con gli organizzatori e si cercava una nuova location, smascherando il bluff di chi cercava pretesti per emigrare. Ora si apre una partita che per il M5S può essere mortale: quella del Tav. L’analisi costi-benefici governativa dimostra che sarebbe un grave danno (da 7-8 miliardi) non solo per il M5S e la Val Susa, ma per tutti gli italiani e pure per i francesi. Ergo va bloccata a ogni costo, anche a quello di avvicendare il Cda di Telt per bloccare le gare e/o contestare gl’inadempimenti di Francia e Ue sullo stanziamento dei fondi. Ma con mosse istituzionali, non con gesti scomposti e chiacchiere da bar. Chi governa può cambiare qualcosa, non tutto. Chi vuole cambiare tutto sta molto meglio all’opposizione, dove però non si cambia nulla.

Autonomie, Fico e Lezzi frenano: “Impraticabili”

I Cinque Stellefrenano ancora sulle autonomie regionali. Ieri sia il presidente della Camera Roberto Fico sia il ministro per il Sud Barbara Lezzi sono intervenuti per ribadire la necessità di un dibattito parlamentare sulle intese: “Solo il Parlamento può decidere. Sarò inflessibile – ha detto Fico – e dovrà passare tutto in un percorso serio. Noi non possiamo dare potestà legislativa ad altri”. A questo proposito, Fico ha anche annunciato che oggi incontrerà il presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, “perché l’iter legislativo deve essere uguale tra Camera e Senato”. A preoccupare la ministra Lezzi è anche il merito delle intese: “Secondo il dettato costituzionale le proposte di autonomia differenziata di Lombardia e Veneto sono impraticabili”. Parole che non sono affatto piaciute al governatore leghista della Lombardia, Attilio Fontana, che da tempo chiede tempi rapidi per l’approvazione: “Sono stupito e un po’ indignato delle dichiarazioni del ministro Lezzi sull’autonomia. Vorrei che specificasse in cosa sono impraticabili”.

Per chi lavorano davvero i nostri servizi segreti?

Ma nella vicenda della Lega e dell’hotel Metropol, i servizi segreti italiani dove sono? E per chi lavorano? Il comitato parlamentare che vigila sull’intelligence, il Copasir, la prossima settimana ne avrà di cose da chiedere ai direttori Mario Parente (Aisi), Luciano Carta (Aisi) e Gennaro Vecchione (Dis, il coordinamento). Ci sono un po’ troppe anomalie in questa storia.

Il primo articolo che racconta la riunione al Metropol di Mosca tra Gianluca Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda, il misterioso Francesco e tre russi esce sull’Espresso il 24 febbraio 2019. In quel momento non è chiaro che ci sia un audio, i due cronisti Giovanni Tizian e Stefano Vergine dicono di essere stati testimoni diretti dell’incontro del 17 ottobre 2018 a Mosca. L’audio verrà pubblicato dal sito americano BuzzFeed il 10 luglio. Tra i due scoop passano quasi cinque mesi durante i quali qualcosa deve essere successo sul piano dell’intelligence.

Fino ai tempi del governo Gentiloni, l’intelligence, e in particolare l’Aise, era molto preoccupata per le possibili infiltrazioni dall’estero, a cominciare dalla Russia. Secondo quanto risulta al Fatto, ci sono state varie analisi sulla possibilità di rapporti russi con i Cinque Stelle. Senza risultati. Possibile che dopo l’inchiesta dell’Espresso nessuno indaghi su cosa è successo a Mosca? Nessuna delle risposte possibili è rassicurante.

Prima opzione: l’intelligence non indaga perché, da quando c’è la Lega al governo (partito che è gemellato con Russia Unita di Vladimir Putin), certi pericoli non sono più considerati tali. E quindi i nuovi direttori, coi quali il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha un dialogo costante, non si interessano più di Russia. Sui blog di settore circola anche già una linea di difesa ufficiosa dei direttori su questo punto: Aisi, Aise e Dis si occupano di gravi minacce per la sicurezza nazionale, in questa vicenda sono coinvolte figure di seconda fila e non risulta che la trattativa si sia conclusa.

Seconda ipotesi: i servizi si sono mossi eccome, hanno ricostruito tutto, hanno riferito a chi ha la delega all’intelligence nel governo, cioè il presidente del Consiglio in persona, Giuseppe Conte. Il quale, si immagina, di fronte alla possibile conferma di un mercimonio del genere svolto al Metropol di Mosca, avrà sicuramente messo in guardia Salvini dal continuare a frequentare certa gente. Ma Salvini non solo ha tenuto il filorusso Claudio D’Amico come consigliere a contratto, ma si è portato Savoini alla cena romana con Vladimir Putin, davanti ai fotografi. In ogni caso è impossibile che Salvini non abbia sentito l’esigenza di prendere informazioni su quanto successo al Metropol nei cinque mesi passati tra Espresso e BuzzFeed. A meno che non sapesse già tutto.

Terzo scenario: la registrazione al Metropol non è stata fatta da uno dei presenti che ha attivato il suo cellulare, ma a distanza con un trojan non autorizzato da un pm, in un cellulare, nell’ambito di un’operazione sul modello di quanto organizzato (non si sa bene da chi) in Austria per distruggere il vicecancelliere di destra Heinz-Christian Strache. Anche in quel caso, promesse di corruzione russe, video, “scoop” giornalistici.

Salvini è stato direttamente coinvolto nel rinnovo del vertice dei servizi – soprattutto sull’Aise, dove ha congedato Alberto Manenti per lasciare il posto a Luciano Carta – e nei mesi scorsi ci sono state forti tensioni per le nomine dei vicedirettori, che sono a discrezione del governo e per la prima volta si è parlato di uno spoils system che ha agitato il mondo dell’intelligence. Savoini, poi, viene da quell’estrema destra sulfurea che in tante fasi tragiche della storia italiana recente è stata agganciata da pezzi poco limpidi o criminali dei servizi. Potrebbe esserci un tentativo di ricatto tutto italiano dietro la “trappola”? Difficile. C’è chi parla piuttosto di un regolamento di conti interno ai russi, con una fazione che usa l’affaire Metropol per screditarne un’altra, bruciando un alleato sacrificabile: la Lega di Salvini.

Più fonti confermano che da Washington pezzi dell’apparato amministrativo americano – non sempre allineati con Donald Trump – hanno da tempo consapevolezza dei legami pericolosi tra Lega e Russia e hanno dato vari avvertimenti a Salvini. L’uscita dell’audio di Savoini su una testata Usa, BuzzFeed, all’indomani della visita di Putin a Roma sembra un po’ più di una coincidenza. Ma anche ammesso un coinvolgimento diretto della Cia, o di qualche sua emanazione, l’intelligence italiana cosa ha fatto tra febbraio e luglio? Ha lavorato per proteggere il governo, e soprattutto Salvini, dai traffici di Savoini e soci o ha indagato sulla loro entità e sull’eventuale minaccia che rappresentano per la sicurezza nazionale? Qualcuno dovrebbe spiegarlo.

“Al Metropol accordo concreto”

Fondi neri per 65 milioni di dollari. Da far arrivare alla Lega di Matteo Salvini. Il tutto attraverso una compravendita di gasolio tra una società russa e l’Eni. Valore totale: 1,5 miliardi dollari, sui quali applicare un discount del 10%, così suddiviso: il 4% al Carroccio e il resto ai funzionari del Cremlino. Questo il piano immortalato in un audio che intercetta i dialoghi di sei persone ai tavolini dell’hotel Metropol di Mosca e che una settimana fa è stato reso pubblico dal sito americano BuzzFeed. È la mattina del 18 ottobre 2018, tra i presenti c’è Gianluca Savoini, l’uomo della Lega in Russia, un manager russo vicino alla cerchia ristretta di Putin e un avvocato d’affari, Gianluca Meranda.

Quest’ultimo, con una lettera alla stampa, ha confessato la sua presenza, ma ha anche spiegato che l’accordo non andò avanti. Una versione che oggi viene in qualche modo smentita dagli inquirenti per i quali quelle dette al Metropol non erano millanterie e che “l’accordo alla base dell’affare era molto concreto”. Le parole fissano un punto importante nell’inchiesta aperta dalla Procura di Milano che ha iscritto nel registro degli indagati Savoini con l’accusa di corruzione internazionale. In sostanza, è il ragionamento degli inquirenti, anche sulla base delle ultime acquisizioni, l’affare del gasolio che avrebbe portato 65 milioni di dollari nelle casse della Lega per finanziare le ultime Europee, aveva una base avanzata. Tanto più che, secondo gli inquirenti, la parte della “tangente” che porta all’accusa di corruzione, sarebbe rimasta in Russia. L’ipotesi che supporta la tesi della “concretezza dell’accordo” è che parte del denaro del cosiddetto “discount” sarebbe finita a funzionari pubblici russi. E che l’accordo trovato ai tavolini del Metropol avesse una sua solidità lo dimostrano alcuni passaggi dell’audio, legati alla necessità di velocizzare. A parlare è Ita2, che con buona probabilità è Gianluca Meranda: “Dobbiamo essere molto veloci, la prima consegna potrebbe essere a novembre”. Che l’accordo sia andato in porto resta allo stato un’ipotesi investigativa ancora da dimostrare. Intanto ieri sera, il terzo italiano presente all’hotel ha telefonato all’Ansa. Si tratta di Francesco Vannucci, 62 anni di Suvereto (Livorno). La Procura di Milano non ha però confermato l’identità. Vannucci ha detto di essere un consulente bancario che collabora con l’avvocato Meranda e che quello del Metropol è stato un semplice incontro d’affari. Meranda, a differenza della Procura, non ha smentito. Ieri, il procuratore Francesco Greco ha poi escluso “la necessità di sentire Salvini”. Allo stato si naviga a vista e con un solo indagato che non parla. Lunedì, Savoini si è avvalso della facoltà di non rispondere e ieri, per voce del legale, Laura Pellegrini, ha detto di non voler aprire bocca fino al termine dell’indagine. La Finanza ha acquisito una foto scattata il 17 ottobre scorso che ritrae Savoini con il filosofo russo Aleksandr Dugin, studioso vicino ai movimenti sovranisti e a Putin. Figlio di un ex agente del Kgb, Dugin ha rapporti con il movimento neofascista di CasaPound.

Berlusconi assicura: “Nessuno scandalo, me l’ha detto Putin”

In soccorso di Matteo Salvini sul caso dei sospetti finanziamenti russi alla Lega arriva Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia, neo parlamentare europeo, ha infatti detto la sua a margine della plenaria a Strasburgo, scagionando il ministro dell’Interno: “Sono sicuro che la Russia non ha dato alcun finanziamento alla Lega”. Il motivo di tanta sicurezza? Una fonte più che mai diretta: “Mi è stato assicurato direttamente dal presidente Vladimir Putin, che non aveva nessuna ragione per dirmi una cosa diversa dalla realtà”, ha assicurato Berlusconi. Il leader di Forza Italia ha incontrato l’ultima volta l’amico russo la notte del 4 luglio scorso, al termine della visita di Putin in Italia. Dopo le visite al Papa e ai principali esponenti del governo, il presidente russo ha infatti visto Berlusconi per un incontro riservato in una delle sale private dell’aeroporto di Fiumicino, dove i due hanno chiacchierato per una ventina di minuti. Argomento della conversazione, a questo punto, anche i soldi russi alla Lega, per quanto l’audio diffuso da BuzzFeed sia uscito soltanto il 10 luglio.

BuzzFeed poco conosciuto: c’è ancora molta diffidenza

Secondo le rilevazioni di Swg, questa settimana la Lega è passata dal 35,7 al 37,7. Quindi c’è addirittura un incremento, nonostante il caso Russiagate sia stato sulle prime pagine dei giornali per giorni. Credo che questi temi però possano avere un’incidenza immediata soltanto se percepiti in maniera chiara e concreta fin dall’inizio, qui invece alla maggioranza delle persone è arrivato il fatto che qualcuno della Lega sia andato in Russia ma anche che non ci sia stato alcun passaggio di denaro e che quindi non si possa parlare di corruzione.

C’è poi una sorta di diffidenza generale dovuta al fatto che la notizia dell’incontro tra Savoini e i russi sia stata diffusa da un sito americano poco conosciuto in Italia: l’audio non arriva da una Procura, dunque si alimenta quel complottismo che da noi è sport nazionale, sia sulla provenienza di quell’audio sia su chi lo ha diffuso. Va anche detto che in Italia i soldi russi alla politica non sono certo una novità e hanno riguardato altre aree politiche in passato, ma soprattutto c’è da considerare che Vladimir Putin è popolarissimo tra gli italiani, molto più di Trump, dunque essere percepiti vicini a lui e alla Russia non è affatto detto abbia un impatto negativo.