Eni, quel vertice alla Rinascente per far saltare il processo Nigeria

Il “patto della Rinascente” piomba sul processo milanese in cui Eni e il suo amministratore delegato Claudio Descalzi sono imputati di corruzione internazionale in Nigeria. Lo racconta Piero Amara, avvocato esterno dell’Eni, arrestato, indagato dalle Procure di Roma, Messina e Milano e che ha già patteggiato una pena di tre anni per corruzione in atti giudiziari. A Milano, Amara è accusato di essere il regista del “complotto” organizzato facendo sponda tra le Procure di Trani e di Siracusa, per depistare le indagini milanesi sulle tangenti che – secondo l’accusa – Eni avrebbe pagato in Nigeria e in Algeria.

Per difendere se stesso, ora Amara attacca i vertici della compagnia petrolifera. Raccontando un paio di incontri avvenuti nei pressi di piazza del Duomo a Milano. Obiettivo: salvare Descalzi. “Il dottor Claudio Granata (top manager Eni, strettissimo collaboratore di Descalzi, ndr) mi convocò per una riunione che avvenne nei pressi della Rinascente (luogo dove solitamente, soprattutto il sabato pomeriggio, ero solito incontrare il dottor Granata). Oggetto della riunione era verificare il modo di gestire il problema Armanna”.

Vincenzo Armanna è un ex manager Eni che nel 2011 era project leader nell’operazione di acquisizione del campo petrolifero nigeriano Opl 245. Aveva cominciato a parlare con i magistrati milanesi, raccontando di 50 milioni di dollari contenuti in due trolley consegnati nel 2011 per essere “retrocessi” al top management Eni, dopo un incontro nella residenza presidenziale nigeriana fra l’allora capo dello Stato Jonathan Goodluck e l’allora ad di Eni Paolo Scaroni. “Le dichiarazioni di Armanna”, scrive Amara, “scossero il mondo Eni che temeva che la Procura di Milano potesse emettere delle richieste di custodia cautelare nei confronti dello stesso Descalzi”. “Il dottor Granata”, continua Amara, “mi diede un duplice incarico: tentare di gestire Armanna” spiegandogli che “la sua presa di posizione rendeva impossibile” la sua riassunzione nella compagnia. E “tentare, contestualmente, di registrarlo qualora Armanna dicesse qualcosa di utile per incastrarlo. Io chiesi a Granata se si trattava di una sua iniziativa, ma lui mi disse che aveva la copertura di Descalzi. Quindi chiamò Descalzi con una videochiamata”, “me lo presentò e Descalzi in persona mi disse che Eni avrebbe avuto bisogno di un avvocato come me in ogni parte del mondo confermandomi il mandato di Granata”.

Queste parole sono contenute nelle “Note difensive” di Amara che ieri sono state depositate (in parte), dai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, agli atti del processo Eni Nigeria in cui oggi proprio oggi viene interrogato Armanna. “Dopo il patto della Rinascente”, continua Amara, “il comportamento di Armanna nei confronti di Descalzi cambiò radicalmente, come è noto alla Procura di Milano (ma anche di Siracusa)”. Infatti “in data 25 maggio 2016 il dottor Armanna, improvvisamente, deposita una memoria” nella quale “inserisce tre punti direttamente concordati con Granata e Descalzi”.

Sono “totalmente inventati”, continua Amara, e “furono consegnati dal dottor Granata al dottor Armanna nel corso di un incontro avvenuto nei pressi della Rinascente”. È il secondo incontro. “Erano presenti: Amara, Armanna, Granata, l’avvocato Giuseppe Calafiore (nei pressi ma non partecipò all’incontro)”. Granata in quella occasione “rappresentò ad Armanna che un suo atteggiamento accomodante nei confronti di Descalzi avrebbe aiutato il percorso della sua riassunzione. Al termine dell’incontro, i due si abbracciarono e sembravano due fratelli riconciliati”. “La memoria di Armanna aveva uno scopo processuale ben preciso: Granata e Descalzi ritenevano che nessuno degli imputati del procedimento” Eni Nigeria “avrebbe potuto essere assolto… Allineando la posizione di Armanna a quella di Descalzi sarebbe stato invece possibile salvare Descalzi sul piano personale e ‘gettare a mare tutti gli altri’”.

Un piano, insomma, per salvare l’ad, lasciando nei guai i suoi coinputati italiani (il predecessore Paolo Scaroni, i manager Eni Roberto Casula e Ciro Antonio Pagano, gli intermediari Luigi Bisignani e Gianfranco Falcioni).

Continua Amara: “Il piano di gestione del processo Opl 245 prevedeva poi che l’Armanna si sarebbe dovuto avvalere in dibattimento della facoltà di non rispondere, in modo tale che le dichiarazioni da lui rese in precedenza non sarebbero state utilizzate nei confronti degli altri indagati (ma lo sarebbero state nei confronti di Armanna), mentre sarebbe rimasta traccia, attraverso opportuno deposito, della memoria di Armanna che scagionava Descalzi”.

Amara dice di aver sconsigliato Armanna dall’accettare il patto: “Ormai amico di Armanna, lo invitai a non accettare quella proposta. Ero certo, infatti, che Eni non avrebbe mai aiutato Armanna nonostante le rassicurazioni di Granata, perché ne conosco metodi e obiettivi. Tentai di dissuadere in tutti modi Armanna (anche al fine di evitare che Armanna, soggetto estremamente vicino ai servizi americani, deluso, potesse additare responsabilità a me stesso)”.

Armanna però non ascolta i consigli: “Si trovava in gravissime condizioni economiche” e così “si sentì costretto ad accettare: ‘Ho figli piccoli, sono fuori da tutto a causa di questa vicenda, non ho nessun contratto, devo vivere in qualche modo’”. Amara, in conclusione, annota: “Il dottor Granata, in effetti, a partire dall’anno 2014 pose in essere, per sua stessa ammissione, un’attività finalizzata a creare terra bruciata nei confronti di Armanna per piegarne la volontà e la vis accusatoria. Qualunque porta Armanna cercasse per trovare lavoro risultava sbarrata”.

Questo il racconto di Amara. Oggi Vincenzo Armanna è chiamato in aula a confermarlo o smentirlo. Con effetti sul processo per l’acquisto dell’Opl 245 in Nigeria, ma anche sull’inchiesta in corso sul “complotto”.

La Consob e le premure inutili del Pd

Apprendiamo dalla deputata Pd Raffaella Paita che la Consob si sta occupando delle dichiarazioni di Luigi Di Maio su Atlantia “decotta”. La Paita posta su Twitter una lettera su carta intestata Consob firmata dal presidente ed ex collega di governo di Di Maio, Paolo Savona, che informa degli “approfondimenti amministrativi” in corso per verificare la “correttezza” e “l’impatto sul regolare funzionamento del mercato” di quelle dichiarazioni. Ora, un po’ di accortezza in più quando si parla di società quotate farebbe bene a tutti, a cominciare dai tre esponenti di governo che si sono occupati della vicenda fin dal crollo del ponte Morandi il 14 agosto scorso: il premier Giuseppe Conte, il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli e il vicepremier Di Maio. Troppe volte hanno evocato la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia, controllata dalla holding Atlantia a sua volta controllata dai Benetton, senza mai chiarire se, come e a quali condizioni. Neppure dopo la pubblicazione del report degli esperti del ministero di Toninelli – che, senza escludere il rischio di contenziosi, indicano le basi giuridiche per una revoca – è chiara la linea. Ma l’ossessione del Pd per i valori di Borsa di Atlantia è inspiegabile. Non soltanto perché in questi anni la holding e i suoi azionisti si sono arricchiti per miliardi a spese degli automobilisti, grazie a regole scritte su misura e blindate, ma anche perché quel ponte è caduto. E questo dovrebbe essere un po’ più importante del valore di Borsa di Atlantia (e per questo, se il Pd volesse, potrebbe ben rinfacciare l’incoerenza di un governo che vuole bastonare Atlantia ma poi le chiede di salvare Alitalia). E comunque, rassicuriamo l’onorevole Paita, il titolo di Atlantia valeva 18,3 euro il 16 agosto scorso dopo la tragedia e oggi è sopra i 24 euro. La preoccupazione del Pd per gli azionisti di Atlantia, quindi, non è soltanto politicamente discutibile, ma anche infondata.

Il conflitto di interessi a bordo: con Atlantia Alitalia non ha futuro

Da quando, due anni e mezzo fa, è emersa l’ennesima crisi di Alitalia, un dibattito è nato tra due opposti schieramenti: da un lato i sostenitori dell’intervento pubblico per impedire la chiusura, salvaguardare l’occupazione ed evitare la consistente spesa pubblica necessaria per proteggere i dipendenti; dall’altro coloro che vorrebbero evitare nuove perdite di soldi dei contribuenti e accettano solo soluzioni di mercato, incluso il fallimento e la sua sostituzione con vettori più efficienti.

I sostenitori delle due posizioni si ritrovano ora a dover egualmente constatare come la decisione di Ferrovie e Mediobanca di consegnare l’esclusiva della questione Alitalia ad Atlantia presenti tutti i difetti temuti dai liberisti senza realizzare neanche uno dei vantaggi auspicati dai sostenitori dell’intervento pubblico. L’altroieri ci è stato detto che tutti gli altri samaritani privati accorsi al capezzale di Alitalia sono stati esclusi e che l’unico ammesso è la holding dei Benetton. Sorge però il dubbio che Atlantia non sia stata chiamata a salvare Alitalia bensì Alitalia, pur in pessime acque, sia stata chiamata a salvare Atlantia. Non da un punto di vista economico-finanziario bensì di credibilità e reputazione sociale, dopo il crollo del ponte Morandi, oltre che di legittimità della titolarità della vantaggiosa concessione autostradale della controllata Aspi. Se così non fosse, perché mai escludere gli altri aspiranti? Candidarsi al salvataggio di Alitalia equivale oggi a una donazione benefica alla Croce Rossa. Si è mai sentito che advisor della Croce Rossa abbiano escluso aspiranti donatori? L’unica soluzione ragionevole, dato l’elevato fabbisogno di capitali, consisteva nell’ammettere tutti i candidati per l’importo più elevato per cui erano disponibili. Non è avvenuto e nessuno ha spiegato perché. Questo esito richiede tuttavia che sia accertato il momento in cui il mandato originale dato dal ministero dello Sviluppo a Ferrovie di fare da capofila per il salvataggio di Alitalia è stato distorto. Quando e all’insaputa di chi? Sono informazioni interessanti per l’opinione pubblica, altrimenti gli elettori saranno autorizzati a ritenere che lo svolgimento del mandato sia stato conforme al medesimo.

Sino a due giorni fa le carte, intese sia come dossier che come mazzo di carte del gioco, erano in mano a Fs e soprattutto, come emergeva dai giornali, di Mediobanca. Ora sono state cedute ad Atlantia, che peraltro è un soggetto non del tutto sconosciuto all’advisor: i Benetton sono il quarto socio italiano di Generali di cui Mediobanca è storicamente il primo e fanno parte con Del Vecchio e Caltagirone di una terna di azionisti che appare fondamentale, pur in assenza di patti parasociali, per il controllo; inoltre recentemente Atlantia ha co-affidato a Mediobanca la cessione del 30% di Telepass. In un Paese di cultura anglosassone si sarebbe posto il tema dell’equidistanza dell’advisor dai soggetti che manifestavano interesse e avrebbe destato sicuramente scalpore il fatto che quello vincente fosse anche il più contiguo. Stando così le cose non si vede più alcuna prospettiva di salvezza di Alitalia. Il piano industriale sul tavolo, che non dovrebbe essere costato poco, è straordinariamente simile a tutti quelli falliti nell’ultimo ventennio. Che sia stato copiato o che gli autori siano gli stessi? Come tutti i predecessori, si basa su un’ipotesi ossimorica di ‘ridimensionamento espansivo’: la flotta si riduce, così come il personale, ma miracolosamente il traffico aumenta. È un risultato magico.

Alitalia è un vaso di coccio tra due potenti vasi di ferro: da un lato gli aggressivi vettori low cost, che hanno più di metà del mercato e fanno direttamente concorrenza ad Alitalia nel suo stesso hub; dall’altro gestori aeroportuali monopolisti come Atlantia, i quali godono, grazie a un regolatore pubblico dormiente, di una redditività che non trova equivalente in nessun’altra realtà mondiale. Com’è possibile salvare Alitalia, di cui quattro passeggeri su cinque atterrano o decollano da Fiumicino, se Alitalia deve contribuire a garantire ad Aeroporti di Roma un rapporto tra il margine operativo lordo e i ricavi che nel 2018 sfiora il 63%, dunque quasi 2 euro di margine ogni 3 di ricavi? Negli ultimi sette anni AdR ha realizzato 2,1 miliardi di profitti industriali (Ebit), la stessa cifra della perdita cumulata di Alitalia.

Osservando i maggiori mercati europei, da ormai un ventennio liberalizzati, si può ricavare una sorta di teorema di impossibilità. Non si possano avere contemporaneamente tre cose: 1) elevata concorrenza con elevata penetrazione dei vettori low cost e conseguenti basse tariffe e proventi unitari medi dei vettori; 2) elevate tariffe dei fornitori monopolistici dei servizi, gestori aeroportuali in primis; 3) un vettore aereo nazionale con conti sostenibili. Francia e Germania hanno le ultime due grazie alla mancanza della prima, la Spagna ha la prima e la terza grazie all’assenza della seconda, l’Italia ha le prime due e dunque non può avere la terza. Un vettore come Alitalia non ha alcuna prospettiva se non si cambia il resto del settore. Ammettere Atlantia, che controlla Aeroporti di Roma, come azionista di riferimento della nuova Alitalia è una cura omeopatica, con le identiche prospettive di successo che hanno questo tipo di cure.

Mps, Baldassarri e gli altri assolti al processo per la “banda del 5%”

Il tribunale di Siena ha assolto ieri, perché il “fatto non sussiste”, l’ex capo dell’area finanza di Mps, Gian Luca Baldassarri, e gli altri 12 imputati nel processo sulla cosiddetta “banda del 5%”. L’accusa contestata era associazione a delinquere finalizzata alla truffa ai danni di Banca Mps, parte civile al processo. Per Baldassarri, considerato la presunta mente della ‘banda del 5%’ il pm aveva chiesto 3 anni e 8 mesi (tra gli imputati anche dipendenti del broker Enigma). L’accusa, rappresentata in giudizio dal pm Antonino Nastasi, ipotizzava che fra i dirigenti di Mps ed Enigma vigesse un accordo illegale per far lucrare quest’ultimo provvigioni non dovute in cambio di cessioni di soldi a beneficio dei dipendenti infedeli. “Speravamo nell’assoluzione, siamo pienamente soddisfatti. Oggi possiamo dire che la banda del 5% non è mai esistita”, ha detto l’avvocato Stefano Cipriani, difensore di Baldassarri. È la seconda inchiesta partita dopo il disastro Mps che si chiude con un’assoluzione. A maggio scorso la Cassazione ha confermato l’assoluzione per l’ex presidente Mps Giuseppe Mussari, l’ex dg Antonio Vigni e lo stesso Baldassarri per ostacolo alla vigilanza sulla ristrutturazione del derivato Alexandria, stipulato con banca Nomura. Nello stesso mese la Procura di Milano ha chiesto di condannare dei tre, insieme a diversi dirigenti di Nomura e Deustche Bank (con confisca di 400 milioni per le due banche estere) al processo sui derivati. La sentenza è attesa in autunno.

 

 

Web Tax, Tria conferma: “Slitterà al 2020 Aspettiamo l’Ue”

Ieri, in audizione di fronte alle commissioni Bilancio congiunte di Camera e Senato, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha ammesso che per quest’anno e almeno fino all’anno prossimo non ci sarà l’applicazione della web tax che il governo aveva previsto nell’ultima legge di Stabilità e che avrebbe dovuto portare 150 milioni di euro nelle casse dello stato già quest’anno, 600 nel 2020 e nel 2021. La motivazione è la solita: “Eravamo in attesa di decisioni a livello europeo – ha detto Tria, spiegando quindi la mancanza dei decreti attuativi che avrebbero dovuto arrivare entro fine aprile e di cui invece non c’è stata traccia –. L’impegno era quello di cercare di avere dei provvedimenti concordati a livello europeo, poi si è rimandata questa azione. Vediamo quale sarà la decisione e in che modo saranno accolte le proposte dell’Ocse. In ogni caso siamo in tempo per far partire questo provvedimento l’anno prossimo”. Immediata la replica del deputato del Pd, Francesco Boccia: “La posizione del ministro conferma i nostri sospetti. Il governo Conte è completamente subalterno alle evidenti pressioni delle multinazionali del web che hanno interesse a rinviare l’introduzione della tassazione nel nostro Paese così come negli altri paesi europei”. Cita poi la Francia che nei giorni scorsi ha varato la propria tassa e che prevede il prelievo del 3 per cento del fatturato alle aziende del web con ricavi di oltre 750 milioni di euro a livello globale (simile a quella italiana e sullo stesso modello di quella pensata da Bruxelles) di cui almeno 25 legati all’utilizzo di utenti situati in Francia. “Tria ha dichiarato di rifarsi alle conclusioni Ocse – ha aggiunto Boccia – qualcuno dovrebbe però informare il ministro che l’Ocse ha concluso il proprio rapporto arrivando sulle posizioni del Parlamento italiano del 2013: ‘le imposte vanno pagate nel Paese in cui si eroga il servizio e si vende il bene attraverso la piattaforma’”.

Fondo pensione dell’Inps, perché è una buona idea

L’attuale governo non è intervenuto sulla previdenza integrativa, né tantomeno ha smontato la (pessima) normativa che la regola, codificata dal decreto legislativo 252 del 2005 e successive modifiche. Ciò non stupisce. Il M5S è sostanzialmente favorevole alla previdenza pubblica, mentre per la Lega vale il contrario. Basti ricordare la firma di Roberto Maroni in calce a quel decreto, ma anche i tentativi per fortuna falliti di piazzare come viceministro del Welfare Alberto Brambilla, la cui società ha rapporti coi principali big della previdenza privata (come rivelato dal Fatto).

Ovvia conseguenza di posizioni così inconciliabili è un generale immobilismo. Presentando la relazione annuale, però, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ha annunciato la creazione di un fondo pensione da parte dell’istituto di previdenza che agisca in concorrenza con i fondi aperti privati, coi fondi negoziali e gli altri prodotti equiparati. Sotto certi aspetti in concorrenza anche con le pensioni pubbliche. Il nascituro fondo non è però da confondere con Fondinps, collettore residuale per il Tfr dei lavoratori incastrati nel silenzio-assenso. Siamo di fronte alla cosiddetta mossa del cavallo. Pur senza toccare il quadro normativo, l’alternativa di un fondo pensione offerto dall’Inps modificherà lo status quo, migliorando la situazione soprattutto di chi ha già aderito alla previdenza integrativa.

Tridico ha enunciato alcuni obiettivi. Uno è “aumentare il numero delle adesioni alla previdenza integrativa”, cosa in realtà tutt’altro che auspicabile, senza averne prima eliminate le storture di fondo. Un altro è “sostenere una maggiore canalizzazione degli investimenti in Italia”. Tale proposito è però criticato dai venditori di previdenza privata, che con sperimentata faccia tosta sostengono che invece il loro unico obiettivo è l’interesse degli iscritti.

Ciò nonostante c’è d’aspettarsi che il nascituro fondo pensione dell’Inps sarà meglio o meno peggio di quelli controllati da banche, assicurazioni o imperniati su accordi fra sindacati e associazioni padronali. Per prima cosa, non incorporerà il mega conflitto d’interessi di questi ultimi, non essendo controllato al 50% da rappresentanti delle imprese. Secondo, saranno meno probabili malversazioni e ruberie varie, facili nei fondi privati per l’assenza di trasparenza. Terzo, i costi dichiarati dovrebbero essere molto bassi (e questo sarà da verificare). Questo non elimina i dubbi sulla convenienza in sé, proprio in un’ottica previdenziale, a versare soldi nel fondo Inps. Che però potrà svolgere un’egregia funzione di refugium peccatorum di chi si trova intrappolato nella previdenza integrativa.

Occorrerà approfondire in concreto, ma grazie agli aspetti positivi elencati si prospetta come molto opportuno trasferire a esso tutto quanto un lavoratore o risparmiatore ha in altri fondi pensione o in piani individuali pensionistici. Operazione possibile trascorsi almeno due anni dall’adesione. La previdenza integrativa è una prigione da cui non si può uscire, ma si può cambiare cella. Quella offerta da un fondo pubblico promette di essere più vivibile di altre.

 

I furbetti degli incentivi: prima incassare i soldi, poi licenziare

Gli abusi temuti ci sono stati, anche se in numeri contenuti, e il sospetto che l’intera operazione sia stata un grande spreco di denaro pubblico resta anche ora che ci sono i dati definitivi. Nella sua prima legge di Bilancio, quella per l’anno 2015, il governo Renzi introduce una misura di sostegno all’occupazione che serve ad accompagnare le riforme del Jobs Act, flessibilità associata a incentivi alle assunzioni. Le imprese che offrono un contratto a tempo indeterminato a chi rispetta certi requisiti (non aver avuto contratti a tempo indeterminato con lo stesso datore nei sei mesi precedenti) beneficiano di un esonero dai contributi da versare fino a 8.060 euro all’anno per tre anni.

Il rapporto annuale dell’Inps, presentato nei giorni scorsi, offre il primo bilancio definitivo di quella misura, visto che a dicembre 2018 si è concluso il periodo di agevolazione previsto dalla legge di Bilancio 2015. La prima sorpresa è l’entità dell’intervento, che era soltanto stimata al momento della sua approvazione perché non si sapeva quante imprese ne avrebbero beneficiato: ben 16,7 miliardi di euro (un anno di reddito di cittadinanza ne costa circa 5). Il grosso di quei soldi sono andati a imprese del Nord, 9 miliardi, al centro 3,6 e al Sud e isole 4,2 miliardi. Sono stati soldi ben spesi? Qualche dubbio è lecito.

Secondo i dati dell’Inps, nel 2015 hanno usufruito dell’esonero contributivo triennale 1,5 milioni di rapporti di lavoro (1,1 di assunzioni, 398.000 trasformazioni da tempo determinato a indeterminato) che sono il 60 per cento delle attivazioni a tempo indeterminato osservate nel 2015. Già l’estensione del beneficio legittima il dubbio che si tratti di assunzioni che ci sarebbero state comunque – difficile pensare che in un anno di ripresa economica, in assenza di aiuto pubblico, sarebbero venuti meno tutti quei posti di lavoro – e quindi più che a creare occupazione i 16,7 miliardi sono stati un aiuto alle imprese, per pagare meno dipendenti che avrebbero assunto comunque.

Anche la durata di questi rapporti sembra standard, segno che i soldi non hanno stimolato la creazione di posti di lavoro diversi da quelli che il mercato avrebbe probabilmente comunque generato. Secondo un’analisi di Veneto Lavoro, il tasso massimo di sopravvivenza dei rapporti di lavoro prima del 2015 riguarda quelli attivati nel 2011: a tre anni dalla firma, il 51 per cento dei lavoratori era ancora nello stesso posto di lavoro. La differenza con i rapporti attivati nel 2015, in un contesto molto diverso (ripresa invece che economia a un passo dalla bancarotta), è minima: 54 per cento di sopravvivenza dopo tre anni. “Se ne ricava che l’esonero del 2015 non ha assicurato quella stabilità immaginaria implicita nella nomenclatura ‘rapporti di lavoro a tempo indeterminato’ – normalmente non più della metà dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato attivati nelle imprese private supera il terzo anno e non più del 40 per cento va oltre il quinto anno – ma ha senz’altro modificato positivamente la curva di sopravvivenza”, è la conclusione tutto sommato indulgente verso la misura del governo Renzi cui arriva il rapporto Inps, firmato dal presidente Pasquale Tridico, nominato dal governo gialloverde.

Alcune imprese sembrano poi aver approfittato degli incentivi per poi disfarsi senza scrupoli dei lavoratori quando, dopo il terzo anno, il loro costo è salito. Si rileva infatti un picco di dimissioni e licenziamenti tra il 35º e il 37º mese del contratto a tempo indeterminato che non sembra avere altre ragioni se non la fine del regime agevolato (come si può vedere nel grafico qui in pagina). Nello specifico: il 56 per cento in più di licenziamenti e il 43 per cento in più di dimissioni nelle aziende con meno di 15 dipendenti, percentuali che si riducono al 15 e al 21 tra quelle di dimensioni maggiori. In valore assoluto, si tratta di cifre basse: 10-15.000 persone in tutto. Poche, ma va anche ricordato che l’enorme polemica intorno al decreto Dignità approvato dal governo Conte si fondava sulla stima del possibile mancato rinnovo di 8.000 contratti a termine per effetto della riduzione della durata massima da 36 a 24 mesi.

Resti al lavoro, ma precario: com’è facile per le aziende aggirare il decreto Dignità

“Come fai a dire a un lavoratore in scadenza di contratto che non avrà più uno stipendio, solo perché durante la contrattazione si è scelto di non derogare al decreto Dignità?”, si chiede sconfortato un sindacalista che in questi mesi ha dovuto mettere la firma su un paio di accordi che prevedono il superamento dei paletti imposti dal decreto che limita il ricorso al lavoro a termine. Il testo, in vigore da novembre, prevede l’obbligo della causale per i rapporti superiori a 12 mesi, il limite di contratto di 24 mesi (non più 36) e massimo quattro rinnovi (non più cinque). “Anche se il decreto ha fatto registrare una diminuzione dei contratti a termine e un aumento di quelli a tempi indeterminato, il mercato del lavoro stagnante e il rilevante ricorso al turn over ci spingono ad aggirare la normativa”, continua il sindacalista. Che tradotto significa: l’azienda non è più tenuta a specificare le causali dei contratti a termine e i lavoratori non vengono mandati a casa dopo 24 mesi, ma restano precari. Le aziende preferiscono infatti assumere una persona nuova, sempre a termine, invece di trasformare il rapporto esistente in un contratto stabile.

Si tratta di quelle “zone d’ombra” che, per dirla alla Claudio Durigon – il sottosegretario leghista al Lavoro che, tra le ire del vicepremier Di Maio, ha presentato un ddl per modificare il decreto e allargare la possibilità di ricorrere ai contratti a termine – hanno spinto aziende e sindacati a utilizzare l’articolo 8 del decreto 138 del 2011 che apre le porte agli “accordi di prossimità”. È la norma introdotta nel 2011 dall’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che scatenò le proteste della Fiom quando venne usata dalla Fiat per derogare allo Statuto dei lavoratori. “Continuiamo a contrastare l’utilizzo dell’art. 8 e a chiederne l’abrogazione – spiega il segretario nazionale della Fiom Michele De Palma – Stiamo parlando di accordi che, a fronte di poche stabilizzazioni, autorizzano la reiterazione dei contratti a termine. Il problema del mercato non è rendere stabile la precarietà, ma rendere stabili i rapporti di lavoro”.

Tra i primi a derogare al decreto Dignità, superando le causali, è stata la Fiocchi munizioni, in provincia di Lecco, con 650 dipendenti. Un accordo che ha consentito una trentina di assunzioni a tempo indeterminato e la proroga di oltre 50 contratti a termine fino alla fine di questa estate. A inizio anno, i sindacati hanno siglato anche un accordo con la Honda di Atessa (Chieti) che deroga sia alle causali sia al limite dei 24 mesi, dal momento che quasi il 50% della manodopera del marchio giapponese è costituito da dipendenti stagionali con contratti a tempo determinato per “gestire al meglio – si legge nell’accordo – le flessibilità del mercato”. La lista comprende anche la Philip Morris che da maggio si avvale di personale a tempo determinato per la commercializzazione di un nuovo prodotto, con la promessa di assumerne il 20% entro il 2021. Stessa moneta di scambio per la Epta, società del Bellunese specializzata nelle refrigerazione industriale: fino a tutto il 2020 non dovrà utilizzare le causali, prevedendo un percorso di inserimento progressivo a tempo indeterminato dei lavoratori con contratti a termine. “Un buon accordo che permette di salvare posti di lavoro e creare un percorso virtuoso di stabilizzazione”, hanno spiegato tutti i sindacati. “Abbiamo scambiato flessibilità con occupazione e più salario. È un modello per altre aziende”, è stato invece il commento della Fismic Confsal quando, lo scorso aprile, ha sottoscritto un accordo in deroga con la multinazionale tedesca Aurubis che gestisce uno stabilimento di rame ad Avellino. Accordi di prossimità, senza l’applicazione delle causali, sono stati sottoscritti anche da Genertel (lo scorso marzo, è valido fino al 2021) e da Ecologica (non firmato dalla Cgil), l’azienda tarantina delle pulizie industriali che lavora prevalentemente all’Ilva, che ha stabilizzato 40 somministrati in cambio della proroga di un contratto precario per altri 86 interinali.

“L’utilizzo del contratto di prossimità non è da condannare se garantisce continuità occupazionale. Ma ci sono intese e intese. Quelle che ha sottoscritto la Fiom – spiega De Palma – prevedono percorsi di stabilizzazione del personale con contratto di somministrazione (ex interinale), come nel caso della Lamborghini (automobili), della multinazionale tedesca Schnellecke (logistica) e della Brevini (componentistica auto). Bisogna essere più realisti del re in un mercato in cui il tempo determinato pesa per il 69,5% su circa 13,3 milioni di rapporti di lavoro attivati nel 2018”.

Ma intanto altre scappatoie non mancano. È il caso del ricorso allo staff leasing, vale a dire l’assunzione di un dipendente non presso la società per cui lavora, ma tramite un’agenzia interinale. Una modalità di assunzione, spiegano i sindacati, che sta aumentando visto che non elimina l’attività contrattuale. Semplicemente ci gira intorno. Le società di somministrazione per aiutare i clienti a superare il tetto dei 24 mesi imposti dal decreto Dignità assumono loro stesse i dipendenti da “prestare” poi alle imprese. Ma solo fino a quando ne avranno bisogno. È la soluzione adottata dai Comuni di Torino e di Milano. Nel primo caso si è ricorsi a questo accordo sindacale per il servizio di assistenza domiciliare. Si tratta di 1.200 lavoratori che potranno continuare ad aiutare le famiglie, ma a pagarli non sarà più l’amministrazione comunale. Nel capoluogo lombardo, invece, a essere “ceduti” sono stati i docenti dei Centri di formazione professionale di Afol (l’agenzia per la formazione e il lavoro) da anni precari e senza possibilità di rinnovo per i paletti imposti dal decreto Dignità.

Prime Day: i lavoratori di Amazon scioperano ancora, ma non in Italia

Dopo quelli del Black Friday, negli ultimi due giorni ci sono stati gli scioperi del Prime Day. I lavoratori di Amazon hanno colpito ancora una volta nel momento in cui, proponendo grosse offerte ai clienti, il colosso dell’e-commerce punta a fare il botto di vendite. Questa volta, però, la mobilitazione non coinvolge l’Italia dove è in corso una fase di trattativa tra i sindacati e l’azienda di Jeff Bezos e dove i primi risultati stanno lentamente arrivando.

Hanno manifestato gli addetti dei poli logistici negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania, Spagna e Polonia. Chiedono paghe più alte e condizioni di lavoro migliori, con ritmi meno stressanti. Le stesse ragioni che hanno animato le dimostrazioni del 24 novembre 2017, in occasione del “venerdì nero” degli sconti pre-natalizi. Quel giorno tutti hanno scoperto le rivendicazioni dei facchini del grande magazzino di Castel San Giovanni (Piacenza) e grazie a quella mossa, le sigle del commercio di Cgil, Cisl, Uil e Ugl sono riuscite a sedersi al tavolo con Amazon.

Un passo alla volta, qualcosa si è mosso. Ecco perché i nostri sindacati hanno deciso, pur solidarizzando con gli scioperanti stranieri, di non aderire alle iniziative del Prime Day, le 48 ore di occasioni destinati ai clienti che si dotano del servizio “Prime”. A giugno i lavoratori piacentini hanno strappato un secondo accordo, dopo il primo del 2018. L’intesa insiste sull’organizzazione dei turni e prevede che tutti avranno diritto al riposo domenicale per sei mesi consecutivi. “Ci stiamo avvicinando alle condizioni che avevamo messo sul tavolo”, dice Francesca Benedetti della Fisascat Cisl Piacenza. Restano due questioni irrisolte.

La prima riguarda i lavoratori somministrati: secondo l’ispettorato del lavoro, Amazon ha usato più interinali rispetto al numero consentito dalla legge. Per questo, i precari hanno diritto al contratto a tempo indeterminato. L’azienda ha rifiutato di assumerli direttamente e gli addetti si sono rivolti al Tribunale, che però ha rigettato la richiesta. Un paradosso clamoroso: i somministrati avevano tempo fino a marzo 2018 per presentare il ricorso (60 giorni dopo la scadenza del contratto), ma il provvedimento dell’ispettorato risale a giugno 2018; come potevano reclamare un diritto che ancora non sapevano di avere? I sindacati proporranno l’appello.

L’altro nodo è la richiesta di un premio di risultato durante i picchi di lavoro, all’inizio dell’anno scolastico, quando in tanti ordinano i libri, e prima delle feste natalizie. L’appuntamento è a settembre: se Amazon dirà di no, si riaprirà la stagione degli scioperi anche in Italia.

Conoscere e capire le radici politico-sociali del diritto tributario

Una materia con centralità innegabilmente giuridica che, però, rischia di diventare autoreferenziale se non dovesse accogliere gli apporti di matrice economica, sociale, filosofica, politica e storica che la caratterizzano: così il volume di Dario Stevanato (professore ordinario di Diritto Tributario all’Università di Trieste e avvocato cassazionista) “Fondamenti di diritto tributario” pur essendo un manuale indirizzato agli studenti e agli studiosi si rivela una lettura interessantissima anche per chi potrebbe essere semplicemente interessato al tema. Affronta tutte le sfaccettature del dovere contributivo di ogni cittadino, ne analizza l’origine, ne approfondisce gli strumenti e le differenze, ma al tempo stesso carica l’analisi, le procedure e le nozioni di profondità culturale e di contestualizzazione viva nel tentativo di irrigare una disciplina che altrimenti, come allerta lo stesso Stevanato, rischia l’inaridimento.

 

Fondamenti di diritto tributario

Dario Stevanato

Pagine: 467

Prezzo: 36

Editore: Le Monnier