“In quegli atti può esserci di tutto, dal golpe Borghese alle stragi”

Abbiamo chiesto al dottor Roberto Tartaglia, ex pm della Trattativa Stato-mafia, attuale consulente della Commissione Antimafia, qual è la rilevanza della desecretazione.

Per la prima volta una Commissione d’inchiesta toglie il segreto funzionale che appone sui propri atti che vanno dalla sua costituzione, nel 1962, fino al 2001. L’aspetto inedito è che abbiamo lavorato sui criteri, posti quei criteri abbiamo declassificato tutto a prescindere.

Quali sono i criteri seguiti?

Che l’audito che aveva posto il segreto sia deceduto o nel caso in cui sia vivente, firmi una liberatoria. Dentro ci può essere di tutto, non lo sappiamo, lo scopriremo man mano che sarà digitalizzato. Si va dalle infiltrazioni mafiose nel golpe Borghese all’omicidio di Piersanti Mattarella, all’attentato dell’Addaura e alle stragi del ’92-’93.

Neppure voi magistrati che avete indagato sulla Trattativa Stato-mafia li conoscete?

Non tutti, certamente. Noi abbiamo acquisito le audizioni che ci interessavano da un punto di vista processuale. Un esempio, quando venivamo a sapere che Nicola Mancino era stato audito richiedevamo l’atto alla Commissione.

Quindi, potrebbe rivelare notizie utili per le indagini ancora in corso sulle stragi del ’92-’93 ed essere uno strumento utile per il coordinamento fra la Direzione nazionale antimafia e la Commissione?

Certamente, ripeto, nessuno può sapere cosa ci sia dentro un archivio stratificato in decenni. L’aspetto importante è che mettendolo sul sito c’è fruibilità. Quando Cossiga diceva che si può anche rendere un atto pubblico ma se nessuno lo sa è come se fosse segreto, aveva ragione. Quello presentato oggi è un saggio esemplificativo che la Commissione ha pensato di iniziare dalle audizioni di Paolo Borsellino perché siamo a pochi giorni dalla ricorrenza della strage di via D’Amelio e vedere e ascoltare la sua voce è molto suggestivo e commovente.

“La scorta solo al mattino, così posso morire la sera”

“Il problema generale è che la corruzione è il reato più diffuso in Italia, ma è quello per il quale ci sono meno processi”. Sono parole di Paolo Borsellino, pronunciate l’11 dicembre 1986. Davanti ai commissari di palazzo San Macuto il giudice ucciso in via D’Amelio, da appena tre mesi procuratore a Marsala, raccontava la propria solitudine istituzionale di fronte alla carenza di magistrati e investigatori, alle scelte del Csm che penalizza la lotta alla mafia, alla carenza di protezione, al mancato coordinamento tra polizia e carabinieri che hanno il “divieto” di presentare rapporti congiunti, com’era accaduto, invece, nel clima di collaborazione sul maxi-processo. “Una volta il ministro Scalfaro disse che in Italia vi è la Costituzione ma, al di sopra di essa, vi è il regolamento generale dell’Arma dei carabinieri”, chiosa Borsellino. Contro di lui c’è una mafia già gonfia dei miliardi del traffico internazionale della droga e ormai proiettata verso i mercati finanziari: “Marsala sembra Lugano o il Lussemburgo, qui c’è una banca a ogni piè sospinto. Posso dire che stiamo svolgendo delle indagini penetranti in una piccola banca locale peraltro strana, sembra avere collegamento con l’ultimo fatto di sangue… Abbiamo buone speranze, se avremo i mezzi e il tempo, di scoperchiare finalmente il coperchio”. Non gliel’hanno lasciato. Ecco un’antologia delle dichiarazioni più significative del giudice davanti all’Antimafia.

La scorta? Solo di mattina

Di pomeriggio è disponibile solo una macchina blindata che non può andare a raccogliere quattro colleghi. Pertanto io il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 22. Non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere poi libero di essere ucciso la sera.

Mancano giudici: “Tanto c’è Borsellino”

Quando sono arrivato erano già stati trasferiti tutti i miei sostituti, ne trattengo in proroga uno. Il Consiglio ritenne che le esigenze del Tribunale di Mondovì fossero più pressanti di quelle della Procura di Marsala: “Tanto c’è Borsellino, se la sbrighi lui da solo!”. Borsellino è abituato a lavorare, ma non sa fare miracoli.

L’invidia per l’amico col nonno mafioso

Certo, la situazione sotto questo profilo è migliorata: oggi non si trova più uno come Paolo Borsellino che a 14 anni invidiava il compagno che aveva il nonno mafioso, ma bisogna stare attenti al fatto che fra dieci anni non ci si ritrovi nella situazione di punto e a capo.

Quel via vai di auto targate Catania

Questa zona della provincia di Trapani sembra che sia un anello fondamentale di collegamento fra le famiglie di Cosa Nostra palermitane e quelle catanesi. Mi reco spesso a Palermo, a trovare la mia famiglia, e ho notato una cosa che forse può far ridere, ma che conferma una mia idea: automobili di Catania percorrono continuamente questa autostrada.

Il killer del capitano e le visite in carcere

A Castelvetrano fu arrestato Armando Bonanno, che dopo qualche anno ritroviamo fra i killer del capitano Basile; a Marsala, Contorno visitava nel carcere (cosa estremamente inquietante perché indice di connivenze) Pietro Vernengo; a Marsala operava una società chiamata Stella d’oriente in cui troviamo come soci tutti i componenti della famiglia mafiosa campana Nuvoletta, insieme con Agate Mariano e personaggi palermitani. A Capo Granitola, nelle vicinanze di Marsala… in un complesso residenziale, ritroviamo, con nome e cognome, senza prestanome, il famoso Vito Roberto Palazzolo… che ha un ruolo importantissimo nel riciclaggio del denaro in Svizzera e che attualmente si trova detenuto in Svizzera.

Marsala, il “santuario” delle cosche mafiose

È una mia convinzione che la zona di Marsala sia diventata una specie di “santuario” delle cosche. Mi sono chiesto come mai Provenzano Bernardo, Riina Salvatore, capi riconosciuti di Cosa Nostra, hanno l’uno parenti e l’altro grandi proprietà terriere a Castelvetrano. Perché proprio lì?

Niente volante, dimezzo la scorta

Durante una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza a un certo punto mi venne in testa (per stanchezza, perché me ne volevo andare) di fare la proposta di dimezzarmi la scorta per fare la volante. A Marsala, quinta città della Sicilia, non c’è una volante né della polizia né dei carabinieri. In uno dei fatti di sangue che si sono verificati, la fortunata operazione con cui sono stati beccati i mafiosi o presunti tali, è avvenuta perché io quel giorno contravvenendo forse a un obbligo me ne ero andato a Palermo e la mia scorta era stata adibita al controllo sul territorio.

La polizia impegnata con la burocrazia

Ho avuto notizia che non erano state effettuate delle perquisizioni che avrebbero dovuto essere fatte. L’organo che procedeva era composto in totale da una quarantina di uomini, la metà dei quali impegnati in incombenze di natura amministrativa. Il commissariato a Marsala, infatti, funziona soprattutto per rilasciare le licenze: in Sicilia non vi è stato il decentramento di certe competenze nei confronti dei Comuni. Credo che sia l’unica Regione in cui i commissariati si occupano ancora interamente di questo aspetto, oltreché ai passaporti e via dicendo.

La flotta peschereccia trasporta morfina

La più numerosa flotta peschereccia d’Italia veniva utilizzata chiaramente per il trasporto della morfina. Ebbene, in questo circondario l’unica motovedetta che c’era per controllare una costa in cui sono stati effettuati degli sbarchi con il sistema della Normandia, è stata tolta e portata a Palermo.

L’Antimafia sul Web. Prima Borsellino, poi tutto l’archivio

La Commissione Antimafia, in occasione della ricorrenza della strage di via D’Amelio rende onore a Paolo Borsellino, annunciando la desecretazione e la digitalizzazione sul portale della Commissione di tutti gli atti su cui ha posto il segreto dal 1962 al 2001. Documenti, 1612 per l’esattezza, che potranno essere consultati da chiunque con un clic anche dallo smartphone. Mai prima d’ora si era avuta la possibilità di conoscere e studiare tutte le audizioni di magistrati e politici su vicende cruciali. “Questo è un segnale di ulteriore democratizzazione del Paese”, ha detto il presidente della Commissione Nicola Morra presentando l’iniziativa. “È un giorno straordinario, è il giorno della luce – ha detto il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho –. Questo può dare spinta all’apertura di ulteriori archivi di Stato a cui si è accennato nel giorno delle vittime del terrorismo: quando si apriranno quegli archivi si potranno ricostruire le verità a cui tanti aneliamo e comunque avere contezza del quadro”.

“È commovente vedere e riascoltare Paolo Borsellino”, ha detto ancora Morra presentando le sue audizioni davanti all’antimafia. La prima, 8 maggio 1984: la Commissione parlamentare Antimafia audisce i magistrati del “pool antimafia” istituito dal Consigliere Rocco Chinnici, ucciso l’anno prima da Cosa Nostra, stessa sorte toccata al dirigente della Squadra mobile Boris Giuliano, diretto da Antonino Caponnetto. Tommaso Buscetta, che consegnerà a Giovanni Falcone la chiave per decodificare l’organigramma di Cosa Nostra era stato arrestato in Brasile ma non ancora estradato. Il clima fra le forze dell’ordine e la magistratura era terribile. E il giudice istruttore Paolo Borsellino denuncia la carenza di organico: “Manca il personale ausiliario, mancano gli autisti giudiziari perché buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate perché di pomeriggio è disponibile solo una macchina blindata che, evidentemente, non può andare a raccogliere quattro colleghi. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 22. Magari con ciò riacquisto la mia libertà utilizzando la mia auto; però non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere, poi, libero di essere ucciso la sera”. Mancano gli strumenti per “affrontare la mole dei processi da istruire, ognuno costituito da centinaia di volumi. Un personal computer è finalmente arrivato un mese fa ma, collocato in un camerino ma purtroppo non sarà operativo se non fra qualche tempo perché sembra che i problemi della sua installazione siano estremamente gravi, anche se non si riesce a capire perché”.

C’è anche l’audizione dell’11 dicembre del 1986. Paolo Borsellino, da qualche mese, è procuratore capo a Marsala. Il maxi processo è in fase dibattimentale. Borsellino spiega i rapporti di Riina e Provenzano con esponenti locali, parla del traffico internazionale di stupefacenti e di Matteo Messina Denaro. L’archivio contiene poi la fonoregistrazione dell’audizione del 24 settembre del 1991, l’ultima del giudice Borsellino prima di essere ucciso che riguarda lo scoramento che provò di fronte alla indebita pubblicazione delle dichiarazioni rese dal collaboratore Rosario Spatola. Parole dense di quel suo rigore morale e della profonda lealtà nei confronti dei colleghi.

Continua la caccia all’orso fuggito nei boschi in Trentino

M49, l’orso fuggito dal recinto elettrificato del Centro faunistico Casteller dove era stato rinchiuso dopo la cattura nei boschi della Val Rendena, è stato fotografato nei boschi della Marzola, sopra Trento, dove viene inseguito dalle squadre dei forestali. Continua la caccia all’animale, in attesa di una soluzione della vicenda. Resta intanto valida la disposizione del governatore del Trentino, Maurizio Fugatti, data immediatamente dopo la fuga, di abbatterlo nel caso si avvicini alle case o possa creare pericolo a persone. Decisione che ha provocato, al pari dell’ordinanza circa la cattura emessa all’inizio di luglio, le vibrate proteste delle associazioni animaliste che chiedono di evitare l’abbattimento e invocano l’intervento della magistratura. Ieri però la Consulta ha ritenuto legittime le leggi delle Province autonome di Trento e Bolzano sulla cattura e l’eventuale uccisione di orsi e lupi, respingendo due ricorsi della presidenza del Consiglio. “Non c’è illegittimità costituzionale perché la disciplina – scrivono i giudici – rientra nelle competenze legislative” degli enti locali.

Lezioni di giornalismo dalla gogna sui social

Conosco Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport, perché ci divertiamo a vestire i panni di giurati a Ballando con le stelle e saperlo in una polemica incentrata sulla parola “cinismo” mi fa impressione. Perché Zazzaroni fatica a trattare con cinismo anche un tango fatto male e perché è tra le poche persone che risolve le cose alzando il telefono e senza mai cercare le scorciatoie della nota vocale e del messaggio su Whatsapp.

La vicenda “Sinisa Mihajlovic” e la valanga di insulti che hanno travolto il direttore del Corriere dello Sport cancellano perfino quel residuo di fiducia rimasto nell’implacabile tribunale dei social in cui anche Gigino89 di professione elettrauto può discettare di deontologia professionale, trattamento dei dati sensibili e giornalismo.

I fatti: Mihajlovic, allenatore del Bologna, la settimana scorsa non era partito con la squadra per il ritiro a Castelrotto. Si parlava di febbre, ma poi il suo arrivo era slittato ancora e le informazioni si erano diradate. I giornalisti sportivi a quel punto fanno il loro mestiere. Alzano il telefono, chiamano dirigenti, compagni di squadra, medici e chiunque possa dare un nome a quella febbre e una risposta alla curiosità dei tifosi e dei lettori. La parola “leucemia”, purtroppo, inizia a fare il giro delle redazioni. Viene pronunciata a bassa voce, col rispetto dovuto all’uomo e alla sua malattia. Zazzaroni, venerdì scorso, è tra i giornalisti che sa. La sua fonte non è Sinisa, suo amico da tanti anni, perché Sinisa non risponde ai suoi messaggi e comunque i due non si sentono da un mese. Il giorno dopo, questo anche si sa, Mihajlovic terrà una conferenza stampa per rivelare il mostro da combattere. A quel punto succede quello che scatenerà le ire del tribunale social composto (anche) da tanti giornalisti che ci terranno a fare sapere quanto per loro il giornalismo affondi le radici nell’umanità, prima ancora che nella necessità di dare una notizia. Come no.

Zazzaroni, sabato, scrive un editoriale: Forza Sinisa. Dice che il Guerriero supererà la battaglia. Che si fermerà qualche giorno, giusto il tempo di superare lo scoglio e vincere. Fine. Tutto qui. Nessun riferimento specifico alla “leucemia”. Un messaggio affettuoso, che allude a un problema di salute, ma per nulla morboso o irrispettoso della privacy di Sinisa, tanto più che se decidi di dare spiegazioni attraverso una conferenza stampa anziché tramite uno scarno comunicato vuol dire che ci vuoi mettere la faccia. Che la tua malattia non è tabù.

Nessuno trova una nota stonata nell’editoriale di Zazzaroni. Sinisa però fa la sua conferenza stampa, pronuncia la parola “leucemia” con commovente fierezza e poi aggiunge che qualcuno ha rivelato la sua malattia per vendere qualche copia in più, rovinando un’amicizia di 20 anni. Non immagina, Sinisa, quello che scatenerà con queste parole sulla testa di Zazzaroni. Parole legittime, perché nessuno può decidere per lui il tatto e il riserbo di cui ha bisogno. Ma da fuori si potrebbe tentare di rimanere lucidi. E invece no. Orde di hater insultano Zazzaroni per giorni, dandogli del “cinico” che ha tradito l’amico per vendere copie, come se poi “vendere copie” fosse l’equivalente di spacciare eroina ai bambini. Giornalisti traboccanti umanità gli danno lezioni, rispolverando perfino il concetto di “deontologia” professionale. La stessa applicata quando si sono divulgati dettagli sulla malattia di Sergio Marchionne che non ha mai parlato, di Schumacher la cui famiglia chiede privacy da sempre, del “morbo” di papa Ratzinger, del recente toto-malattia di Angela Merkel con diagnosi da bar sul suo tremore in un valzer morboso di dettagli e supposizioni, che è da sempre la parte più ingrata e sì, cinica, del lavoro di giornalista.

L’aggravante, per Zazzaroni, sarebbe un’amicizia ventennale con Sinisa. Quel Forza Sinisa sarebbe il suo alto tradimento. E sì, tutti quelli migliori di lui glielo fanno notare, tra un insulto e un clic per sbirciare il video del suv che travolge i due bambini in Sicilia.

#Sardegna, da Boeri ai pastori: le voci di una crisi dimenticata

“Con l’abbandono della Maddalena e i nuovi edifici mai collaudati, inizia il degrado del sistema”. Dieci anni fa, l’architetto Stefano Boeri progettò il centro turistico-portuale che doveva essere inaugurato con la riunione del G8. Poi ci fu il terremoto de L’Aquila e il premier Silvio Berlusconi spostò il vertice nel capoluogo abruzzese.

A dieci anni di distanza, Boeri racconta l’odissea della Maddalena e la sua battaglia per far ripartire i lavori e rimettere l’arcipelago al centro del turismo mediterraneo. Lo fa nel primo capitolo di #Sardegna, 50 minuti di documentario realizzato da Matteo Billi e Giorgio Meletti con la collaborazione di Paola Pintus e grazie alle immagini di Stefano Dell’Aquila e Silvio Lecca. #Sardegna è il primo della serie Italia.doc, i video reportage sulle regioni italiane realizzati dai giornalisti del Fatto Quotidiano con Loft Produzioni, il ramo di produzione televisiva della Società Editoriale Il Fatto. Il documentario sarà disponibile in esclusiva su www.iloft.it e sulla app Loft da domani.

Il racconto è affidato alla voce e al volto di donne e uomini della Sardegna, un mosaico di esperienze diverse per restituire l’immagine di una terra attanagliata dalla crisi dell’economia nazionale che si aggiunge e moltiplica le difficoltà storiche di una terra povera e discriminata. C’è la disperata speranza dei disoccupati dell’Alcoa che da dieci anni aspettano che il governo nazionale e quello regionale affrontino in modo efficace il problema dell’alluminio. L’ostinazione dei pastori di Fonni che si battono per una giusta remunerazione del latte di pecora. C’è il racconto di Maurizio Onnis, sindaco di Villanovaforru, comune di 630 abitanti, che combatte da una parte sulla trincea dello spopolamento rurale e dall’altra sul fronte dell’integrazione degli immigrati del centro di accoglienza, il 10 per cento della popolazione comunale: “La cessazione degli sbarchi ha sostanzialmente bloccato l’arrivo di migranti in Sardegna, e questo per la vita del centro di accoglienza ha significato meno stanziamenti e quindi anche il taglio di alcune attività che viste da fuori possono sembrare superflue, come l’insegnamento della lingua, e che invece diventano vitali se uno ha come obiettivo quello di far vivere insieme bene le persone”.

Del difficile rapporto tra il vecchio e il nuovo parla lo scrittore Giorgio Todde davanti alla raffineria di Sarroch, la Saras dei Moratti: “La fabbrica funziona, la raffineria funziona. Però la domanda che questo luogo pone è: era possibile un’alternativa? Non credo che la famiglia Moratti manderebbe i figli ad abitare qui, non ci credo. È stata una forma di sviluppo, ma non di progresso”.

C’è poi la Sardegna che ci crede e ci prova. Proprio a Villanovaforru ci sono Marianna Virdis e Francesco Mascia, una coppia di trentenni che hanno messo in piedi una start-up di campagna. Sa Laurera è un’azienda agricola a forte tasso di innovazione proprio grazie al recupero di antiche tecniche colturali. “Loro lavorano a mano”, spiega il sindaco Onnis, “gli altri ragazzi che lavorano qua, che hanno 20 o 50 ettari di terra, salgono sul trattore alle 6 del mattino e scendono alle 7 di sera”.

A Serramanna, in pieno Campidano, la pianura assolata che circonda Cagliari, Carlo Mancosu è stato uno degli inventori del Sardex, la moneta complementare per le aziende sarde che è diventata un modello anche per le altre Regioni. Grazie alla banda larga riesce a fare un lavoro all’avanguardia rimanendo a casa a guardare crescere un figlio di tre anni. E ringrazia il miracolo tecnologico della Sardegna di Nicky Grauso e Renato Soru: “Soru che cosa ha insegnato, almeno a ragazzi come me che all’epoca lo seguivano con grande entusiasmo? Che anche da questo piccolo territorio, conosciuto spesso in Italia per non essere esattamente terra dell’innovazione, si può fare innovazione di frontiera e si può creare qualcosa di veramente importante”.

Arriva il “renziano” Nastasi: se ne va il sovrintendente

Prima una lettera indirizzata al sindaco di Firenze, Dario Nardella, in cui Cristiano Chiarot comunica di non voler accettare il rinnovo del mandato come sovrintendente del Maggio Fiorentino, poi, ieri, la decisione di lasciare già dal 28 luglio, perché in contrasto con la decisione del primo cittadino di nominare Salvatore Nastasi alla presidenza della Fondazione. “Cambia la governance ed è giusto che cambi anche la gestione del teatro – ha detto Chiarot –. Io non posso che accettare, ma non me la sento di potere condividere questa scelta e rimanere qui”. Il sovrintendente non ha digerito il “commissariamento” subito sabato scorso quando Nardella ha annunciato a sorpresa la nomina di Salvo Nastasi, plenipotenziario del Mibact vicino a Matteo Renzi, alla presidenza della Fondazione del Maggio. Per questo, e non per motivi di età come si diceva a Firenze lunedì sera, Chiarot non ha accettato la richiesta di Nardella e dell’assessore alla Cultura Tommaso Sacchi di rimanere al suo posto. “Potevo restare ma adesso sono cambiate le cose e preferisco lasciare”, ha concluso amareggiato Chiarot.

Catania, elezioni estive per il Rettore nell’ateneo finito sotto inchiesta

C’è anche Enzo Bianco, ex sindaco di Catania con un passato da ministro dell’Interno, tra le 14 persone destinatarie di un avviso di garanzia nell’ambito del secondo troncone dell’inchiesta “Università bandita”. Il periodo nero dell’ateneo catanese continua. Soltanto a fine giugno era arrivato lo scossone più forte con 66 indagati tra cui il rettore Francesco Basile, poi costretto alle dimissioni, e 27 concorsi ritenuti “cuciti su misura”. Grazie alla presunta complicità di professori provenienti da vari atenei d’Italia, sette presidenti di dipartimento a Unict e del pro rettore Giancarlo Magnano di San Lio. Una tempesta giudiziaria che porterà ad elezioni balneari per la scelta del nuovo rettore. Con un decreto, contestato da più parti e bollato come “salva casta”, il decano Vincenzo Di Cataldo ha concesso appena 11 giorni per le candidature. Fissando per il 23 agosto la prima chiamata alle urne. Un caso unico nel panorama accademico e che si porta dietro anche dei mugugni tutti interni al ministero dell’Istruzione.

Ultimato il blitz della Digos la soluzione, sostenuta in parlamento dal M5s, e vista di buon occhio dal viceministro grillino Lorenzo Fioramonti, poteva essere quella del commissariamento. L’ipotesi però è tramontata. “Il commissariamento – fanno sapere al Fatto Quotidiano dal Miur – non ha fondamento giuridico. Secondo la normativa si può procedere esclusivamente per casi di dissesto finanziario. Allo stesso modo, il ministero non ha facoltà di impedire che un ateneo proceda all’elezione di un nuovo rettore”. Da Roma tuttavia arriveranno degli ispettori, come annunciato a sorpresa due giorni fa dal presidente del consiglio Giuseppe Conte con il benestare del ministro della Lega Marco Bussetti. Il compito dei funzionari però non avrà niente a che fare con il voto, ma sarà limitato a generiche “verifiche contabili e amministrative”.

Fallita la manovra per scongiurare il voto immediato emergono i nomi dei primi candidati. Già sicura la corsa di Roberto Purrello, ordinario di Chimica nominato a maggio scorso, dall’ex rettore Basile, al vertice della Scuola superiore di Catania. Con lui ci sarà anche Vittorio Calabrese, candidato nel 2013. Nessuna ufficialità per Giovanni La Via, ex assessore di Totò Cuffaro ed ex eurodeputato del Nuovo centro destra di Angelino Alfano. Sembrano in calo invece le quotazioni del costituzionalista Felice Giuffrè, consulente alla Regione con trascorsi nel Movimento sociale italiano. Si è invece tirata fuori la moglie Ida Nicotra, firmataria di una lettera per il rinvio del voto e saggia dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Nell’ultimo filone investigativo insieme a Bianco è coinvolto Orazio Licandro. Gia suo assessore ed ex parlamentare. Quest’ultimo, come riportato dal quotidiano La Sicilia, secondo l’accusa avrebbe ottenuto la cattedra all’università di Catania grazie all’interessamento dell’ex sindaco. I due sono indagati per turbata libertà del procedimento e abuso d’ufficio.

Cucchi, gli ufficiali a processo. Casarsa coinvolge Tomasone

Il 12 novembre inizierà un nuovo processo sul caso Cucchi. Il quarto in questi dieci anni dalla morte del geometra, avvenuta il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto. Dopo il processo alla polizia penitenziaria (tutti assolti), quello ai medici dell’ospedale Pertini che si sta discutendo in secondo grado, e il più importante, quello ai cinque carabinieri (di cui tre accusati di omicidio preterintenzionale) ora in corso in Corte d’Assise, nel prossimo autunno ci sarà un nuovo match: bisognerà stabilire se sul caso ci siano stati falsi, depistaggi e favoreggiamenti. Ieri infatti otto carabinieri, tra i quali alti ufficiali, sono stati rinviati a giudizio. “Un momento storico”, per Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano.

Il più alto in grado a finire a processo è il generale Alessandro Casarsa, nel 2009 comandante del Gruppo Roma, poi capo dei corazzieri del Quirinale (ruolo lasciato da qualche mese): è accusato di falso per due relazioni del 26 ottobre 2009, che secondo l’accusa sono state modificate da due militari della stazione di Tor Sapienza nella parte che riguardava lo stato di salute di Cucchi. Per il pm Giovanni Musarò, Casarsa è l’uomo dal quale è partito l’ordine. E con lui è finita a processo anche l’intera catena di comando, ma verso il basso: l’allora suo braccio destro Francesco Cavallo e Luciano Soligo, all’epoca comandante della Compagnia di Montesacro. E poi il comandante della stazione di Tor Sapienza Massimiliano Colombo Labriola e il carabiniere Francesco Di Sano, che ha firmò l’annotazione. Tutti dovranno difendersi dall’accusa di falso.

Con il rischio che questo nuovo processo diventi un tutti contro tutti. Già durante l’udienza preliminare di ieri, Casarsa – che ha reso spontanee dichiarazioni – ha citato, anche se senza fare il nome, il suo superiore dell’epoca, il generale Vittorio Tomasone, nel 2009 comandante provinciale. Casarsa ieri in aula ha sottolineato la propria estraneità rispetto alle annotazioni false. Ma ha anche aggiunto un dettaglio: ha fatto riferimento alle note mediche presenti nella sua relazione del 30 ottobre. Si tratta di un documento che all’epoca sembrava anticipare le conclusioni di esperti medici legali, in cui si scrive che non ci sono percosse sul corpo di Cucchi né che sono state rilevate emorragie. Si parla anche di un’autopsia parziale, in quel momento neanche iniziata. Il contenuto di questa nota di Casarsa poi è stato riportato da Tomasone, in un altro atto del primo novembre 2009. “Le uniche informazioni mediche relative a Stefano Cucchi – ha detto in sostanza Casarsa ieri – le ho ricevute il 30 ottobre 2009 quando sono andato al Comando provinciale. Questo dopo che, la mattina, il comando provinciale aveva voluto in una riunione guardare in faccia tutti i protagonisti della vicenda per ricostruire i fatti”. Poco dopo, parlando di altro, ha aggiunto: “Al comando provinciale il contatto che io avevo era con il comandante provinciale. Non ho mai avuto contatti né con i magistrati né con i medici legali in merito a questa vicenda”. Restano comunque affermazioni che non avranno alcuna conseguenza perché la questione dell’annotazione con contenuto medico-legale non è oggetto di contestazione penale.

Di queste note però aveva chiesto conto il pm Musarò anche a Tomasone, quando lo scorso 27 febbraio è stato sentito come testimone nel processo in corso ai cinque carabinieri. Il generale inizialmente non ricorda. Poi ricostruisce: “(…) Le ribadisco non so qual è la fonte, se è stata fatta da un mio ufficiale che ha riportato l’informazione e io l’ho trascritta. Non so se fa seguito a un atto interno di comunicazione”. Musarò gli dice che sì, “fa seguito a un atto di Casarsa”. E Tomasone: “Quindi io ripetevo un qualcosa che il gruppo mi diceva”.

E questo è solo un esempio. Anche sulle presunte annotazioni false sono state fornite in questi mesi versioni diverse. Il 12 dicembre 2018, il tenente colonnello Cavallo punta il dito contro l’allora suo superiore Casarsa: “Sicuramente ricevetti disposizioni dal comandante del gruppo il quale (…) quella mattina ebbe continue interlocuzioni personalmente con il maggiore Soligo”. Il 28 gennaio 2019, è invece Casarsa a essere interrogato dal pm: “Non sapevo che fossero state redatte due versioni delle stesse annotazioni – dice –. Cavallo (…) sicuramente non ebbe da me la disposizione di modificare le annotazioni”. Soligo, invece si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Iieri il gup ha fissato il processo anche per il colonnello Lorenzo Sabatino, ex comandante del nucleo investigativo, accusato con il collega Tiziano Testarmata, di omessa denuncia di reato e favoreggiamento. Secondo le accuse, Sabatino, nel 2015, quando la Procura riapre l’inchiesta e richiede tutti gli atti, avrebbe omesso di evidenziare ai pm che esistevano due versioni per ciascuna nelle annotazioni del 26 ottobre 2009 e che una delle due era falsa.

“La fuga dei cervelli costa all’Italia 14 miliardi di euro”

Il campanello di allarme era già risuonato ma stavolta a mettere il dito nella piaga è il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. “La fuga dei cervelli all’estero che sta conoscendo l’Italia ci fa perdere circa 14 miliardi di euro all’anno, poco meno dell’1% del Pil”, ha detto parlando alla Business school della Luiss, davanti agli imprenditori che puntano sul digitale. La sfida è che i nuovi lavori vengano creati in Italia. “Non si passa al fianco della trasformazione digitale: o ne siamo protagonisti o la subiamo – ha detto –. E se la subiamo il rischio principale, a lungo termine, è politico, non economico”. Un ripensamento della strategia in tal senso potrebbe aiutare a trattenere giovani promesse. Già nel 2017 Confindustria aveva stimato in 14 miliardi l’ammanco dovuto alla fuga dei cervelli. E, ancora, secondo l’Istat da quando è iniziata la crisi gli espatri sono triplicati. La questione era stata evidenziata anche nelle considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che aveva chiarito come non sia più tempo di far scappare le nuove leve. Qualcosa è stato fatto, nel decreto Crescita sono stati previsti nuovi incentivi ai rientri e il Pd intanto propone una “commissione d’inchiesta sulla condizione giovanile”.