Malati in vacanza, così funziona l’assistenza gratuita in Europa

Quando si preparano le valigie per andare in vacanza in Europa non va mai dimenticata la Tessera europea di assicurazione malattia (Team): altro non è che il lato B della tessera sanitaria che serve per portare in detrazione le spese mediche con la dichiarazione dei redditi. Questa card gratuita dal 2004 dà, infatti, diritto all’assistenza sanitaria pubblica durante i soggiorni temporanei nei 28 Paesi dell’Unione Europea e in Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera alle stesse condizioni e allo stesso costo degli assistiti del Paese in cui si va in vacanza. In altre parole, viene assicurato a tutti gli europei di godere dell’accesso alle cure pubbliche, che si tratti di ambulatori, dentisti o del pronto soccorso.

Come funziona. L’assistenza della tessera rispecchia il sistema sanitario del Paese dove ci si trova: determinati servizi, gratuiti in Italia, potrebbero non esserlo in un altro Stato. È il caso della Svizzera, dove vige un sistema basato sull’assistenza sanitaria in forma indiretta che impone il pagamento immediato delle prestazioni. Poi il rimborso potrà essere richiesto all’Asl presentando le ricevute e la documentazione sanitaria. Mentre nella maggior parte degli altri Stati, se fossero necessarie le prestazioni mediche per l’ingessatura di una gamba o per l’estrazione urgente di un dente, si paga solo il ticket che è a diretto carico dell’assistito e, quindi, non verrà rimborsato. Non esiste, però, un elenco delle cure coperte dalla tessera visto che si tratta di un’assistenza non programmata e non rinviabile. Sarà il medico a stabilirne l’urgenza . L’incognita è, quindi, quella del pagamento del ticket ospedaliero che il Paese applica. Ad esempio in Italia l’importo ammonta a 25 euro.

A cosa fare attenzione. La Team non copre l’assistenza sanitaria privata o i costi sanitari delle cure programmate che richiedono un’autorizzazione preventiva e hanno un iter ad hoc che passa attraverso un’autorizzazione preventiva da parte delle Regione di appartenenza. Così come non verranno rimborsate le spese per le operazioni di salvataggio o rimpatrio in caso di grave incidente o grave malattia mentre ci si trova in un altro paese dell’Ue. Queste voci sono coperte solo dalle polizze private i cui prezzi a persona per una vacanza di 7/10 giorni in Europa si aggirano sui 60 euro a persona (qualche decina di euro in più per le vacanze oltreoceano), con tutte le principali garanzie.

Senza tessera. Iin caso di necessità si riceve sempre il trattamento per continuare le vacanze. Ma la sua mancanza rende più complicata la procedura di rimborso dovendo anticipare il costo delle cure. Il problema più annoso è quello burocratico, con una lungaggine nei tempi di risposta da parte delle Asl che devono coordinarsi con i loro referenti nel Paese in cui si è usufruito dell’assistenza.

I principali Paesi.

Belgio: le visite di medici e dentisti sono a pagamento ma si può richiedere un rimborso fino al 75% delle spese sostenute. Le medicine si pagano all’80% e per le ambulanze si sborsano la somma forfettaria di 60 euro.

Francia: i pazienti pagano un ticket ospedaliero giornaliero, poi si può chiedere il rimborso del 70% circa delle spese standard. I medicinali prescritti sono rimborsabili.

Germania: sulla maggior parte dei servizi sanitari non è richiesto il pagamento anticipato. Negli ospedali gli adulti pagano un ticket giornaliero di 10 euro.

Grecia: medici, dentisti e ricoveri negli ospedali pubblici sono gratuiti. Per ogni ricetta elettronica si paga un ticket non rimborsabile di 1 euro.

Portogallo: di solito l’assistenza medica del sistema sanitario nazionale portoghese è gratuita. Le medicine si pagano tra il 10% e l’85% del prezzo.

Regno Unito: le cure sono fornite gratuitamente dai medici del National Health Service, mentre quelle dentistiche sono fornite dietro pagamento di un ticket non rimborsabile. Sulle ricette si paga un ticket standard non rimborsabile.

Spagna: le cure mediche sono gratuite, mentre quelle dentistiche sono a pagamento e non rimborsabili. In ospedale non è previsto il pagamento del ticket. Sul fronte delle ricette, si sborsa il 50% del costo dei farmaci prescritti.

Convenzioni bilaterali. L’Italia ha stipulato patti con Argentina, Australia, Brasile, Capo Verde, Macedonia, Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Principato di Monaco, San Marino e Tunisia che consentono, sempre grazie alla Tessera sanitaria, di ricevere cure necessarie e urgenti. Le regole in questi casi, tuttavia, cambiano da Paese a Paese in base allo specifico accordo bilaterale. È possibile avere tutte le informazioni sul diritto alle cure consultando il sito della Commissione europea nella sezione “Occupazione, affari sociali e inclusione”.

“Re” Djokovic trionfa come Borg Federer: “Proverò a dimenticare”

Novak Djokovic si conferma campione di Wimbledon battendo Roger Federer con 7-6 (5), 1-6, 7-6 (4), 4-6, 13-12 (3) in 4 ore e 57 minuti di gioco. Una finale che entra di diritto nella storia del tennis, la più lunga di sempre e la prima conclusa a Wimbledon con la nuova formula del tie-break sul 12-12. Per il campione serbo, numero 1 del mondo, è il quinto trionfo sull’erba londinese come Bjorn Borg. Per il 32enne Djokovic è la 16esima prova del Grande Slam e ora può puntare a raggiungere i grandi rivali Federer e Rafa Nadal. Per Federer resta l’amarezza per i due match-point falliti sull’8-7 a suo favore nel quinto set, con il servizio a disposizione.

Sport, il gran dilemma: addio allo Scudetto?

Più facile immaginare un’Italia senza Torre di Pisa, che senza Scudetto. Eppure il rischio c’è. Non vale solo per calcio e Juventus. Nello sport si confrontano due filosofie: da una parte chi sventola la bandiera del campionato nazionale e pace se la battaglia è solo per il secondo posto (calcio e pallanuoto). Dall’altra parte c’è chi perora la causa di un super-campionato europeo (la strada presa dall’hockey).

Insomma, c’è chi vorrebbe una Lega dei forti, dei ricchi. E gli altri che stiano a scannarsi nelle serie cadette nazionali. Questione di spettacolo, si dice. Ma molto più di pubblico, sponsor e diritti tv. Così alcuni sport hanno imboccato la strada dei campionati sovranazionali (l’hockey, ma anche il rugby). Per altri invece si continua con i campionati nazionali (calcio e pallanuoto). Ma prima o poi qualcuno lancerà la proposta ‘oscena’: addio Scudetto. Forse i campionati continentali accrescerebbero lo spirito europeo, ma farebbero tramontare l’Italia delle città che si raccoglie intorno agli stadi più che ai campanili. E molte realtà importanti – che oggi occupano la media classifica di A – rischierebbero di evaporare. Ai lettori l’ardua sentenza.

CAMPIONATO Sì, IL CALCIOJuventus, otto volte negli ultimi otto anni. Come il Bayern Monaco in Germania, 7 su 7. O come il Psg in Francia, 6 su 7. Che noia questi campionati nazionali, dove a parte l’incertezza di Premier inglese e Liga spagnola (ma il Barcellona ne ha vinti 8 su 11), ad agosto non si sbaglia il pronostico su chi vincerà a maggio. L’Italia non fa eccezione: la Juve per meriti propri (il nuovo stadio, un miglioramento della rosa con l’occhio ai conti) e demeriti altrui (i fallimenti dell’Inter, i disastri societari del Milan, i progetti abortiti della Roma) vince in serie, impensierita un paio di volte dal Napoli. E la tentazione viene: una Super Lega europea. Non più 10-15 partite l’anno di Champions, ma un intero campionato con le migliori d’Europa, in cui far entrare 4 o 5 italiane più per meriti storici che di campo. I grandi club spingono, ma il progetto è fermo per le resistenze di chi non vince da un po’, ma ambisce a giocarsela in patria senza super leghe dinastiche.

PALLANUOTO. Quattordici scudetti uno dietro l’altro. Il record di vittorie consecutive (73). Gli avversari che sbuffano per il budget fuori categoria (siamo intorno al milione l’anno, ma la pallanuoto non è il calcio). Ecco la Pro Recco, il Real Madrid delle piscine. Con una differenza: “Rappresentiamo un paese di 9mila abitanti (Recco, alle porte di Genova), non una metropoli. E la pallanuoto è una bandiera straordinaria”, come racconta Maurizio Felugo, ex giocatore e presidente della società di Gabriele Volpi, diventato miliardario con il petrolio nigeriano. Non solo: “Avere una squadra di questo livello è importante per il tessuto sociale dei paesi e avvia allo sport centinaia di giovani”. In Liguria, per dire, non c’è paese che non abbia una squadra. Alcune ai vertici. Molte famiglie hanno figli in campionato. E il futuro? “C’è chi parla – spiega Felugo – di un campionato ristretto, meno squadre in serie A per aumentare la competizione” e offrire ai più forti spazio per l’impegno internazionale.

Campionato no: hockey. Lo Scudetto non esiste da anni. E pensare che l’hockey era stata una vetrina per le valli di montagna. Non solo Cortina, ma anche Alleghe, Gardena. Oggi i destini si giocano nei campionati transnazionali. A rompere il ghiaccio è stato il Bolzano, la Juventus del disco piatto con 19 campionati vinti, che dal 2014 gioca nella lega privata Ebel (oggi Erste Bank); un supercampionato che raccoglie squadre da Austria, Repubblica Ceca, Ungheria e Italia. Non ci sono promozioni e retrocessioni, si entra su iscrizione rispettando standard di stadio e bilanci. Le altre squadre più forti d’Italia sono emigrate nella Alps League, anch’essa al confine nord-orientale. Ma quali sono stati gli effetti? Raccontano i vertici del Bolzano: “Prima avevamo 600 spettatori a partita. Oggi siamo a 3mila, ben 7mila per i playoff. La tifoseria che unisce comunità di lingua tedesca e italiana con molti bambini è il nostro orgoglio”. Sono arrivate due vittorie, nonostante bilanci di un terzo rispetto a Salisburgo e Vienna.

LA TERZA VIA, RUGBY Dieci campionati vinti in tredici anni legittimano ambizioni superiori. È la storia di Benetton Treviso, che dal 2010 ha lasciato la lega nazionale di rugby per volare in Europa. Allora, insieme agli Aironi Rugby, si iscrisse alla Celtic League, che raccoglieva le migliori squadre di Galles, Irlanda e Scozia. Oggi il campionato si chiama Pro 14 ed è stato allargato anche a due franchigie del Sud Africa. Al posto degli Aironi ci sono le Zebre, una squadra federale che raccoglie il meglio del Rugby del Centro-Nord. E il campionato italiano? Ha perso campioni, ma ne ha guadagnato in imprevedibilità. Dal 2011 ci sono stati cinque vincitori diversi: il Rugby Calvisano si è portato a casa 5 scudetti, ma hanno vinto anche Petrarca, Rovigo e Mogliano.

Dolly, quel gran pezzo

Ho letto sul giornale della clonazione della pecora Dolly, un povero animaletto che non pensava minimamente di venire al mondo. Hanno scritturato una pecora e ne hanno riprodotto una copia perfetta, il risultato è stato magnifico, meglio dell’originale! Mi ha colpito molto perché forse è la stessa storia mia e di mia sorella. Non siamo pecore, non siamo gemelle, ma siamo molto simili. Secondo me, lei è stata clonata. Troppo bella. L’opinione generale sostiene, anche se personalmente non me lo hanno mai detto, che mia sorella sia la più bella della famiglia, non che io sia male per carità, ma questo mi ha fatto riflettere. È meglio l’originale o la copia? Quando fai una fotocopia l’immagine viene meno bene, mentre quella di mia sorella è un po’ più bella, più regolare, più bambola, quindi è un clone. Questa scoperta mi dà molta noia. Ho deciso di indagare in famiglia, ho chiesto a mia madre della sua gravidanza, ma le risposte sono state vaghe, quasi imbarazzate. Ho saputo che la pecora Dolly sta facendo un tour promozionale in tutta Europa, giovedì scorso faceva tappa a Viterbo, non ci ho pensato due volte, ho preso una corriera con Manolita, che non aveva nessuna voglia di accompagnarmi, e mi sono precipitata. L’ho vista, lì davanti a me, bella, slanciata, sorridente, con una lana meravigliosa che le incorniciava un volto più che umano, insomma un pezzo di pecora! Stavamo per uscire, quando Dolly invece di fare il solito bee come tutte le pecore, evidentemente sorpresa dal mio sguardo di ammirazione, ha alzato la zampa anteriore destra e ha proferito un “embè?”, con la stessa identica voce e intonazione di mia sorella quando non è d’accordo su qualcosa. Incredibile uguale in tutto e per tutto. Da quel momento mi sono convinta: mia sorella è una pecora.

 

Da Cesena a Friburgo nel nome della scienza. Storia di madre e figlia

Prendete madre e figlia romagnole e mettetele a Friburgo. Con ruoli diversi, naturalmente. L’effetto di insieme sarà garantito comunque. Clara Rigoni è una brillante ricercatrice di Cesena. Ha girato il mondo sin da quando partì di casa diciassettenne per imparare lo spagnolo e scelse il Costarica “perché era un paese senza esercito”. Poi, dopo il master a Venezia in diritti umani, una università dopo l’altra, Heidelberg e New York, Utrecht e Strasburgo, fino a Friburgo: al Max Planck Institute, il prestigioso centro di ricerca tedesco, è docente in università di un grappolo di materie, dall’antropologia giuridica al diritto penale internazionale. Parla quattro lingue, facendo lezione a braccio in un perfetto inglese, fantasia e passione della sua terra, occhi azzurrissimi e soprattutto il rifiuto – almeno per ora – di tornare in Italia per una ragione che me l’ha messa sul podio delle affinità mentali: “Sa perché? In Italia la gente si lamenta sempre, se piove o se c’è il sole, si vanta di lavorare tanto e si lagna di lavorare tanto, ed è sempre colpa degli altri. Ecco, io in un posto dove la gente non fa che lamentarsi non riuscirei a vivere”.

Basterebbe per volere raccontare di questa italiana trentenne in carriera. Senonché… c’è la mamma, Letizia Bagnoli, una signora che ha appena passato i sessanta e che è venuta a trovarla da Cesena perché il programma degli incontri la interessa. Anche se tutto è in inglese e lei non sa l’inglese. Il fatto è che, dopo essersi appartata in un angolo in fondo all’aula, il programma vero lo mette in scena lei, in romagnolo scoppiettante.

Racconta di avere preso possesso dello spazioso monolocale della figlia e di essersi messa a stirarne i vestiti, perché la mamma è sempre la mamma, anche se la “bambina” fa la scienziata all’estero. Elogia la qualità dei suoi manicaretti, “altro che mangiare qui nei ristoranti che fanno sempre le stesse cose, se vuoi faccio io da mangiare per te e per i tuoi amici”. Anzi “porto un bel coniglio da scongelare e lo cucino io, ché qua il coniglio non si trova da nessuna parte”. Sembra la classica madre italiana, il piglio giovanile, una certa civettuola eleganza. Poi, siccome parlare le piace, viene fuori una cultura rara, conoscenze di letteratura spagnola, poeti, romanzieri, premi letterari. Spiega che si è occupata molto anche di politica. Che anche se per ragioni anagrafiche le è sfuggito il Sessantotto si è data molto da fare a suo tempo con i sessantottini di lei più grandi.

Era di sinistra, Lotta Continua precisa, ma pure amica di un repubblicano della sua terra, il senatore Gualtieri, che i più anziani ricordano come incorruttibile alfiere della questione morale in parlamento. Una vita avventurosa, sempre da infermiera, parola che pronuncia con fierezza infinita. Volontaria in Libano a 19 anni, e poi due anni in Kurdistan da sposata. Passioni a go go, crede negli oroscopi, sa tutto del celebre oroscopo dell’Internazionale, spiega con naturalezza che gli uomini dell’Acquario sono inaffidabili. E in ogni caso lei, separata a 40 anni, giura che “per quanto non ami l’ideologia femminista, sto sempre con le donne”.

Le piace il buon vino, e insegue il posto al tavolino mentre davanti alla cattedrale svaniscono i resti della grande festa del vino durata una settimana, deplorando che qui manchi la frutta di Romagna, soprattutto le pesche della qualità “la bella di Cesena”. Mentre fa crocchio, e si sbizzarrisce nei commenti colti e salaci, o ricorda quando, in età maturissima, venne beccata dalla polizia a girare in motorino senza alcun documento, rivedo la celebre trasmissione di Arbore, metà anni ottanta, Ma la notte no.

Ripenso a quella stupenda accozzaglia di personaggi surreali, cui Arbore dava armonia in trasmissione. Ripenso a Ferrini, il comunista che “non capisco ma mi adeguo”. E le dico che ci sarebbe stata dentro perfettamente. L’idea la lusinga, anche perché – narra – Ferrini l’ha conosciuto bene, era proprio di Cesena. Fa acrobazie tra pezzi di vita, 6 mesi in Indonesia, la passione per carciofi e funghi, “l’ha visto? qui danno i finferli piccoli, da noi sarebbe vietato”. Quando si va sull’aglio racconta con orgoglio professionale la sua deontologia di infermiera. “Dicevo sempre alle più giovani: non mangiate cibo con aglio; poi vi chinate sui pazienti e loro non possono lamentarsi. Ci vuole rispetto”. Già, l’aglio e le infermiere. Non ci avevo mai pensato. Ma davvero Fellini non doveva inventarsi niente…

L’incubo prova costume. Magre o grasse, non importa: “È la dittatura della bilancia”

Gentile Selvaggia, a proposito di bilance. Stamattina ero in giro per l’Euronics. Mi sono sentita fuori moda, fuori tempo, fuori tutto. Cercavo un macchinetta fotografica, una piccolina, carina, senza dover spendere un occhio della testa. Me l’ha chiesta mio figlio, ha 8 anni e in gita vorrebbe scattare delle foto, e no, il cellulare non glielo compro, almeno fino a quando il mio no e le mie argomentazioni a riguardo avranno ancora autorevolezza e credibilità. Ho trovato due modelli messi in croce sul centinaio d’euro.

“Eh signora mia, ora si punta tutto sugli smartphone, ce ne sono di veramente belli che…”.

“No grazie, non mi serve un telefonino”.

Vabbè, mi dico, proverò a vedere ancora in giro di trovare delle alternative. Cammino tra le corsie non riconoscendo l’utilizzo di un buon 40% degli arnesi sugli scaffali, quando eccole lì, le bilance. E solo in quel momento ho realizzato che a) è luglio b) tra due settimane sarò costretta a mettermi in costume o a passare per la gogna tipo “ah, chissà perché resta vestita quella signora” o “sarà malata” o “sicuramente ha il ciclo o non si è depilata” c) non mi peso da una vita, la mia vecchia bilancia, pace all’anima sua, di quelle tutte di vetro, s’è frantumata in mille pezzi come le vetrine dei negozi durante una sparatoria nei polizieschi. Ok, respiro, respiro profondamente. “Comprala chiattona, così so dirti cosa fare mentre ti viene voglia di mangiarti mezzo chilo di patatine San Carlo al pepe rosa e lime” mi sussurra il mio cervello giudicante. Ed è lì che assisto alla scena. Lei: sarà minimo un metro e settanta. Capelli biondi raccolti in un chignon. Pantalone a sigaretta nero. Canotta bianca. Borsa rossa, gigantesca. Sandali abbinati. Occhialoni neri da sole sulla testa. Parla alterata col commesso: “Le dico che è così, questa bilancia non funziona! Impossibile che alle 8 e mi segni 44 kg, e alle 9 invece 44 e 200 grammi”.

“Signora, anche la bilancia di settimana scorsa diceva avesse dei problemi, ma le garantisco che non era così…”.

“E cosa vorrebbe dire? Che sono pazza? Non mi crede per caso? Ho fatto delle foto sa? Con gli orari, gliele faccio vedere! Quella sulla bilancia sono io! Lo vede il tatuaggio sul piede?! Guardi, ecco…”. Un piccolo cumulo di ossa che si agitavano nervose davanti al commesso. Un piccolo mucchietto di ossa agghindate con indumenti firmati che ne fasciavano ogni solco, ogni sporgenza.

“Senta signora, la cambiamo ok? Mi dica solo con quale vuole cambiarla stavolta”.

Non sento niente. La poltiglia di materia grigia nella mia testa sempre pronta a criticarmi e a giudicarmi stavolta resta in silenzio. Una vocina saggia, amica, mi intima di andare via. Mi chiedo se quella donna abbia qualcuno accanto che stia lottando con lei per far sì che non continui il suo cammino verso il suicidio.

“Sei triste chiattona?”. “Sì”, mi dico: “Non per il mio peso. Perché siamo tutte schiave di noi stesse, anche se magre, bionde, con lo chignon”. La bilancia alla fine non l’abbiamo comprata. Ieri però abbiamo comprato i Magnum alle mandorle. Sono nel freezer.

Amanda

Cara Amanda, c’è un problema di peso che noi donne non risolveremo mai. Ed è quello delle aspettative nei confronti di noi stesse, purtroppo.

 

Bimbi in affido: “Mia figlia ha denunciato genitori innocenti”

Cara Selvaggia, ti scrivo perché la storia di Sagliano e dei suicidi di quella famiglia accusata ingiustamente di aver abusato di 2 bambini mi è rimasta appiccicata addosso. Ho 6 figli e crescerli è stato bello e appagante, finché Alessandra, la 3ª figlia, 6 anni fa non è entrata nell’adolescenza. Non so dire cosa le sia esploso dentro, ma ad un tratto ha iniziato a provare insofferenza per me, suo padre, i suoi fratelli. Le regole erano troppe, i suoi fratelli sempre troppo obbedienti o stupidi, il Paese in cui era nata opprimente. Fatto sta che giorni dopo averle negato il permesso per andare a una festa serale, tra sfuriate e pianti, una sera Alessandra non si presenta a cena. Uscita dalla palestra, non è tornata a casa. Aveva 16 anni e mezzo. Io entro in panico, tutti iniziamo a cercarla, finché ci chiama il commissariato. Ha denunciato me e suo padre per maltrattamenti fisici e psicologici. Hanno allertato gli assistenti sociali. Non ti dico il trauma. Mai nessuno in famiglia ha alzato la voce o un dito. Qualche lite tra fratelli e sorelle, nulla più. Già dal commissariato Alessandra inizia a scriverci “mi dispiace, non pensavo che succedesse tutto questo” etc… Piange. Per noi inizia l’inferno. Lei va in un istituto, noi veniamo torchiati, monitorati, interrogati e così i nostri altri 5 figli. Per lungo tempo, nel terrore che ci togliessero gli altri cinque. Alessandra compie 18 anni, esce dall’istituto e noi non ci sentiamo più di cercarla. Pare viva con un fidanzato, in un’altra città. Lei non ci cerca. Non riusciamo a perdonarla per il male che ci ha fatto, ma più di tutto non riusciamo a perdonare chi le ha creduto e non ha capito che era solo un’adolescente bugiarda e ribelle.

Barbara

Cara Barbara, si è scoperchiata una gigantesca pentola e forse da oggi sarà più chiaro che vanno tutelati i bambini, ma vanno tutelati anche gli adulti. Un bambino abusato soffre, ma un genitore maltrattato dalla giustizia e da psicologi e assistenti sociali superficiali o, peggio, in malafede, soffre anche lui. Ed è più difficile credere a lui che all’innocenza di un bambino.

 

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La lunga traversata dei moderati in cerca del “Macron democristiano”

Centristi ma non centrali, almeno da quando è iniziata la Seconda Repubblica. E non senza paradossi evidenti, perché entrambi i poli dell’ultimo quarto di secolo hanno perso la loro spinta propulsiva per l’ossessiva ricerca dei fatidici moderati, da una parte la destra di Berlusconi e Fini, dall’altra il Pd ulivista. Al punto che oggi al governo ci sono due forze politiche premiate per la loro carica radicale: il salvinismo odiatore e razzista e il grillismo anti-Casta e post-ideologico.

Parliamo degli eterni orfani della Democrazia Cristiana, erranti dalla fine dell’unità politica dei cattolici. Venerdì scorso, in una Roma afosa e con la testa già al weekend di mare, duecento persone hanno affollato la Sala della Regina di Montecitorio per un evento storico: la trasformazione della Dc in fondazione culturale, con tanto di Scudocrociato.

Padrini del battesimo post-partitico i due fondatori nel 1995 del Cdu (Cristiani democratici uniti): Rocco Buttiglione Gianfranco Rotondi. Con loro, venerdì, anche il banchiere ex FI e Fininvest Ubaldo Livolsi; l’Istituto Europa-Asia di Achille Colombo Clerici; vari ex parlamentari: Mario Tassone, Angelo Sanza, Peppino Gargani, Teresio Delfino, Mauro Cutrufo, finanche Domenico Scilipoti. All’iniziativa è intervenuta Mariastella Gelmini, capogruppo azzurra alla Camera, che poco dopo ha tuittato: “Viva la Balena Bianca”.

Sebbene Buttiglione abbia chiarito che oggi “non ci sono le condizioni per un partito”, la speranza di questa area che insegue una terza via centrista, tra Lega a destra e Pd a sinistra, è la discesa in campo dell’editore nonché patron del Torino Urbano Cairo. Rotondi l’ha detto già un paio di volte.

L’obiettivo è mettere insieme democristiani sparsi (quante sigle negli ultimi due decenni!), parte di Forza Italia (compreso Tajani), la sopravvissuta Udc di Cesa. Resta da capire se l’eventuale candidatura a premier di Cairo, “nuovo Macron democristiano” (Rotondi dixit), sia in grado di attirare gli spezzoni di centro nell’orbita del Pd: Casini, Rutelli e soprattutto il malpancismo moderato dei renziani (meno probabile quello di un Calenda o di un Sala). La traversata è lunga, quasi una missione impossibile in termini di successo. Ma è cominciata.

A Pomigliano: “Napoletani al rogo”. L’autore: “Per spronare…”

Caro Coen, hai ragione: l’Italia ha la memoria corta. Soprattutto quando si parla degli orrori del fascismo e del razzismo. Non ricordiamo più, celebriamo gli assassini e i loro complici, non respingiamo più le parole che diffondono odio e disprezzo verso gli altri. Chi governa sguazza nella melma di questi sentimenti abominevoli, chi è all’opposizione fa finta di non capire, aspetta che l’onda passi, e non ha più parole e idee forti da proporre. E allora succede di tutto. A Pomigliano d’Arco, dove una volta c’era il mitico stabilimento dell’Alfa Sud e una classe operaia che era perno della società, sul display informativo di una fabbrica compare la seguente scritta: “Bisogna bruciare tutto, Napoli, tutti i napoletani e i loro rifiuti, anche perché i napoletani sono un rifiuto”. La fabbrica si chiama Tiberina, ha centinaia di operai e lavora per l’indotto auto. Ovviamente, e molto giustamente, i sindacati interni hanno bloccato la catena di montaggio in segno di protesta. Ed è una bella notizia, se c’è un briciolo di speranza è in operai come questi. Ma a colpire è l’arrampicata sugli specchi dell’azienda e dei suoi vertici. Il direttore, che ha usato il display aziendale come la parete di un cesso dell’autogrill o come la bacheca Facebook di un razzista ubriaco, si è giustificato dicendo che quella frase l’ha scritta per spronare gli operai. Non è un moderno Olivetti, si capisce, ma la cosa singolare è che anche il direttore è napoletano di nascita, a conferma che i peggiori nemici dei meridionali sono proprio i meridionali. L’azienda, dal canto suo, ha tentato di mettere una toppa. Si è scusata col “popolo partenopeo” e ha fortemente criticato questo uso spiacevole dei mezzi di comunicazione interna. Che pena, anche quest’episodio è figlio del tempo barbaro nel quale siamo precipitati. Al Nord si onorano i fascisti collaborazionisti dei nazisti, al Sud si “spronano” gli operai con la frusta di parole oscene.

“Il fascista merita una via”: parola di sindaca, nipote del podestà nero

Il partigiano Giancarlo Puecher, prima medaglia d’oro della Resistenza, aveva vent’anni la sera del 12 novembre 1943 quando, ignaro che fosse stato proclamato il coprifuoco a causa dell’uccisione di due fascisti, venne arrestato insieme ad alcuni compagni. Lo tennero in prigione fino a dicembre, poi lo condannarono a morte dopo un processo presieduto dal colonnello Biagio Sallusti, nonno di Alessandro, direttore del Giornale. Lo fucilarono davanti al cimitero maggiore di Erba, nella notte tra il 21 e il 22 dicembre. Giorgio Puecher, notaio, padre di Giancarlo, venne deportato a Mauthausen, dove morì. Podestà di Erba, fervente fascista, era lo zelante Alberto Airoldi: l’anno dopo la proclamazione delle infami leggi razziali del 1938, pubblicò un libello intitolato “Elenco di cognomi ebraici”, per additare ai concittadini erbesi “le famiglie di origine ebraica ed esporle al pubblico ludibrio”, come denuncia l’Anpi territoriale (sezione Luigi Conti). Perché, caro Fierro, ricordo Puecher e il podestà? Perché sua nipote Veronica Airoldi è sindaco di Erba. E perché proprio questo lunedì 15 luglio, il consiglio comunale discuterà la mozione presentata da Forza Italia, Lega e liste civiche per intitolare una strada al nonno podestà che aderì alla Repubblica di Salò ed approvò “tutte le nefandezze, i crimini, le deportazioni, i rastrellamenti e le rappresaglie del fascismo repubblichino, alleato dei nazisti”, sottolinea l’Anpi che presidierà il municipio. La sciagurata idea è venuta al celebre scenografo Ezio Frigerio – Giorgio Strehler si starà rivoltando nella tomba. L’alibi? Riconoscere i meriti culturali di Airoldi. Pure Goering poteva vantarne… Ma in Germania nessuno gli dedicherebbe una via. L’ineffabile Frigerio ha proposto anche di intestare un piazzale al prelato missionario Aristide Pirovano (“il vescovo del sorriso”), arrestato dai nazisti e liberato grazie all’intercessione del cardinale Schuster. La destra schiacciastoria riduce fascismo e antifascismo sullo stesso piano, nebulizza e manipola il passato, quel che è peggio, offende la memoria.

Miliardi per nulla: Gomez non è Paz

Se in questi giorni di calcio d’estate, leggere di Icardi e Nainggolan pagati a peso d’oro dall’Inter per allenarsi e non giocare vi stupisce, allora la storia di Cesar Gomez, il calciatore stipendiato per non scendere mai in campo, è quel che fa per voi. “Dammi tre parole”, recita la famosa canzone. E in effetti bastarono tre parole per cambiare un giorno la vita di Cesar Gomez, calciatore spagnolo, che nell’estate del ’97 aveva 29 anni e giocava nel Tenerife come difensore centrale. Quando si dice le sliding doors della vita! È luglio ’97, Zdenek Zeman è appena passato dalla Lazio alla Roma e sta parlando al telefono con Casiraghi, suo ex attaccante, per chiedergli come si chiamasse quel difensore del Tenerife che non gli aveva fatto toccare palla in Tenerife–Lazio 5–3 di Coppa Uefa (Lazio eliminata), l’autunno prima.

“Finiva per zeta”, sono le tre parole che Casiraghi pronuncia; davanti alle quali Zeman ha un’illuminazione, “ma certo, Gomez”, bofonchia, con l’impressione di recuperare quel nome tra lontani ricordi. Ringrazia Casiraghi, compone il numero di Perinetti e dice al d.s. di volare alle Canarie e di acquistare Gomez. “Se è vero che Stam e Nadal costano troppo, Gomez andrà bene lo stesso: lo conosco bene”. Detto e fatto. “Dammi tre parole, sole, cuore e amore”, dice la canzone: e sole, cuore e amore sono le prime tre cose che Gomez trova ad accoglierlo al suo arrivo a Roma. Più una quarta: soldi. Sensi lo ha acquistato per 6 miliardi di lire facendolo firmare per 4 anni a 1,6 miliardi a stagione. “Avevo sempre sognato di finire in una grande squadra – confessa Cesar –, ma quello che non avevo osato immaginare è l’aspetto economico del contratto”. Cesar è allibito, ma Zeman lo è di più. Chiuso nei suoi silenzi, sta pensando che il difensore che a Tenerife aveva messo la museruola a Casiraghi se lo ricordava diverso. Chiacchierando con lui, a fine presentazione, apprende che a Tenerife faceva coppia in difesa con un nazionale uruguagio di 6 anni più giovane, ex Independiente, Pablo Paz. Avete capito bene: Paz. “Finiva per zeta”, gli aveva detto al telefono Casiraghi. Zeman si sente male: vuoi vedere che…

Il Gratta e Vinci nel 1997 non c’era ancora, ma il primo vincitore del fortunato concorso “Turista per Sempre” è ancor’oggi, ad honorem, Cesar Gomez: che incassò 6,4 miliardi di vecchie lire per fare, letteralmente, il turista a Roma. Giocò in tutto 88 minuti: cinque in Roma–Napoli 6–2 (dall’85’ al posto di Aldair), uno in Fiorentina–Roma 0–0 (dal 90’ al posto di Petruzzi) e ottantadue, prima di essere sostituito, nel fatale derby Roma–Lazio 1–3 dell’1 novembre, giorno di tutti i santi (specie quelli laziali) in cui Zeman si trovò di colpo senza Aldair e Petruzzi, e assieme a Servidei dovette mandare in campo lui, Gomez, quello che finiva per zeta come Paz. Mancini e Casiraghi andarono a nozze, in 10 contro 11 la Lazio stravinse. In quei 4 anni Gomez non saltò mai un allenamento, rifiutò ogni ipotesi di cessione, comprò una concessionaria all’Eur e grazie ai compagni, che testimoniarono a suo favore contro Sensi e Capello, vinse la causa che la Roma gli intentò per liberarsi di lui. Leggenda vuole che un giorno, a fine allenamento, un tifoso lo chiamò e gli disse: “A Cesar, ce l’hai ‘na penna che te faccio ’n autografo?”. Lui non si scompose. E tirò dritto.