Puzza, caldo tornanti e il neonato quasi sciolto

Ogni viaggiatore ha la sua specialità, il suo modo unico di girare il mondo, quasi un’orma riconoscibile del proprio passaggio. La mia è senza dubbio quella di dover addrizzare il tiro per riprendere un viaggio che sta per andare a rotoli. Mai come il viaggio per Gytheio, ultimo comune di 7 mila anime alla periferia del Peloponneso, in Grecia, soppresso dai tagli pre-Troika e annesso a quello di Anatoliki Mani. E non tanto per il fatiscente “hotel in centro vista baia a conduzione familiare con cibo tradizionale”. Dove “conduzione familiare” stava per un tuttofare per decine di clienti, e “cibo tradizionale” per “mangi quello che c’è”. E neanche per l’aspro tragitto: volo Roma-Atene, 2 ore, più 7 ore di auto per percorrere 300 km, dallo Stretto di Corinto al Mani attraverso strade sterrate, tornanti di montagna, discese al mare, risalite ripide, senza una sola locanda, un bar, una latteria, chessò un chiosco di uzo. E neanche per lo stato di salute del nostro neonato di otto mesi completamente sciolto dal caldo e dell’afa e digiuno dal mattino. Quanto per l’odore. Dopo 17 anni di annuali vacanze in Grecia, posso dire che Gytheio sia il posto più maleodorante del Continente e delle isole. Così – dopo una notte insonne ad asciugare “neonato” che produceva una quantità di liquidi dal cranio paragonabili solo all’immensità del mar Egeo – anche in quel caso il mio compagno e io passammo alla seconda opzione: Aeropolis, il villaggio più accogliente della Grecia continentale. Prenotazione notturna: un must. Vacanza salva. O quasi, se non avessimo rischiato la vita sulla via del ritorno grazie al consiglio di un collega e amico. “Non potete perdervi Micene”. No. Perché è lì, dove ha regnato la dinastia degli Atridi che “neonato” si è definitivamente sciolto. Bello il Peloponneso, ma non ci tornerei.

Tormentoni estivi: leggi le hit e poi muore (l’italiano)

“Mi’ nipote l’altro giorno m’ha stordito co’ la canzone de uno… Sarò vecchio io, ma nun je la faccio”: il tassista regola il volume della radio mentre cerca di riacciuffare il nome che l’ha indisposto. Lo trova: “Quello de Ostia lido”. Quello di Ostia lido, J-Ax, ha confezionato uno dei singoli dell’alta rotazione radiofonica dell’estate 2019. Uno di quelli che prenderà per sfinimento gli stessi avventori che racconta, quelli che sognano Puertorico, ma si fanno andar bene il lungo mare laziale, perché quello passa il convento. E in questa delicatissima critica alla società dell’apparenza – Tutti parlano di fare la vacanza colta, ma poi alla fine vanno dove c’è gnocca – ritaglia anche spazio per il rigurgito proletario –: No ombrelloni né money, money neanche per gli asciugamani/Invece dei castelli con la sabbia, facevamo case popolari – e per l’amore: Ma io sono lo scoglio e tu la mia cozza.

Si meraviglia dei suoi stessi cliché, J-Ax, tipo che la “tipa col bikini in seta” si ecciti per l’opera di Baudelaire o Calcutta. Peccato che intanto Calcutta piazzi una Sorriso (Milano dateo) con la quale rinnova se stesso e pure tre quarti del restante panorama. Stacce, si dice a Ostia lido. Ma per ogni D’Erme e per ogni Calipso, altra buona produzione di Charlie Charles, Dardust e il trio d’assi Fabri Fibra, Sfera Ebbasta e Mahmood, c’è un’altra hit da farci perdonare.

E si capisce che il tassista di cui sopra, cresciuto a live di Zappa e Fossati, le mal digerisca. Prendi Giusy Ferreri, che lo scorso anno abbiamo lasciato in una favela e adesso, altrove, prega di nuovo qualcuno di agire in base alle previsioni meteo: Tu dimmi che vuoi restare con me, se il mare è blu, voglio andarci con te. E lasciatela andare, fin tanto che scomoda i brani della tradizione keniota (Jambo Bwana) che erano molto meglio nella versione originale che in questo remix dei seppur capaci prezzemolini Tagaci & Ketra. Risponde colpo su colpo un’altra affezionata della spiaggia – pardon, de la “Playa” – Baby K. Anche lei come Giusy si dimena tra tramonti sudamericani e giungle e difficoltà da campo estivo: “Sei già nella testa/E allora dimmi com’è che si fa a nuotare/Se ho bisogno di te in questo mare”. “L’allenamento in palestra stamattina mi ha messo a durissima prova. Ho portato il mio corpo e la mia mente quasi al limite ma dopo quaranta minuti ho chiesto gentilmente di togliere dallo stereo la playlist “Hit Estate 2019”: twittava Ghemon il 12 luglio. Dagli torto. Perché cose belle ce ne sono, prendi Levante con Carmen Consoli, ne Lo stretto necessario, ma le hit sono altre. Come quella di Irama che, tutto cuori di latta e romanticismo per l’inverno, si veste da Arrogante per indossare il costume: “Sono stato troppo crudo/Come un taglio con il sale/Ma la voglia che ho di prenderti/E di farti mia non mi fa ragionare”. Compiti per l’estate: rivedere il linguaggio.

I Boomdabash, che il tormentone estivo lo avevano tirato già fuori dal palco di Sanremo a febbraio, dopo mesi offrono un cocktail annacquato. Tirata in causa Alessandra Amoroso hanno deciso di intitolare Mambo Salentino un testo che rimbomba di vuoto cosmico. Un’infilata di cliché sull’estate in Salento che vien da rimpiangere tutte le serate di quart’ordine di pizzica organizzate negli ultimi dieci anni in ogni italico angolo: L’Autostrada del Sole mi riporta da te/ Quanta fretta che c’ho, è il mio quinto caffè/ Quando torno non voglio un minuto di stress/ Penso solo a star bene, tu sei peggio di me. Come contrappasso, si propone l’ascolto reiterato di Francesco Facchinetti che pronuncia “lu sule, lu mare, lu ientu”. Non si può non voler bene a Loredana Bertè, fosse per il fatto che, impicciata tra l’elenco del menù passaggio ponte e un mare che l’ha sfiancata, dopo l’aranciata si schianta (testuale) Tequila e San Miguel. Regina del graffio. Ma la quota superalcolici la difendono anche Marracash e la principessa delle collaborazioni, Elodie. È affidato a lei il ritornello di Margarita: Con quell’aria delicata/Con un fiore tra le dita/Bevi un altro Margarita/Poi mi dici che è finita”. E Temptation Island muto.

 

I singoli

Nel 2018 c’erano le favelas di Giusy Ferreri, quest’anno l’Autostrada del Sole di Alessandra Amoroso e Boomdabash con “Mambo Salentino”.J Ax finisce dritto a “Ostia lido”, Loredana Bertè sorseggia “Tequila e San Miguel”, Marracash e Elodie un “Margarita”

Astutillo, il calciatore che ha scelto prima di essere un uomo

A 21 anni aveva indossato le maglie di tutte le Nazionali giovanili, compresa quella dell’Under 21 di Azeglio Vicini; e a 19 anni aveva già fatto il suo esordio in Serie A nel Bologna di Cesarino Cervellati che spedendolo in campo, all’Olimpico, al posto di Franco Mancini in un Roma-Bologna 1-0, non sentì il bisogno di dirgli nulla: lui non sapeva nemmeno cosa significasse emozionarsi. Era fatto così Astutillo Malgioglio, piacentino di nascita e cremonese per crescita (calcistica): a 19 anni poteva trovarsi al cospetto di mostri sacri come Liedholm e Bruno Conti, De Sisti e Di Bartolomei, ma il desiderio a fine partita era uno solo: correre a casa per godersi a famiglia riunita i racconti, di guerra e di vita, di nonna Ines. Quelle sì erano emozioni, per Astutillo detto Tito, molto più che rivedersi in tv, a 90° Minuto, uscire a valanga sui piedi di Kawasaki Rocca.

Malgioglio è un bravissimo portiere. A 19 anni il Brescia lo acquista dal Bologna e lui gioca come fosse Cudicini. Titolare fisso, contribuisce alla promozione in Serie A dove Tito fa percorso netto: 30 partite su 30, a 22 anni sembra molto, molto più grande della sua età. Ma grande lo è davvero, Astutillo: e nemmeno lui sa ancora quanto (e perché). Tito è fidanzato con Raffaella e un giorno, a Brescia, decidono di visitare un centro per ragazzi disabili: ne escono turbati. “Mi impressionò la loro emarginazione, lo stato di abbandono ma soprattutto il menefreghismo della gente. Per me fu un pugno nello stomaco. Così parlai con Raffaella e decidemmo che non saremmo rimasti con le mani in mano. Ci mettemmo a studiare, acquistammo i macchinari e aprimmo a Piacenza un centro per la riabilitazione motoria dei bambini cerebrolesi”.

Astutillo Malgioglio comincia la sua seconda vita: quella del calciatore che nel tempo libero smette la divisa e veste i panni dell’educatore di bambini disabili. Del tutto gratuitamente, s’intende. Bello? Macché. A Brescia è arrivato un nuovo allenatore, Marino Perani, ala destra del Bologna scudetto 63-64. A Perani, che Malgioglio perda tempo per aiutare bambini disabili non sta bene: quindi fuori Malgioglio e dentro il vecchio Pellizzaro.

La stagione del Brescia finisce con la retrocessione; e Malgioglio capisce che nulla, per lui, sarà più come prima. Anche se al momento non pare: perché Liedholm, che lo vide esordire ragazzino proprio contro la sua Roma, è in cerca di un valido secondo di Tancredi e chiede al presidente Dino Viola di acquistarlo. È l’estate del 1983, la Roma ha appena vinto lo scudetto e sta andando incontro alla stagione della Coppa dei Campioni persa ai rigori contro il Liverpool. Malgioglio gioca poco ma è contento: Liedhlom gli ha messo a disposizione il centro di Trigoria per continuare il suo lavoro sui bambini disabili e Di Bartolomei, il capitano, non manca mai d’invitarlo alle visite ai bambini malati del Bambin Gesù.

Ma lo Sliding Doors che non t’aspetti è dietro l’angolo: e ha il volto di Gigi Simoni, a quel tempo allenatore della Lazio, che per tornare in Serie A vuole a tutti i costi Malgioglio tra i pali. Tito ha 27 anni, alla Roma è riserva da due stagioni, Liedholm se n’è andato (lo ha sostituito Eriksson) e decide di accettare. Firma per la Lazio. Ed è l’inferno. “Sporco romanista, sei il primo della lista”, si sente dire. E ancora: “Se stai sempre con gli handicappati, quanno ce pensi ar pallone?”. Anche Raffaella ed Elena, la loro bambina, sono vittime di continue aggressioni. E poi succede: si gioca Lazio-Vicenza, Malgioglio non è in giornata, la Lazio perde 3-4 e Tito, che per tutta la partita è stato insultato, legge quello striscione, “Torna dai tuoi mostri”, e si disconnette: toglie la maglia, ci sputa sopra, la getta ai tifosi. Fine delle trasmissioni.

Anzi, no. Perché mentre la Lazio ne chiede la radiazione, Tito (che intanto è tornato a Piacenza a fare l’educatore a tempo pieno) riceve una telefonata: è Trapattoni. Che sta iniziando la sua avventura all’Inter ma è in cerca di un secondo per Zenga e ha pensato a lui, al portiere più diseredato del momento. “Vorrei che venissi perché il calcio ha bisogno di persone come te”, sono le parole che Tito si sente dire.

Così Malgioglio va all’Inter, dall’86 al ’91, i cinque anni targati Trap che semplicemente aveva aggiunto: “Potrai fare il calciatore e l’educatore”. Con gli ingaggi e i premi dell’Inter, il centro per i bambini disabili prende ulteriore impulso. “Credo sia stato Dio a mettere quell’uomo sulla mia strada: e in quel momento, poi!”, dice oggi Malgioglio. Che ricorda: “Durante i ritiri, la sera, Trapattoni aveva l’abitudine di fare il giro delle stanze per dire una parola a ciascuno di noi. A volte entrava nella mia, si fermava sulla porta e si metteva a piangere. Non diceva niente, ma in realtà mi parlava. Era un uomo che viveva per il calcio e per il lavoro ma che sapeva che nella vita c’è molto altro. E se io ero lì, davanti a lui, era perchè ero un buon portiere, certo, ma anche perché aveva visto in me l’uomo”.

Nell’estate del ’91 Trapattoni se ne andò dall’Inter. “Mi si fece davanti – ricorda Tito – e mi guardò con lo sguardo di chi sa che l’avventura è finita: per lui e per me. Tolse di tasca un biglietto, scritto a mano, e me lo porse. Sapevo perfettamente le parole che avrei letto. E sì, il biglietto scritto a mano dal Trap è il più bel ricordo che mi è rimasto del calcio”.

 

Trump vuole rimpatriare 4 deputate dem

Tornatevene a casa, ma non ai fornelli che s’addicono agli “angeli del focolare” o ai ghetti da cui escono, ma proprio alla casa dei loro avi, al Paese da cui provenivano i loro genitori: è l’invito che Donald Trump, il presidente dell’America bianca, fa a quattro deputate democratiche, “the Squad”, come le chiama la speaker della Camera, e leader dem Nancy Pelosi, che però le difende: anche se quelle arruffa-popolo le creano un sacco di problemi.

Tornatevene a casa, twitta il magnate, “piuttosto che stare qui a dirci” come dovremmo vivere e governare. Un invito che, fatto mentre scattano i raid per rimpatriare gli immigrati senza documenti in regola, suona fortemente razzista. Come se gli Usa e la loro Camera non fossero la casa di Alexandria Ocasio-Cortez, 29 anni, di New York, origini portoricane, Ilhan Omar, 38 anni, del Minnesota, origini somale, Ayanna Soyini Pressley, 45 anni, del Massachusetts, afro-americana, e Rashida Tlaib 43 anni, del Michigan, di origini palestinesi: tutte nate negli Usa – e quindi cittadine americane dalla nascita –, tranne Omar, nata a Mogadiscio, ma naturalizzata statunitense; e tutte al loro primo mandato, elette con la “piccola marea” della sinistra democratica nel voto di midterm del 2018 –. Omar e Tlaib sono musulmane. Ocasio-Cortez e Tlaib sono espressione dei Democratic Socialists of America, eredi della campagna per la nomination democratica condotta nel 2016 da Bernie Sanders. Davanti alla rudezza dell’attacco, la Pelosi difende “the Squad”, giocando sullo slogan di Trump: “Make America Great Again” è in realtà “Make America white again”. Ma il presidente non arretra, anzi rilancia: senza citarle, suggerisce alle quattro della “sinistra radicale” di “chiedere scusa al Paese e a Israele per il linguaggio che hanno usato e per le terribili cose che hanno detto” e pure per “le loro disgustose azioni”, a causa delle quali “Israele si sente abbandonato dagli Stati Uniti” – cosa non vera, visto che l’Amministrazione Trump compiace in ogni modo il governo Netanyahu –. E aggiunge: “Non sono preoccupato se ci sono persone che pensano che i miei tweet sono razzisti”, ribadendo alle dem che “se non sono contente di stare qui, possono andarsene”. Nell’analisi del New York Times, il presidente sta muovendosi nell’ottica delle elezioni del 2020: “Sembra tracciare una linea tra l’America bianca e di gente nata negli Usa che lui ricorda e che, in fondo, lo elegge e l’America etnicamente diversa, sempre più spesso fuori dell’Unione, di cui è a capo” – un’America, quella della diversità, non solo etnica, ma anche di genere, che di sicuro non lo vuole alla Casa Bianca; e cerca di dipingere i democratici come estremisti di sinistra. Del disegno divisorio di Trump, i raid anti-immigranti sono parte integrante: sono partiti nonostante l’opposizione dei sindaci delle “città santuario”, fra cui le maggiori dell’Unione, New York, Chicago, Los Angeles, San Francisco, e con effetto ridotto, perché – spiegano gli agenti sul terreno – i tweet altisonanti del presidente hanno messo sul chi vive migliaia di persone, che hanno evitato di farsi trovare in giro.

I democratici non danno tregua a Trump sul fronte dell’immigrazione: una commovente audizione alla Camera sulla separazione dei minori dalle famiglie ha provato che almeno 18 bambini di meno di due anni sono rimasti separati dai genitori per oltre venti giorni. E il vice di Trump, Pence, pur difendendo le scelte del presidente, ha dovuto constatare il sovraffollamento e le condizioni igieniche inadeguate di strutture dove sono rinchiusi gli immigrati. Stanno stretti? “Che non vengano da noi”, è la linea di Trump.

Il missile, i neonazi italiani e il richiamo del Donbass

Pistole, fucili e anche un missile. Si è sviluppata in varie città del Nord Italia un’operazione della Digos di Torino, coordinata dalla Procura piemontese a carico di soggetti orbitanti nei gruppi dell’estrema destra oltranzista che hanno partecipato alla guerra del Donbass, in Ucraina, all’interno delle milizie separatiste sostenute da Mosca. Tra le armi, un missile in dotazione alle forze armate del Qatar, l’unico Paese del Golfo che intrattiene rapporti d’affari con l’Iran e la Russia.

Agli arresti è finito Fabio Del Bergiolo, 60 anni, ex ispettore delle dogane finito nei guai nel 2003 per una truffa effettuata mentre era in servizio a Malpensa. Del Bergiolo è un ex militante di Forza Nuova ed è stato candidato al Senato a Gallarate nel 2001. Anche Alessandro Monti, 42 anni, svizzero, è stato ammanettato e portato in carcere: è il titolare della società che possiede l’hangar vicino a Voghera dove è stato trovato il missile.

Il capannone sarà perquisito dall’esercito perché al suo interno sono stati trovati scatoloni accatastati con materiale che ancora non si conosce. Il terzo finito dietro le sbarre è Fabio Bernardi, 51 anni. Le indagini della Digos erano partite un anno fa grazie alle intercettazioni telefoniche che vedevano coinvolti cinque miliziani italiani contro i quali tuttavia non vi sono procedimenti in corso. Il questore di Torino, Giuseppe De Matteis, ha definito l’operazione “un sequestro con pochi precedenti per la qualità delle armi e il loro potenziale violento”.

Da quando nel 2014 è scoppiata la “guerra ibrida” del Donbass, in seguito alla riuscita annessione della Crimea da parte delle forze armate del Cremlino, numerosi membri della galassia nera italiana sono partiti per la regione ucraina a ridosso del confine russo per arruolarsi nelle milizie separatiste filo Putin. Alcuni di questi erano già noti alle forze dell’ordine per la militanza violenta anche all’interno delle tifoserie calcistiche.

Il caso più eclatante è quello di Andrea Palmeri, di Lucca, capo ultrà, da 5 anni latitante a Luhansk, una delle due repubbliche autoproclamate del Donbass. Croci celtiche tatuate ovunque e mitragliatore in mano, sul suo profilo Facebook ha più volte scritto parole d’encomio a Matteo Salvini. Evita però di menzionare che la Corte d’appello di Firenze lo ha condannato in contumacia nel 2016 a due anni e otto mesi di carcere dopo aver usufruito in primo grado del rito abbreviato e quindi di uno sconto di un terzo della pena. Il “Generalissimo”, come viene chiamato dagli ultras della Lucchese, era già finito in cella in passato sempre a causa della sua condotta violenta nei confronti di simpatizzanti di sinistra e tifosi di altre squadre.

Dopo aver lasciato indisturbato la propria città, contravvenendo all’obbligo di firma, e aver raggiunto il Donbass, via Russia, per prendere le armi, Palmeri ha fondato tre anni fa una onlus che dichiara di avere la missione di raccogliere fondi a favore della popolazione impoverita dal conflitto.

Un altro foreign fighter che si troverebbe ancora a Luhansk è Gabriele Carugati. Ex addetto alla sicurezza di un centro commerciale lombardo, è figlio della segretaria della Lega di Cairate. Tre anni fa, a una nostra richiesta di intervista, Carugati rispose via social con una foto di un proiettile di mitragliatore. Un posto di rilievo tra le file separatiste lo ricopre un geometra di Lecco, Vittorio Nicola Rangeloni che ha trovato lavoro a LNR Today (l’agenzia stampa della Repubblica Popolare di Luhansk). Lui e Palmeri nel giugno del 2017 si erano immortalati sorridenti sulla piazza Rossa di Mosca. Nel post che accompagna la foto pubblicata su Instagram i due scrivevano: “Oggi siamo andati a ritirare gli stipendi”. Palmeri è definito dai giornali locali un intermediario che sta cercando di aiutare le imprese italiane e quelle del Donbass a collaborare.

14 Luglio, flop sicurezza. Tutti contro Castaner “incompetente cronico”

Mentre Emmanuel Macron percorreva impassibile gli Champs-Elysées a bordo di un veicolo militare, un Acmat Command Car, dalla folla venuta per seguire la tradizionale parata del 14 luglio, salivano fischi, si gridavano slogan come “Macron démission”, si facevano volare palloncini di colore giallo. Domenica mattina decine di Gilet gialli, ma senza gilet addosso, look da turista, occhiali da sole e bermuda, sono riusciti a superare i controlli di sicurezza e a intrufolarsi sull’avenue parigina. Ma è più tardi, verso le 14.30, a fine parata, che la tensione è salita sugli Champs-Elysées. Come mesi fa, tra 200 e 300 persone, alcune col volto coperto, si sono scontrate con le forze dell’ordine. Transenne sono state usate per montare barricate sotto l’Arco di trionfo e cassonetti dell’immondizia sono stati dati alle fiamme. La polizia ha risposto con i gas lacrimogeni. Gli agenti hanno anche dovuto proteggere da nuovi attacchi il Fouquet’s, il ristorante di lusso saccheggiato a marzo e che aveva appena riaperto dopo i lavori. La calma è tornata nel tardo pomeriggio, ma solo per poche ore. In serata, mentre si sparavano i tradizionali fuochi d’artificio alla Tour Eiffel, era di nuovo il caos sugli Champs-Elysées. Niente a che vedere questa volta con i Gilet gialli: centinaia di tifosi algerini si sono riuniti per festeggiare la vittoria della loro Nazionale di calcio, che si è qualificata per la finale della Coppa d’Africa. C’è chi ne ha approfittato per incendiare bici e cassonetti.

La polizia è dovuta intervenire di nuovo con i gas lacrimogeni. Degli scontri hanno rovinato i festeggiamenti anche a Lione, Marsiglia, Grenoble. Ieri si è stilato il bilancio della movimentata festa nazionale: 282 persone fermate in Francia, soprattutto a Parigi. È contro il ministro dell’Interno, Christophe Castaner, giudicato da mesi incapace di gestire la crisi dei Gilet gialli e più in generale non all’altezza della sua funzione, che si sono concentrate le principali critiche. Ci si chiede se il rischio di scontri non sia stato sottovalutato. “Non ci sono scusanti per quanto è successo, ancora una volta il ministro ha fallito”, ha detto Philippe Goujon, sindaco Les Républicains del XV arrondissent. La leader del Rassemblement National, Marine Le Pen, ha denunciato “l’incompetenza cronica” di Castaner: “Come è possibile che i black bloc riescano a saccheggiare durante il giorno della festa nazionale?”. A sinistra, Manon Aubry della France Insoumise ha chiesto le sue dimissioni. Parigi doveva essere pronta ad affrontare la giornata. L’incursione dei Gilet gialli era attesa. Da settimane su Facebook i leader della protesta, che ha preso il via il 17 novembre scorso, avevano lanciato un appello a tornare sugli Champs-Elysées nel giorno della festa nazionale, uno dei giorni dell’anno più seguiti dai media, con la parata militare trasmessa in diretta tv, ma anche uno dei più simbolici in cui – hanno scritto sui social – “si commemora la vittoria del popolo sulla monarchia”. Vi mancavano dal 16 marzo, giorno tra l’altro in cui il Fouquet’s era stato devastato. Che i Gilet si stessero organizzando si era capito da sabato sera quando, per l’atto 35 della protesta, un gruppo di manifestanti si era riunito davanti al ministero della Difesa. Mentre il presidente Macron annunciava la creazione di un “comando militare per lo spazio”, loro gridavano “Dateci le aragoste!”, in riferimento al caso rivelato da Mediapart dei festini fastosi a base di aragoste e champagne, organizzati dal ministro dell’Ecologia di Macron, François de Rugy, mentre era presidente dell’Assemblea Nazionale. Parigi doveva essere pronta anche a eventuali disordini a margine dei festeggiamenti dei tifosi algerini. Già giovedì scorso, dopo la qualificazione della squadra dell’Algeria alle semifinali della competizione calcistica, dei black bloc avevano saccheggiato alcuni negozi sugli Champs-Elysées.

A Montpellier si era anche verificata una tragedia: una donna è morta travolta da un’auto. Per la giornata di domenica più di 4.000 poliziotti erano stati mobilitati nella Capitale. Era stato anche applicato il controverso dispositivo dei “fermi preventivi”. È così che tre figure “storiche” del movimento dei Gilet gialli si sono ritrovate in commissariato nel pieno delle tensioni: Jérôme Rodriguez e Maxime Nicolle, fermati per “organizzazione di manifestazione illegale”, e Eric Drouet, già condannato a marzo a pagare una multa di 2.000 euro per manifestazione illegale, fermato questa volta per “ribellione”. Tutti e tre sono stati rilasciati nel tardo pomeriggio, mentre ritornava una calma momentanea sugli Champs-Elysées. Gli avvocati dei tre hanno annunciato azioni legali per “violazione della libertà individuale”.

MediaPart rilancia la nostra inchiesta sulle bombe a Pompei

La prima inchiesta di“Sherlock” del Il Fatto Quotidiano ha fatto rumore. È stata infatti ripresa e rilanciata da MediaPart , giornale online indipendente di investigazione e opinione francese. La nostra grande esclusiva, che ha inaugurato una nuova iniziativa editoriale, non è quindi passata inosservata. Abbiamo dato conto del patrimonio minato, reso pubblica la mappa che svela il mistero sepolto sotto le bellezze del parco archeologico di Pompei: un rischio che gli esperti conoscono, ma che non è facile disinnescare. Sono almeno 10 gli ordigni inesplosi, tutti localizzati nell’area ancora da scavare. Si è trattato di un scrupoloso lavoro di lettura documentale e approfondimento con autorevoli fonti che non si è ancora esaurito. Sherlock è infatti ancora e sempre al lavoro. MediaPart è pubblicato in francese, inglese e spagnolo, non ospita nessuna pubblicità per preservare la propria indipendenza dal potere economico e politico, può essere consultato solo in abbonamento.

Mose, il Consorzio contro il Provveditore. E Toninelli lo convoca al ministero

I commissari straordinari del Consorzio Venezia Nuova, Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, hanno risposto con un ultimatum al provveditore alle Opere pubbliche del Triveneto, Roberto Linetti, che (come anticipato ieri da Il Fatto Quotidiano) ha negato i finanziamenti per le spese della struttura che sta realizzando il Mose, il sistema di dighe mobili che deve proteggere Venezia dall’acqua alta. E intanto il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ha convocato il provveditore. Nominati dopo lo scandalo delle tangenti, i commissari chiedono il rispetto dell’atto aggiuntivo “stipulato nel 2017 su perentorio invito dell’Anac e del Prefetto di Roma”. Inoltre, denunciano “il perdurante e immotivato atteggiamento ostruzionistico” del Provveditore. Ricordano che il “preminente interesse pubblico” è quello di completare il Mose, garantendo “la continuità del Consorzio Venezia Nuova”. Per questo chiedono i finanziamenti e “invitano il Provveditorato a cessare ogni azione elusiva, procedendo alla stipula del nuovo atto contrattuale sul cosiddetto ‘avviamento’ del Mose”.

Borsellino, l’Antimafia apre gli archivi. Il fratello: “Ora via il segreto di Stato”

La Commissione Antimafia oggi desecreta le audizioni di Paolo Borsellino fino al 2001, sia quand’era giudice istruttore a Palermo sia nel periodo in cui ha guidato la procura di Marsala, nell’ambito di un’“operazione verità” sugli atti secretati dall’antimafia che si spinge sino a documenti degli anni 50, quando ancora la prima commissione non era ancora stata costituita. Ma il fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio, Salvatore, non sarà presente a San Macuto alla conferenza stampa: “A distanza di 27 anni non posso accettare – ha scritto in una lettera spedita al Presidente, Nicola Morra (M5S) – che le parole che ha lasciato Paolo, i segreti di Stato che ancora pesano su quella strage vengano restituiti a me, ai suoi figli, all’Italia intera, a uno a uno. É necessario che ci venga restituito tutto, che vengano tolti i sigilli a tutti i vergognosi segreti di Stato che hanno marchiato a sangue il nostro Paese”. “Nel rispetto che si deve a Salvatore Borsellino, a Fiammetta – ha replicato il presidente Morra – e a tutti gli altri familiari delle vittime, gli uomini che rappresentano lo Stato nel tempo mutano. E bisogna valutarne le qualità umane, oltre che politiche. Sono orgoglioso che oggi si lavori in una certa direzione con un progetto di desecretazione che parte da documenti risalenti agli anni 50 che fanno la storia della cultura antimafia”.

La desecretazione è propedeutica a un approfondimento in commissione dei fatti via via emersi nei documenti tornati alla luce, e, per quanto riguarda le parole di Borsellino, si parte dal 1984, quando venne ascoltato durante un sopralluogo della commissione a Palermo l’8 e il 9 maggio. Per essere risentito due anni dopo, già procuratore a Marsala, durante una nuova visita dei commissari in Sicilia (Caltanissetta e Trapani), e due anni dopo ancora, nel dicembre 1988, pochi mesi dopo “l’estate dei veleni”, segnata dai contrasti con il consigliere istruttore Antonino Meli.

Altre tre audizioni, nell’89, nel ’90 e nel ’91 concludono l’elenco dei verbali desecretati. Significativi passi avanti verso la ricostruzione di una verità completa sulla stagione stragista che solo l’Agenda Rossa, secondo il fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio, può restituire: “Se fosse stata trovata quell’agenda – ha sostenuto – e si fosse scoperto che dopo Falcone e Borsellino qualcuno stava trattando con la mafia, si sarebbe avuta una rivoluzione o qualcosa di ancora più clamoroso rispetto a quanto avvenne per i funerali degli agenti di scorta. Allora necessariamente l’agenda rossa doveva essere fatta sparire, per non correre rischi”.

“È necessario – ha concluso Salvatore Borsellino, che oggi a Palermo presenta il libro Cosa Nostra spiegata ai ragazzi (edizioni PaperFirst), con il vicedirettore di questo giornale Marco Lillo – che quell’agenda rossa sottratta dalle mani di un funzionario di uno Stato deviato e che giace negli archivi grondanti sangue di qualche inaccessibile palazzo di Stato e non certo nel covo di criminali mafiosi venga restituita alla memoria collettiva, alla Verità, alla Giustizia’’

Morti su strada: con la legge Renzi aumentano ancora

Dodici ragazzi morti nel fine settimana in sei diversi incidenti stradali. I decessi erano diminuiti quasi costantemente per diversi anni, secondo l’Istat dai 7.096 del 2001 ai 3.283 del 2016. Un lieve aumento però c’è stato nel 2015 e ancora nel 2017, un anno dopo l’entrata in vigore della nuova legge che introduce il reato specifico di omicidio stradale e lo punisce con pene fino a dieci anni, superiori a quelle per l’omicidio colposo, quando è commesso da chi è sotto l’effetto di abusi, in eccesso di velocità, passando col rosso al semaforo o con manovre particolarmente gravi. Fu presentata con grande enfasi da Matteo Renzi, allora capo del governo. Un anno dopo i morti sono saliti, secondo l’Istat, a 3.378, con un aumento del 2,9 per cento rispetto al 2016 che è stato l’incremento maggiore almeno dal 2010 (4.114 vittime). Gli incidenti nel complesso diminuiscono ma il tasso di mortalità stradale (il rapporto tra i morti sulle strade e la popolazione) è sostanzialmente costante dal 2013.

I dati Istat per il 2018 non sono ancora ufficiali, ma nel 2019 le cose potrebbero peggiorare ancora. Così la vede Alberto Pallotti, presidente dell’Aifvs (Associazione italiana familiari e vittime della strada), sede in provincia di Verona: 20 anni di attività, 10 mila associati in tutta Italia, la più numerosa, una realtà molto attiva anche con i meri conteggi e le tragiche statistiche. “Secondo i dati del ministero dell’Interno, nel 2018 i decessi stradali sono stati 3.300 per noi 3.600. Questo perché i nostri osservatori tengono conto anche delle vittime che finiscono in ospedale e perdono la vita successivamente”.

Franco Gabrielli, capo della polizia, ieri ha dichiarato che “sull’aumento degli incidenti stradali mortali” influiscono “la distrazione, con l’aumento dell’utilizzo improprio di strumenti tecnologici alla guida, e la ripresa significativa dei consumi di sostanze stupefacenti e dell’abuso di alcol”. Ma Pallotti non è d’accordo: “Ricondurre le cause di morte sulla strada solo alla responsabilità degli utenti è sottovalutare un problema enorme, è come tentare di abbassare la guardia. I morti sulle strade non sono una malattia, sono come un animale feroce che va tenuto in gabbia”. Secondo Pallotti la gabbia è investire e mettere in sicurezza le strade, progettare meglio le vie di comunicazione urbane, tappare le buche e sostituire gli attuali guard rail che diventano lame che falciano i motociclisti (800 morti all’anno sui mezzi a due ruote) oppure attuare e introdurre sistemi di ritenzione dei fossati che sono un pericolo. Parla di concause il presidente dell’Associazione che fa porta un esempio: “Nel recente incidente di Jesolo, alla base c’è stato un comportamento che va perseguito, ma i ragazzi sono morti affogati, non per lo scontro. Non si muore in autostrada ma sulle strade urbane dove il limite dovrebbe essere di 50 chilometri all’ora perché nessuno si occupa di quelle strade”. Pallotti chiede perché ai Comuni venga permesso di utilizzare i fondi per la sistemazione delle strade per tappare i bilanci.

Le ultime vittime di ieri sono state: un ragazzo di 16 anni che a Scicli, in provincia di Ragusa, alla guida del motorino è finito contro un albero e un pedone che in provincia di Todi è stato investito da un’auto. Pallotti è inarrestabile: cita esempi, avanza proposte e soprattutto non è ancora appagato, non lo sarà mai. Tre anni fa con l’Onlus che presiede è riuscito nell’impresa della legge sull’omicidio stradale. “Mi sono perfino incatenato davanti ai palazzi del potere” ricorda. Una legge fortemente repressiva “è ciò che occorreva all’Italia: serve da deterrente perché si rischia la galera. Ma non basta. Serve un nuovo Codice della strada, ma soprattutto promuovere l’educazione stradale per far sì che tutti comprendano l’importanza di guidare con attenzione”. Una legge parziale: “Fosse stato per noi avremmo previsto il divieto di patteggiare e l’istituzione di un reato penale per chi guida con il telefonino”. Il patteggiamento con il concorso di colpa con la possibilità che si arrivi anche allo sconto del 50 per cento della pena è un aspetto grave e negativo. Pallotti fa un secondo esempio: la vicenda del cantante Michele Bravi, l’incidente stradale in cui è morta una donna di 60 anni. “Parlare di concorso di colpa per una persona morta è dare credito anche a possibili ricostruzioni fantasiose. Di chi non può più difendersi”.