Peggio di Salvini. Per una volta sono i sindacati

Sarà pure una “scorrettezza istituzionale”, come dice giustamente il premier Giuseppe Conte, quella del suo vicepremier Matteo Salvini che convoca i sindacati al Viminale per parlare della manovra economica. E magari annunciare urbi et orbi l’intenzione di varare una pace fiscale bis, in pratica un altro condono, a chiari fini mediatici e propagandistici. Una scorrettezza aggravata per di più dalla presenza dell’ex sottosegretario Armando Siri, costretto a dimettersi all’inizio di maggio per il suo coinvolgimento in un’inchiesta per corruzione, invitato all’incontro come un Savoini qualsiasi e già riabilitato sul campo dal suo Capitano nelle vesti di consigliere economico della Lega.

Ma ancor peggio di Salvini, se possibile, hanno fatto i sindacati accettando un invito del genere, oltretutto in una location come il Viminale, sede del ministero dell’Interno che poco o nulla ha a che fare con la legge di Bilancio. Almeno su questa scelta logistica avrebbero potuto eccepire qualcosa, se non altro per un minimo di rispetto nei confronti del presidente del Consiglio, dell’altro vicepremier Luigi Di Maio, del ministro dell’Economia Giovanni Tria e insomma di tutto questo sgangherato governo giallo-verde, per la verità sempre più verde di rabbia e di rancore. Ma tant’è: la realpolitik della Triplice, per dire la ragion di Stato sindacale, deve aver prevalso sul senso di opportunità e – appunto – sul galateo istituzionale.

Con questa irrimediabile “gaffe”, la Cgil, la Cisl e la Uil si sono assunte la grave responsabilità di scavalcare la gerarchia politica e di accreditare come interlocutore privilegiato un ministro dell’Interno che assomiglia ormai a un ministro di Polizia: tanto preoccupato di accaparrarsi consensi con la “linea dura” sull’immigrazione quanto insensibile alle emergenze reali dei femminicidi e delle stragi del sabato sera. Maurizio Landini, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo hanno accettato così, consapevolmente o meno, di partecipare a una sceneggiata pre-elettorale orchestrata dal truce ministro dell’Interno; capo di un partito che in questo Parlamento ha appena il 17%; ha vinto le elezioni europee in Italia ma le ha perse in Europa e pretende ora di spendere questo “tesoretto” al tavolo da gioco delle prossime politiche. Dimenticando, fra l’altro, la parabola di un altro Matteo che in poco tempo stravinse le Europee e poi straperse clamorosamente il referendum costituzionale e soprattutto le successive elezioni nazionali.

Che cosa hanno ottenuto in concreto i sindacati con questa messa in scena, sotto la regia del ministro che ormai sfida quotidianamente l’Europa, le Ong e quel tanto che resta della solidarietà sociale? Qualsiasi risultato avessero raggiunto, al di là della rappresentazione mediatica, rischiano di pagarne le conseguenze e di farle pagare ai lavoratori che rappresentano. Auguriamoci che almeno per loro, per gli operai, per gli impiegati e per i pensionati, lo show del Viminale non si trasformi in un flop.

Grandi Navi a Venezia, pericoli elementari

Cosa direbbe di quanto è successo a Venezia nelle ultime settimane il nostro matto savio, quello che ne I Rintocchi della Marangona dà voce all’anima critica, tormentata e inquieta della città? Perché in effetti l’inaudito è accaduto. Domenica 2 giugno, 8.30 del mattino. La MSC Opera, nave da crociera di 65 mila tonnellate finisce contro la banchina della Marittima e contro la River Countess, un’imbarcazione fluviale lì ormeggiata con più di cento passeggeri a bordo. Quattro turiste straniere restano ferite. Disastro sfiorato. Domenica 9 giugno, ore 17.30. Quel che resta della città, almeno chi pensa che valga ancora la pena farsi sentire, marcia verso piazza San Marco. Tutti felici di esternare a gran voce: “Fuori le Grandi Navi dalla laguna”. 8 mila scesi per le calli. C’è speranza, speranza che si inizi a ragionare per il bene della città. Urge trovare una soluzione alternativa. Ognuno dice la sua. Tutti d’accordo su un punto: le Grandi Navi non devono passare per il canale della Giudecca, basta inchini davanti a San Marco. Due posizioni che ai più possono sembrare equivalenti, ma non lo sono affatto: c’è chi dice “Via da San Marco” e chi dice “Fuori dalla laguna”. La differenza c’è, eccome. Passano i giorni e passano le grandi navi (anche la MSC Opera torna, il 16 giugno). Solo il numero dei rimorchiatori che guidano i colossi cambia: erano due, ora sono tre. Si arriva così a un’altra domenica, quella del 7 luglio. Tardo pomeriggio, una bufera di vento, grandine e pioggia. La Costa Deliziosa è in uscita. Attraversa il canale della Giudecca; subito dopo piazza San Marco scarroccia e punta verso riva dei Sette Martiri. Ma questa volta i rimorchiatori riescono a trattenere il colosso con i loro cavi e lo riportano in assetto. Pericolo scampato, di nuovo. La Capitaneria di Porto emana un regolamento che impone alle navi di fermarsi con la bufera, “Partenze solo se il meteo non segnala situazioni a rischio”. Parrebbe ovvio, ma evidentemente serve un’ordinanza.

Se un libro potesse sbuffare, il nostro a questo punto lo farebbe. Lì dentro sta acquattato il matto savio, il Signor Sotuttomì che vorrebbe uscire per leggerci ad alta voce quello che in molti pare non vogliano nemmeno ascoltare. Qualcuno deve pur dire che il re è nudo; e lui ha scelto di dirlo a due bambine (di cui una è arrivata dritta dal 500 ed è carica di competenze antiche). La sorte gliele ha fatte incontrare a Venezia mentre era con suo nipote Pietro, un giorno di luglio di quest’anno, per la precisione il 20; proprio sabato prossimo, quello della festa del Redentore. Staranno insieme fino a sera, a ragionare di temi importanti per la città. Si sono soffermati sull’idea antica ma decisamente attuale e da molti dimenticata, che Venezia è il cuore di un organismo complesso e delicato: la sua laguna. Un organismo da rispettare e conservare “tutto intiero”, come scriveva un grande ingegnere idraulico del 500, Cristoforo Sabbadino.

Arrivano in barca dove la laguna si apre al mare. Di fianco a loro si materializza la Grande Nave. E il signor Sottuttomì spiega perché stazze simili devono starsene fuori dalla laguna: “Quando entrano, senza che nessuno se ne accorga muovono enormi masse d’acqua che si disperdono nei bassifondi e sollevano i sedimenti. Passata la nave, l’acqua ritorna nell’alveo, genera le onde di poppa e deposita i sedimenti nel letto del canale che progressivamente si interra e che quindi deve essere dragato in continuazione. Il canale dei Petroli collega Malamocco con Marghera come un’autostrada e negli ultimi quarant’anni solo lui ha fatto perdere a questa parte di laguna qualcosa come un milione di metri cubi all’anno di preziosi sedimenti, nutrimento vitale per lei e per tutti gli organismi che la abitano… I sedimenti che se ne vanno sono anche quelli che il moto ondoso solleva in tutta la laguna. Ben 500.000 metri cubi all’anno vengono trascinati dalle correnti fino alle bocche di porto che ormai, sempre più profonde e cementificate, si comportano come vere e proprie idrovore e li vomitano per sempre in mare”.

Lui sa che i bambini sanno ascoltare: “Cercano il senso delle cose e, per capirlo, chiedono sempre. Possono essere sfibranti e noiosi ma, se si resiste, alla fine con loro si tocca sempre il cuore delle questioni”. E infatti, “Pietro ascolta attento le parole dello zio e si ricorda di quando da piccolo in spiaggia al Lido giocava con le sue barchette di plastica colorata. Stava seduto a gambe incrociate nel punto in cui la sabbia si incontrava con il mare. Con le mani scavava un canale profondo, che si riempiva subito d’acqua. Proprio sul più bello, quando tutta la flotta navigava ormai compatta, inesorabile arrivava l’onda con i primi smottamenti. Dai bordi la sabbia bagnata iniziava a scivolare sul fondo. In pochi secondi il gioco finiva, perché il canale si trasformava in una palude. Così a lui toccava ricominciare a dragare, recuperando le barchette che finivano sempre tutte impantanate in una specie di fangosa sabbia mobile”.

Roche e Novartis, confermata la multa per il caso Avastin

È definitivala maxi multa per Roche e Novartis. Dovranno pagare 184 milioni di euro. Lo ha deciso ieri il Consiglio di Stato confermando la sanzione dell’Antitrust e respingendo il ricorso dei due colossi. Si conclude così l’iter iniziato nel 2014. Le due case farmaceutiche pagheranno 92 milioni a testa per la concertazione illecita ai danni dei pazienti, attraverso cui hanno imposto sul mercato l’uso di Lucentis, il farmaco più caro per curare la maculopatia. Roche, produttrice dell’Avastin, un farmaco dal costo più basso, non ha mai chiesto di inserire nelle indicazioni la patologia oculare nonostante il prodotto sia equivalente al primo. La condotta illecita è riconducibile – secondo i giudici – anche alle società madri, oltre che alle filiali italiane. L’Antitrust ha multato i colossi farmaceutici. Ieri la Società dei medici oftalmologi italiani e Altroconsumo ha esultato per la conferma della sentenza. “Ci sono voluti 10 anni e 4 diversi gradi di giudizio – fa sapere Ivo Tarantino, responsabile delle Relazioni esterne – ma alla fine l’impegno indefesso ha pagato”. Il Consiglio di Stato ha anche autorizzato l’uso di Avastin per la maculopatia. Le multinazionali di contro ribadiscono la correttezza del loro operato.

La mente del piano? L’uomo del flop Meridiana

Porta l’impronta di Roberto Scaramella il piano per Alitalia. Chi è Scaramella? Per chi si occupa di aerei per professione è un signore conosciutissimo, un manager che ha legato il proprio nome alla picchiata di Meridiana, compagnia fondata con successo dal principe ismaelita Aga Khan per lanciare all’inizio degli anni Sessanta del secolo passato il turismo d’élite in Sardegna, ma che da ultimo è piombata in un guaio dietro l’altro.

A Meridiana Scaramella c’era arrivato quasi per caso nel 2010 come consulente della società Bain, poi ci aveva messo le radici fino a diventare il manager di riferimento di tutto il gruppo Akfed dell’Aga Kahn, supervisore del settore Airline con sede a Parigi Chantilly. Nei 4 anni in cui Scaramella ha operato, Meridiana ha sempre perso, con punte del 16 per cento sul fatturato, più di quelle di Alitalia che nello stesso periodo si fermava al 12 per cento. La compagnia sarda è andata sotto di 110 milioni nel 2011, un’altra sessantina l’anno successivo, 78 nel 2013, più di 100 nel 2014.

Alla fine di quell’anno l’Aga Khan, probabilmente stufo, aveva dato il benservito a Scaramella. Il quale, però, era tornato subito in auge, ripescato all’Enav (assistenza al volo) da Matteo Renzi su suggerimento di Vito Cozzoli, capo di gabinetto della ministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi, e ora di Luigi Di Maio. Giusto un anno fa Scaramella aveva lasciato pure l’Enav e ora riappare come consulente della società internazionale Oliver Wyman. Proprio la Wyman è stata chiamata insieme ad altri grandi advisor a escogitare una soluzione per Alitalia dalle Fs, il gruppo pubblico che nelle intenzioni del governo dovrebbe essere il fulcro del rilancio aereo nazionale. Nel manipolo di esperti di finanza, organizzazione aziendale, relazioni industriali e simili, a Scaramella è stato affidato il compito di portare il valore aggiunto e decisivo derivante dalla sua conoscenza del trasporto aereo. Negli ambienti ministeriali è cominciata a circolare addirittura la voce che lo stesso Scaramella sarebbe a quel punto apparso come la persona ideale per diventare l’amministratore della nuova Alitalia.

Le conoscenze, anche in campo non aeronautico, non gli mancano. Il fratello Mario ebbe un attimo di notorietà un quindicennio fa come consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sull’“Affare Mitrokhin” e poi a fine 2006 il suo nome finì sui giornali che parlavano dell’inchiesta sugli ambienti in cui era maturato l’assassinio per avvelenamento dell’agente russo Aleksandr Litvinenko. Presentandosi come esperto del ramo sicurezza aveva pure tentato negli stessi anni di fare affari con le Fs cedendo loro a titolo gratuito un sistema di telesorveglianza delle stazioni e chiedendo in cambio l’utilizzo esclusivo delle immagini. Roberto Scaramella è stato a lungo molto legato all’ex ministro dell’Interno, Angelino Alfano, mentre il suo miglior amico tra i giudici è Luca Palamara, sospeso alcuni giorni fa con l’accusa di corruzione dal Consiglio superiore della magistratura. Scaramella con Palamara ha condiviso molte cene a Punta Aldia, la località sul mare a sud di Olbia dove amava risiedere d’estate in una villa pagata dalla compagnia Meridiana di cui era manager.

Il piano preparato per Alitalia da Scaramella e dal team di consulenti che ha lavorato con lui è costato almeno 5 milioni di euro. La Corte dei conti ha già raccomandato alle Fs di usare la “massima attenzione” in tutte le fasi dell’operazione Alitalia. La faccenda ha comunque provocato malumori nell’ambiente del ministero dei Trasporti perché in un primo momento la preparazione del progetto Alitalia avrebbe dovuto essere a costo zero per il contribuente, affidato com’era ai consiglieri del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, che avevano cominciato a lavorare in collaborazione con la Boeing.

Le Fs scelgono solo Atlantia. I Benetton entrano in Alitalia

L’obiettivo era quello già fissato dal febbraio scorso, quando Mediobanca, advisor delle Ferrovie, aveva bussato alla porta dei Benetton nel tentativo di trovare un partner solido per il salvataggio di Alitalia. E ora, dopo mesi di rumors e smentite, il cerchio si è chiuso: sarà Atlantia il quarto protagonista dell’ennesimo soccorso alla compagnia.

Lo ha deciso ieri, giorno della scadenza per presentare il consorzio, il cda delle Fs, pare all’unanimità, dopo una riunione fiume. I consiglieri del gruppo guidato da Gianfranco Battisti hanno valutato tutte le altre manifestazioni di interesse pervenute a Mediobanca, ritenendo però che solo la holding dei Benetton avesse i numeri per partecipare. Bocciate, quindi, le offerte presentate dall’imprenditore abruzzese Carlo Toto, proprietario di Strada dei parchi, dal patron della Lazio Claudio Lotito e da German Efromovich, azionista di maggioranza della compagnia aerea colombiana Avianca. Luigi Di Maio ha spinto fino all’ultimo almeno per l’ingresso di Toto, in modo da diluire il peso di Atlantia, scontrandosi però con l’opposizione di Fs (con cui Toto è in contenzioso) e degli americani di Delta.

Prende così corpo il consorzio . La maggioranza del capitale (da 850 milioni) sarà in mano pubblica, con le Fs al 35% e il Tesoro al 15%; Atlantia rileverà il 35% (un investimento da 300 milioni), mentre Delta entrerà col 15% . Nessuno avrà una quota di controllo per evitare di dover consolidare a bilancio la partecipazione. Ora partiranno le trattative per modificare il piano industriale (che Atlantia ritiene sbilanciato a favore di Delta per lo scarso rilancio delle tratte nordamericane), che al momento prevede esuberi fino quasi a duemila unità, e la nuova governance.

La scelta di Atlantia era scontata e favorita anche dalla mediazione del premier Giuseppe Conte. Prima delle europee, Palazzo Chigi aveva aperto alla società guidata da Giovanni Castellucci con cui il governo, lato 5Stelle, ha avviato un violento scontro dopo il disastro del Ponte Morandi di Genova, accusando la controllata Autostrade di aver causato la tragedia. Ieri Di Maio ha provato a tenere il punto di una vicenda che metterà alla prova la tenuta delle diverse anime del Movimento . Il vicepremier, soddisfatto, ha cercato di presentare quella di Atlantia come una scelta “autonoma” delle Fs: “Nessun pregiudizio – ha detto – anche perché lo Stato continuerà ad avere la maggioranza assoluta dell’azienda. Era questo l’obiettivo del governo. Sia chiara una cosa però: niente e nessuno cancellerà i 43 morti del Ponte Morandi e il dolore delle loro famiglie. Sulla revoca della concessione ad Autostrade non indietreggiamo di un solo centimetro!”. La scelta di Altantia però è destinata a influenzare lo scontro sulla concessione. Nonostante le bordate quotidiane (due settimane fa ha definito Atlantia “decotta”), Di Maio ha già di fatto aperto a un accordo che eviti la revoca, a patto che i Benetton si siedano a un tavolo disposti a ridurre i pedaggi sui 3 mila chilometri di autostrade gestiti. Si vedrà, nel caso la linea venisse confermata, se M5S riuscirà a reggere l’urto mediatico di una scelta diversa da quella prospettata fin dalle prime ore del disastro di Genova.

Dal canto suo, Atlantia ha fatto quel che aveva in testa da mesi. Da un lato, la scelta potrà influire sulla partita della concessione, dall’altro ha anche un senso industriale: Alitalia vale quasi il 40% dei ricavi della controllata Aeroporti di Roma, grazie alle super tariffe garantite dalla generosa concessione del 2012 (governo Monti). Un fallimento del vettore avrebbe creato non pochi problemi al gruppo. Resta il punto del palese conflitto d’interessi, visto che da un lato incasserà le tariffe e dall’altro influirà sulle scelte della nuova compagnia.

L’Eni ha trovato il suo capro espiatorio: via Mantovani

C’è chi scende e c’è chi sale, chi va all’inferno e chi si prepara al paradiso. C’è chi viene, proprio oggi, licenziato da Eni: Massimo Mantovani, l’ex capo degli affari legali, indagato dalla Procura di Milano per il “complotto” che sarebbe stato ordito per depistare le indagini sulle corruzioni internazionali in Nigeria e in Algeria. E c’è chi si prepara invece a salire al vertice massimo della compagnia petrolifera: Claudio Granata, che oggi si occupa delle relazioni istituzionali con gli azionisti e punta invece alla guida della divisione R&M, per mettersi così nelle condizioni di poter diventare amministratore delegato di Eni, come successore di Claudio Descalzi, nel 2020 o anche prima, se fosse necessario.

Il passaggio di Granata, braccio destro di Descalzi, da ruoli di lobbying e finanza al vertice invece di una divisione operativa (R&M raffina e vende carburanti e altri prodotti petroliferi) è la mossa necessaria per chi vuole arrivare al ruolo di ad. Granata la compie in piena continuità e in pieno accordo con Descalzi, in un momento molto difficile per Eni: i suoi uomini sono sotto processo per la (presunta) supertangente internazionale in Nigeria; sono sotto indagine per gli affari petroliferi in Congo; sono sotto inchiesta per il “complotto” che sarebbe stato attivato con denunce ed esposti presso le Procure di Trani e di Siracusa; e in più Descalzi è sospettato di aver fatto fare all’Eni affari con una società controllata da sua moglie, la cittadina congolese Marie Magdalena Ingoba, detta Madò. Come se non bastasse, ora l’affaire dei soldi russi alla Lega coinvolgerebbe Eni come candidata a essere l’acquirente finale dei prodotti petroliferi da cui ricavare finanziamenti al partito di Matteo Salvini.

È in questo scenario complesso che Granata si prepara alla successione di Descalzi. Non senza problemi: è stato indicato dall’ex legale esterno di Eni, Piero Amara (che ha già patteggiato una pena di 3 anni per corruzione in atti giudiziari ed è al centro di inchieste delle Procure di Roma, di Messina e di Milano), come il vero regista del “complotto”.

Ma intanto Eni scarica Mantovani, che potrebbe diventare il parafulmine per i vertici della compagnia alle prese con la vicenda Napag: una società che si occupava di succhi di frutta e che è passata a fare trading petrolifero con Eni. I magistrati di Milano stanno verificando la possibilità che il finanziamento di 25 milioni avviato nel maggio 2018 da Eni Trading & Shipping (Ets) a Napag (di cui Amara è considerato il dominus) possa essere il tentativo di pagare il silenzio di Amara sul “complotto”. E stanno soppesando il ruolo di Mantovani in questa partita. Cinque mesi fa, Eni aveva proposto a Mantovani una buonuscita di 5 milioni, che il manager ha rifiutato. Oggi lo scenario si ribalta: il direttore delle Risorse umane di Eni, Grazia Fimiani, consegna a Mantovani una lettera di licenziamento, contestandogli un comportamento scorretto nei confronti dell’azienda.

Mantovani ha sempre sostenuto di non aver mai avuto rapporti con Napag. E di non aver avuto niente a che fare con i miracolosi accreditamenti che Napag ha ottenuto per poter fare trading con Ets (nel 2015) e con Versalis (società chimica di Eni, nel 2016). In effetti gli accreditamenti hanno avuto il via libera da benevoli audit interni Eni che sarebbe interessante oggi andare a rileggere. Quanto a Mantovani, uscito dall’Ufficio legale nel 2016, nell’ottobre di quell’anno diventa il numero uno della divisione Gas & Power di Eni e nel mese successivo anche presidente di Ets. Ma il manager operativo di Ets è un altro: l’amministratore delegato Franco Magnani, uomo cresciuto all’ombra di Descalzi nella divisione Esplorazione. È lui ad avere tutte le deleghe per operare, fin dall’inizio, anche nell’affare Napag. Poi, nel 2018, Ets si riorganizza, con due amministratori delegati, uno per la divisione Oil (con sede a Londra) e uno per la divisione Gas (con sede a Bruxelles). Magnani resta ad della Oil, sostituito nel novembre 2018 da Stefano Ballista. Mentre Mantovani si occupa soltanto dei settori Gas, Lng & Power. Resta estraneo ai rapporti tra Napag ed Ets (e ancor più tra Napag e Versalis), presidiati semmai da Granata e da Antonio Vella, l’ex responsabile Eni per il Nord Africa. Ma Eni non crede a Mantovani e gli contesta rapporti con un manager di Ets, divisione Oil: Alessandro Des Dorides, recentemente licenziato proprio per i suoi rapporti con Napag.

Ora tocca a Mantovani. Ben diversamente è andata a Vella, uscito dalla compagnia con buonuscita e tappeto rosso, dopo essere stato imputato diligente nel processo per le tangenti in Algeria, terminato con una condanna dei manager Saipem (allora controllata Eni) e con l’assoluzione dei dirigenti Eni.

Il dolce omaggio di Ferrara senior

Era pieno di violini, domenica sera, il palco del Festival dei Due Mondi di Spoleto: un’intera orchestra schierata per il concerto conclusivo della kermesse. Ma la sviolinata più clamorosa l’ha suonata il direttore, Giorgio Ferrara, fratello del più famoso giornalista Giuliano. Un discorso breve ma affettuosissimo per le autorità presenti in platea. E soprattutto per una: “Il nostro vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, Matteo Salvini”. Non sono tanto le parole con cui il “capitano” viene introdotto da Ferrara all’elegante platea di Spoleto, ma il modo un po’ teatrale, pieno di pause deferenti; la postura leggermente inarcata, il sorriso modesto. Ferrara – da oltre dieci anni direttore del festival con buoni risultati, ora in scadenza di contratto – ha un atteggiamento premuroso: “Essendo lombardo (egli, Salvini, ndr) amerà questo repertorio verdiano che questa sera gli proponiamo”. Il ringraziamento è triplo: “Grazie, grazie, grazie per essere qui con noi e per aver dato un senso di autorevolezza”. In mezzo a queste belle parole, c’è un omaggio per donna Francesca Verdini, che siede al fianco del leader: “Saluto la sua deliziosa – e mia amica da quando era piccola – Francesca… tanti complimenti Francesca!”. Tutto bellissimo. Peccato per i fischi, copiosi più degli applausi, partiti dalla platea dopo cotanta presentazione. Per quelli, Ferrara non poteva farci niente.

Gli anni alla Padania dell’ex portavoce con le foto di Hitler

Le foto di Adolf Hitler dietro la scrivania. Così Stefania Piazzo, ex direttrice della Padania, ricorda l’esperienza di Gianluca Savoini nella redazione dell’ex giornale della Lega: “C’era una presenza iconografica anomala, senza dubbio inquietante. Se la riconduci a goliardia può anche andar bene, ma a quel punto te le tieni nella tua cameretta, non in una redazione politica”. La Piazzo, oggi direttrice de L’Indipendenza Nuova, ricostruisce gli anni fianco a fianco con il leghista: “Savoini era vissuto da tutti con una sorta di stima reverenziale, aveva una marcia in più che gli derivava dai suoi agganci”. Il tutto, però, immerso in una iconografia particolare. Un articolo di Liberazione datato 16 luglio 2002 citato dalla Piazzo riporta infatti la presenza di “foto di Hitler”, di “uno scatto di una tomba di un ufficiale tedesco”, della scritta “onore” vergata a mano, dello stemma della Gestapo e dei simboli di protezione e morte utilizzati per le tombe delle SS. Nessuno però, conferma Piazzo, all’epoca sollevò il problema.

L’esperto di taxi dello spazio, pagato da noi

Le élite globaliste detengono il segreto sugli Ufo che scorrazzano per i cieli del popolo. Il quale popolo vuole sapere: ecco Claudio D’Amico, stipendiato da Palazzo Chigi (dal popolo, appunto) in qualità di “consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale del vicepremier” (fischia!), dunque in primis scoperchiatore del più grande complotto dalla Guerra Fredda a oggi: le consuete visite degli alieni sulla Terra. Privi di qualsivoglia regolamentazione, i taxi dello spazio solcano indisturbati i cieli territoriali col beneplacito della Cia, della Nato, dei servizi segreti e delle Ong cosmopolite (non del Kgb, che infatti nel 1989 ha compilato un “Dossier Ufo” sui numerosi contatti tra Urss e potenze aliene; c’è anche un filmato del 1998 di quando due jet militari russi abbatterono un disco volante, The Secret KGB UFO Files, con la scena clou commentata da Roger Moore, 007). Interpellato non a caso al Festival dei due mondi sul perché l’indagato per corruzione internazionale Savoini sia stato imbucato alla cena a Palazzo Madama in onore di Putin proprio da D’Amico, Salvini ha risposto: “Mi occupo di vita reale, non di spionaggio o di fantasia”. Dev’esser per questo che ha fatto un contratto da svariati mila euro l’anno allo stratega ufologo, che al momento di candidarsi alle europee diramò un videomessaggio dal pratone di Pontida: “Farò, se sarò eletto in Ue, un’azione per avere informazione da tutti i Paesi europei sugli Ufo. Questo è un fenomeno re-a-le, non possiamo far finta di niente. I cittadini devono sapere, non si può coprire la verità”. I want to believe , come in X-Files.

Non è chiaro, al momento, se gli alieni siano invasori finanziati da Soros al fine di colonizzarci e perpetrare un piano di sostituzione della razza umana, come in Visitors (1984), o se siano alleati del popolo contro l’imperio di Davos, il dominio della finanza, il cappio della Bce, il giogo della Troika. Oh extraterrestre, vienici a salvare.

“Il Savo è uno dei nostri, ma la Russia una volta la citavamo per le gnocche”

Quel ramo del lago di Como che volge verso la Svizzera. Sul terrazzo di una bella villa adagiata sul fianco del Lario c’erano una volta il ministro leghista del Bilancio (nel primo governo Berlusconi anno 1994) Giancarlo Pagliarini e Gianfranco Miglio l’ideologo del partito fondato da Umberto Bossi. “Vedi ‘Paglia’ – confidò Miglio -, quando sono triste vengo qua e guardo questo panorama. Laggiù, c’è la Svizzera e subito mi sento meglio”.

Venticinque anni dopo dalla sede di via Bellerio Matteo Salvini quando è triste (e non solo) sembra invece cercare l’orizzonte dell’estremo e algido est: la Russia.

Pagliarini, se lo sarebbe mai aspettato?

Macché. In tutti gli anni in cui sono stato nella Lega le uniche volte in cui ho sentito citare la parola Russia è stato per le gnocche.

Il fascino della bellezza femminile russa resta immutato, è la Lega che invece sembra parecchio cambiata.

Non mi chieda dei soldi e di tutte le vicende che leggo sui quotidiani in questi giorni: non ho un’opinione in merito, non so come stanno le cose e della Russia non me ne frega niente. Però, certo, una cosa non mi è piaciuta e non so proprio spiegarmela.

Cosa?

Come stanno tutti scaricando Gianluca Savoini. Da Matteo Salvini a Claudio Borghi che ho sentito dire come Savoini nella Lega non sia nessuno. Lo stesso stanno facendo con Claudio D’Amico.

Quindi Savoini non è proprio l’ultimo passato da via Bellerio.

Certo che no. Savoini c’era sempre. Ai comizi, durante i quali interveniva, alle riunioni. Savoini, da Bossi in poi, c’è sempre stato. Anche Borghezio, poi, recentemente lo ha definito soldato della Lega.

Ma allora Borghi si è solo sbagliato ha usato il termine ufficiale parlando di un semplice sottoposto.

Mettiamola pure così.

Lei da tesoriere della Lega soprannominato “Tagliarini”. Di conti se ne intende, di bilanci pure. Che fine hanno fatto i famosi 49milioni di euro?

Ah, saperlo! Io mi sono allontanato dalla Lega Nord nel 2007. Qualche anno fa però ho scritto una lettera aperta all’allora tesoriere Stefano Stefani.

Per dirgli cosa?

Che mi avrebbe fatto piacere se dal giornalaio avessi trovato un numero speciale della Padania dedicato ai movimenti finanziari del partito degli ultimi anni. Tecnicamente non è difficile però è necessaria la volontà politica. Chiudevo anche dicendo che speravo lo avesse fatto lui prima della magistratura…

Che uccello del malaugurio. Comunque nel frattempo La Padania ha chiuso. Cosa vota?

Lega.

Al cuore non si comanda.

Ho dichiarato che voterei ancora più volentieri se qualcuno riuscisse a far stare zitto Salvini soprattutto quando parla di Europa.

Addirittura.

Penso alle mie tasche che poi sono le tasche di tutti: ogni volta che parla di Europa ognuno di noi paga soldi di interessi.