Tutankhamon e la sua maledizione: che paura!

Napoletani d’Egitto. Dal proclama di Totokamen ai tebani: “Valoroso soldato tebano, mio padre da lassù ti guarda e ti protegge. Armiamoci, e partite! Io vi seguo dopo!”. Luxor, l’antica Tebe. La Valle dei Re e le sue magnifiche tombe. I faraoni. Quattro ore di viaggio dalla sponda del Mar Rosso. Hurghada, uno dei tanti villaggi di pescatori stravolti dal turismo. Si parte intorno alle quattro. La corriera è scassata e l’autista va a rotta di collo per il deserto. Una sola sosta, in un’oasi brulicante di beduini e mercanti, che l’alba è già spuntata. Il caldo egiziano avvolge come un manto di calore, l’umidità ti bagna prima che cominci a sudare. Quarantadue gradi, a luglio. Tre lustri fa.

La Valle dei Re è maestosa. Sono a nato a poco più di venti chilometri da Pompei ma vuoi mettere l’egittologia e la maledizione di Tutankhamon? La tomba del faraone bambino, decine di libri letti e immaginare cosa provò Howard Carter quando picconò la parete che conduceva al tesoro più famoso del mondo, almeno per me. Scala, corridoio, poi le meraviglie di maschera e sarcofagi. Nella Valle dei Re i quarantadue gradi sembrano il doppio. Nel gruppo ci sono due vecchine curiosissime, incuranti del sole killer. Saranno pure teutoniche e temprate ma temo che un loro eventuale decesso poi possa ritardare la partenza della corriera e la visita al tempio di Luxor. La guida passa di tomba in tomba. M’informo su quella di Tutankhamon. Risposta: “Non c’è nel nostro giro, è vuota, non è rimasto nulla dentro”. Insisto. Voglio vederla. Il gruppo rallenta, indi prosegue la sua visita. Da solo, scortato da un’altra guida, arrivo all’ingresso del sepolcro, noto anche come KV62. Mi fermo. Osservo. Alcuni che varcarono l’ingresso morirono. “Scendiamo?”, mi chiede l’uomo. “No, non entro. Raggiungiamo gli altri”.

Bowie e Streisand, l’allunaggio suona dei gran classiconi

“È il 20 luglio del ’69”. E no, non è l’attacco del nuovo tormentone di Achille Lauro. Parliamo proprio di quel 20 luglio di cinquant’anni fa, quando il modulo LEM toccò il suolo lunare. In una registrazione di bordo del giorno prima si sente la voce di Michael Collins chiedere a Neil Armstrong e Buzz Aldrin “Ehi, ragazzi, sentiamo un po’ di musica?”. Perché la musica, in quei giorni lunari e lunatici, era letteralmente dappertutto. Radio, jukebox, trasmissioni televisive e, appunto, anche sull’Apollo 11. Nessuna playlist da svariati gigabyte per i tre astronauti, ma un più modesto nastro registrato dagli “esperti pop” della Nasa, da ascoltare su un Sony portatile precursore del (moon) walkman. Su Spotify si può trovare parte di quella selezione cercando “Apollo 11 playlist”: ci sono pezzi che riflettono i gusti di tre quarantenni bianchi tutti d’un pezzo (Galveston di Glenn Campbell, People di Barbra Streisand) ma sorprendentemente anche Everyday People dei rivoluzionari e multirazziali Sly and the Family Stone (nella versione edulcorata di Peggy Lee, per non esagerare).

Va detto che le tecniche di compilazione dei mixtape della Nasa si sono evolute: nei mesi scorsi, infatti, l’ente spaziale americano ha lanciato su Twitter il sondaggio “Che canzoni scegliereste per un viaggio verso la Luna?” (hashtag #NASAMoonTunes). Ovviamente esclusi pezzi con “titolo, testo e argomento espliciti” (sic). A questo proposito il pensiero va, con un po’ di nostalgia, alla squinternata BBC del ’69 che incredibilmente riuscì a diffondere, durante la diretta dell’allunaggio, una canzone che intesa letteralmente parlava di un astronauta alla deriva (beneaugurante, quindi) e che metaforicamente raccontava il trip di un drogato. Quella canzone, naturalmente, era Space Oddity. L’allora ventiduenne David Bowie l’aveva scritta ispirato da 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, senza immaginarsi di finire sulle immagini dell’Apollo 11 nonché al quinto posto in classifica. Se gli spettatori britannici ascoltarono il leggendario verso “ground control to Major Tom”, quelli italiani dovettero accontentarsi del più ruspante “da Houston Ruggero Orlando, a voi studio” con Tito Stagno a rispondere. Celeberrimo anche quello, come scambio, ma per quanto riguarda la hit parade nostrana, dominata dalle Lisa dagli occhi blu di Mario Tessuto e dalle battistiane acque azzurre acque chiare, la luna non compariva stranamente da nessuna parte. Negli Stati Uniti, invece, era da settimane al comando delle classifiche In the Year 2525 del duo Zager & Evans, una canzone che parlava di futuro in toni distopici più adatti all’estate 2019 che all’ottimismo psichedelico di quella del 1969. Altrettanto apocalittiche le fantasie licantrope di Bad Moon Rising dei Creedence Clearwater Revival, altro grande successo delle radio fm di quell’estate. Ci fu anche chi nella notte lunare sull’onda dell’emozione scrisse una canzone. Uno di questi fu Tom Rapp, leader degli esoterici Pearls Before Swine. Il pezzo si intitola Rocket Man, ispirerà per sua stessa ammissione Elton John e narra di un astronauta ucciso da una eruzione solare. Nella contro-cultura di allora, evidentemente, c’era un rapporto conflittuale con quella corsa allo spazio che aveva caratterizzato l’intero decennio e che trovava la sua apoteosi in quel weekend di luglio, così come la stessa contro-cultura avrebbe celebrato la sua poche settimane dopo a Woodstock. Il lato oscuro della luna, insomma. Ma quella, si sa, sarà tutta un’altra storia.

 

 

Tappe

16 Luglio
L’Apollo 11 viene lanciato da un razzo vettore alle 13.32, entra in orbita terrestre dodici minuti più tardi a un’altitudine di 185,9 km per 183,2 km

 

20 Luglio

Alle 20.17 la navetta Eagle si posa sulla superficie lunare

 

21 Luglio

Alle 02.39 viene aperto il portello. Alle 02.56 il comandante Neil Armstrong scende dalla scaletta, poggia i piedi sulla superficie e pronuncia la storica frase “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l’umanità”. Alle 21.24 Eagle lascia il suolo lunare, dopo aver piantato la bandiera americana e apposto una targa a memoria della missione

Don Chisciotte ha infilzato (almeno) tutti i registi

“Sventura colpisca chiunque tenti di scrivere il seguito di questa storia”. Ipse dixit ma nessuno mai gli diede retta. Troppo tronfi gli ego dei posteri artisti (o presunti tali) per assecondare quell’inquieto pazzoide di Miguel de Cervantes Saavedra, altrimenti celebrato come il più grande scrittore spagnolo di sempre.

Ma è chiaro che a chiunque l’avvertimento suonava più da ghiotta sfida che non da vera maledizione, d’altra parte di capolavoro indiscusso si tratta, e l’attrazione fatale a rielaborare il Don Chisciotte della Mancha (all’anagrafe letteraria originale El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha) vale la disobbedienza, allora come oggi.

Spedite al vento le cassandre di Cervantes ad aleggiar coi suoi mulini, l’opera uscita in due parti rispettivamente nel 1605 e il 1615 è stata rivisitata a ogni piè sospinto in Paesi, culture, lingue e naturalmente espressioni artistiche diverse.

Il cinema, in qualità di novella wagneriana Gesamtkunstwerk, si è prodigato a far la parte del leone con maestri e mestieranti a divorare le gesta del leggendario cavaliere, eroe picaresco e romantico di un’epica visionaria ancorché tragicomica e unica nel suo genere. E non pochi registi ne sono usciti con ossa rotte e casse svuotate, se non addirittura coi remi in barca della rinuncia.

Uno fra questi porta il nome di un gigante, Orson Welles. Pensato come mediometraggio per la tv spagnola e girato in 16mm, il Don Quixote ideato dal geniale cineasta americano arrivò a espandersi in lunghezza e profondità assumendo il carattere di film sperimentale.

Poiché era lo stesso Welles a finanziarselo, la “interminabile” lavorazione durò decenni: una produzione senza programmazione e con troupe minimal. A morire, nel frattempo, furono sia l’attore principale (sostituito da una controfigura) che lo stesso regista nel 1985. Per volere della sua terza consorte l’opera fu ultimata nel 1992 dallo spagnolo Jesùs Franco (che decise di non firmare la co-regia) per approdare alla Mostra veneziana dove fu sonoramente contestata. “Si è creato attorno a questo film, attraverso gli anni, una specie di leggenda che non sarebbe sorprendente immaginare che Welles preferisca restarne l’unico spettatore” scriveva François Truffaut del work in progress del suo esimio collega, e forse aveva ragione.

Caduto Orson Welles nella malefica trappola, nessuno – si pensava – avrebbe nuovamente osato compiere il sacrilegio. E invece qualcuno è riuscito persino a far meglio, cioè “peggio”, del regista di Quarto potere.

Quello subito infatti da Terry Gilliam per il suo The Man Who Killed Don Quixote è un travaglio che sa di apocalittico. Al punto che l’ex Monty Python ha ritenuto di documentarne le disavventure in un documentario emblematicamente titolato Lost in la Mancha. Il paradosso è che quando uscì il doc nel 2002, solo la metà delle tragedie legate al progetto – avviato nel 1998 con un budget di $ 32 mln – si erano verificate: come a dire, il peggio doveva ancora venire.

Non a caso il film è stato designato fra i più estremi development hell projects (letteralmente progetti dallo sviluppo infernale) nella storia del cinema. Per fortuna c’è un happy end che distingue “Super Terry” (così soprannominato dai cast & crew “sopravvissuti”) da diversi dei suoi colleghi, Welles incluso: il coriaceo 79enne la sua “anarchica, folle e coloratissima” opera è riuscito a terminarla e a gustarsela gonfio di soddisfazione fra gli applausi di Cannes del 2018 dove è arrivata in extremis.

Già, perché l’ultimo guastafeste di un incubo ventennale si è incarnato nel produttore portoghese Paulo Branco deciso a far causa a Gilliam “se avesse portato il film in concorso sulla Croisette”.

Cosa che fortunatamente il Tribunale di Parigi ha impedito (decretando una sentenza in favore del regista americano naturalizzato britannico) ma che ha causato l’estromissione dell’opera dalla competizione e al Nostro un tasso di stress così elevato da mutare in collasso, con il rischio di fargli vedere il festival dalla tv di casa.

Ma i problemi di cui sopra rispondono solo alla punta dell’iceberg di un tormento che affonda le radici in una follia anarcoide che certamente profuma di genio ma anche di testardaggine al di là del bene e del male, un mistero buffo di opposti e uguali che forse solo Dario Fo avrebbe saputo puntualmente decifrare.

Per metà dell’esistenza di Gilliam, Don Chisciotte è divenuto il suo specchio gradualmente deformato in incubo, l’auto-costrizione a combattere contro infiniti mulini a vento, nascosti sotto variegate forme.

Due attori scelti per la parte di Don Chisciotte morti nel work in progress (John Hurt e Jean Rochefort), altri interpreti (Depp, Duvall, Palin, McGregor, Vanessa Paradis) diversamente spariti dai set spagnoli a loro volta distrutti da devastanti uragani, sospensioni e riprese, annullamenti e ripartenze, e traversie produttive estreme di cui quella di Branco rappresenta solo l’ultimo capitolo, considerando che nel 2006 Gilliam riscattò i diritti del film fra mille clausole “oscure” e – appunto – una battaglia conclusa solo pochi giorni prima di Cannes 2018. Con Gilliam in trionfo, suo malgrado, nessuno mai saprà se questa versione di The Man Who Killed Don Quixote (uscita in Italia come L’uomo che uccise Don Chisciotte) corrisponde a quella da lui sognata: benché i protagonisti Jonathan Pryce e Adam Driver risuonino alla perfezione, i segni della corrosione sono evidenti in questo film dalle forme e contenuti a dir poco surreali.

E il monito di Cervantes è tutt’altro che fantasioso, provare per credere.

 

 

Non chiamateli cartoon. Sono racconti universali

Gli antichi avevano i miti, le leggende e le fiabe, noi abbiamo i cartoni animati. Per le generazioni del nostro tempo, cresciute in compagnia di “nonno” Topolino (1928) e “zio” Bugs Bunny (1938), e che si affacciano sul mondo globalizzato con i palloncini colorati della casa volante di Up, le battute ciniche di Homer Simpson, i castelli erranti di Miyazaki, i disegni infantili di Peppa Pig o il volto segnato dalla goccia di sudore del Nobita di Doraemon, gli autentici miti d’oggi sono i cartoon . Tuttavia, all’ingresso del loro mondo che, come insegna il capolavoro di Zemeckis, Chi ha incastrato Roger Rabbit?, è solo al di là della parete di abitudini che rassicura l’angusta realtà in cui viviamo, veglia il demone astuto della nostalgia. Per questo, fra gli adulti che parlano di cartoni il rifiuto – “sono cose da bambini” – si alterna al rimpianto dei reduci del passato.

Quella nostalgia per cui ogni segmento generazionale ha, assieme alle sue canzoni e ai suoi oggetti-feticcio, anche i suoi cartoni animati. Prima prevalentemente al cinema e disneyani; poi targati Rai, con Silvestro, Titti, Wile Coyote, Yoghi, Bubu e la Pantera Rosa. Negli anni ottanta, con la TV commerciale, sono arrivati i cartoni animati giapponesi: da Atlas Ufo Robot a Mazinga, da Heidi e Lupin III, fino ai Pokémon dell’era dei canali tematici digitali. Ma le lenti della nostalgia, come le vecchie figurine dei calciatori regalate con l’Unità di Veltroni, ci rimandano solo il riflesso appannato di noi stessi e delle malinconiche rinunce del nostro presente. Invece i cartoni animati mostrano, nella loro attuale e ricchissima combinazione di stili, tecniche e linguaggi, il sorgere festivo di un nuovo immaginario collettivo, non più legato a una cultura o a una tradizione particolari, bensì effettivamente planetario e rivolto al futuro.

Così, nella miriade di storie e di personaggi che questo meraviglioso alter mundus offre allo sguardo delle generazioni globali, ecco comparire delle costanti che ricuperano l’ingenuità dell’infanzia e la sua latente carica rivoluzionaria. Cominciare da capo allora è possibile. Si può “costruire nell’azzurro”, come scriveva Bloch, il filosofo del principio- speranza, che avrebbe trovato conferma della sua formula nella carta da parati celeste, con le nuvolette paffute, che fa da sfondo al logo di Toy story. I cartoon ci restituiscono il punto di vista del minimo, dell’infimo e dell’escluso, di quella che Adorno chiamerebbe “la vita offesa”. Gli animali parlano e ribaltano l’ordine già biblico e poi darwiniano di predatori e prede, come quello delle coppie rigorosamente intraspecifiche, ossia atte alla riproduzione (Bibbia e capitale su questo sempre convergono), dell’arca di Noè. I mostri, come Shrek o Mike e Sullivan di Monsters & Co., sono buoni e gentili ed è il padrone della fabbrica di Mostropoli a capitalizzare la paura dei bambini – ma lo si fa, da sempre, anche con quella degli adulti –, trasformandola in preziosa energia e potere. E come non vedere nell’ottusa ostinazione al possesso della ghianda di Scrat, il paleoscoiattolo con cui iniziano e terminano i film del ciclo dell’Era glaciale, l’ossessione autistica del voler avere di più e dell’accumulo capitalistico? Così la surreale causa comica delle catastrofi planetarie del passato rischiara la reale minaccia dell’estinzione che grava sul presente.

I cartoon mettono in discussione la barriera che separa le persone e le cose, accomunate dall’identica forma dello sfruttamento. L’ultima arrivata fra i personaggi di Toy story 4 è una forchetta di plastica, il rifiuto non riciclabile per antonomasia: le cose inanimate, ridotte a oggetti usa e getta, si animano e protestano l’abbandono e l’incuria con cui ci addestriamo a considerare tutti gli esseri e infine noi stessi alla stregua di merci viventi a obsolescenza programmata. Se restituiamo alle cose l’unicità e la capacità di guardare – ed è ciò che i cartoon fanno dalle automobili di Cars alle scatole di cartone di Boxtrolls fino agli animacibi di Piovono Polpette –, allora è più difficile poter trattare le singolarità viventi come cose. Una nuova territorializzazione accompagna lo sguardo dei cartoni animati. Le radici, che negli antichi miti dicevano l’attaccamento al luogo in cui si è nati, si identificano ora con l’intero pianeta Terra di cui bisogna prendersi cura. “Define Earth!”, come chiede al computer di bordo, nello splendido Wall·E, il comandante dell’astronave di un’umanità esiliata da secoli nello spazio siderale, prima di invertire la rotta e fare ritorno a casa.

Nico, Amy e le altre: da icone rock a strafatte in overdose

Nel film dedicato a Christa Paffgen, Nico dei Velvet Underground, la fine è l’epifania greve e muta di un assolo. Il parossismo definitivo e inutile di una voce, un talento, l’ultimo colpo di coda sferrato come fosse un pugno dagli inganni mondani, dello star system dovremmo aggiungere nel linguaggio più esatto. La Nico eroinomane. Nico 1988, è il titolo del film firmato da Simona Nicchiarelli, nel 2017, vince il David di Donatello per la migliore sceneggiatura, di recente Rai Tre lo ha riproposto probabilmente perché il 18 luglio ricorre l’anniversario della morte dell’ex modella della Factory di Warhol. Il film è riuscito a raccontare quel che è una specie di protocollo osservato, e sempre uguale, negli ultimi anni di vita delle rock star, diventano presto sacrifici pagani, sconfessano immediatamente la straordinarietà che li ha investiti. Muoiono. Preferibilmente di overdose. Nico sarebbe morta di emorragia cerebrale. Prendeva il metadone. Aveva smesso con l’eroina. Non che cambiasse molto, cambiava al limite il nome della sostanza. Ad ogni modo è l’elegia funerea che sembrano restituirci i suoi ultimi giorni, malgrado vivesse a Ibiza e fossero gli anni 80, a impressionarci, qualcosa che abbiamo già incontrato. Negli ultimi giorni di vita di Amy Winehouse ad esempio. Amy strafatta di qualsiasi cosa, Amy imbrattata di coca nelle narici, sangue, del terrore in cui precipitava e da cui risaliva sfigurata, irriconoscibile. Video crudelissimi circolavano su youtube, la mostravano nuda nella sua dipendenza, era già sopra il mondo. Morta simbolicamente. Che almeno li abbiano fatti sparire. Amy muore il 23 luglio, a Camden Town, nella sua casa a due piani.

Molto bella, esosa. E lei con il suo splendido toupet era un manifesto, la voce blues, i suoi capelli neri, lo sguardo allungato dall’eyeliner, malgrado fosse scavata. Disumana. C’è questa solitudine che confina con la traduzione del male. C’è anche in Nico, ovviamente. Nico trema per la rota, con lei c’è la sua corte dei miracoli, hall spaventose, anaffettive, tutti soggiacciono alle imprecazioni della stella che è sola. Tutto è franato, come in Janis Joplin, l’inganno della libertà che è sguarnita di dettagli umani. Janis rischia una overdose prima di un concerto, ma succede mille volte, in un bagno, prima di un concerto, di un’intervista, la roba sale al cervello, un flash potentissimo, sembra la fine, e non lo è ancora. Eccetto in quell’hotel di Hollywood, il 4 ottobre 1970. Morirà in una stanza tristissima di un albergo tristissimo. La precisione didascalica di una disfatta commovente è tutta concentrata nel documentario, in onda su Rai cinque tempo fa, di Amy Berg, Janis Joplin. Little Girl Blue. Janis ha la sua corte dei miracoli (come Amy, Nico, eccetera), segue e tace o asseconda la stella che è sempre sola, di più di più. Il paesaggio è apocalittico, mefistofelico. Jim Morrison e tutti gli altri, nel film di Oliver Stone o in quello documentario, When you’re strange, di Tom Di Cillo. Il poeta, il re lucertola, abbacinato dall’istante conclusivo, in una vasca da bagno, in un giorno di luglio. C’è un protocollo della sventura che finisce con una overdose. La medesima assenza di dettagli umani. Persino nella parabola di Ava Gardner si ricompone lo stesso inganno, bella libera, muore a Londra, vuole morire con un bicchiere di champagne e le sue sigarette.

Un amico londinese conferma il desiderio esaudito. Eppure lo squallore imperla lugubremente e con che spietatezza e similmente. Ha l’anemico bagliore di una luce al neon, fredda e fastidiosa. E la domanda alla fine è una constatazione sul nonsense di tanto talento esaurito come in una batteria senza casse acustiche, una chitarra elettrica senza corde, senza fili. La faccia di Trine Dyrholm è perfetta nel ruolo di Nico. Impaurita, gonfia, disperata, in un furgoncino alla fine di un concerto in un paese dell’est. Dà di stomaco all’alba, aspettando la dose di roba che non è riuscita a recuperare, per lei e il chitarrista. Nico che si fa sulle caviglie. Muore. Nel 1988. A luglio. Aveva 49 anni.

Tremate, le streghe stanno tornando

Una Wunderkammer (Camera delle Meraviglie) dall’atmosfera subacquea arredata a conchiglie, una sala comune rivestita in legno, camere da letto diversamente magiche ed esterni medievali (originali) da incanto. Luna Nera, la prima serie tv italiana dedicata “al riscatto delle streghe perseguitate da secoli”, si presenta al cosiddetto “set visit” come meglio non poteva. Prodotta dalla Fandango di Procacci e diretta da un trio di registe “immaginifiche” come Francesca Comencini, Susanna Nicchiarelli e Paola Randi, si basa sul romanzo Le città perdute. Luna Nera (Sonzogno Ed, da novembre nelle librerie) di Tiziana Triana, che ha collaborato alla scrittura affiancando un altro trio, questa volta di esperte sceneggiatrici come Francesca Manieri, Laura Paolucci e Vanessa Picciarelli.

Un progetto all women di altissime ambizioni che Netflix ha scelto quale la sua terza serie originale italiana, mettendo al centro l’irresistibile seduzione esercitata dal mistero e il fascino dell’eterno conflitto fra scienza e magia. Il tutto immerso nella suggestiva cornice dell’Italia centrale del XVII secolo per 6 puntate che saranno disponibili sulla piattaforma a inizio 2020.

Arrivati all’ultimo giorno di riprese dopo 16 settimane sul set, cast & crew sembrano soddisfatti e orgogliosi della creatura in progress, che riveste un carattere di “novità ed eccezionalità nel nostro Paese” dichiarano all’unisono le tre registe, messe insieme dalla capofila Francesca Comencini, coinvolta nel progetto fin dalla sua ideazione. “Con le sceneggiatrici ci siamo interrogate su come mettere in piedi un testo dal forte protagonismo femminile, che mettesse in racconto non solo personaggi forti di donne, ma soprattutto la soggettività, il punto di vista femminile”. Con al centro una love story (impossibile?) fra la 16enne levatrice Ade accusata di stregoneria e Pietro, il giovane figlio di un capo Benandante (cacciatore di streghe), e la vita di una comunità di donne pronte ad aiutarsi contro la follia di tale caccia, la serie tv propone un nuovo approccio all’argomento, puntando l’attenzione su quelle vicende “poco narrate nelle quali sono state storicamente protagoniste o testimoni le donne, perennemente accompagnatrici nei momenti del venire al mondo e del lasciarlo”. Definita dalla cineasta come “composta nel mondo del maldestro, terroso e realistico fantasy laddove non c’è niente di più magico e prodigioso della realtà” Luna Nera è inedita anche per la modalità di casting, condotto principalmente su esordienti assoluti (ben 8 dei protagonisti) e grandi interpreti teatrali finora trascurati da cinema e tv. Splendide le location (la Tuscia laziale e toscana) ma anche le scenografie curate da Paola Comencini che ha rielaborato ad hoc la “piazza di Assisi” di Cinecittà

Poesia o microracconto? Non importa, purché funzioni

“silenziosa piega/ bacio nascosto/ pelle ricucita/ fermiamoci un attimo/ prima del nero del cielo/in fondo immobile in attesa dei merli/ crescono i fiori nel campo acattolico/ e le mani adesso vive carezze/ credi al niente/ naufrago il cuore/ credo alla luna/ la figlia femmina del creatore”.

Cadrebbe in errore il lettore che, con sicumera fallace, giudicasse il libro Leonard Cohen è tornato di Cosimo Damiano Damato soltanto una silloge di poesie.

E ciò perché, pur lavorando in verticalità – recuperando dal sommo genere poetico la sua struttura in frantumazione – la voce di Damato è assai concreta, diretta, e cioè narrativa. Si nota, in questo, la formazione come drammaturgo e regista, per via dell’agilità che possiede la sua parole di trasformarsi in immagine, in creazione, dunque in storia.

Potremmo definire a ragione tali scritti dei cuentos, nella migliore tradizione dei microracconti di Robert Musil (per esempio il suo Percezioni finissime) o dei fragments alla Georges Perec o Filippo Tuena. Più che poesie, allora, dei racconti che vanno spesso a capo, tanto la linearità del senso e della verità narrativa resiste agli enjembement e sopravvive all’horror vacui dello spazio bianco.

E queste immagini – una gazza impigliata nella grondaia, le mani che si intrecciano durante un ballo, due spicchi di limoni che si baciano, un aquilone in volo, e ancora un rasoio da barbiere, il tremore per il freddo sotto la pioggia, una lampada accesa nella notte, il ricordo del corpo nudo della donna amata – mentre derubano una realtà universale, inchiodano ognuno di noi come un colpo di pistola. O per meglio dire, sanno svelare e interpretare i desideri, le mancanze, gli incubi, le aspettative del cuore umano. Non mancano, come pure suggerisce il titolo, riferimenti al mondo della musica d’autore, che impreziosiscono maggiormente la coraggiosa ricerca linguistica dell’autore.

“Sono sempre stato nemico della scrittura sull’attualità”

Ma alla fine qual è la natura segreta del jazz? Paolo Conte lo sa: “È un mistero di stampo teatrale. Se osservi un musicista di colore, il modo in cui si avvicina al microfono per l’assolo, i suoi passi avanti sono pura eloquenza”. L’avvocato è venuto di nuovo a Umbria Jazz per dispensare incantamenti, evocare mondi lontanissimi, profumi esotici annusati da una provincia dove tutto lì fuori pare un’avventura mirabolante, il miraggio di una traversata fino in Sudamerica per ballar milonghe duellando coi gauchos, per poi tornare nella Vecchia Europa tra violini incandescenti, seduzioni post Belle Époque, automobili rombanti di cent’anni fa, suffragette snob, e subito via di nuovo per una vertigine boogie in un locale di Harlem. Tutto è possibile nel pianeta Conte, dove spazio e tempo roteano e il passato non è nostalgia, ma invenzione. “Questa storia dell’esotismo”, riflette lo chansonnier astigiano, “è una forma di pudore, tipica anche degli scrittori del ’900: racconti una storia che può appartenere al quotidiano ma per riservatezza l’ambienti in un altro scenario, più esotico e colorato. Così attenui il senso di troppa attualità. Sono sempre stato nemico della scrittura sull’attualità: ti passa davanti, e in realtà non conta. Molti si attaccano al presente, ma lo decifreremo solo dopo”. Lui, invece, in che secolo avrebbe voluto vivere? “A volte ho avuto una buona predilezione per l’800, così carico di effervescenza: praticando il pianoforte quel tempo ti rincorre. Ma anche il nostro ’900, certo cattivo ed equivoco, con due guerre mondiali, però alla fine è stato un secolo interessante, è valsa la pena esserci”.

Tante volte Conte ha deliziato, come l’altra sera all’Arena Santa Giuliana, i palati fini di Umbria Jazz. Nell’84 si divertì a inventare musica senza lacciuoli, con Arbore, Avati, Henghel Gualdi. Lucio Dalla diede forfait all’ultimo minuto. Conte ricorda bene quella serata: “Ero provvisto di un vibrafono piccolissimo. Fu un tentativo di far jazz molto alla buona, a parte Gualdi che sapeva il fatto suo. Ci divertimmo”. E continua così, con smagata indolenza. In una scaletta live può proporre due diverse versioni di Via con me e snobbare Azzurro, l’inno che 51 anni fa, complice Celentano, ci consegnò il paradosso italiano di un pomeriggio annoiato in giardino, mentre Parigi e il mondo erano in fiamme. Conte ride sotto i baffi: “Non pensavo affatto ai tempi che si stavano muovendo intorno a me, non vivevo quel ’68: non essendo più studente, già lavoravo in ufficio con mio padre e avevo un altro tipo di vita. Oggi possiamo tirare le fila e sì, era in atto una rivoluzione”. Conte si lamenta giocosamente dello scippo di Azzurro da parte dei “torpedonisti”. “Non era previsto: nelle mie aspettative era una canzone d’arte. Effettivamente ha funzionato nei torpedoni e per le gite: è venuto spontaneo che la gente cantasse il refrain in coro. Alla fine fa piacere, è sempre popolarità per una canzone”.

A proposito di Grandi Vecchi: a Perugia è passato anche Gino Paoli, con il suo recital Una lunga storia, sessant’anni di carriera celebrati in due tempi: una prima parte con quattro suite legate alle stagioni, musicate da Danilo Rea: un flusso libero di meditazione compositiva su testi e pensieri dello stesso Paoli. E poi i classici, con il piano di Rita Marcotulli e un palco affollato di virtuosi.

C’è quella storia di Sapore di sale, chiediamo a Paoli. Stefania Sandrelli la credeva dedicata a lei. “Invece l’ispirazione me la diede Ursula Andress che usciva dalle acque col bikini bianco in un film di 007. Una folgorazione: pareva una divinità dipinta da Antonello da Messina. Più tardi la conobbi, era un trappolo alto così, una delusione, il colpo di genio di un giallista che trasfigurava l’immaginazione di noi maschietti…”. In un percorso di incessante esplorazione della propria creatività, Gino ha una certezza. “La mia canzone quasi perfetta è Sassi: quella il cui risultato concreto si avvicina di più all’emozione originaria. Ma il ‘quasi’ è decisivo: altrimenti avrei fatto la fine di Gauguin, che dopo aver ottenuto ciò che voleva con l’arte diede fuoco alla capanna. Io ho ancora il cerino spento. Per ora”.

Von Karajan: l’antidivo che fece la rivoluzione

Herbert von Karajan morì nella sua casa di Anif, presso Salisburgo, la mattina del 16 luglio 1989. Quel giorno avrebbe dovuto dirigere la prova generale di Un ballo in maschera, lo spettacolo inaugurale del Festival che egli, dopo la guerra, aveva rifondato e presieduto. Affiancandovi poi una sua creazione, il Festival di Pentecoste, dedicato a delle rarità che venivano presentate in forma di primizia. Il Festival s’inaugurò regolarmente, e l’Opera di Verdi venne diretta da Georg Solti. Trovai sorprendente e scandaloso che la recita non venisse dedicata alla sua memoria. Poi, a Salisburgo, il Maestro è stato commemorato nel modo più degno da Riccardo Muti, che non ha dimenticato il suo debito di gratitudine verso chi, solo per averne ascoltato alcune esecuzioni, lo aveva invitato telefonandogli direttamente, senza conoscerlo. Muti diresse in memoria di Karajan una splendida Messa da Requiem di Verdi e un ancor più splendido Requiem tedesco di Brahms.

Quando si nomina Karajan, uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi, una sorta di riflesso condizionato porta ad associarlo a Beethoven, a Wagner, a Brahms, a Strauss; e a Bach, a Mozart, a Haydn, a Schönberg, Berg e Webern, ch’egli da ultimo, con Mahler, ha eseguito in modo rivelatore. L’interprete verdiano è di primissima grandezza. La Messa da Requiem e l’Aida da lui dirette non hanno trovato mai un paragone possibile. Vi è una lontana Traviata della Scala, del 1964, la più struggente di tutte. Un Trovatore di Vienna. Meno bene ha fatto egli il Don Carlos: in quattro atti (ch’è una versione facilitata rispetto a quella autentica in cinque, scaturita dalla disperazione di Verdi che vedeva il suo capolavoro massacrato dai tagli), e con troppi tagli, ancora. E il Falstaff: dove allo splendore sinfonico egli unisce un’acquiescenza verso gli arbitrî di Tito Gobbi che ha una sola spiegazione: il disprezzo dei tedeschi verso la cultura italiana. Se avessero toccato una croma del Fidelio o del Crepuscolo degli dei avrebbe fatto l’inferno. In Verdi, che pure egli ha capito più di ogni altro connazionale, indulgenza.

Ho detto “uno dei più grandi direttori” e non “il” più grande direttore di tutti i tempi: come molti non illegittimamente affermano. I più grandi sono stati Giuseppe Martucci e Gino Marinuzzi; poi, non dimenticando noi Toscanini, dobbiamo menzionare almeno Fritz Reiner, che di Karajan non è stato meno grande. Resta che il ruolo sociale e pubblico del direttore d’orchestra, oggi ridottosi quasi a quello di macchietta, è stato rivoluzionato nel Novecento da Karajan. Il non essersi compreso il senso di tale rivoluzione è la principale fonte di equivoci sul Maestro. Egli è accusato di essere una star massmediale, di essere un gelido produttore di dischi, di aver sottoposto la musica alle esigenze discografiche, di essere un uomo spietato e senza scrupoli.

Incominciamo dalla fine. Non l’ho conosciuto di persona. Ho raccolto sufficienti testimonianze sulla sua generosità e sulla sua gentilezza. Basta guardare il filmato della Missa solemnis di Beethoven con i Filarmonici di Vienna e cogliere il sorriso di squisita gratitudine che rivolge al primo violino dopo l’“a solo” del Benedictus per comprendere l’uomo. Un altro particolare mi colpisce. A Salisburgo un ascensore privato collegava il suo camerino al garage aziendale del Festival. Finita ogni recita, egli dal camerino scendeva direttamente in garage e dopo un quarto d’ora era davanti alla sua minestrina di verdura a casa. Di complimenti, abbracci, autografi, se ne fotteva. E sì che gli spettavano: era diventato anche regista – e di prima sfera – essendosi troppo infastidito delle violazioni del testo che venivano attuate nei confronti dei capolavori. Si liberò persino di Strehler – ed ebbe ragione – dopo le superfetazioni che il grande regista aveva fatte al Flauto magico di Mozart.

Veniamo al disco. Gli si contrappone, quale opposto modello, la “purezza” di Furtwängler, che Adorno aveva soprannominato “il custode della Musica”.

Karajan ai suoi tempi ha inciso più di chiunque altro. Ma le sue incisioni sono, sempre e comunque, modelli di profondità interpretativa: è colpa sua se egli è stato capace di splendori di timbro e fraseggio che nessuno aveva prima di lui scoperti? In realtà, il rapporto di Karajan con la riproduzione tecnica della musica ha qualcosa di faustiano: nel senso ch’egli è stato il solo a scoprire quale sfida la tecnica della modernità alla musica ponesse. Tale sfida della tecnica egli, unico, ha affrontato, e vittoriosamente. Il problema posto da Heidegger. Se n’è accorto qualcuno?

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A Ventotene colpiscono i dipinti di Buren: “Danno il mal di testa”

Se a Parigi l’ex presidente Mitterrand gli affidò il cortile interno del Palais Royal, non è detto che a Ventotene i pescatori siano altrettanto entusiasti di concedergli la piazza principale. Accade al pittore e scultore francese Daniel Buren, ingaggiato da un’associazione privata per dipingere le mura degli edifici di Piazza Castello, allo scopo di attrarre più turisti. Ma non tutti i 300 abitanti sono favorevoli. Pur non trattandosi di un’opera permanente ma della durata di sei mesi, alcuni guardando il progetto hanno esclamato: “Mi viene il mal di testa”. L’idea dell’artista francese è di dipingere le pareti degli edifici di epoca borbonica, oggi di un tenue color ocra, di verde, viola, blu e rosso con inserti a righe bianche e nere. Il progetto è ispirato al Manifesto di Ventotene, “Per un’Europa libera e unita”. I promotori sono in attesa dell’autorizzazione della Sovrintendenza, che potrebbe far slittare l’inizio dei lavori alla prossima estate. Nel frattempo gli anziani borbottano: “Questo Buren ha casa a Procida, ci aveva provato anche lì ma quelli non si sono fatti imbrogliare. Noi ventotenesi siamo dei tonti”.