Condono-bis e taglio di tasse, i dati non tornano

Una Flat tax composta da un’aliquota al 15% fino a 55.000 euro di reddito familiare e con un’unica deduzione fiscale che assorbirà tutte le centinaia di detrazioni e deduzioni esistenti. Così l’ex sottosegretario alle Infrastrutture, Armando Siri, descrive alle parti sociali la sua creatura. “Ci saranno benefici per 20 milioni di famiglie e 40 milioni di contribuenti, un grande impulso ai consumi e risparmi per 3.500 euro per una famiglia monoreddito con un figlio”, ha assicurato. L’intenzione della Lega è di portare nelle tasche dei beneficiari “12-13 miliardi di euro”.

Numeri che però non tornno al momento. In base ai dati del Tesoro, il numero delle famiglie monoreddito con o senza coniuge che guadagnerebbero (sulla carta) col nuovo regime sarebbero in realtà poco più di 4 milioni. Secondo le prime indiscrezioni si lascerebbe la possibilità di scegliere tra vecchio e nuovo regime a seconda delle convenienze. Ma non si sa per quanto.

E qui la questione si complica, proprio in funzione della composizione del nucleo familiare. Una stima dell’Ufficio studi del Consiglio nazionale dei commercialisti rivela, per esempio, che la Flat tax leghista premia il monoreddito e incentiva di conseguenza il divorzio. Perdono le coppie che hanno reddito complessivo individuale sotto i 21 mila euro e fino a 24 mila in caso di due figli a carico. Dividersi in due famiglie monoreddito sotto la soglia farebbe risparmiare fino a 14 mila euro annui.

Mentre annuncia tagli di imposte per il ceto medio dipendente e pensionato, con incerte ricadute sui singoli contribuenti, la Lega promette di voler far “pace” un’altra volta con gli evasori. Il sottosegretario al ministero dell’Economia, Massimo Bitonci ha proposto in vista della manovra, altri due condoni. “Ci sono 150 miliardi nelle cassette di sicurezza, l’emersione di questo contante è prioritaria”, ha detto durante la riunione.

L’idea non è nuova, ci aveva provato anche il governo Renzi nel 2017, ma la provenienza illecita di molte giacenze aveva tagliato le gambe alla misura. Si lavorerebbe poi a una seconda fase della pace fiscale, con la possibilità di chiudere con le imprese altri contenziosi “con un intervento di natura forfettaria”. In realtà il fondo del barile è già stato raschiato. Le precedenti “rottamazioni” non sono andate bene. Al 31 dicembre risultano incassati 10,4 miliardi di euro, a fronte di crediti lordi originari per oltre 45 miliardi e di un’aspettativa di introito alla fine del 2018 di 21,8 miliardi di euro, se si escludono le rate, differite, della rottamazione-bis di novembre e febbraio scorso.

Il vertice al Viminale è un successone, primo effetto: rottura Di Maio-sindacati

“Sai che c’è, ogni interlocuzione è utile e per il sindacato, venire convocati ai tavoli è tutta salute”. Un sindacalista commenta così in serata la giornata del confronto con il leader leghista Matteo Salvini. Che ha gestito la riunione con “una logica democristiana”: cordiale, capace di ascoltare. Anche quando Maurizio Landini ha fatto notare che su “sicurezza e porti chiusi” non la pensiamo allo stesso modo ha lasciato capire che si può discutere.

Lo stesso Landini , in serata, ribadisce che la convocazione “è frutto di piazze che si sono riempite: anche chi ha votato questo governo non sono contenti”. Se il governo chiama, quindi, si va, chiunque chiami, “noi stiamo facendo il nostro mestiere”. La strategia dell’attenzione di Salvini, però, ha mandato su tutte le furie l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico e quindi l’interlocutore ufficiale delle parti sociali. Solo che Di Maio non se l’è presa con Salvini, ma con i sindacati: “Per quanto riguarda la partecipazione dei sindacati al tavolo con Siri, affar loro. Se vogliono trattare con un indagato per corruzione messo fuori dal governo, invece che con il governo stesso, lo prendiamo come un dato. E ci comportiamo di conseguenza”, ha scritto su Facebook. “Parlino pure con Siri, parlino pure con chi gli vuole proteggere le pensioni d’oro e i privilegi. Hanno fatto una scelta di campo, la facciamo pure noi!”. Un messaggio stizzito, definito “inaccettabile e offensivo” da parte di Cgil , Cisl e Uil, che ricordano di essere “ancora in attesa di ricevere la calendarizzazione degli incontri specifici” da parte dello stesso Di Maio e di Conte.

La più ottimista nel dialogo è la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan, che ha ritenuto “soddisfacente” l’apertura di un confronto e ha difeso anche l’opportunità di aver tenuto il tavolo: “Abbiamo così poche occasioni di confronto che quando ne capita una…”. Più abbottonata la Cgil che ufficialmente ha ribadito i punti della piattaforma unitaria portata al tavolo e che con Salvini ha un problema di fondo legato alle politiche sui migranti. Ma che non può nascondere la delusione per il rapporto avuto finora con Conte e Di Maio. “Insoddisfatta”, invece, la Uil di Carmelo Barbagallo. Il punto, però, pensano tutti, è che non si capisce “quanti governi davvero ci siano” e quanto siano affidabili i vari interlocutori. E tutti aspettano il prossimo tavolo e le proposte, possibilmente scritte, su cui dialogare. Ma ieri tra Di Maio e sindacati si è scavato un altro fossato. Salvini non può che essere contento.

Il Re dell’Eolico svela ai pm il “giro” dei soldi al leghista

Non c’è solo un’intercettazione in cui Paolo Arata – l’ex parlamentare forzista nelle grazie del Carroccio, che lo ha interpellato per la parte sulle energie del programma elettorale – parla con il figlio del denaro destinato all’ex sottosegretario Armando Siri. A rivelare nuovi elementi, anche se appresi de relato, di questa vicenda ora ci sono il “re dell’eolico” Vito Nicastri e il figlio Manlio: sentiti lunedì 8 luglio dai magistrati romani Paolo Ielo e Mario Palazzi, che hanno indagato per corruzione l’ideatore della flat tax leghista, i due hanno fornito elementi che i pm ritengono utili per sostenere l’accusa di una promessa di denaro da parte di Arata all’ex sottosegretario. Sono dichiarazioni importanti tanto che gli inquirenti hanno deciso di cristallizzarle (per poterle usare in un eventuale dibattimento), chiedendo al gip la fissazione dell’incidente probatorio.

È un nuovo atto dell’indagine che è già costata a Siri le dimissioni da sottosegretario alle Infrastrutture. Senza però perdere i contatti con la Lega: ieri infatti l’ideologo della flat tax sedeva all’incontro al Viminale con Matteo Salvini e le parti sociali per parlare proprio del progetto sul sistema fiscale che vorrebbe il Carroccio. La sua presenza ha sollevato polemiche, con i 5 Stelle pronti a sottolineare come il fatto che ci fosse Siri “dimostra che è un incontro politico, non di governo. Quindi, scevro da ogni carattere istituzionale”. Non ha fatto una piega il ministro dell’Interno: “Vivo in un Paese dove si è innocenti fino a prova contraria”, ha detto alla fine dell’incontro.

Intanto per l’ex sottosegretario la grana giudiziaria non è risolta: l’indagine romana in cui è accusato di corruzione è ancora in corso. Secondo i pm, in cambio dell’asservimento della propria funzione di sottosegretario e senatore avrebbe ricevuto “la promessa e/o dazione di 30 mila euro” da parte di Arata. I magistrati infatti sospettano che ci siano state attività (rimaste dei tentativi non concretizzati) da parte di Siri per far entrare gli interessi dell’imprenditore Arata negli atti governativi. Come? “Proponendo e concordando – è scritto nel capo di imputazione del sottosegretario – con gli organi apicali dei ministeri competenti l’inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango parlamentare o legislativo”, come la legge Milleproroghe o quella di Stabilità.

Della presunta tangente – non ci sono prove di passaggi di denaro – parla in un’intercettazione ambientale Paolo Arata con il figlio Francesco, in cui “si fa esplicitamente riferimento alla somma di denaro pattuita a favore di Siri”, è scritto negli atti. Adesso gli inquirenti, oltre a questa conversazione, hanno in mano anche la testimonianza di Vito Nicastri, l’uomo che è ritenuto dai pm siciliani vicino all’entourage del boss latitante Matteo Messina Denaro. Nicastri, come il figlio Manlio, ha fornito elementi – che dice aver saputo dal racconto di una terza persona – che adesso i pm capitolini ritengono utili per sostenere la propria accusa.

Nel giugno scorso è stato il Tribunale di Palermo a emettere una misura cautelare in carcere per Vito Nicastri ma anche per Paolo Arata (entrambi ora si trovano ai domiciliari). Secondo gli inquirenti siciliani i due erano soci: il “re dell’eolico” aveva attribuito infatti ad Arata e altri la “titolarità e la disponibilità” di alcune società al fine di “eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale”.

Proprio in occasione di questi arresti, la Commissione Antimafia presieduta da Nicola Morra (M5S) ribadì la necessità di sentire Matteo Salvini – convocato in realtà il 7 maggio – anche sul ruolo di Arata nel Carroccio. In quei giorni, alla stampa il vicepremier ripeteva: “Paolo Arata ha partecipato a un solo convegno e me lo ritrovo consulente della Lega. Me lo presentarono come professore universitario, non ricordo chi sia stato a presentarmelo”. E il 12 giugno Salvini assicurava: “Certo che andrò”. Sono passati oltre due mesi e la Commissione ancora aspetta una sua risposta.

Torna Siri, Conte furioso per le manovre di Salvini

Si sapeva che l’incontro organizzato ieri al Viminale tra il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e le parti sociali, ben 43 sigle, per discutere della manovra di Bilancio, avrebbe provocato problemi al governo. Lo scontro, però, complice di nuovo Armando Siri, è stato molto più forte del previsto.

La scelta di Salvini destava già più di una perplessità per via dell’irritualità di un incontro a carattere economico e sociale nella sede del ministero dell’Interno. Ma quello che ha fatto capire il salto di qualità impresso dal leader leghista all’iniziativa è stata la presenza dell’ex sottosegretario ai Trasporti, sotto inchiesta per corruzione e per questo motivo costretto a lasciare il governo. Insieme a lui anche il viceministro all’Economia Massimo Garavaglia (anch’egli imputato, per turbativa d’asta), il sottosegretario all’Economia Massimo Bitonci, il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, il presidente della Commissione Finanze del Senato, Alberto Bagnai, e quello della Commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi, il viceministro allo Sviluppo economico, Dario Galli, e il sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento, Guido Guidesi.

Una delegazione di alto profilo politico e istituzionale: “Mancava soltanto Giorgetti”, fa notare una fonte sindacale, riferendosi alla qualità economica e sociale della delegazione incontrata. Segno, quindi, della volontà di Salvini di dare “un’accelerazione”, come del resto ha sottolineato lui stesso proponendo di lavorare “anche a luglio o ad agosto” per essere pronti alla discussione sulla manovra già a settembre. Una iniziativa politica di cui la forzatura della presenza di Siri, che ha messo in imbarazzo anche le parti sociali, è il tratto distintivo.

Ed è su questo punto che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si è concentrato per dare l’altolà al vicepremier leghista: “Siamo nella logica di un incontro di partito? Ci sta bene la presenza di Siri. Siamo nella logica di un incontro governativo? Non ci sta bene la presenza di Siri”, ha commentato Conte davanti a Palazzo Chigi. Aggiungendo: “La manovra economica vien fatta qui, non si fa altrove, non si fa oggi, e i tempi – tengo a precisarlo – li decide il presidente del Consiglio sentiti gli altri ministri, in primis il ministro dell’Economia. I tempi non li decidono altri, se si lavora d’estate, d’inverno o d’autunno…”. Ma in conferenza stampa il vicepremier è tornato sul punto: “Non mi interessa togliere il lavoro a nessuno, voglio solo dare una mano, se ci sbrighiamo a fare la manovra è meglio”.

La scontro sulle legittime prerogative di capo del governo e capo della coalizione è evidente. Salvini l’ha cercato e voluto sul terreno più delicato della vita di governo, quello della manovra di Bilancio, Conte non ha perso tempo a prenderlo di petto e da Palazzo Chigi hanno subito fatto notare che la Lega non ha ancora indicato i suoi delegati ai tavoli tecnici per discutere la manovra. Quella vera.

L’incontro di ieri, invece, si è basato tutto sulle proposte della Lega, soprattutto in materia fiscale. Siri, del resto, era presente soprattutto per illustrare la proposta che verrà portata ai tavoli istituzionali di una Flat tax al 15% per i redditi fino a 55 mila euro e con premialità per le famiglie monoreddito. Sul tavolo anche una nuova “pace fiscale” illustrata da Bitonci in particolare con la proposta di condonare i contenuti, eventualmente illeciti, delle cassette di sicurezza. E poi ancora altri condoni, la riduzione del cuneo fiscale, dell’Ires, dell’Imu sui capannoni, il blocco dell’Iva, disponibilità a discutere di salario minimo come vogliono le parti sociali. Soprattutto via libera ai cantieri, “basta con i No” ha detto Salvini ai convenuti. Su questo punto, l’unico battibecco con Maurizio Landini che ha fatto notare come lo sblocco dei cantieri significhi per il governo anche liberalizzazione degli appalti: “Ma se non si liberano gli appalti non si crea lavoro”, ha risposto Salvini.

Nel piano leghista, una manovra è stata già scritta e presentata ieri. Le parti sono state invitate a un secondo giro il 6 o 7 agosto, mentre Conte e Di Maio, che avevano avuto un incontro analogo quindici giorni fa, “non si sono più fatti sentire”. E per il momento giocano di rimessa.

Io rublo, tu rubli

Da quando Salvini ha degradato sul campo il povero Savoini a semisconosciuto-millantatore-imbucato, non fanno che uscire fotografie e selfie dei due amorevolmente avvinghiati in tavoli di lavoro o di banchetto italo-russi, visite ufficiali e ufficiose, convegni, conferenze, simposi, pranzi, cene, colazioni, merende, gite fuori porta sulla piazza Rossa di Mosca, a Parigi, a Londra, in Marocco, nel Donbass, in Crimea, ad Arcore, a Roma. Manca solo quella del matrimonio, magari a Sabaudia, come quella fra Tiziano Ferro e Victor Allen. Un’affettuosa amicizia vieppiù imbarazzante, alla luce dell’audio che immortala il “Savo” nella hall dell’hotel Metropol di Mosca con altri due italiani e tre russi intenti a concordare una mega-fornitura di gasolio e cherosene all’Italia in cambio di una stecca di 65 milioni di dollari alla Lega. Ora, siccome Savoini ha accompagnato Salvini a Mosca almeno 9 volte in 4 anni (e il suo compare Claudio D’Amico almeno 5 volte), più la cena a villa Madama a Roma offerta dal governo Conte a Putin il 4 luglio (dove fu D’Amico, consigliere di Salvini, a far invitare Savoini), si fa di tutta l’erba un fascio. Come se i viaggi a Mosca fossero tutti uguali. Non è così.

Già è grave che il presidente leghista della Associazione Lombardia-Russia accompagni il suo leader e poi il vicepremier e ministro dell’Interno nelle visite all’estero senza un incarico preciso. Ma è infinitamente più grave che sieda al suo fianco in un incontro ufficiale e ristrettissimo fra ministri dell’Interno. Dimentichiamo per un attimo le foto delle varie occasioni politico-conviviali in cui troneggiano Salvini&Savoini con decine o centinaia di persone. E concentriamoci sul vertice bilaterale, primo e ultimo di cui si abbia notizia, del 16 luglio 2018 a Mosca fra Salvini e il suo omologo russo Vladimir Kolokoltsev. I bilaterali ministeriali prevedono pochissimi interlocutori, cioè i membri dei rispettivi staff istituzionali, un’agenda che investe questioni di sicurezza nazionale, dunque l’obbligo di riservatezza per tutti i partecipanti sui temi trattati. Ora, a quel vertice Salvini portò con sé Savoini (lo si vede nella foto twittata dal nostro ministro a fine incontro: a sinistra Salvini e 8 membri del suo staff salviniano, a destra Kolokoltsev e i suoi 7 collaboratori). A quale titolo? Salvini ha appena dichiarato a Repubblica: “Savoini non ha mai fatto parte delle delegazioni ufficiali in missione a Mosca con il ministro né a quella del 16 luglio né a quella del 17 e 18 ottobre 2018”. E allora perché sedeva al tavolo ufficiale? La risposta l’ha data lo stesso Savoini un anno fa, appena rientrò in Italia.Cioè in tempi non sospetti, prima dello scandalo. Il 17 e 18 luglio 2018 dichiarò al Foglio e a Repubblica: “Sono nella Lega dal 1991, coordino gli incontri di Salvini con gli ambienti russi… Chi critica la mia presenza, legittimata dal ministero dell’Interno, è rimasto fuori dalla storia. Io ho contribuito con i miei contatti, come ho sempre fatto… visto che da sempre ho contatti istituzionali”, “Ho sempre fatto parte delle delegazioni in Russia di Salvini sin da quando veniva come segretario della Lega. Visite che ho contribuito a organizzare”. Quindi per Salvini non ha mai fatto parte delle sue delegazioni, mentre Savoini assicura di averne sempre fatto parte. E i fatti dimostrano che Savoini dice la verità, mentre Salvini mente. Non tanto sugli incontri conviviali o di partito, dei quali poco ci importa. Quanto su quel bilaterale istituzionale fra ministri dell’Interno, in cui Savoini ascoltò cose che non avrebbe dovuto ascoltare.
Si spera che ne abbia fatto buon uso. Ma un possibile cattivo uso è proprio quello immortalato dall’audio dell’incontro su petrolio&tangenti al Metropol. Nessun mediatore politico-affaristico russo si metterebbe mai a trattare, tantomeno nella hall di un hotel, con un possibile millantatore che dice di parlare a nome di un partito di governo italiano, senza poterne verificare le credenziali. Ma le credenziali di Savoini erano in quella foto al tavolo con Salvini e Kolokoltsev: se il ministro dell’Interno di Putin, nonché capo della polizia e dei servizi segreti, si fida a parlare in sua presenza, Savoini può tutto e non deve chiedere mai. Ora Salvini avrebbe un’unica, strettissima via d’uscita dal vicolo cieco in cui s’è cacciato con simili personaggi e cotante bugie: ammettere che Savoini era membro delle sue delegazioni ufficiali, ma mai era stato da lui autorizzato a trattare questioni finanziarie; e poi espellerlo su due piedi dalla Lega per aver tradito la sua fiducia, messo nei guai il partito e in imbarazzo il governo. Perché non lo fa? Evidentemente perché non può. E perché non può? Forse perché Savoini e Salvini sanno qualcosa che non ci hanno ancora detto e temono emerga dalle indagini dei pm di Milano o di altre registrazioni, di quell’incontro o di altri precedenti o successivi? È lo stesso copione dello scandalo Siri (indagato per corruzione e ieri al fianco di Salvini nel tragicomico incontro con i sindacati al Viminale) – Arata (in galera per corruzione) – Nicastri (ai domiciliari per corruzione e mafia, da ieri molto loquace con i pm su presunte mazzette a Siri). Su entrambi gli scandali è doveroso e urgente che Salvini risponda agli italiani in Parlamento. Ufficializzando la sua versione del caso Russia, affidato finora a battutine, attacchi ai giornalisti e ai magistrati, dichiarazioni sparse qua e là a spizzichi e bocconi, perlopiù contraddittorie o comunque contraddette. E recandosi finalmente in commissione Antimafia, dove il presidente Nicola Morra l’ha convocato “urgentemente” tre volte dal 7 maggio per raccontare tutto quel che sa di Arata&Siri. Perché non ci va? Ha qualche problema con il Parlamento? O con la verità?

L’ipocrisia dell’auto al Salone del Mobile

Il salone dell’auto passerà da Torino a Milano. Lo stesso patron Andrea Levy, ha fatto sapere che non ci sono margini di ripensamento (“Non si torna indietro”), dunque la sesta edizione si terrà dal 17 al 21 giugno 2020 in Lombardia, tra il capoluogo e l’autodromo (nonché il parco) di Monza. Più precisamente, in barba ai legami profondi di Torino con l’auto, nella città che in questo momento garantisce l’impatto mediatico più alto e le prospettive di crescita anche internazionale a cui gli organizzatori aspirano da tempo. A dare il via al trasloco, doloroso per gli appassionati torinesi che nell’arco di 20 anni si sono visti portare via per due volte manifestazioni motoristiche, sono certo stati i contrasti con la giunta comunale pentastellata, troppo litigiosa ed esigente su logistica nonché presunto carattere poco eco friendly della kermesse. Ma forse anche, sul versante dell’organizzazione, qualche pretesa di troppo, insieme al desiderio di una vetrina globale.

Immaginate piazza del Duomo brulicante di supercar e popolo festante? È esattamente quel che avverrà, con istantanee che faranno il giro del mondo. Ma a ben vedere, oltre a questo, avere un salone diffuso a Milano significherà uscire da un equivoco che si trascina da anni: l’auto al salone del Mobile. Ovvero quei tentativi, a volte azzeccati molte altre goffi o tirati per i capelli, di infilare tecnologia e design “automobilaro” dentro un habitat con cui hanno poco a che spartire. I veri appassionati se lo augurano.

Ford e Vw insieme su elettrico e guida autonoma

Aumentare l’impatto dell’auto elettrica, in modo che non venga rimbalzata via dallo scarso interesse e dai piccoli numeri di vendita, ma che anzi vada a bersaglio con gamme ampie, che permettano di abbassare costi e prezzi. Suggerisce quasi un’analisi bellica l’accordo tra Vokswagen e Ford, come aveva anticipato il Fatto Quotidiano . In una una conferenza congiunta da New York a cui hanno partecipato i ceo e presidenti di Ford, Jim Hackett, e di Vw, Herbert Diess, prende forma una collaborazione che va ben oltre la sua prima versione di gennaio, e limitata alla produzione in comune di veicoli commerciali e pick-up. Ford e Vw restano indipendenti sul piano societario e operativo, ma condivideranno la piattaforma modulare Meb sviluppata dai tedeschi, costata 7 miliardi di dollari e già destinata a fare da base ad oltre 15 milioni di veicoli entro questo decennio. Ford, nella sua strategia di investimenti per 11,5 miliardi di dollari sull’elettrificazione, potrà così accedere su licenza alle tecnologie di Vw per produrre dal 2023 a Colonia un una vettura alla spina da “alti volumi”: 600 mila unità in 6 anni. “Quello che volevamo era garantirci una crescita ancora più ampia e veloce” riassume Herbert Diess, consapevole di aver ipotecato una posizione di forza sul mercato. Come contropartita, Vw investirà circa 2,6 miliardi di dollari in Argo, startup acquistata da Ford nel 2017 e destinata a diventare centro nevralgico condiviso nello sviluppo della guida autonoma. “Fare squadra ci consente di offrire competenze, scala e copertura geografica senza pari”, dice Hackett.

Addio al Maggiolino Di mito ora ne resta uno: la 500

“Ne resterà soltanto uno”, si raccontava nella narrazione di Highlander e degli immortali come lui, impegnati in una sanguinosa e selettiva battaglia a suon di decapitazioni. Una profezia che, negli anni, sembra aver trovato piena applicabilità anche nel mondo delle quattro ruote. L’ultima icona dell’auto a veder ruzzolar via la propria testa, infatti, è stata la Volkswagen Beetle, più comunemente nota alle nostre latitudini col nome di “Maggiolino”. Un mito che ha vissuto due volte, a cavallo di otto decenni: la sua edizione definitiva ha completato una carriera lunga 20 anni, pur proponendosi alla clientela con impostazione, prezzi e ambizioni commerciali decisamente diverse dal modello primigenio, ideato sotto dittatura hitleriana per la motorizzazione di massa della Germania. Mentre la Beetle nel nuovo millennio è stata concepita per essere una costosa auto di tendenza.

Ora, dopo oltre 22 milioni di esemplari costruiti e distribuiti nel mondo, la produzione della Beetle (che era finita in Messico) si conclude ufficialmente.

È solo la più recente delle dipartite automobilistiche eccellenti, che va ad allungare un elenco in cui figurano mostri sacri come la Citroen 2 CV – fabbricata dal 1948 al 1990 in oltre 5 milioni di unità e diventata un cult del Double Chevron – o la Renault 4, assemblata in 8 milioni di pezzi a cavallo fra il 1961 e il 1993. Minimo comune denominatore? La volontà di essere democratiche e raggiungere un vasto pubblico. Chissà che il Maggiolino non possa risorgere in futuro, magari in un’inedita (e accessibile) versione 100% elettrica.

E sarà proprio la tecnologia motoristica a zero emissioni a dare nuova linfa vitale al vero Highlander delle utilitarie, la Fiat 500: nello stabilimento torinese di Mirafiori – impianto che ha appena spento le sue prime 80 candeline e sfornato quasi 29 milioni di veicoli – è già nata la linea di fabbricazione del nuovo “cinquino” elettrico, la cui produzione in serie inizierà nel secondo trimestre 2020.

La vettura, che continuerà a sposare la causa del design arrotondato che la ha resa celebre, verrà costruita su una piattaforma condivisa con un’intera famiglia di veicoli 100% green.

La neonata linea di produzione supporta una capacità di 80 mila auto l’anno ma, se il mercato lo richiedesse, potrebbe andare oltre questa cifra. Per fare la 500 a batteria – che continuerà ad affiancare le versioni con motore endotermico – Fca ha investito 700 milioni di euro. L’elettromobilità, nel frattempo, ha contagiato un altro monumento su ruote, la Mini Cooper: la versione “SE” da 184 Cv di potenza è la prima della storia senza bielle e pistoni. Autonomia fino a 270 Km e 34 mila euro di listino: venghino siori, venghino.

Come l’oncologia aiuta il paziente

Q uando ti dicono “hai il cancro” il mondo ti crolla addosso e non sai a quali mani affidarti. Un progetto virtuoso ci sarebbe ed è la rete oncologica. Sancita con l’intesa Stato–Regioni del 2011, e un’altra del 2014, funziona solo in metà delle regioni e non ancora per tutti i tumori. La rete è un modello organizzativo diffuso sul territorio in cui il paziente viene accompagnato lungo l’intero iter di diagnosi e cura. Evitando il fai da te e il rischio di trattamenti inappropriati. Quindi perdite di tempo e spreco di risorse. Ma anche migrazioni fuori regione. Alla rete si accede tramite un punto di accoglienza che gestisce le prenotazioni e attiva subito un team multidisciplinare di specialisti (oncologo, chirurgo, anatomo–patologo, radioterapista, infermiere, assistente sociale), che valuta il caso sulla base di un unico percorso diagnostico–terapeutico assistenziale (pdta) e indirizza il malato al centro specializzato più vicino. La rete seleziona ospedali e medici, chi deve fare cosa e dove. Fa chiudere le chirurgie che non rispettano i volumi minimi di attività. È una garanzia per cure migliori e va promossa.

Powell china la testa davanti a Trump. L’umiliazione della banca centrale Usa

Nei paesi avanzati le Banche centrali godono di un’ampia indipendenza dal potere politico per un motivo semplice: ciclo elettorale e ciclo economico non si muovono in sincronia. Il governo in carica (che in democrazia è un’autorità pro tempore) è perennemente soggetto alla tentazione di massimizzare il consenso con stimoli all’attività economica in un’ottica di breve periodo, che però nel lungo si rivelano improvvidi. La politica economica si conduce principalmente attraverso la leva fiscale e il tasso di interesse.

Ma mentre la prima è sottoposta al controllo e ai riti del Parlamento, il secondo richiede decisioni immediate incompatibili con i tempi della politica. Pertanto, onde evitare che i politici, con la scusa dell’urgenza, usino la politica monetaria a fini squisitamente elettorali, le banche centrali sono affidate a tecnici. Tuttavia la tentazione di bullizzare i banchieri centrali rimane un riflesso condizionato degli aspiranti autocrati incompetenti, da Erdogan a Trump, per limitarci ai casi recenti.

Per resistere a tali pressioni il capo della Banca centrale deve essere una figura di assoluto prestigio capace di comunicare a cittadini e mercati le sue analisi e le sue decisioni (specie se in contrasto con interessi di bottega governativa). Jerome Powell, attualmente al vertice della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, è figura scialba ed inadeguata per il ruolo (se paragonato ai predecessori). Ossessionato dall’idea che tassi di interesse rasoterra gli garantirebbero la rielezione, Trump da mesi lo ha messo sotto pressione (quasi alla gogna) con tweet ignobili e minacce velate di esonero (peraltro impossibile de lege). Pertanto negli Usa la separazione tra miopi interessi elettorali e stabilità di lungo periodo si sta sfaldando.

La scorsa settimana Powell in occasione della periodica testimonianza di fronte a Congresso e Senato ha lasciato chiaramente trasparire che a fine mese la Fed di fronte al presidente abbasserà contestualmente la testa e i tassi, nonostante dati strabilianti sul mercato del lavoro, una crescita lunga 120 mesi e i listini di Wall Street ai massimi. Il mercato, che ha anticipato da tempo l’andazzo, si è prontamente adeguato. Se si traducono i prezzi delle obbligazioni in probabilità, gli investitori sono sicuri al 100% che la Fed taglierà a luglio i tassi almeno dello 0,25% e attribuiscono una probabilità del 63% che i tassi a metà settembre saranno inferiori dello 0,5% rispetto ad oggi.

Powell ha addotto una serie di motivazioni economiche per la sua plateale capitolazione, in primo luogo la guerra dei dazi, la debolezza dell’economia mondiale e le tensioni geopolitiche. Giustificazioni dai contorni troppo evanescenti per puntellare una scelta che per la Fed rappresenta una storica umiliazione planetaria.