I problemi dell’Argentina con il passato di Francesco

Come vede l’operato di Francesco l’opinione pubblica della città dove Jorge Mario Bergoglio è nato e ha trascorso moltissima parte della sua lunga vita? Ho passato tre settimane a Buenos Aires, incontrando molte persone e chiacchierando con il più importante sociologo della religione dell’Argentina, il professor Fortunato Malimaci.

Mi sono reso conto di come si guarda a Francesco da sinistra, ovvero da quella parte dello schieramento politico e sociale che in quasi tutto il resto del mondo stravede per il papa argentino. E a sinistra ci sono due atteggiamenti sulla personalità, le scelte e il ruolo di Bergoglio-Francesco.

Il primo è quello di coloro che su di lui non hanno, in questi anni di papato, cambiato opinione e continuano a ritenerlo un uomo ambiguo e assetato di potere nonché, come provinciale dei gesuiti, un complice della dittatura militare negli anni Settanta. Un raffinato doppiogiochista capace, da un lato, di dare la sensazione di difendere i suoi sacerdoti più impegnati nel sociale e più vicini alla sinistra radicale, dall’altro talmente privo di scrupoli morali da segnalarli ai torturatori come soggetti pericolosi e inaffidabili. Il doppio gioco di Bergoglio sarebbe provato da nuovi documenti portati alla luce dagli archivi in questi ultimi anni e aggravato dal fatto che, come vescovo di Buenos Aires e primate della Chiesa argentina, Bergoglio avrebbe sistematicamente cercato di sminuire o negare le responsabilità avuta da tanta parte dell’istituzione religiosa nell’incoraggiare e sostenere il “terrorismo di stato”, la violenza delle giunte militari contro la sinistra sociale e politica.

Insomma, per chi appartiene a questo prima corrente di opinione, gli “intransigenti” guidati dal giornalista Horacio Verbitsky, la riabilitazione di Bergoglio è semplicemente impossibile e il suo successo come pontefice non dimostra altro che l’eccezionale qualità del fiuto politico dei gerarchi cattolici, capaci di collocare al vertice dell’istituzione un uomo dall’apparenza simpatica e gioviale, dal tratto caloroso tipico di tanti “porteni” (gli abitanti di Buenos Aires), ma in realtà cinico e spietato.

Il secondo gruppo, che definirei dei “pragmatici”, sino al 2013 ha condiviso sostanzialmente l’opinione di Verbitsky e degli intransigenti considerando quindi il cardinal Bergoglio un conservatore dal passato discutibile e sospetto, un gerarca bramoso di potere, la cui designazione al soglio di Pietro, salutata con entusiasmo da tutta la destra argentina, non poteva che essere considerata, nel 2013, la peggiore delle disgrazie. Gli esponenti della sinistra pragmatica condividono con gli intransigenti altre valutazioni della personalità e dei progetti di papa Francesco: per esempio, sono fermamente convinti che il papa non abbia alcuna intenzione di riformare la Chiesa e si stupiscono che qualcuno possa ancora pensarlo. Mai infatti, negli anni precedenti la sua designazione a pontefice, Bergoglio ha fornito segnali di simpatia verso le posizioni riformatrici, né come leader dei gesuiti argentini, né tantomeno come vescovo di Buenos Aires nominato da Wojtyla, né come cardinale (per volontà sempre del pontefice polacco).

I pragmatici riconoscono anche l’astuzia comunicativa e politica di un uomo che da papa sorride a chiunque, ma che da vescovo, lo dicono gli argentini e se ne trova conferma nei tanti video in circolazione su YouTube, non sorrideva mai, esibendo al contrario immancabilmente una posa accigliata e seriosa. I pragmatici fanno ancora osservare che, da cardinale, Bergoglio si rifiutò, in nome della prudenza politica, di ricevere le madri di Plaza de Mayo, ovvero le donne che coraggiosamente chiedono, sin dagli anni della dittatura militare, di conoscere il destino dei loro figli e nipoti fatti scomparire dai militari golpisti.

In definitiva, tutta la sinistra argentina mantiene intatta la diffidenza sulle qualità morali e sull’opportunismo politico di Bergoglio, Eppure i pragmatici ammettono che da quando costui è diventato papa qualcosa è cambiato.

La ragione del cambiamento di atteggiamento di buona parte della sinistra argentina risiede nell’attenzione che il papa dedica alle questioni sociali, nella sua decisione di dare priorità e risalto ai temi della lotta alla povertà e alle diseguaglianze, nella sua avversione al pensiero liberale e alle ricette economiche delle grandi istituzioni sovranazionali.

Il merito di Francesco risiederebbe nell’aver affrontato di petto quello che Fortunato Malimaci ha definito in uno dei suoi saggi “il grande tema che da numerosi lustri si pone al mondo cattolico: come affrontare la modernizzazione capitalista del Dio mercato, Dio individuo e Dio denaro.”

É su questo terreno che Francesco si è guadagnato la stima del peronismo di sinistra che tanto avversava il cardinal Bergoglio ai tempi delle sue furiose battaglie contro la coppia progressista dei Kirchner.

É nella prospettiva di una lotta serrata alle diseguaglianze che il messaggio di Francesco potrà pesare, così si spera a sinistra, nell’imminente campagna elettorale per il rinnovo della carica di capo dello Stato.

In Italia sono molti a pensare che tra qualche tempo, sul terreno dell’accoglienza dei migranti, possa avvenire la stessa cosa anche da noi.

L’ex ambasciatore: “Trump ha rotto il patto con l’Iran per colpire Obama”

“Donald Trump ha rotto il patto il patto sul nucleare con l’Iran solo per far un dispetto a Barack Obama” che lo aveva fortemente voluto entrando nella storia. Così sir Kim Darroch, dimissionario ambasciatore inglese a Washington spiegava la crisi iraniana a Downing Street nel maggio del 2018 in un altro file filtrati dalla talpa al quotidiano inglese “Daily Mail”, che aggiunge altra tensione nei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico. Intanto secondo il “Sunday Times” si sarebbe scoperta l’identità della talpa: “qualcuno che ha accesso ai dossier”, il che escluderebbe che la fuga di notizie sia stata il risultato di un hackeraggio da parte di un governo straniero.

“Missili ai ribelli libici”: la Francia è sotto accusa

Dei missili americani venduti alla Francia sono stati ritrovati poco lontano da Tripoli, in una base militare delle truppe del generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Nonostante le smentite del ministro della Difesa, Florence Parly, tutto lascia pensare che Parigi abbia armato le truppe ribelli, violando l’embargo delle Nazioni Unite e gli accordi con gli Stati Uniti. Parigi è già molto criticata per la vendita di armi all’Arabia Saudita e per il loro uso nella guerra in Yemen. Ora emerge che il governo francese sarebbe implicato anche nella fornitura di armi alla Libia, in violazione dell’embargo decretato dalle Nazioni Unite. Il sospetto serio è che Parigi stia armando le truppe ribelli del generale Haftar, il militare che controlla l’est della Libia e la regione di Bengasi e che lo scorso aprile ha lanciato una violenta offensiva militare per conquistare Tripoli. Secondo l’Onu, l’attacco avrebbe già fatto più di mille morti e 5.500 feriti. Ufficialmente, nella situazione libica, la Francia dialoga con “tutte le parti” in causa: il campo del generale Haftar e il governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite. Nei fatti Parigi, come l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi uniti, non ha mai smesso di sostenere il generale Haftar. Già nel 2016, François Hollande aveva ammesso che tre agenti della Dgse (la Direzione generale della sicurezza esterna, i servizi segreti della Francia che intevengono all’estero, ndt) erano morti in un incidente di elicottero mentre erano impegnati al fianco di Haftar. Più tardi il governo francese ha anche riconosciuto il dispiegamento di forze speciali nella regione di Bengasi, ufficialmente per portare avanti delle missioni “di lotta contro il terrorismo”. Si passa ora a una fase ulteriore. Martedì scorso, 9 luglio, il New York Times ha rivelato che dei missili anticarro francesi erano stati trovati il 26 giugno scorso a Gharian, in una base militare strappata a sorpresa alle forze ribelli dall’esercito ufficiale (nel frattempo, giovedì 11 luglio, il governo libico di unione nazionale ha chiesto alla Francia “spiegazioni urgenti” su queste rivelazioni”, ndt).

Gharian, a una sessantina di chilometri a sud di Tripoli, era stata la base strategica di Haftar nell’offensiva sulla capitale libica. Vi si concentravano armi, materiale e truppe. Per Parigi è stato particolarmente imbarazzante che i quattro missili siano stati identificati in brevissimo tempo, dagli Stati Uniti. Si tratta di missili anticarro Javelin, fabbricati dai gruppi americani Raytheon e Lockheed Martin e venduti alla Francia nel 2010. L’acquisto aveva riguardato all’epoca 260 di questi missili per un contratto di 69 milioni di dollari (cioè 260 mila dollari l’uno). Ecco dunque che quattro di questi missili sono stati inaspettamente trovati nel quartier generale di Haftar, abbandonato d’urgenza in seguito all’operazione vittoriosa dell’esercito fedele a Tripoli! La posta in gioco è alta per il governo francese: consegnare armi alle truppe ribelli non viola soltanto l’embargo internazionale (già ampiamente eluso da Egitto e Emirati arabi uniti), ma anche l’accordo commerciale con gli Stati Uniti, che vieta formalmente la riesportazione, la rivendita e la disseminazione di questo tipo di missili. Di qui le spiegazioni confuse fornite dalla ministra della Difesa, Florence Parly, sin dal 9 luglio. Contattato da Mediapart, il ministero ha dato una spiegazione in tre punti: “Le armi erano destinate a proteggere un reparto francese distaccato sul territorio per raccogliere informazioni in materia di anti-terrorismo”; “Le munizioni, danneggiate e fuori uso, erano state temporaneamente stoccate in un deposito in vista di essere distrutte. Non sono state consegnate a forze locali”; “Queste armi, detenute dalle nostre forze per la propria sicurezza, non erano sottoposte alle restrizioni sulle importazioni in Libia”.

Queste spiegazioni ci sono parse poco credibili ma il ministero ha rifiutato di rispondere a ulteriori domande poste da Mediapart sin da mercoledì 10 luglio. Per un caso di calendario, quello stesso giorno, nel tardo pomeriggio, Florence Parly doveva essere convocata a porte chiuse in Assemblea nazionale per essere ascoltata dalla Commissione per la difesa sulla questione della vendita di armi della Francia e sul Rapporto annuale al Parlamento sulle esportazioni di armi, risultato poco trasparente. È la terza volta in tre mesi che la ministra viene convocata in Assemblea, mentre continuano a emergere nuove rivelazioni che dimostrano sempre di più l’uso di armi francesi in alcuni conflitti, come la guerra in Yemen, “la peggiore crisi umanitaria nel mondo”, secondo l’Onu. Ma torniamo ai fatti. Un reparto francese sarebbe stato dunque presente a Gharian nella base militare strategica di Haftar situata lungo il fronte? Se così fosse, vorrebbe dire che si ammette un impegno francese senza precedenti in una guerra civile in Libia, tanto più che non è lungo il fronte e nel vivo delle operazioni militari che si portano avanti le missioni “antiterroriste”. Prima incoerenza. Tutti gli specialisti lo affermano: le forze speciali di intelligence possono portare avanti delle operazioni puntali e limitate, ma di sicuro non sono attrezzate di missili anticarro. Se così fosse, vorrebbe dire che erano impegnate direttamente sul campo di battaglia. Seconda incoerenza. Dei missili “danneggiati e fuori uso”, ha detto la ministra. Come potevano allora proteggere i soldati francesi? Forse erano già stati utilizzati, ma da chi e in quali circostanze? Il silenzio del ministero svuota di senso questo argomento. Un’altra ipotesi è che questi missili erano stati dimenticati o abbandonati dalle forze francesi in un altro luogo e poi recuperati dalle forze del generale Haftar e trasportate alla base di Gharian. Ciò che è a sua volta poco credibile. Se così fosse, queste armi sarebbero effettivamente sotto il controllo esclusivo delle “forze locali”, diversamente da quanto affermato dal ministero. Contattato da Mediapart prima dell’udienza con la ministra, Olivier Faure, segretario del partito Socialista e membro della commissione per la Difesa in Assemblea, pensava di farle queste domande: “Come è possibile che le forze speciali abbiano potuto dimenticare delle armi di quel genere? Dove sono state abbandonate? E soprattutto, perché Haftar ha recuperato questi missili se non poteva servirsene?”.

Il deputato de La France Insoumise Bastien Lachaud si pone le stesse domande. Una in particolare lo tormenta: “Cosa fa la Francia in Libia e cosa fa con le sue armi?” Il parlamentare insiste: “Il governo deve spiegarsi. Ci deve dire la verità perché il caos che c’è in Africa, in particolare nella fascia del Sahel, è la conseguenza della crisi libica, sulla quale la Francia ha la sua parte di responsabilità dai tempi di Sarkozy”. Il responsabile politico di Lfi esprime il suo disappunto sull’opacità del sistema francese: “Interrogheremo la ministra, ma interrogare è una grossa parola. L’udienza si tiene a porte chiuse e, diversamente dai colleghi del Congresso americano, noi non abbiamo diritto né a discutere né a rilanciare. Quando sarà di fronte a noi, la ministra proporrà lo stesso discorso fatto su Twitter”. Le spiegazioni del ministero della Difesa lo sconcertano: “Come è possibile abbandonare delle armi così dopo un’operazione e come è possibile che finiscano in una base di Haftar? E se erano davvero inutilizzabili, che ci facevano in Libia?”. Si possono rilevare altre due “stranezze”. La prima è una dichiarazione fatta il primo luglio su Twitter dall’ambasciata di Francia in Libia. Con l’hashtag #Fakenews, l’ambasciata aveva “smentito categoricamente la presenza di soldati o personale militare francese a Gharian”. La seconda riguarda l’equipaggiamento delle forze francesi. I missili Javelin erano stati acquistati nel 2010 nell’attesa che entrasse in funzione un missile francese di nuova generazione prodotto da Mbda, il missile a media portata. Secondo diversi specialisti, il missile Javelin è in parte obsoleto, e comunque meno efficace del missile Mbda. Come nota il sito specializzato Opex360, questo missile francese doveva essere dispiegato nel Sahel entro il 2018. Informazione che avalla ancora di più l’ipotesi della consegna alle forze “amiche” di Haftar di missili Javelin meno efficaci.

Ultimo elemento: i missili Javelin sono stati ritrovati a Gharian non in un luogo a parte, ma in un deposito con altre armi delle forze ribelli, tra cui droni di fabbricazione cinese, armi di fabbricazione russa e due granate degli Emirati arabi uniti. I missili francesi non presentano inoltre nessuna particolare protezione che potrebbe far ipotizzare che non facessero parte dell’arsenale ribelle. A questo punto, pare poco probabile che il governo francese possa fermarsi a spiegazioni così imprecise. Le commissioni specializzate del Congresso americano potrebbero decidere di occuparsi del caso e dell’eventuale violazione della Francia degli accordi commerciali. Anche gli ispettori delle Nazioni Unite, che hanno già documentato una serie di violazioni dell’embargo, in particolare da parte dell’Egitto e degli Emirati, potrebbero a loro volta intervenire. Per il ricercatore Jalel Harchaoui, uno dei rari specialisti della crisi libica in Francia, “la scoperta di questi missili è la prova inconfutabile di ciò che sapevamo già: la Francia porta avanti una guerra segreta in Libia e sostiene Haftar, anche sul piano militare. La Francia vuole che il suo pupillo Haftar vinca perché è favorevole alla dittatura in Libia, vede in lui quello che plaude in Egitto, un autoritarismo rigido senza alcuna libertà individuale”. Anche tra le Ong francesi le nuove rivelazioni creano una certa agitazione. Emergono le stesse domande che si fanno anche i deputati dell’opposizione: “Perché dei missili francesi si trovavano sul territorio libico se dovevano assicurare la protezione di francesi? Sono stati dichiarati alle Nazioni Unite? Il Congresso americano ha autorizzato la loro utilizzazione in Libia? Come ha fatto Haftar a mettere le mani su questi missili? Cosa prova che questi missili siano inutilizzabili, come sostiene il ministero?”, si chiede Aymeric Elluin di Amnesty International. Elluin ricorda la vicenda dei droni Male (sigla che sta per Medium Altitude Long Endurance). Acquistati d’urgenza all’americana General Atomics nel 2013, per essere dispiegati nella guerra in Mali e nel Sahel, i droni Male sono al centro di un feuilleton politico-industriale: il Congresso americano esige che venga fornita una nuova autorizzazione ogni volta che si intende cambiare la regione di dispiegamento, mentre Parigi vorrebbe evitare di ripassare ogni volta davanti al Congresso. L’Ong, che ha inviato una dozzina di domande precise ai deputati in vista della convocazione della ministra, trova che sia un bene che il caso dei missili francesi in Libia sia venuto a galla: “Ormai la Francia dovrà piegarsi al dovere di trasparenza”.

 

Contestano Macron Fermati 175 Gilet Gialli

Ci sono anche i leader del movimento dei Gilet Gialli Jerome Rodriguez e Maxime Nicolle, tra le 175 persone fermate dalla polizia francese ieri sugli Champs-Elysées durante le proteste contro il governo di Emmanuel Macron al margine della parata del 14 luglio che celebra la presa della Bastiglia. I dimostranti, che hanno occupato il viale ammucchiando barriere metalliche e incendiando cassonetti sono accusate di manifestazione illegale, vandalismo, aggressione a pubblici ufficiali e porto d’armi.

L’eterna violenza sociale: potere contro resistenza

Dopo aver detto di lui tante cose che ci sembravano vere (o almeno che ci pareva di avere capito dopo una lunga vita insieme) ce lo vediamo ritornare con le sue buone maniere, con la sua forma gentile di comunicazione implacabile, nel libro che aveva lasciato indietro, La nuova violenza illustrata (Bollati Boringhieri). O più probabilmente aveva calcolato che lo vedessimo e ne parlassimo adesso, dopo il saluto. Con lui anche il saluto non ha punteggiatura e non racconta tutto del prima e del dopo, ma soltanto degli spezzoni in parte emozionanti, in parte indifferenti.

La nuova violenza è una sorta di promemoria, un po’ severo e un po’ benevolo per quelli che vengono dopo e devono pur capire dove passa la frontiera. La frontiera non è fra bene e male o fra violenza e non violenza. La violenza è intensamente coltivata di qua e di là (vagamente identificate come “le forze dell’ordine” da un lato e gruppi diversi di resistenza dall’altro) le une potenti, bene organizzate e perdenti, le seconde oscillano fra gruppi sparsi e una massa di volta in volta inspiegabile, che si aggrega con facilità e si scioglie fino a scomparire senza lasciare tracce, e non vince mai e non perde mai.

Balestrini ha due cose da dirci. Una: non pensate che i tempi cambino e portino altre violenze, magari peggiori. Lo spettacolo di cui Balestrini è narratore esperto ricomincia con un governo e con l’altro, e i mutamenti di strategia sono pochi e non importanti.L’importante è lo scontro. Balestrini usa in questo libro molte sue invenzioni del passato: abolire la punteggiatura per esempio è come buttare birilli su un pavimento lucido. Il lettore perde l’equilibrio, dunque l’orientamento e tende a mettersi nelle mani del narratore.

Due: non confidate mai nella continuità di una storia. L’autore vi dà solo uno spezzone, continua altrove, e la vostra scontentezza è compensata dalla libertà di unire o no spezzoni incoerenti e scritti come per cominciare da capo o altrove.

È un modo molto realistico di forzare il lettore a rendersi conto della scarsa affidabilità delle fonti e delle ragioni per cui le fonti comunicano. Questo è il libro che Balestrini ha lasciato indietro: un repertorio dei molti modi di non assumersi la responsabilità del narrato, ma di lasciarlo ai protagonisti della vicenda e agli indagatori della lettura. Balestrini lascia tracce. Ne ha lasciate molte, sempre con l’intento di trasformare i lettori in protagonisti di eventi di cronaca o di eventi di storia (la storia prevale) senza mai alzare una bandiera. Anche per questo libro, che non può non essere collocato al giusto posto nello scaffale; nuova scrittura contemporanea, l’autore dice: fate voi.

La dottrina sociale della Chiesa: antidoto alla finanza senz’anima

In quella precisa pagina de I Promessi Sposi – il matrimonio a sorpresa – è ben chiaro cosa stia facendo Don Abbondio quando si prende da Tonio una somma di denaro, restituisce quindi a quest’ultimo la collana della moglie avuta in pegno e poi rilascia, dietro espressa richiesta, la ricevuta. Don Abbondio svolge il ruolo di salvadanaio. È un bottino di venticinque lire, ed è quella che nella migliore delle formule si può chiamare prestito – banco di pietà, o usura nel peggiore dei casi – e che, a prescindere dal pretesto narrativo di Alessandro Manzoni, svela il sottofondo di cruda necessità per la salvezza del prossimo.

Il Salvadanaio, manuale di sopravvivenza economica è un libro di Riccardo Pedrizzi, uno studioso del pensiero politico ed economico, esperto di banche ma, soprattutto, un credente incardinato nella comunità cattolica cui preme risolvere la presenza di Mammona e del suo pur necessario sterco. Anche Don Abbondio, a suo modo, si adoperava per risolvere il rapporto etica–economia. Ma quel che nei secoli è sedimentato, in questo saggio di Pedrizzi trova pratica effervescenza e santa malizia. La prima è nel tentativo di inverare la dottrina sociale della Chiesa nelle condizioni spirituali e finanziarie dei nostri tempi, la seconda – a Dio piacendo – svelare le trame di un ben preciso sovrano, il Re del Mondo, e quello del suo reame: il regno dell’algoritmo.

In verità, in questo libro edito da Guida, c’è un’altra malizia: la prefazione del Cardinale Gerhard Ludwig Müller che non è l’ultimo dei chierici, bensì il prefetto emerito della Congregazione per la dottrina della Fede, non proprio in linea col pontefice regnante e perciò “rimosso” da questo ruolo, autore del Manifesto della fede dove non fa parola di Francesco Bergoglio tanto la questione della barca di Pietro è rovente tra i marosi del tempo attuale. Maganzese di nascita, il cardinale Müller, in omaggio alla difficile parola “povertà” firma la prefazione (l’introduzione è di Giuseppe De Lucia Lumeno) prendendo di petto anche Luigi Di Maio – “la faciloneria di chi ne annuncia l’abolizione per legge” – per poi stringere il Laudato sì di Papa Francesco, come in un assedio di dottrina, tra Caritas in Veritate di Benedetto XVI e le parole di San Giovanni Paolo II.

La lettura più di getto che si dà di questo libro sta nel vedere l’àncora della Chiesa come la via per la “sopravvivenza economica”, ed è la lettura che corrisponde a una precisa operazione culturale: non c’è da derubricare il meccanismo classico – accumulo di risparmio–investimenti, che è il perno su cui si fonda il capitalismo classico – bensì, come spesso segnalava Karol Wojtyla, fronteggiare la crescita mostruosa, abnorme, smisurata e ormai incontrollabile di un’attività di natura meramente finanziaria finalizzata solo a generare profitti, spesso oscuri.

Il punto è tutto qui. Basti pensare che stime ufficiali misurano il rapporto tra prodotti finanziari e PIL mondiale intorno a 14 a 1. Come la tecnica può essere un mantello weberianamente pronto a diventare una gabbia d’acciaio, così il salvadanaio – scrive Müller – “ci riempie e ci fa sentire vuoti al contempo, come se il fondo di quell’involucro, di ceramica, acciaio o costruito su codici bancari, possa in qualche modo sostenerci o lasciarsi sprofondare, decidere delle nostre esistenze”. Il Re del Mondo, canta Franco Battiato, “ci tiene prigioniero il cuore”.

Facce di casta

 

Promossi

TOGLIETEMI TUTTO… MA NON I MIEI SOCIAL Carola Rackete stavolta si è spinta davvero oltre, molto oltre i limiti delle acque territoriali, ben più in là del forzare il posto di blocco per entrare nel porto di Lampedusa: la capitana della Sea Watch, ormai consacrata come la principale antagonista del ministro dell’Interno, ha deciso di continuare la sua battaglia con Matteo Salvini colpendo là dove fa più male: presentando, tramite il suo avvocato, alla procura di Roma una querela contro il ministro dell’Interno per “diffamazione aggravata” e “istigazione a delinquere”, la Rackete ha richiesto il sequestro delle pagine social ufficiali di Matteo Salvini, individuandole come il mezzo attraverso cui viene diffuso il messaggio d’odio che ha messo a repentaglio non solo il suo onore ma anche la sua incolumità personale. Insomma la Capitana sta tentando di speronare ‘la Bestia’ in persona, e questa volta, a differenza della motovedetta della Guardia di Finanza che il gip non ha riconosciuto come tale, non c’è alcun dubbio che si tratti di una nave da guerra. Non esiste minaccia peggiore per un capitano della rete di quella di veder arrestata la propria navigazione nel mare del web, navigazione che gli è valsa la pesca a traino di milioni di follower. Insomma sarà ‘ricca, tedesca e comunista’, ma a quanto pare Carola è anche parecchio sveglia.

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NESSUNO PUÒ METTERE ELI IN UN ANGOLO. Caparbia, determinata e per nulla disposta a lasciarsi mettere i piedi in testa, anche in questi giorni caldissimi sul fronte immigrazione, Elisabetta Trenta ha avuto modo di dimostrare di sapere meglio di altri dove iniziano e dove finiscono le sue competenze, e di non avere alcuna intenzione di accettare supinamente ingerenze e prevaricazioni. Il risultato del vertice sull’immigrazione voluto da Conte per evitare sovrapposizioni e contrasti tra ministeri, ha visto la ministra della Difesa avere la meglio sul ministro dell’Interno, che puntava ad utilizzare le navi della Marina per bloccare i porti alle Ong. “Non spetta alla Marina difendere i porti italiani”, aveva già spiegato la Trenta, “perché i poteri di polizia marittima a meno che non si cambi la legge sono affidati alla Guardia di Finanza e alla Guardia costiera”; e deve averlo fatto capire anche al Capitano che uscito dal vertice, ai microfoni dei giornalisti, non ha proprio più toccato la questione. A volte è semplice: basta conoscere bene la materia di cui si parla e avere abbastanza carattere da non spaventarsi di fronte a chi grida più forte. Elisabetta Trenta è la miglior risposta alle discriminazioni di genere.

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A TRIA. Nel giorno in cui Banca d’Italia conferma le proprie previsioni di crescita e il ministro Tria continua a professore ottimismo, Mara Carfagna si diletta con adattamenti leopardiani: “Il ministro Tria oggi ci dice che l’economia dà segnali di stabilizzazione.
Tria, rimembri ancora quel tempo di economia in recessione quando Di Maio e Conte prospettavano boom economico, anno bellissimo e bilanci attivi
E tu, lieto e pensoso e sornione alla stagnazione ambivi?”.
La poesia ci piace sempre, l’opposizione fatta con garbo ancor di più.

7

La settimana incom

 

Bocciati

Signorini e Salvini: trova le differenzeAlfonso Signorini è una fucina di idee. Ma quella di dare in premio, a sconosciuti, una Cena di Gala col direttore in persona è copiata da Matteo Salvini. Signorini infatti sta girando l’Italia per il “Chi Summer Tour”: tipo il Costanzo Show, ma dal vivo, in piazza. La novità del 2019, “è il Concorso Lucky Card”, annuncia la pagina Facebook del settimanale di gossip: “Due persone, sedute tra il pubblico del talk, parteciperanno all’esclusiva Cena di Gala insieme ad @Alfonso Signorini e ai suoi ospiti”. Ricorda il Capitano leghista che promette un caffè vis à vis con gli internatuti prodighi di like. Una volta era la politica a copiare le astuzie dell’intrattenimento, per sedurre e divertire meglio gli elettori. Con Salvini l’allievo ha superato il maestro: è l’industria dello svago ad imitare le trovate degli onorevoli. Politica e spettacolo: chi trova le differenze? In palio, un aperitivo con Natangelo.

 

Promossi

La fiducia di Tinto. Tinto Brass, papà del cinema erotico italiano, è ricoverato all’ospedale romano sant’Andrea. Il bollettino medico dice poco: “È vigile e collaborante. Ulteriori esami in corso”. Il regista, 86 anni, già nel 2010 è stato colpito da ictus. Stavolta, a portarlo al Pronto soccorso, alle 6 del mattino del 9 luglio, è stata la moglie Caterina Varzi: avvocatessa, 58 anni (28 di meno), ha conosciuto Tinto dopo la morte della prima consorte, Carla Cipriani, nel 2006. Il regista ha superato l’ictus anche grazie a Caterina: “Quando ho ripreso coscienza, ero immobile e non parlavo, lei era lì e io pensavo solo: quanto sei bella”. Tra i due c’è un accordo di fine vita, sostiene Tinto: “Quando io non sarò più in grado di badare a me stesso, Caterina sceglierà per me la cosa giusta. Le consegno la chiave della mia vita, sicuro che la girerà al momento giusto. Voglio essere libero di decidere come morire, prima di perdere la dignità. Abbiamo un patto molto forte, suggellato con il matrimonio”. Quando si dice, la fiducia. Quella che manca ai figli di Tinto: hanno fatto causa al padre per tutelare il patrimonio.

 

Nc

La morte dei pirati.Crolla la pirateria musicale in Italia. Lo dice uno studio della società Similarweb. A commissionarlo, due associazioni industriali: IFPI (International Federation of the Phonographic Industry) e Fimi (Federazione Industria Musicale Italiana). I numeri sulle violazioni del diritto d’autore: meno 35% rispetto a marzo del 2018. Negli ultimi due anni il download (scaricare il file sul proprio dispositivo) e lo streaming (la fruizione del file in rete) abusivo sono diminuiti del 50%. La percentuale di pirateria, in Italia, oggi è sotto il 20%, rispetto al 35% dell’anno scorso. Sicuri sia una buona notizia? L’utente attivo, che sa quel che vuole e lo cerca in rete, cede il posto al navigatore passivo dei siti di streaming: ti connetti, e fai zapping sulle playlist più cliccate. Ma internet è molto più di una tv multicanale.

A lezione di Galateo: “L’etichetta insegna a rispettare gli altri”

Il top della cafonaggine, pure in questa torrida estate? L’occhiale da sole che rimane al suo posto, sia se si incontra una amico, ma anche se si ordina un caffè al barista, che merita eguale rispetto. Per non parlare di chi si gratta con le asticelle, le mordicchia o li infila nello scollo della camicia.

Ma le buone maniere in spiaggia prevedono, anche, che non ci si presenti al bar smutandati e in costume, e pure – strano ma vero – che non ci si scotti fino a diventare rossi, espressione di negligenza e sprovvedutezza. Rimediare alla propria incompetenza in fatto di etichetta, però si può, tanto è vero che fioriscono nel nostro Paese corsi di galateo di ogni tipo, frequentati da donne adulte che vogliono sentirsi più sicure, ragazzi e ragazze, ma anche magistrati e avvocati. “Conoscere l’etichetta consente di destreggiarsi nella quotidianità e migliorare l’autostima”, spiega Samuele Briatore, Presidente dell’Accademia Italiana Galateo e Buone Maniere, che ha anche attivato, in partnership con la Sapienza di Roma, un corso, unico in Italia, di Alta Formazione universitaria dedicata al Galateo e alle Buona Maniere, visto che sono tante le aziende che vogliono dipendenti che sappiano comportarsi in qualsiasi occasione.

Ma uno dei filoni più in crescita è, senz’altro, la ri–educazione di bambini e adolescenti bulli e scomposti, con corsi di galateo pensati per loro. “Certo, i ragazzini di arrivano qui senza nozioni, purtroppo oggi si crede che la forma sia qualcosa di inutile. Però noi qui insegniamo loro non solo come si mettono i piatti, ma anche a rispettare lo spazio vitale degli altri o perché i bambini giapponesi tirano su col naso, visto che nella loro cultura soffiarsi il naso in pubblico è qualcosa di abominevole. Un bambino educato, comunque, non è solo un bambino che mangia composto, ma che si alza in piedi quando si alza un adulto, o sta in silenzio quando il discorso non gli appartiene”.

Sugli adolescenti, invece, paradossalmente il lavoro degli esperti di etichetta, che poi sono storici, sociologi, ricercatori, è “quello di spiegare loro qual è la forma giusta, liberandoli al tempo stesso dal conformismo di vestirsi e comportarsi uguali agli altri. E poi facciamo lezioni di etichetta digitale, dove li invitiamo a prendersi la responsabilità di ogni post pubblicato”.

Al corso di galateo s’impara una cosa essenziale: la forma è sostanza e le regole hanno sempre un senso e un fondamento. “Insomma, l’aperitivo si fa in salotto per dare a tutti la possibilità di arrivare, la frittata non si taglia con il coltello perché l’uovo è simbolo di vita e di fecondità, i fiori recisi è meglio non regalarli perché ricordano la morte”, continua Briatore. L’etichetta, che pure ha altro significato etimologico, è dunque anche una “piccola etica”. Una sorta di lingua, “che si può decidere anche di non usare. Ma anche di trasgredire, però essendone consapevoli, perché se non si conosce il senso di una norma non ci sarà neanche nessun piacere a infrangerla”.

Bellachioma, il leghista latin lover. L’ex: “Promise lavoro, se parlo io…”

Ma soprattutto braccio destro di Matteo Salvini in Abruzzo che lui chiama confidenzialmente “Matteo” e che tira in ballo ogni volta che si tratta di decidere un assessore, una delega o anche solo una virgola. E lei è Barbara D’Antonio, quarantenne procace, bionda e minigonnata di Giulianova che su Facebook si fa chiamare Barbara Stellakiss: la sua ormai ex fidanzata, incavolata nera. E pericolosissima.

La loro è una storia d’amore che finisce male, come tante, con strascico di male parole, querele presentate e poi magicamente ritirate, post al vetriolo su Facebook, vendette, rancori e gelosie: tutta colpa di un posto di lavoro promesso e mai dato. Così, dopo un inverno di amore puro, con tanto di foto abbracciatissimi ai comizi e in vacanza, Barbara e Peppe si fidanzano ufficialmente e lui, imprenditore e potente deputato si presenta ai genitori di lei. Preludio di una storia vera, forse di una convivenza se non di un matrimonio. Lei per la verità si accontenterebbe però di quel posto di lavoro. Purtroppo interviene prima la rottura.

Lo scrive lei, Barbara, che il suo ex adorato Peppe le aveva promesso l’assunzione e lui invece è scappato a gambe levate dopo averle garantito che le avrebbe aperto tutte le porte (e tutti i porti). “La falsità non ha limiti, mi hai voluto bene, mi hai promesso mari e monti, inviato messaggi con scritto ti amo, 40 chiamate al giorno, poi non hai avuto il coraggio di dirmelo in faccia, ti sei coperto dietro gli altri come un vigliacco sa fare – ha scritto su Facebook qualche giorno fa – Per farmi stare zitta mi hai preso per il c@@o ogni giorno promettendomi la mia assunzione: che fine ha fatto onorevole o vuoi negare anche questo?”

Poi una lite furibonda sotto l’abitazione di Bellachioma a Roseto dove la bella Barbara si presenta per farsi restituire balocchi e profumi. Lui per tutta risposta le manda la sorella che tenta inutilmente di placarla. Tra i due corrono messaggi di fuoco, volano minacce e ricatti, intervengono i carabinieri, poi tutto viene messo sotto silenzio. “Con la gente ti dimostri in un modo, ma io ti conosco bene, poi lo racconterò come è andata caro onorevole, parli di bene e poi non sai neanche che significa abuso di potere e inganni.

Poi ti pari il c@@o dicendo che sei un parlamentare e che nessuno può farti niente e metti mille avvocati per intimidire la gente…”. Insomma Barbara allude a inciuci, intrighi e patti segreti del suo ex fidanzato, ma lui, Bellachioma non si scompone e risponde laconico che gli dispiace che lei stia così male. “Siamo stati insieme un anno, ma poi le storie finiscono. Lei dice che le ho promesso un posto di lavoro e se ne assumerà la responsabilità: io mi sto tutelando legalmente per tutto quello che la mia ex ha scritto. Per quello che mi riguarda posso dire soltanto che ho la coscienza a posto”, replica il parlamentare.

L’ultimo post di Barbara è strappalacrime, con foto in bianco e nero, senza trucco, occhiaie lunghe fino a metà guancia e con lacrima in bella vista: “9 giorni senza mangiare e dormire, è dura quando entri in quel vortice del male oscuro”. Bellachioma latin lover, e chi l’avrebbe mai detto.