“Sventura colpisca chiunque tenti di scrivere il seguito di questa storia”. Ipse dixit ma nessuno mai gli diede retta. Troppo tronfi gli ego dei posteri artisti (o presunti tali) per assecondare quell’inquieto pazzoide di Miguel de Cervantes Saavedra, altrimenti celebrato come il più grande scrittore spagnolo di sempre.
Ma è chiaro che a chiunque l’avvertimento suonava più da ghiotta sfida che non da vera maledizione, d’altra parte di capolavoro indiscusso si tratta, e l’attrazione fatale a rielaborare il Don Chisciotte della Mancha (all’anagrafe letteraria originale El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha) vale la disobbedienza, allora come oggi.
Spedite al vento le cassandre di Cervantes ad aleggiar coi suoi mulini, l’opera uscita in due parti rispettivamente nel 1605 e il 1615 è stata rivisitata a ogni piè sospinto in Paesi, culture, lingue e naturalmente espressioni artistiche diverse.
Il cinema, in qualità di novella wagneriana Gesamtkunstwerk, si è prodigato a far la parte del leone con maestri e mestieranti a divorare le gesta del leggendario cavaliere, eroe picaresco e romantico di un’epica visionaria ancorché tragicomica e unica nel suo genere. E non pochi registi ne sono usciti con ossa rotte e casse svuotate, se non addirittura coi remi in barca della rinuncia.
Uno fra questi porta il nome di un gigante, Orson Welles. Pensato come mediometraggio per la tv spagnola e girato in 16mm, il Don Quixote ideato dal geniale cineasta americano arrivò a espandersi in lunghezza e profondità assumendo il carattere di film sperimentale.
Poiché era lo stesso Welles a finanziarselo, la “interminabile” lavorazione durò decenni: una produzione senza programmazione e con troupe minimal. A morire, nel frattempo, furono sia l’attore principale (sostituito da una controfigura) che lo stesso regista nel 1985. Per volere della sua terza consorte l’opera fu ultimata nel 1992 dallo spagnolo Jesùs Franco (che decise di non firmare la co-regia) per approdare alla Mostra veneziana dove fu sonoramente contestata. “Si è creato attorno a questo film, attraverso gli anni, una specie di leggenda che non sarebbe sorprendente immaginare che Welles preferisca restarne l’unico spettatore” scriveva François Truffaut del work in progress del suo esimio collega, e forse aveva ragione.
Caduto Orson Welles nella malefica trappola, nessuno – si pensava – avrebbe nuovamente osato compiere il sacrilegio. E invece qualcuno è riuscito persino a far meglio, cioè “peggio”, del regista di Quarto potere.
Quello subito infatti da Terry Gilliam per il suo The Man Who Killed Don Quixote è un travaglio che sa di apocalittico. Al punto che l’ex Monty Python ha ritenuto di documentarne le disavventure in un documentario emblematicamente titolato Lost in la Mancha. Il paradosso è che quando uscì il doc nel 2002, solo la metà delle tragedie legate al progetto – avviato nel 1998 con un budget di $ 32 mln – si erano verificate: come a dire, il peggio doveva ancora venire.
Non a caso il film è stato designato fra i più estremi development hell projects (letteralmente progetti dallo sviluppo infernale) nella storia del cinema. Per fortuna c’è un happy end che distingue “Super Terry” (così soprannominato dai cast & crew “sopravvissuti”) da diversi dei suoi colleghi, Welles incluso: il coriaceo 79enne la sua “anarchica, folle e coloratissima” opera è riuscito a terminarla e a gustarsela gonfio di soddisfazione fra gli applausi di Cannes del 2018 dove è arrivata in extremis.
Già, perché l’ultimo guastafeste di un incubo ventennale si è incarnato nel produttore portoghese Paulo Branco deciso a far causa a Gilliam “se avesse portato il film in concorso sulla Croisette”.
Cosa che fortunatamente il Tribunale di Parigi ha impedito (decretando una sentenza in favore del regista americano naturalizzato britannico) ma che ha causato l’estromissione dell’opera dalla competizione e al Nostro un tasso di stress così elevato da mutare in collasso, con il rischio di fargli vedere il festival dalla tv di casa.
Ma i problemi di cui sopra rispondono solo alla punta dell’iceberg di un tormento che affonda le radici in una follia anarcoide che certamente profuma di genio ma anche di testardaggine al di là del bene e del male, un mistero buffo di opposti e uguali che forse solo Dario Fo avrebbe saputo puntualmente decifrare.
Per metà dell’esistenza di Gilliam, Don Chisciotte è divenuto il suo specchio gradualmente deformato in incubo, l’auto-costrizione a combattere contro infiniti mulini a vento, nascosti sotto variegate forme.
Due attori scelti per la parte di Don Chisciotte morti nel work in progress (John Hurt e Jean Rochefort), altri interpreti (Depp, Duvall, Palin, McGregor, Vanessa Paradis) diversamente spariti dai set spagnoli a loro volta distrutti da devastanti uragani, sospensioni e riprese, annullamenti e ripartenze, e traversie produttive estreme di cui quella di Branco rappresenta solo l’ultimo capitolo, considerando che nel 2006 Gilliam riscattò i diritti del film fra mille clausole “oscure” e – appunto – una battaglia conclusa solo pochi giorni prima di Cannes 2018. Con Gilliam in trionfo, suo malgrado, nessuno mai saprà se questa versione di The Man Who Killed Don Quixote (uscita in Italia come L’uomo che uccise Don Chisciotte) corrisponde a quella da lui sognata: benché i protagonisti Jonathan Pryce e Adam Driver risuonino alla perfezione, i segni della corrosione sono evidenti in questo film dalle forme e contenuti a dir poco surreali.
E il monito di Cervantes è tutt’altro che fantasioso, provare per credere.