Bancarotta milionaria. Sequestrato anche il Castello di Ischia

È finito sotto sequestro (parziale) anche il Castello Aragonese di Ischia. Coinvolti un noto commercialista napoletano e tre imprenditori agli arresti domiciliari per bancarotta ed evasione fiscale. Indagati per corruzione anche due militari della Guardia di Finanza. Un totale di 40 milioni di beni sequestrati tra cui, appunto, il Castello Aragonese, un immobile nell’isola di Capri e varie unità immobiliari sparse tra Napoli e Roma. L’operazione è stata effettuata dalla Guardia di Finanza di Napoli coordinata dalla Procura della Repubblica di Napoli Nord. È emerso anche un interessante retroscena sui fallimenti di una serie di società: il regista delle operazioni sarebbe Alessandro Gelormini, 77enne commercialista, che in passato ha lavorato come fiscalista per Cirino Pomicino.

Per i due militari l’accusa è di corruzione: avrebbero intascato una tangente da 4 mila euro da Gelormini per alterare il contenuto di un verbale redatto all’esito di un controllo incrociato a carico di una società il cui titolare era cliente del commercialista.

“Sì a Manzione consigliera di Stato”. Così l’Avvocatura smentisce Conte

Qualcuno avverta Giuseppe Conte. Perché l’Avvocatura dello Stato dice che si è sbagliato. Almeno a leggere la memoria in cui l’organismo di via dei Portoghesi sostiene la piena legittimità della nomina a consigliere a Palazzo Spada, di Antonella Manzione. L’ex capo dei vigili urbani di Firenze che Matteo Renzi aveva prima chiamato a Roma piazzandola a capo del Dipartimento affari giuridici di Palazzo Chigi e poi proposta, nel 2016, per un posto a vita al Consiglio di Stato: decisione contro cui Conte, che all’epoca era nell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa, si oppose fieramente, finendo però in minoranza.

Ma oggi chi lo rappresenta come presidente del Consiglio, nel giudizio intentato dall’Associazione magistrati amministrativi che hanno fatto ricorso contro la nomina, si trova a censurarlo. Ma cosa si era permesso di dire l’attuale premier per invocare la bocciatura di Manzione? Che non aveva neppure i requisiti minimi di età per accedere all’incarico. E soprattutto, che la candidata non offriva “garanzia di elevata competenza professionale”, ma soprattutto non vi era la certezza “della ferma indipendenza di giudizio” essendo stata scelta in base a un rapporto fiduciario con l’inquilino di Palazzo Chigi. Che in sé non poteva valere per la nomina a Palazzo Spada. Dove però queste criticità erano state considerate dettagli su cui chiudere un occhio, anzi tutti e due. A partire da Alessandro Pajno, da pochi mesi nominato proprio dal governo Renzi presidente del Consiglio di Stato e che fu felicissimo di prendere a bordo Manzione.

E così, nonostante le perplessità di Conte, di cui nella memoria dell’Avvocatura non si fa cenno alcuno a differenza degli argomenti per avvalorarne la promozione usati da Pajno, Manzione era stata nominata a Palazzo Spada. Dove si è trovata alla grande perché nel frattempo ha fatto altra carriera. Non solo è stata promossa ai collegi giudicanti, ma è stata pure selezionata per entrare a far parte di un progetto di cooperazione internazionale, in cui i nostri consiglieri di Stato si faranno carico di esportare il sistema della giustizia amministrativa italiana. Insegnandone il modello ai giudici tunisini. Al Consiglio di Stato, è vero, ne sanno una più del diavolo. Proprio come dimostra la vicenda Manzione: nominata consigliere a 53 anni, quando ne occorrevano almeno 55. E nonostante l’equiparazione del suo profilo a quello dei più alti dirigenti pubblici, tra cui il governo sceglie i consiglieri di Stato, avesse fatto storcere il naso a più d’uno. Certo è che la Manzione ha avuto fin qui una carriera sfolgorante: è entrata nella Pubblica amministrazione partecipando a un concorso per il Comune di Pietrasanta per poi passare, grazie alla mobilità compartimentale, a Lucca. Poi Renzi l’ha voluta a Firenze nominandola, senza bisogno di concorso al vertice dell’amministrazione comunale. E infine regalarle eterna gloria a Roma. Chapeau.

“Non dissi no a Tiziano Renzi per sudditanza psicologica”

Due parole rimbombano nell’aula del Palazzo di Giustizia di Firenze: “Sudditanza psicologica”. E no, non stiamo parlando della formula da bar dello sport che ha preso sempre più piede nel mondo del calcio per parlare dei presunti favori arbitrali nei confronti delle “grandi” della Serie A. Stavolta a ripetere più volte il concetto è Luigi Dagostino, il re degli outlet imputato a Firenze per false fatture e truffa. “Sudditanza psicologica” nei confronti di chi? L’imprenditore pugliese descrive così la sua posizione nei confronti dei genitori dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, Tiziano e Laura Bovoli, che rispondono di aver fatturato 160 mila euro tramite la Eventi 6 di loro proprietà alla Tramor di Dagostino, per uno studio di fattibilità del progetto di ampliamento dell’outlet The Mall a pochi chilometri da Rignano sull’Arno. Anche Tiziano Renzi e Laura Bovoli sono imputati nello stesso processo con l’accusa di false fatture.

Ieri i genitori dell’ex premier non erano in aula per l’ultima udienza del dibattimento, mentre Dagostino si è presentato per rilasciare dichiarazioni spontanee confermando il contenuto delle intercettazioni in cui si diceva consapevole di pagare ai Renzi, tramite la Tramor, una cifra più alta del dovuto: “Non ho fatto nessuna fattura falsa e non ho truffato nessuno – ha detto ieri l’imprenditore al giudice di Firenze, Filippo Gugliotta – ma quando ho visto l’importo delle fatture sono rimasto perplesso. I coniugi Renzi erano i genitori del presidente del Consiglio, ho subito la sudditanza psicologica e ho ritenuto di non contestare le fatture”. Poi Dagostino ha ribadito il concetto ai cronisti a margine dell’udienza: “In quel periodo parliamo di una delle persone più potenti d’Italia (Tiziano, ndr), per cui non è che mi metto a discutere con il padre del presidente del Consiglio”.

L’indagine portata avanti dai pm di Firenze Christine von Borries e Luca Turco riguarda fatti che risalgono al 2015, quando Renzi sedeva già da un anno a Palazzo Chigi: il proprietario della Tramor, società di gestione del The Mall di Leccio Reggello (Firenze), incaricò la Party e la Eventi 6 della famiglia Renzi di fare studi di fattibilità per l’ampliamento dell’outlet pagando due fatture da 140 e 20 mila euro alle due società che però, è l’accusa dei pm, sarebbero false perché basate su prestazioni inesistenti e gonfiate. Una tesi respinta sia da Dagostino sia dai genitori di Matteo Renzi che lunedì scorso avevano preferito non presentarsi all’esame delle parti e ieri hanno depositato, tramite il proprio avvocato Federico Bagattini, una memoria scritta in cui respingono le accuse usando il tono da martiri della giustizia per il proprio cognome “pesante” (definizione del loro avvocato): “Quando mio figlio è diventato presidente della Provincia nel 2004, la prima conseguenza è stata abbandonare tutti i rapporti con società partecipate di enti pubblici, a cominciare da quello con la Centrale del Latte di Firenze – si legge nel passaggio centrale della memoria depositata da Tiziano Renzi ieri –. Se è un reato chiamarsi Renzi, allora sono colpevole, non c’è bisogno nemmeno di celebrare un processo. Giudicatemi, invece, per le prestazioni che ho svolto e per le tasse che ho pagato, non per il nome che porto”.

Poi il padre del senatore di Scandicci ha respinto le accuse scrivendo di aver “sempre lavorato” senza bisogno “di avere un figlio premier per farlo”: “Non c’è nessuna fattura falsa, solo tante tasse vere – si legge nella memoria – tutte pagate fino all’ultimo centesimo: questo è ‘oggettivamente esistente’. Sentirsi accusato di falsa fatturazione per chi ha sempre pagato tutte le tasse fino all’ultimo centesimo è avvilente”.

La linea dei due genitori è condivisa visto che anche la madre Laura Bovoli ieri ha depositato una propria memoria scritta in cui si è scusata con il giudice Gugliotta per non essere comparsa fisicamente in aula (“non reggo l’emozione e non mi va di piangere in pubblico”), prima di rilanciare: “Ho quasi 70 anni e non ho mai avuto nessun problema con la giustizia fino agli ultimi 12 mesi dove sono passata da cittadina irreprensibile a criminale incallita, da nonna premurosa a lady truffa, per quello che vedono i miei nipoti sui social network”.

Entrambi i genitori di Renzi respingono le accuse di false fatture dicendo che nel mondo della piccola imprenditoria gli incarichi vengono affidati con semplici “strette di mano” e senza “note ufficiali”: “Allora sarebbero false moltissime fatture che abbiamo fatto”, ha scritto la madre dell’ex premier nella sua memoria difensiva. Si vedrà se la tesi dei Renzi sarà accolta dal giudice: la sentenza di primo grado è attesa per il prossimo 7 ottobre.

La Taverna contro la Boschi: “Mi dovrà chiamare dottoressa”

La lite via social tra Maria Elena Boschi a Paola Taverna prosegue. Due giorni fa la deputata dem, invitata dalla collega dei 5 Stelle a cercarsi un lavoro data la riduzione dei parlamentari che il M5S propone per la prossima legislatura, aveva replicato su Twitter: “Io faccio l’avvocato, lei non so. Mandi un curriculum a suo cugino, quello dei vaccini”. Il riferimento è a un episodio raccontato dalla stessa Taverna secondo cui da bambina avrebbe volontariamente preso una malattia cutanea dal cugino per immunizzarsi. Ieri è arrivata la risposta della Taverna: “Oggi (ieri, ndr) ho preso il mio ultimo 30 a Sociologia dei fenomeni politici. Se vuole da ottobre può chiamarmi Dottoressa in Scienze Politiche. A oggi per lei sono il vicepresidente del Senato. Io non mi preoccuperei di mio cugino piuttosto penserei a suo padre. Ad maiora”. La Taverna è infatti iscritta al corso di laurea triennale di Scienze Politiche alla Sapienza di Roma. In passato aveva specificato di aver iniziato molto tardi l’Università per motivi familiari ed economici che non le avevano consentito l’iscrizione dopo il liceo.

La cura Salvini per Roma comincia con gli sgomberi

Gli agenti e i blindati delle forze dell’ordine sono arrivati in piena notte a circondare l’ex Istituto Agrario di via Cardinal Capranica, nel popolare quartiere romano di Primavalle. Uno stabile di periferia, occupato dal lontano 2003, abitato fino a ieri da quasi 300 persone, tra cui 80 bambini, inserito a febbraio scorso ai primi posti nella lista stilata dalla Prefettura di Roma contenente gli immobili da sgomberare, in totale quasi 100.

Il criterio scelto per gli sgomberi è dare la precedenza alle strutture ritenute pericolanti oppure oggetto di contenziosi legali. Ma dopo la chiusura soft dei mesi scorsi nella ex fabbrica di penicillina – sostanzialmente vuota all’arrivo degli agenti – e lo svuotamento progressivo concordato con gli occupanti di un immobile in via Carlo Felice, ieri a Primavalle si è sfiorata la guerriglia urbana.

Di fronte a uno schieramento di forze tanto imponente, circa 150 agenti su decine di blindati e mezzi con idranti, osservati dall’alto da un elicottero, gli occupanti hanno compreso che non ci sarebbero state proroghe, come accaduto nelle scorse settimane. E allora è esplosa la rabbia dei residenti nella ex scuola all’indirizzo degli agenti: “Ci trattate peggio dei cani”. Prima delle 10 di mattina forti momenti di tensione: barricate in strada, cassonetti e materassi dati alle fiamme e un lancio di oggetti contro gli agenti. Il tutto per sgomberare un’occupazione attiva da 15 anni e di cui da settimane si parlava dell’imminente chiusura. Una cinquantina di persone hanno cercato di resistere salendo sul tetto, poi nel primo pomeriggio la “resa”. A fine giornata si contano tre arrestati, due marocchini e un italiano, con l’accusa di resistenza aggravata a pubblico ufficiale.

Secondo il Campidoglio 145 persone, i cui nuclei familiari non sono stati divisi, hanno accettato le proposte di accoglienza temporanea, mentre altre avrebbero rifiutato l’offerta. Ma al termine di ogni operazione su vasta scala di questo tipo – il precedente è il turbolento sgombero avvenuto nell’estate 2017 di un immobile occupato da richiedenti asilo a piazza Indipendenza – la domanda resta sempre la stessa: non era possibile fare altrimenti? La chiusura nei mesi scorsi dello stabile di Carlo Felice, preceduta dal reperimento di alloggi per gli aventi diritto da parte del Campidoglio della Regione Lazio, aveva dimostrato l’esistenza di alternative pacifiche.

A Roma l’emergenza abitativa non è certo una novità, è la città dei senza casa e degli appartamenti sfitti. Lo scorso autunno erano stati addirittura i costruttori della Acer a lanciare l’allarme: in città ci sono 57 mila famiglie, quasi 200 mila persone, che vivono in emergenza abitativa tra morosità, sfratti, alloggi di fortuna e occupazioni (queste ultime ospitano circa 10 mila persone). Ma anche circa 35.000 abitazioni vuote, censite sempre dai costruttori.

Nonostante questo per il vicepremier Matteo Salvini conta ribadire: “Nessuna tolleranza per i delinquenti, per loro mi auguro pene esemplari. La struttura era pericolante, chi ha cercato di impedire lo sgombero ha messo a rischio la vita di chi viveva nell’ex scuola. Avanti con gli sgomberi, la pacchia è finita”. L’invito alla mediazione arriva dalla Comunità di Sant’Egidio: “Solo con il dialogo, e non con esibizioni di forza. si possano trovare soluzioni concordate e dignitose per chi occupa, per necessità alloggiative, alcuni edifici della Capitale”.

Appendino caccia il vicesindaco, ma il M5S si spacca

“Non intendo più accettare compromessi al ribasso”. Nel giorno in cui Chiara Appendino annuncia la revoca delle deleghe del suo vice Guido Montanari, la sindaca di Torino prova a stanare i consiglieri della sua maggioranza. Per verificare, al di là dell’ultimo casus belli attorno al Salone dell’Auto, se ci sono le condizioni per andare avanti altri due anni sugli altri dossier, Tav in testa. Altrimenti, “se il male minore fosse il termine anticipato della consiliatura, così sarà”.

Ad ammetterlo è la stessa sindaca, ieri presente in consiglio dopo quattro giorni di riflessioni. Più che la rinuncia del Salone dell’Auto – che ha deciso di abbandonare Torino e trasferire la kermesse a Milano –, ad agitare i 5 Stelle ci sono dunque dinamiche interne che neanche la visita di Luigi Di Maio della scorsa settimana è riuscita a risolvere.

E così ieri buona parte della maggioranza ha disertato il consiglio comunale, preferendo non presentarsi oppure andandosene appena dopo il discorso della sindaca. La novità su Montanari, nell’aria da tempo, era già stata ufficializzata in mattinata via Facebook dalla Appendino. Il vicesindaco paga le frasi sul salone – “Fosse stato per me, non ci sarebbe mai stato” – , definite ancora ieri “ingiustificabili” e “inopportune”. Ma la a sua replica alla sindaca contiene il vero significato della partita interna ai 5 Stelle torinesi: “Se il M5S rinuncia alle posizioni iniziali, come quelle su Tav e acqua pubblica, accettando decisioni calate dall’alto allora è destinato a concludere la sua esperienza politica”.

Molto più che l’Auto e il No alle Olimpiadi invernali del 2026 – per quanto entrambi motivo di scontro in questi mesi – è sull’Alta velocità che potrebbe compiersi la rottura.

Ieri la capogruppo Valentina Sganga ha ribadito in aula il malumore dei suoi, poco prima che la seduta venisse sospesa per la mancanza del numero legale: “Siamo a un punto di stallo, probabilmente sia nell’evoluzione del Movimento 5 Stelle sia di questa amministrazione. Siamo d’accordo con la sindaca che non servano compromessi al ribasso, ma bisogna anche ascoltare e rispettare posizioni interne diverse: il dibattito può essere una ricchezza”. Sia sul Salone – e sulla revoca “non condivisa col gruppo” nei confronti di Montanari – sia appunto sul dossier Tav, dove le parole dell’altro giorno di Di Maio non hanno affatto tranquillizzato i consiglieri locali, da sempre contrari all’opera: “Non dico certo che siamo diventati a favore del Tav – ha dichiarato il vicepremier davanti agli attivisti torinesi – ma fermarci oggi ci costerebbe il triplo delle energie”. I timori per quelle parole, adesso, potrebbero avere conseguenze sulla tenuta della giunta.

In consiglioperò il tema Tav compare solo tra le righe e per parlare del futuro della giunta si fa riferimento ancora al Salone dell’Auto. I consiglieri 5 Stelle non hanno preso bene la cacciata del vicensindaco e i tentennamenti di molti di loro nei confronti della rassegna sono sfociati nei contrasti palesati ieri.

Così la Appendino ha provato a mettere alle strette i suoi, vincolando la continuazione del suo mandato all’approvazione di alcuni atti decisivi in arrivo già in questi giorni: “C’è bisogno di un ente in grado di amministrare in modo veloce e efficace. Già lunedì ci testeremo sulla delibera che riguarda il Motovelodromo e vedremo se quest’aula è in grado di decidere”. Solo una maggioranza compatta farà sì che la Appendino possa proseguire: “Sarà quello il momento in cui ciascuno si assumerà le proprie responsabilità. Non sono disposta in alcun modo ad andare avanti con il freno a mano tirato della maggioranza”. A fine mandato mancherebbero ancora altri due anni. Le vicende interne del Movimento, però, lasciano intendere ben altro.

Lads

Sapeles doloraes experferitat aut vendiscit haribus ministrum voluptatiore venecate occaboremo blabo. Nam facium lab idunt. Mi, et abo. Ut voluptatur, ut adistrum dolorem percips aperfero experumet, sedis expera doluptatur sit eumquasperi officil ea exeris re et volectum ventus, sitat alitati undi numqui optatusam lam aut rectati bearibe riorae il ius volorep udanis as doluptat pliquiatur, sunt molesequatur ad expligendi consequi doles arit, ut as aliquaeris.

Mail Box

 

Salone dell’Auto, presa in giro per screditare la giunta

Alcune riflessioni sulla vicenda del Salone dell’Auto.

Una manifestazione come quella non si sposta dall’oggi al domani; se dopo le incaute affermazioni del vicesindaco Montanari gli organizzatori hanno subito dichiarato che il prossimo salone si terrà a Milano, vuol dire che già ben prima avevano la volontà di abbandonare Torino, forse per mettere in difficoltà la giunta Cinque Stelle; ma chi credono di prendere in giro?

La manifestazione torinese tutto era tranne che un salone dell’automobile. Chi scrive ricorda i saloni degli anni sessanta, a Torino Esposizioni, in cui le case automobilistiche presentavano i loro modelli, accessibili alla maggioranza del pubblico, formato da operai Fiat, impiegati, piccoli commercianti; nell’esposizione degli ultimi anni si vedevano solo auto da sogno.

Per il motivo precedente è risibile l’affermazione di chi dice che, proprio quando a Mirafiori inizierà la produzione della Cinquecento elettrica, Torino perde il salone; ma la Cinquecento elettrica non è certo vettura che possa competere o anche solo lontanamente paragonarsi a quelle presenti nelle ultime edizioni dell’esposizione.

Non si capisce poi perché questa manifestazione dovesse tenersi proprio nel parco del Valentino, il più bello d’Italia, a cui recava nocumento con la presenza ingombrante degli stand e delle attrezzature logistiche. Se si vuol attribuire una colpa all’amministrazione comunale, essa consiste nel non aver saputo trovare un altro posto.

Si dice poi che la manifestazione attirasse circa settecentomila visitatori. Non so come sia stata fatta questa valutazione, dato che l’ingresso era libero; inoltre, quanti di questi presunti settecentomila visitatori arrivavano da fuori, creando lavoro agli esercizi commerciali, e quanti invece erano di Torino o dei dintorni, i quali al massimo avranno consumato qualche bibita e qualche caffè?

Ing. Guido Bertolino

 

DIRITTO DI REPLICA

A proposito dell’articolo “L’uomo di Descalzi all’Eni voleva il ritiro delle accuse”, come già ribadito, il dottor Granata non ha mai più visto il signor Armanna da quando, per conto di Eni, lo licenziò nel 2013 per gravi violazioni di procedure aziendali e tentata truffa all’azienda.

Granata non ha mai partecipato ad alcun incontro con Amara e Armanna nella primavera del 2016, non ha mai incontrato, né sa chi sia, Calafiore, e sta prendendo le iniziative legali del caso contro Calafiore stesso, pregiudicato per corruzione di magistrati e reo confesso di falso ideologico e materiale.

Eni è fermamente convinta che il ruolo attivo perpetrato da Armanna nel tentativo di destabilizzazione della società (nonché la sua conoscenza con l’avvocato Amara con cui ha collaborato e collabora a tale fine) nelle vicende “Nigeria” e “ depistaggio” emergerà a breve ad esito degli imminenti eventi giudiziari.

Nessuno ha mai proposto al signor Armanna di rientrare in Eni, men che meno in cambio di eventuali “ammorbidimenti” di dichiarazioni (false). Si ricorda che Armanna non è un “testimone chiave” bensì imputato nel processo OPL 245.e l’unico che risulta avere percepito somme di provenienza varia e multipla dalla Nigeria.

Tra la fine del 2013 e 2019, Eni ed il dottor Granata hanno ricevuto numerose mail anonime (attività di cui Armanna si è definito esperto, nelle proprie dichiarazioni rese come imputato alla procura di Milano) e sms di intimidazione e minaccia di vendetta genericamente collegate alle vicende delle attività di Eni in Nigeria. La gran parte di questi sono stati oggetto di esposti alla procura di Roma.

La funzione diretta dal dottor Granata e lo stesso mai si sono occupati di attività legale in azienda. Si può pertanto escludere che lo stesso avesse conoscenza degli spostamenti tra le procure di Trani e Siracusa. Fermo restando gli accertamenti in corso a carico di singoli, Eni non aveva sino a tempi recenti alcuna evidenza degli interessi di complici dell’avvocato Amara in Napag,

Eni sospese Napag già nel febbraio 2019, avviando un audit interno (finalizzato a comprendere anche eventuali interessi di Amara o altri terzi nella Napag) nell’aprile 2019, ben prima di ogni accesso da parte della procura di Milano. L’audit ha evidenziato connessioni di Napag con Amara, e portato al licenziamento di Alessandro Des Dorides (della Ets di Londra) per operazioni con Napag, a cui è seguita una denuncia per truffa (metà giugno 2019), sempre su Napag, presentata ai magistrati che indagano sul depistaggio.

È quindi semplicemente inverosimile (e smentito dalle denunce presentate) che Eni abbia consapevolmente intrattenuto rapporti contrattuali con Napag per generare utilità per Amara o perché lo stesso ne traslasse benefici a terzi.

Eni si è dichiarata parte offesa nel cosiddetto “depistaggio” in data 9 maggio 2019 e perseguirà, e ha già dimostrato di perseguire con vigore e in ogni sede opportuna la tutela della propria reputazione nei confronti di chiunque risulti responsabile di condotte censurabili.

Erika Mandraffino,
Senior Vice President, Global Media Relations and Crisis Communication Eni

 

Preso atto delle precisazioni di Eni, sinteticamente già riportate nell’articolo in questione, ne confermiamo integralmente il contenuto.

A. Mass.

Come era “migliore” il mondo di Vittorini e Bo

Ognuno ha la sua Combray. Quella di Silvia Sereni si chiama Bocca di Magra; un posto di vacanza tra Toscana e Liguria, tra fiume e mare, dove oltre a papà Vittorio avevano casa Elio Vittorini e Giulio Einaudi, con ospiti abituali, tra gli altri, Franco Fortini, Carlo Bo, Lalla Romano… In Un mondo migliore (Bompiani), Sereni tratteggia i ritratti dal vero di questi uomini in cui cultura e politica erano inseparabili. Tra l’impegno di quella generazione e i radical-chic di oggi c’è la stessa distanza che corre tra la Bocca di Magra degli anni 50 e la Capalbio di oggi. Astrale. Il “mondo migliore” non è quello che ci voltiamo a rimpiangere, è quello che ci ostiniamo a sperare per il futuro. Il desiderio di cambiare il mondo, non il Pil. Un desiderio quasi estinto, come ogni traccia di società letteraria, la prevalenza dell’amicizia che portò Vittorio Sereni e Giovanni Raboni a vivere nello stesso palazzo, a distanza strategica da San Siro: “Giovanni scendeva dal settimo piano al secondo perché andavano insieme a vedere l’Inter”. Sereni dice che col tempo i due poeti si disamorarono della loro squadra, ma a me risulta una versione opposta del loro addio allo stadio: la paura di soffrire troppo, specie nei derby. Avrei voluto telefonare alla mia amica per dirle quanto mi era piaciuto il suo libro e capire chi dei due avesse ragione; ma purtroppo, in coincidenza con l’uscita di Un mondo migliore, Silvia ha abbandonato questo mondo. Il caso, o il destino, hanno voluto così.

Il Podestà di Erba. La sindaca fa marcia indietro, ma la memoria non si cancella

 

Caro Coen, dopo aver letto il suo articolo sul Fatto di ieri sull’intitolazione all’ex podestà fascista Alberto Airoldi di una via della città di Erba, ho letto anche che la sindaca della cittadina, Veronica Airoldi (nipote), ha ritirato la proposta rilasciando diverse interviste. Sostiene che l’idea era “ricordare un uomo di cultura e un imprenditore”. Come mai ha cambiato idea? Sarà stato l’imbarazzo? Chi può dirlo?

Carlo Picone

 

Gentile Carlo, giusto solo alla vigilia della discussione in consiglio comunale (lunedì 15 luglio), Veronica Airoldi, sindaca di Erba, ha chiesto ai consiglieri di
ritirare la (sciagurata) mozione presentata dai gruppi della maggioranza, cioè la sua. A sollecitare l’iniziativa era stato lo scenografo Ezio Frigerio che mercoledì 2 luglio, in un editoriale pubblicato sulla prima pagina del quotidiano comasco “La Provincia”, proponeva di dedicare una via ad Alberto Airoldi per riconoscerne “i meriti culturali”, essendo stato colui che ha ideato e finanziato
il teatro Licinium, oltre che poeta dialettale nonché
divulgatore della storia e delle tradizioni brianzole. Peccato che sia stato pure podestà fascista di Erba. Anche con la Repubblica di Salò, alleata dei nazisti. E che nel 1939 abbia pubblicato non una raccolta di poesie dialettali, ma un libello intitolato “Elenco dei cognomi ebraici”, giusto pochi mesi dopo le infami leggi razziali. La sindaca nega
le “accuse infamanti, che spaziano dal suo atteggiamento nei confronti degli ebrei alla questione legata a Puecher”, il giovane partigiano fucilato davanti dai repubblichini. La sindaca Airoldi, inoltre, si lagna della “strumentalizzazione politica” (intervista alla Provincia, lunedì 15 luglio) “troppo forte: ho letto delle assurdità che mi hanno fatto male”. Immagini quanto male ha fatto l’indecente proposta alle famiglie delle vittime del regime di Salò.
È il problema delle responsabilità, che non possono essere cancellate in nome di una comoda amnesia storica. Ci fu l’amnistia di Togliatti, subito dopo la guerra: provvedimento che non voleva dire perdono, ma tregua e ricominciamo dalla democrazia. “La declamata pacificazione” per la sindaca è “solo illusoria: in questo Paese non riusciamo a fare i conti con il nostro passato. C’è una parte politica che la pacificazione semplicemente non la vuole. Finché non si arriverà a capire che anche chi è stato
fascista può avere avuto dei meriti, alla pacificazione non arriveremo mai”. Ma la pacificazione non vuol dire addomesticare il passato e la memoria di una dittatura.

Leonardo Coen

La “buona politica” di MEB: potrebbe darsi all’avvocatura

Dall’alto del suo avamposto politico rasoterra, Mary Helen Woods se ne sta lì, a riva del natio fiume (forse l’Arno o meglio il Vingone), e dà segno di sé quando crede che qualche nemico politico stia vivendo quel che Ella ha vissuto. Madama Boschi aveva promesso di abbandonare la politica, qualora il “sì” avesse perso il 4 dicembre 2016. Ovviamente non ha mantenuto la parola. I più masochisti ricorderanno i suoi strali quando i padri di Di Maio e Di Battista vennero toccati da polemiche: erano casi assai diversi da quelli dell’ameno babbo Boschi da Laterina, ma Mary Helen Woods rampognò gli empi rivali all’insegna dell’“adesso tocca a voi”. Convinta d’esser vittima di un complotto ordito forse da Grillo o più verosimilmente dal Poro Schifoso, suol recitare ora la parte della vendicatrice garantista. C’era anche lei all’attesissimo varo dei “Comitati civici” renziani. Con quel suo eloquio da secchiona che a scuola imparava a pappagallo la lezione, per poi parlare all’interrogazione in stampatello, Lady Woods ha sillabato: “Non c’è nessuna prova generale per fare un nuovo partito, c’è la voglia di fare buona politica”. E pure qui si sogna, perché la Boschi che parla di “buona politica” è come Marattin che disserta di salute tricologica. Mary Helen Woods ama Twitter, forse perché lì i pensieri son brevi e magari qualcuno non fa in tempo ad accorgersi di come lei non abbia mai granché da dire.

Giorni fa si è scontrata con Paola Taverna. Per l’occasione ha preso qualche parola da un sacchetto di brigidini, mettendole poi insieme a casaccio: “L’ad di Fincantieri dice che mancano 6 mila ragazzi per fare lavori manuali, come il saldatore (..) Forse il Governo dovrebbe concentrarsi su questo anziché sul reddito di cittadinanza. I ragazzi hanno diritto a trovare un lavoro, non a ricevere un sussidio”. È affascinante constatare come una delle pensatrici (va be’) del Jobs Act abbia ancora il coraggio di parlare. Epico, poi, il suo attacco al sindaco di Arezzo, città dove si guarda bene dal farsi vedere perché conscia di rischiare la lapidazione verbale. Alessandro Ghinelli, sindaco di centrodestra, risulta indagato per favoreggiamento. Lei: “Faccio fatica a non ricordare gli attacchi scomposti e beceri che Ghinelli mi rivolse per la vicenda Banca Etruria per la quale non sono nemmeno mai stata indagata. Anzi, arrivò a dichiarare che avrebbe promosso un’azione di risarcimento dei danni nei miei confronti a nome della città (..) Se lei fosse una persona seria adesso si dovrebbe scusare per come si è comportato in passato. O al massimo fare una bella causa di risarcimento danni a nome della città nei suoi stessi confronti”. Andrebbe qui ricordato come Ghinelli sia sindaco dal 2015 perché i renziani locali, obnubilati dal potere (Arezzo era la città più renziana d’Italia), anticiparono la fine della giunta Fanfani (Pd) per avere un sindaco tutto loro. Erano così sicuri di vincere che scelsero un fenomeno più boschiano della Boschi, carismatico come il muesli e politicamente accattivante come i baccelli mosci. Tal novello Churchill garantiva (minacciava) che avrebbe “governato 10 anni”. Non esattamente: al ballottaggio riuscì a prendere meno voti del primo turno e perse. Idolo. La Boschi ha un tocco politico (della morte) naturale. Se volesse bene a se stessa, dovrebbe ponderare l’eventualità di abbandonare sul serio la politica, con cui del resto non c’è mai entrata molto, per dedicarsi (se proprio deve) all’avvocatura. Il mondo tutto gliene sarebbe grato, con la sola eccezione di Salvini, che con “avversari” così vivrebbe di rendita per decenni.