L’accordo Ue-Mercosur inizia già a scricchiolare

L’euforia con cui ieri si è aperto il vertice Mercosur in Argentina sembra il contrappasso di quanto sta accadendo in Europa dove l’accordo commerciale siglato il 1º luglio tra i quattro Paesi latinoamericani – Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay – e l’Unione europea è ormai finito sotto attacco da più parti.

L’intesa era stata salutata entusiasticamente dal presidente uscente della Commissione europea, Jean Claude Juncker: “Misuro le parole con cura nel dire che si tratta di un momento storico”. L’accordo giungeva in effetti dopo venti anni di fallimenti delle trattative nonostante Ue e Mercosur sommino circa 760 milioni di abitanti e un Pil pari a circa il 25% di quello mondiale. A intestarselo, però, al momento sembra essere solo la parte sudamericana.

“Abbiamo molto da mostrare al mondo e lo faremo”, ha detto il ministro degli Esteri argentino aprendo i lavori del Mercosur. E i presidenti, che per la prima volta dalla firma dell’accordo si vedranno faccia a faccia, hanno intenzione di beneficiare al massimo dei vantaggi di immagine derivanti da quell’intesa che, in particolare Brasile e Argentina, intendono potenziare.

In Europa, invece, dove l’accordo costituisce una risposta al protezionismo di Trump ma anche al clima da Brexit, si registrano forti contrarietà soprattutto in Francia, Irlanda, Polonia e Italia. E dato che per entrare in vigore occorre l’accordo dei 28 Parlamenti, il problema non è di poco conto.

L’accordo prevede l’eliminazione del 91% dei dazi fissati dal Mercosur sulle merci europee e del 92% di quelli previsti dall’Ue. Molto favoriti i settori europei dell’industria, in particolare automobilistica, chimica e farmaceutica, che vedono abolire dazi dell’ordine del 35, 18 e 14 per cento.

In cambio la Ue consente importanti contropartite al settore agricolo latinoamericano, fissando quote supplementari pari a 99 mila tonnellate di carni bovine con dazi del solo 7,5%, una quota supplementare di zucchero pari a 180 mila tonnellate e ancora 180 mila tonnellate di pollame. Ci sono riduzioni dei dazi applicate a prodotti Ue anche per cioccolato e dolciumi, vini e alcolici, olio di oliva con tassi che vanno dal 10 al 28%. Inoltre, ben 350 prodotti europei a denominazione geografica (su cui si è arenato ad esempio l’accordo Ttip tra Usa e Ue) saranno tutelati e tra essi figura il prosciutto di Parma, lo speck tirolese, il formaggio Comté francese, la vodka polacca e altri prodotti rinomati. Importante anche l’accordo sulla proprietà intellettuale e gli appalti nei Paesi del Sudamerica, che favorisce le industrie europee.

Lo scambio sostanziale, in effetti, è tra la grande industria europea, soprattutto quella automobilistica, e una parte dell’agricoltura sudamericana, in particolare l’allevamento di bovini argentini e la produzione di zucchero in Brasile. L’associazione europea dei costruttori di automobili (Acea), salutando con soddisfazione l’accordo, sottolinea i 3,3 milioni di vetture vendute lo scorso anno nel Mercosur a fronte di un’esportazione verso l’Europa di sole 73 mila auto, pari al 2,2% del mercato totale. Quando si parla di industria automobilistica in Europa si pensa ovviamente innanzitutto alla Volkswagen, quindi alla Germania, pilastro di questo accordo.

Anche il presidente francese Macron ha dato il suo assenso, ma proprio in Francia, come in Irlanda, Polonia e, ultimamente, Italia, sono sorti i primi problemi. “Accordo inaccettabile” lo ha definito Christiane Lambert, leader del primo sindacato agricolo, Fnsea. I timori si concentrano sull’aumento della quota di carni bovine dalle 200 mila tonnellate attuali, nonostante il consumo annuale europeo ammonti a 8 milioni di tonnellate. Ma l’agricoltura europea è un ginepraio di industrie potenti e piccoli allevatori, sovvenzionati e a volte con bassi redditi, spaventati da questa possibile concorrenza.

Lo stesso è avvenuto in Irlanda, che pure esprime il Commissario all’Agricoltura, Phil Hogan, firmatario del Mercosur. Lo scorso 11 luglio il Parlamento ha respinto l’accordo con 84 voti contro 46 approvando una mozione della sinistra del Sinn Fein votata anche dal Fine Gael party (popolari) di cui Hogan è membro. La mozione si è concentrata soprattutto sulle preoccupazioni relative ai disastri ambientali che potranno essere provocati in Amazzonia per via dell’incentivazione all’agrobusiness brasiliano – e la preoccupazione ambientale è molto diffusa in Europa con 340 ong che hanno firmato una petizione in tal senso –, ma che è centrata soprattutto sul timore per “la devastazione dell’industria irlandese del bovino”.

A queste reazioni si associa anche l’Italia. “Oggi come oggi dire sì al Mercosur vuol dire puntarsi una pistola alla tempia”, ha detto il ministro italiano, Marco Centinaio, nel corso dell’ultimo vertice europeo. Dietro di lui ci sono le associazioni agricole: “Riso, agrumi, zucchero, pollame, secondo la Confagricoltura, sono le nostre produzioni più esposte alla più forte concorrenza dei Paesi Mercosur”. La Coldiretti, che riunisce i coltivatori più piccoli, mette l’accento sulla “sicurezza a tavola”, ricordando lo scandalo brasiliano Carne Fraca, ma avanza preoccupazioni anche “per le concessioni al settore dello zucchero, del riso e degli agrumi”.

La Commissione europea ha risposto alle critiche sottolineando che si tratta di quote contingentate che alterano relativamente il mercato europeo (1,2% nel caso delle carni bovine e del pollame, 1% nel caso dello zucchero, 2,2% per il riso) e sulla diluizione nel tempo, da 7 a 15 anni, della piena entrata in vigore degli accordi. Ma nel tempo dei protezionismi la paura è più forte delle rassicurazioni. Ursula von der Leyen avrà da fare anche su questo versante.

Il santo del giorno o il beato Kaeser (da Siemens) visto dal Corriere

Ieri, per la rubrica il santo del giorno, il CorSera ci ha proposto Joe Kaeser, 62enne capo della multinazionale tedesca Siemens: pare che Kaeser intervenga via social su temi politici e, facendolo, si sia attirato le minacce di certi neonazisti (che poi, con tutto quel che ha fatto Siemens per Hitler, siamo al limite dell’irriconoscenza). San Kaeser, insomma, tra un tweet antirazzista e un’indignata presa di posizione contro l’Arabia Saudita per l’omicidio Kashoggi (ma fischiettando per anni sulle stragi in Yemen del generoso cliente) s’è dimostrato manager vergine e martire e, dunque, santo. Una vita in Siemens, assurto sei anni fa alla poltrona numero 1 dopo un enorme scandalo (miliardi di mazzette pagate in tutto il mondo sempre all’insaputa di San Kaeser, che d’altronde era solo uno dei top manager), non sempre il nostro twitta o parla chiaro come dice il CorSera: c’è quella storia delle turbine finite nella Crimea russa “all’insaputa” dell’azienda, per dire, o l’ultimo processo in Grecia per corruzione. “Atene deve guardare avanti, il passato è passato”, rispose quando gli chiesero un commento. Siemens lo ha fatto e, dopo aver pagato per avere appalti coi vecchi governi, ha vinto pure quelli post-Troika su infrastrutture, treni e inceneritori. E pure la Grecia ha recentemente guardato avanti. Il pm del processo a Siemens ha appena chiesto il proscioglimento di 22 dei 54 indagati: una legge passata poco prima delle elezioni, ha detto, ha trasformato alcuni reati in semplici infrazioni. La santità, si sa, passa per il perdono e Siemens ha molto da farsi perdonare.

Mail Box

 

Montanelli: 18 anni dall’addio a un grande giornalista

In tempi turbinosi e convulsi come questi che la nostra Italia sta vivendo socialmente e politicamente, avrebbe giovato, come sempre, la sua lezione. L’Italia perse, quel 23 luglio 2001, un grande giornalista, un uomo libero, capace con la sua profondità e vivacità intellettuale di provocare il dialogo in un mondo in cui non si ama più parlare ma guerreggiarsi. Egli sapeva raccontare, con straordinaria chiarezza, la storia degli italiani. uomo puntiglioso, lucido, di una rettitudine esemplare, appassionato giudice di una nazione che amava al di sopra di ogni altra cosa al mondo. Le sue analisi erano obiettive, terse come il cristallo e mai offensive. Insomma, un vero maestro di giornalismo e di vita. Gli italiani lo stimavano sinceramente, soprattutto per la sua onestà intellettuale, per la sua dignità e per il suo portamento. Ha lasciato un’impronta vera, non effimera, di sé. Pur con i suoi errori, le sue sconfitte decorosamente accettate. Per questo sento vero di lui imperituro rispetto, stima e simpatia. Dalle “stanze” di Montanelli (Corriere della Sera), che conservo gelosamente, ho imparato molto e gliene sono grato vita natural durante. Il suo vuoto, senza iperbole, sarà difficilmente colmabile per chi ama il giornalismo e vuole bene davvero ai giornalisti. Montanelli ebbe a dire, in una sua “stanza”: “Ho il sospetto che dopo la mia morte non si ricorderanno di me!”. Posso asserire, senza ipocrisia, che sento molto la sua mancanza.

Franco Petraglia

 

Landini al Viminale? Lascio la Cgil: è inaccettabile

Sono iscritto alla Cgil da circa 30 anni, stimo Landini come uno degli uomini più lucidi della sinistra, ma disapprovo la scelta di Cgil-Cisl-Uil di accettare l’invito di Salvini al Viminale. Salvini non ha competenza istituzionale per farlo. Né può usare il Viminale per incontri esplorativi di partito. Se le sigle sindacali accettano l’invito dalla persona sbagliata, nel posto sbagliato, si fanno strumentalizzare da uno che vuole solo imporre la propria supremazia, con l’aggravante di aver obbligato le parti sociali alla presenza di Siri, fuori dall’esecutivo perché indagato per corruzione. Mi sono allontanato dal Pd quando ha umiliato i lavoratori con il Jobs Act. Me ne andrò dalla Cgil se continuerà a prestarsi alle manovre di Salvini. In gioco ci sono valori non negoziabili di dignità e uguaglianza, minacciati da frequentazioni inaccettabili.

Massimo Marnetto

 

Il Carroccio pigliatutto e Di Maio non contrasta

In questi giorni il Cazzaro Verde, convocando al Viminale 43 sigle di rappresentanza, ha fatto uno sfacciato sgarbo al presidente del Consiglio, Conte, e al ministro dello Sviluppo, Di Maio. Mentre Conte ha denunciato pubblicamente il pessimo galateo istituzionale del Cazzaro Verde, Di Maio si è limitato a qualche timido e impacciato rimbrotto confermando la sensazione di non essere in grado di contrastare Salvini, che sta svuotando il consenso elettorale dei 5S senza incontrare ostacoli. Non so cosa’altro dovrà succedere perché i 5S battano un colpo. Intanto Salvini con il 17% della rappresentanza parlamentare pretende di fare il ministro dell’Interno, il presidente del Consiglio e pure quello dello Sviluppo. Dato che si porta dietro e difende indagati e condannati, mi sembra che la misura possa considerarsi colma… O no?

Leonardo Gentile

 

Dopo B. e Renzi, ora il leader leghista: i 5S diano una lezione

Siamo alle solite! Più Salvini e la Lega fanno in modo di squalificarsi, più gli italiani li premiano. Non sono sufficienti a far cambiare idea i 49 milioni spariti e “rimborsabili” in comode rate (80 anni), non bastano “onorevoli” pregiudicati e tuttora indagati (Siri), vi sono anche strani rapporti con personaggi che trattano mazzette in Russia. Abbiamo digerito Berlusconi, con tutte le sue gaffe e “avventure”. Abbiamo sopportato Renzi, con le sue megalomanie e prepotenze verbali. Ora sarebbe opportuno che qualcuno (nella fattispecie i 5s) ci dessero una chiara lezione di sana politica. L’Italia, che è passata da un ventennio infausto (o forse due) dove prevaleva la propaganda e il personalismo, non deve illudersi che ora, grazie all’uomo forte del momento, si risolveranno tutti i problemi. Un segnale forte ai politici veri, che agiscono per il nostro interesse, è stato dato. Il comportamento vincente dev’essere coerenza e onestà, sia materiale che intellettuale. Basta slogans e bullismi!

Paolo Benassi

 

M49 e la paura di scoprirsi tristi e vili al suo cospetto

A sfigurare i contorni di una storia esemplare ci ha già pensato chi gli ha dato quel nome. M49, come le oltre 16 mila pistole che l’esercito danese ordinò nel ‘48. Il fuggiasco, l’evaso, il temibile orso bruno divide l’opinione pubblica molto più dei 5 milioni di poveri assoluti che vivono nel nostro paese. Eppure avremmo tanto da imparare. Audace, resiliente, coraggioso e intelligente. Qualità a cui ispirarsi. Di cui farsi vanto. E invece no! Meglio inibirle e sopprimerle. Sarebbe troppo frustrante il confronto.

Margherita Pirro

La legge sulla lettura. Per una vera riforma non basta limitare gli sconti

 

Gentile Stefano Feltri, sono l’amministratore delegato della Armando Editore, una piccola azienda editoriale di Roma che ha compiuto 70 anni di vita. Sono stato tra i soci fondatori dell’A.i.p.e., Associazione Italiana Piccoli Editori, oltre trent’anni fa, che è confluita nell’A.i.e., formando il gruppo dei piccoli editori di cui sono stato presidente per molti anni. Ho ideato e realizzato a Roma la Fiera della Piccola Editoria “Più Libri Più Liberi”. E condivido pienamente la sua analisi sul mondo delle librerie e degli editori. La decisione sullo sconto (non oltre il 5 per cento del prezzo di copertina, invece che il 15 attuale, ndr), giusta o ingiusta che sia, non influirà sul problema delle vendite dei libri in Italia, o sulla sopravvivenza delle librerie indipendenti o dei piccoli editori. Il nostro Paese ha un indice di lettori tra i più bassi d’Europa, il costo di distribuzione tra i più alti, i prezzi di copertina tra i più bassi, il rischio commerciale a esclusivo carico degli editori per le rese sugli invenduti totalmente libere, la mancanza di tutela sul diritto d’autore che ha generato l’uso indiscriminato delle fotocopie, l’anomalia che le catene editoriali siano di proprietà degli editori e che il maggiore distributore di libri sia un editore ecc. Tutto questo non si potrà modificare abolendo gli sconti, ma per la sopravvivenza del libro e della lettura sarebbe auspicabile una “grande riforma” a cui chiamare a collaborare piccoli e grandi editori, distributori, catene di librerie e librerie indipendenti, per riscrivere tutto il mondo della produzione e diffusione dei libri, per fare in modo che le librerie tornino ad avere una funzione e i piccoli editori riescano a tutelare la bibliodiversità.

Enrico Iacometti, Armando Armando S.r.l.

 

Caro dottor Iacometti, grazie per la sua dettagliata lettera che conferma quanto ho scritto in un articolo che sta suscitando molte reazioni: imporre per legge sconti minori sul prezzo di copertina non serve a curare le storture di un settore che non riesce più a esprimere modelli di business sostenibili, ma soltanto a rinviare un po’ il problema comprando tempo a spese dei pochi italiani che leggono e a cui i librai vogliono far pagare un po’ di più i libri per avere qualche piccolo margine aggiuntivo. È una legittima pressione di lobbying, ma che non affronta nessuno dei problemi strutturali e che però viene presentata come una politica nell’interesse di tutti, a cominciare dai lettori che invece, nel migliore dei casi, almeno per una fase di assestamento pagheranno sicuramente di più per leggere lo stesso numero di libri.

Stefano Feltri

Democrazia e scuola: il rischio di spaccare l’Italia

La settimana scorsa i risultati delle prove Invalsi sugli studenti di tutte le scuole italiane ci hanno spiegato che permangono distanze importanti tra Centro-Nord e Sud e, nel Mezzogiorno, tra ricchi e poveri: insomma si può ancora dire, con Gaetano Salvemini, che la questione meridionale resta l’unica, vera, questione nazionale e questo non può che riguardare anche la scuola, il settore dell’intervento pubblico che contribuisce forse più di ogni altro a costruire il Paese come sarà in futuro. E cosa dicono, nel merito, questi test? Riassumendo che l’apprendimento di Italiano, Matematica e Inglese mostra differenze enormi tra le varie aree e che queste differenze, tutto sommato contenute nella scuola elementare, divengono via via più grandi con le medie e le superiori. Ad esempio, in seconda elementare il 20% degli alunni italiani ha grandi difficoltà a leggere e comprendere un testo scritto: se si scompone il dato a livello regionale, questa percentuale è ad esempio pari al 15% per le Marche e al 24% in Calabria. In quinta elementare la percentuale di alunni in “forte difficoltà” in Italiano è del 25%, ma la Sicilia viaggia 10 punti più su. I test Invalsi 2019 raccontano che queste percentuali vanno costantemente peggiorando fino all’ultimo anno delle superiori e se dall’italiano si passa a matematica e inglese il quadro è persino peggiore.

Nell’Italia meridionale e nelle Isole il sistema scolastico non solo è meno efficace, ma resta strutturalmente classista: i figli dei ricchi imparano, quelli dei poveri no. Questo è vero in particolar modo per Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna (Basilicata e Puglia fanno parzialmente eccezione). Il maestro di strada Marco Rossi Doria, ex sottosegretario all’Istruzione, sul Fatto l’ha messa così: “I dati Invalsi confermano tendenze già note. Abbiamo intere generazioni, intere aree del Paese che non raggiungono le competenze necessarie per poter esercitare la cittadinanza, accedere a un mercato legale del lavoro e uscire dalla povertà ereditata dai genitori. Una società così non è democratica”.

Niente di nuovo, dirà il lettore. Qualcosa di nuovo, invece, c’è ed è la cosiddetta autonomia differenziata (espressione anodina dietro cui, come di consueto, si cela una gran fregatura) richiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna e di cui i poteri sulla scuola sono uno dei punti più controversi. I due governatori leghisti, in particolare, chiedono di fatto una regionalizzazione della scuola: dirigenti e personale dipendenti da loro; concorsi regionali; poteri sul riconoscimento delle private e la concessione dei contributi pubblici. Se si tiene a mente un’altra richiesta delle tre Regioni, quella che riguarda i trasferimenti in denaro dallo Stato centrale, è chiaro che la scuola della Repubblica non esisterebbe più: le regioni ricche saranno più ricche e le altre più povere. Tradotto: la scuola oggi meno efficiente e più debole avrà in futuro ancor meno risorse per funzionare.

Siamo – se ci si ricorda anche solo dell’articolo 3 della Carta (“è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”) – chiaramente fuori dall’Italia disegnata dalla Costituzione: quale luogo più della scuola promette di sanare le disuguaglianze, di formare cittadini consapevoli e dunque, in definitiva, di realizzare davvero, rimuovendo gli ostacoli di cui sopra, la Repubblica democratica fondata sul lavoro (cioè quella cosa che uno dovrebbe trovare dopo aver finito le scuole)?

Come “chi è Salvini”? Ma è solo il tizio che si occupa dei gattini…

In un paese in cui il lavoro scarseggia e le statistiche sull’occupazione fanno spavento, la piaga del doppio o triplo impiego diventa insostenibile. È come se uno facesse il tornitore alla Breda, poi il tranviere, poi in pausa pranzo l’idraulico e dopo cena il pediatra. Tipo Salvini, insomma, che alla mattina fa il ministro dell’Interno (sgombero di 300 persone tra cui 80 bambini), il ministro del Lavoro al pomeriggio (incontro coi sindacati), il presidente del Consiglio per una mezzoretta, il piazzista di flat tax mentre gli altri mangiano un panino, poi, per tutto il resto della giornata fa quello che a Milano si chiama “il piangina”, cioè quello che “tutti ce l’hanno con me”, quello che frigna. Puro salvinismo, insomma, che è una variante bulimica del classico “chiagni e fotti” del potere italiano. A tempo perso twitta foto di cibo e gattini (ieri un poliziotto che nutre una gattina incinta, che non è sta gran notizia, avrebbe fatto certo più scalpore una gattina che dà da mangiare a un poliziotto incinto, probabilmente Salvini ci sta lavorando). Insomma, per la prima volta ci troviamo di fronte a un multi-ministro, che in confronto i travestimenti di Silvio buonanima erano cabaret (il presidente operaio, il presidente ferroviere, ecc. ecc.). Come sempre quando qualcuno esagera sorge spontanea una domanda: non sarà un po’ colpa nostra che gli diamo retta (e per “nostra” intendo: di chi ha a che fare con lui)? Dopotutto lo spaccone da bar, quello che alza gli occhi dalla Gazzetta solo per intervenire a cazzo, nella vita lo abbiamo incontrato tutti, dovremmo sapere come si fa.

Siccome viviamo qui da tempo, ricordiamo che questo prendersi spazio, prime pagine, attenzione sfrenata, non è una novità. Ci fu un periodo in cui Berlusconi finiva nei titoli di testa anche se raccontava una barzelletta zozza (forse soprattutto per quello), Renzi se ne inventava una al giorno, e quando in prima pagina finiva qualcun altro gli veniva la gastrite. Salvini uguale col rilancio: vuole i titoli suoi, ma anche quelli degli altri. Ed è stato un grande momento quando un sottosegretario leghista dimissionario per le accuse di corruzione, il famoso Siri, si è alzato nella grande sala del Viminale per spiegare ai sindacati la flat tax. Ecco un caso di scuola del “noi che gli diamo retta”. Possibile che tra le mille e mille sigle sindacali che sono affluite ordinatamente al Viminale per sentire la lezioncina sulla flat tax dell’indagato dimissionato non ci sia stato uno – che ne so, un vecchio delegato, una rappresentante delle commesse, un sindacalista degli edili – che si sia alzato dicendo: “Questo è troppo me ne vado”? Davvero strabiliante.

Si è un po’ imbizzarrito il presidente del Consiglio vero (Conte), quando ha capito che il ministro dell’Economia falso (Salvini) stava usurpando il suo posto. E forse il ministro del Lavoro (quello vero, Di Maio) avrebbe dovuto presentarsi anche lui, per parlare al posto di quello falso (sempre Salvini). E magari mandare Salvini (quello vero) a rispondere al Parlamento delle sue trame russe. Insomma, un pesce a secco non sopravvive (provate a metterlo su un tavolo) e si sa che gli serve l’acqua.

Ecco. L’acqua in cui nuota Salvini, grazie alla quale sopravvive, è l’assoluta incapacità di metterlo al suo posto, di arginarlo nel suo ruolo, che già sarebbe troppo. Lo so, è più facile dirlo che farlo, però prima o poi bisognerà cominciare, e forse proprio Salvini può insegnarci come. Basta fare come lui, far finta di niente, cadere dal pero. Lo trovi pappa e ciccia con un narcos e lui dice: non lo conosco. Savoini tratta forniture di petrolio con lo sconto per regalare 65 milioni alla Lega e presenzia ai bilaterali, e lui dice “Non l’ho invitato io”. Insomma, negare sempre. Ecco, bisognerebbe fare così: Salvini chi, quello dei gattini?

Più filo-russi di quanto pensiamo

Il professor Panebianco, dalle colonne del Corriere della Sera, si chiede che cosa ci sia di così marcio nel nostro sistema da spingere un numero tanto elevato di persone a simpatizzare per la Russia. In verità, non ho colto in giro un gran fervore per Putin, a eccezione della moglie russa di mio cognato. Amo sperare che la tesi del noto commentatore, secondo il quale molti preferiscono il dispotismo alla società libera, non sia altro che un esorcismo sul futuro.

In realtà, una certa tendenza a trasformare i rapporti tra potere pubblico e cittadini da democrazia partecipativa in parziale sudditanza (o democratura) è presente da alcuni anni nel nostro ordinamento, anche se attentamente ignorata dai vacui proclami della retorica ufficiale. La cifra interpretativa poggia sulla nozione di Führerprinzip, cioè il principio del capo di origine hitleriana (ma applicato anche fuori da quel contesto politico) che assegna al preposto il ruolo di decisore unico e fondamentale delle scelte relative a un certo apparato, cioè una forma programmata e minacciosa del meneghino ghe pensi mì. Il Führerprinzip utilizza un’amministrazione parallela (di soggetti individuati dal capo al di fuori di ogni logica meritocratica e di competenza) che sovrasta quella ufficiale fin quando non riuscirà a sostituirla integralmente. Il fenomeno, non certo con la massima intensità e con i più loschi profili degenerativi, è potuto penetrare grazie alla legislazione che ha accentuato progressive personalizzazioni del potere tali da attribuire al ministro, al presidente della Regione, al sindaco, al direttore della Asl una facoltà di scelta e di autoreferenzialità delle funzioni capace di condurre, se non rettamente esercitata, a effetti perversi.

Intendiamoci: il principio del capo assume carattere sinistro solo in presenza di una prava intenzione o più semplicemente per l’arroganza di certi preposti, aiutati da un’amministrazione parallela. Con quel corredo organizzativo, infatti, si possono eludere sistematicamente le procedure per garantire l’accesso dei migliori e si rende l’amministrazione ordinaria quasi servente di quella parallela. Questo è successo e succede con una certa continuità in Italia (non solo nel settore pubblico) e forse costituisce più di altri il vero impedimento alla crescita invocata in coro dagli aspiranti sciamani della nostra economia.

Qualche esempio. La costituzione di marca renziana era esplicita nel tentativo di consolidare uno Stato quasi autocratico ed è per questo che il referendum l’ha sonoramente rifiutata; le scelte di primari ospedalieri non in base a una graduatoria concorsuale con il primo classificato, ma in una rosa di tre, tra i quali il probabile raccomandato di ferro, rende plasticamente, in norme di legge, il disprezzo per la salute pubblica e l’arroganza del potere partitico; l’inserimento, oltre ogni limite di decenza numerica, di personale nella Pubblica amministrazione, senza il passaggio del concorso pubblico prescritto dall’articolo 97 Costituzione, rende evidente il fine di costituire un’amministrazione parallela, fedele al dominus politico e molto meno alle istituzioni. Per non parlare degli affidamenti di importanti incarichi ad amici e sodali che, da tempo, non fanno più nemmeno notizia. L’arroganza del potere non finisce qui, ma giunge a mostrare la faccia feroce, minacciando ritorsioni sui dipendenti non totalmente remissivi.

Anche qui un esempio. Il codice di disciplina del Mibact, adottato dal precedente ministro, reca disposizioni che, al confronto, rendono l’articolo 62 r.d. n. 2960/1923, n. 2960 (cioè lo statuto fascista degli impiegati dello Stato) una norma perfino liberale (codice, a quanto pare, disapplicato in parte qua dall’attuale dicastero).

A conforto di questa meditata affermazione si rammenta che, quasi due anni fa, sul Fatto, i Soprintendenti in pensione hanno sentito il dovere di esprimere, su questioni d’interesse culturale generale, tesi e opinioni inibite ai loro colleghi in servizio, passibili, per una libera manifestazione di pensiero, di azione disciplinare. Quelle dichiarazioni non mi risultano essere state oggetto di contestazione da parte delle fonti ufficiali. La tensione per l’autocrazia è un male antico di una classe dirigente priva di un adeguato retroterra culturale o troppo avida. Non bisogna perciò sorprendersi se, di fronte a continue commistioni di potere pubblico e interessi di vario genere, i cittadini fatichino a percepire la distanza tra democrazia e democratura.

Aragosta letale, il ministro De Rugy si dimette

François de Rugy alla fine si è dimesso: da una settimana il ministro della Transizione ecologica di Emmanuel Macron era al centro di uno “scandalo a puntate”, che ha finito per travolgerlo. Le dimissioni sono state annunciate ieri proprio mentre Mediapart, il giornale online che distillava nuove rivelazioni giorno dopo giorno, si preparava a pubblicare una nuova inchiesta: questa volta sull’uso sospetto che De Rugy avrebbe fatto di fondi pubblici destinati al suo mandato di deputato nel 2013-2014 e utilizzati invece per finanziare il suo partito, Europe Écologie-Les Verts. Secondo Edwy Plenel, direttore di Mediapart, è stata questa nuova inchiesta ad aver fatto cedere De Rugy. Il giornale, che ieri aveva inviato delle domande al ministro per chiedere spiegazioni sulla nuova questione, non ha mai ricevuto le risposte. Sono invece arrivate le dimissioni. De Rugy, che ha denunciato il “linciaggio mediatico” contro la propria famiglia, sporgerà denuncia per diffamazione contro Mediapart. Lo scandalo era nato il 10 luglio quando il giornale ha rivelato le cene fastose a base di aragoste e pregiati champagne, aperte a amici e parenti, ma a spese dei contribuenti, che de Rugy ha organizzato tra il 2017 e il 2018 mentre era presidente dell’Assemblea nazionale. L’“aragostagate” (homardgate in francese) era diventato anche un nuovo slogan di protesta per i Gilet gialli. L’11 luglio, Mediapart ha rivelato anche che De Rugy ha speso 63 mila euro, sempre di denaro pubblico, per rinnovare gli appartamenti al ministero dell’Ecologia. Di questi, 17 mila solo per una cabina armadio.

Il tesoro di Gheddafi, ultimo mistero dell’isola dei pirati

In ballo ci sono 90 milioni di dollari e l’ombra dei Gheddafi che, a dispetto della rivoluzione e della loro fine violenta, incombe ancora sulla Libia. I soldi sono bloccati a Malta, nei forzieri della Bank of Valletta: il governo di Tripoli sostiene che quella somma deve rientrare in patria, gli eredi del raìs li ritengono proprietà privata, frutto degli investimenti di Mutassim Gheddafi, il quinto figlio del dittatore che restò con lui fino alla fine nel deserto della Sirte, il 20 ottobre 2011. Mutassin morì a 36 anni: i suoi conti a Malta partirono con 500 sterline nel 2002, nel 2011 erano diventati 60 milioni di euro, gestiti da due società, Capital Resources e Mezen International.

Nato nel 1975, laureato in Medicina ma con una propensione per la carriera militare, Mutassim nel 2007 fu promosso a capo del Consiglio di sicurezza nazionale. La contesa giudiziaria è iniziata nel 2015 con la richiesta di restituzione presentata alle autorità maltesi dal procuratore generale nominato dal governo di al-Sarraj; a questi si oppone il legale della vedova del dittatore e madre di Mutassim, Safia Ferkash – oggi vive in Oman – l’avvocato ellenico Charilaos Oikonomopoulos.

Nell’udienza di ieri, Oikonomopoulos ha ribadito il concetto base, quei soldi sono frutto delle attività private di Mutassim, in particolare un pio di versamenti (133.832 dolalri in due pagamenti descritti come Accordo LISA e Accordo ALAG). sarebbero stati destinati ad un presunto figlio del rampollo libico avuto con una modella olandese. Ma non ha fornito dettagli sull’origine dei fondi affidati alle due società maltesi, amministrate da Joe Sammut, ex tesoriere del partito Laburista. Per avere più particolari, ha detto il legale, “bisognerebbe rivolgere le domande in Paradiso”. Il governo di Sarraj ricorda che Mutassim Gheddafi come capo della sicurezza nazionale aveva uno stipendio annuale di 45.000 euro; secondo le norme, il figlio del Colonnello non poteva ricevere emolumenti da altri canali e avere interessi con partecipazioni in società private. Tripoli poi punta il dito contro le leggi anti riciclaggio che la banca maltese avrebbe ignorato non mettendo in pratica la regola del know- your-customer: la ricerca di notizie sull’attività del cliente per evitare danni. Questa “leggerezza” per Tripoli ha anche un altro motivo: i vantaggi sugli interessi tratti dalle cospicue transazioni attraverso le carte di credito di Mutassim; l’istituto nega, l’amministratore delegato Charles Borg ha ricordato che non c’è un solo funzionario indagato per la gestione dei conti di Gheddafi; inoltre, il conto era stato aperto prima che i beni della famiglia fossero bloccati a causa delle sanzioni internazionali.

Già nel 2016 MaltaToday in un articolo ricostruiva alcuni passaggi: “I milioni di Gheddafi erano gestiti dall’ex tesoriere del Partito laburista Joe Sammut”. Il 3 maggio 2018 Sammut ha testimoniato nel processo confermando di aver organizzato incontri fra rappresentanti di Mutassim e la Bank of Valletta, e che ingenti somme erano state depositate tra il 2010 e il 2015 in tre conti separati intestati a una società con il nome di Capital Resources. Per evidenziare lo stile di vita di Mutassim il Wall Street Journal ha visionato gli estratti conto: la Visa Platinum emessa da Bank of Valletta è stata usata per spese fino a 100.000 euro in pochi giorni: il 10 aprile 2009, 21.000 euro per acquisti a Roma, in prevalenza abiti firmati; l’11 aprile 8.300 euro ancora per abbigliamento di marca e 3.300 euro per pasti e divertimenti serali. A Parigi il playboy libico aveva speso in una sera 4.890 al night L’Arc Paris e altri 4.500 per la cena al Rival Deluxe sugli Champs Elysée.

Anche a Milano conoscevano la “generosità” di Mutassim: nel 2013 la Procura di Milano concluse con 16 indagati una inchiesta su un giro di prostituzione di lusso: Mutassim era nell’elenco dei clienti, ospite in un albergo del centro nel gennaio 2008 e nel luglio dello stesso anno: incontri con tre ragazze per volte, pagate 1.000 euro a testa. In Libia, quando il potere di Gheddafi crolla, i rivoltosi entrano in quelle residenze che erano state vigilate dalle guardie della famiglia: una di queste si trovava a Ain Zara, ed era la “casa delle vacanze” di Mutassim; chi vi fece irruzione la descrisse come una specie di “castello di Aladino”.

Netflix rimuove i tre minuti più discussi in Usa: niente suicidio nella serie “Tredici”

La scena del suicidio di un’adolescente non sarà più visibile. Netflix ha rimosso tre minuti della prima stagione di Reasons Why, nota in Italia come Tredici. Lo riferisce la Bbc. Ci sono voluti due anni e un’accesa polemica che ha diviso gli Stati Uniti. La seguitissima serie tv era stata accusata di rendere affascinante il suicidio agli occhi della fitta schiera di spettatori adolescenti, che potevano facilmente immedesimarsi nella protagonista: Hannah Baker, una studentessa di liceo. L’impianto narrativo costruito attorno alla sua morte, secondo i più critici, favorirebbe una percezione romantica dell’atto. “Affrontare argomenti difficili nei drama può aiutare ad accrescere la comprensione e incoraggiare le persone a cercare aiuto – ha dichiarato Lorna Fraser del servizio di consulenza sui media – ma è importante farlo in modo responsabile”. La rimozione è stata decisa in accordo con gli esperti della Fondazione americana per la prevenzione dei suicidi. Non è la prima volta che Tredici scatena dibattiti. Anche le due scene di violenza sessuale hanno fatto discutere. La serie è stata accusata di eccessiva verosimiglianza, tanto da indurre gli spettatori al voyeurismo. C’è chi, invece, ne ha colto l’utilità al fine di sensibilizzare su tematiche così delicate. Almeno in merito al suicidio, la parola fine alle polemiche l’ha messa il produttore in persona. “La serie aveva originariamente rappresentato la brutta e dolorosa realtà del suicidio per assicurarsi che nessuno avrebbe desiderato emularlo”, ha scritto Brian Yorkey su Twitter. “Tuttavia – ha aggiunto – le preoccupazioni espresse ci hanno indotto a riconsiderare la scelta”.