Si suda peggio di Carofiglio sorpreso con il fu Rottamatore trombato. L’ex craxiana oggi sovranista (nel senso di Trump) dà una festa per celebrare il nuovo salotto della Rai leghista: ci sono Teresa De Santis, direttrice di Raiuno, e la famigerata pierre Chaouqui, già gola profonda di Vatileaks 2
Paese a misura d’anziano per fermare la grande fuga
“Cosa offriamo? Guardati intorno e troverai mille risposte”. Marco Corrias ha girato il mondo, da viaggiatore e soprattutto da scrittore e giornalista, svoltata la boa dei sessant’anni ha deciso di tornare al suo paese e farsi eleggere sindaco. Con un sogno in tasca: combattere lo spopolamento. Siamo in Sardegna, nel cuore del Sulcis Iglesiente, a Fluminimaggiore, poco più di 3mila abitanti, 27 miniere chiuse, sei spiagge. E 500 case vuote. Quelle della gente che è andata altrove a cercare un futuro. “Cosa dovevo fare da sindaco, contemplare la fuga, lamentarmi ogni tanto, fare pure qualche convegno sullo spopolamento? Tutte cose che avrebbero placato la mia coscienza, ma non risolto il problema”.
Ed è così che il sindaco giramondo e scrittore fa funzionare il cervello e inventa “Happy village”. “Un’idea semplice – spiega Corrias -, rivolta a singoli e coppie di pensionati, una alternativa alla fuga in Portogallo o in Tunisia. Venite da noi, offriremo una casa, assistenza sanitaria h.24, trasporti e itinerari turistico-culturali. Insomma, una cosa diversa dalle tristi case di riposo”. Marco Corrias sembra già vederlo il suo paese rinato grazie all’idea che a gestire accoglienza e servizi saranno tutti i “fluminesi”. “L’idea – dice – è quella di far vivere il progetto grazie ad una cooperativa di comunità, dove i cittadini diventano partecipi perché produttori di beni e servizi. Ci sarà bisogno di giovani medici, personale parasanitario, guide turistiche, cuochi. Insomma, gente che lavora”. Tutto interessante, ma rimane la domanda fatta prima, oltre a tutto questo, cosa offrite? “La bellezza del paesaggio, il suo clima, la storia, e, lasciamelo dire, la purezza. Il grande cuore della nostra gente. Penso ad un signore anziano venuto da fuori, se è in una normale casa di riposo passa il suo tempo davanti alla tv, qui può fare due passi per il paese, sedersi al tavolino di un bar e scambiare due chiacchiere, salutare e ricevere saluti. Un buongiorno, un come stai. La vita che continua. A passo lento e dolce”. Parliamo e siamo davanti a un bar mentre i ragazzi e le ragazze della Big river marching band, suonano ritmi blues e jazz. Sui muri, accanto a murales bellissimi, le foto in gigantografia di Francesco (Ciccio) Cito, altro giramondo e raccontatore di guerre e rivoluzioni.
Al vecchio mulino sul fiume, trasformato in museo della civiltà contadina, c’è un “aperitivo” culturale con i giornalisti Federico Geremicca e Toni Capuozzo. Parlano di viaggi e cinema, perché in paese c’è Andaras traveling film fest. “Un vero miracolo”, ci dice il regista Gianfranco Cabiddu (“Il figlio di Bakunin”, “La stanza dei sogni”), membro della giuria del festival. “Sono arrivati 1.300 corti, da tutto il mondo”. Joe Bastardi, nome d’arte, è il direttore artistico e sorride quando ci parla del super short Sincerely Anthony, di Max Shohan. “Una ragazzo sedicenne del Canada, che però ha tenuto a precisare che lui non poteva venire in Italia perché aveva l’esame di maturità”. Intanto, nell’arena del paese, un bel teatro all’aperto, sta per iniziare la proiezione di Fughe e approdi, di Giovanna Taviani. Un film che parla di isole, ricordi, cinema. Un viaggio nei luoghi e nell’anima.
Fluminimaggiore, chi deciderà di vivere in questa parte della Sardegna “vera”, senza super ricchi che espongono la loro opulenza, dove non ci sono “briatori” ad insegnarti cos’è la bella vita, incontrerà la Storia. Quella antica del tempio di Antas, costruito dai cartaginesi, dove è possibile immergersi nella magia del culto nuragico, e soprattutto godrete della simpatia di Sabri Spagnuolo, guida turistico-culturale per vocazione. Incontriamo una famiglia di Trento (i figli hanno tre e nove anni) che segue con attenzione il suo racconto. Marito e moglie ci spiegano perché hanno scelto di visitare questa parte della Sardegna, fuori dalle rotte turistiche note. “Amiamo fare vacanze ricche – è la risposta -, e noi abbiamo un certo concetto della ricchezza”.
Nella miniera di Su Zurfuru c’è un museo. Non è solo archeologia industriale, ma è lavoro, vita, narrazione dello sfruttamento di risorse e uomini. “In questi pozzi – ci dice Salvatore Corriga, volontario dell’associazione Su Zurfuru mine – entravi a 15 anni e uscivi a 30. Morto. Ucciso dalla silicosi”. Ci sono i macchinari, i picconi usati dai minatori, i generatori per produrre energia, le lettere dell’ingegnere che scoprì il sito minerario e che, ironia beffarda della sorte, si chiamava Carlo Marx. Ma c’è, appesa alle pareti, mostrata nelle miserabili buste paga dei minatori, il racconto di condizioni di lavoro feroci. Chi lavorava qui doveva spendere il suo salario da fame nello spaccio della miniera, la sua vita valeva poco, la sua libertà zero. Zio Elio Medau, che da bambino si calò nei pozzi e ci rimase tutta la vita, ha regalato la lampada che gli serviva per illuminare il suo cammino. Niveo, l’ultimo minatore prima della chiusura dei pozzi nel 1993, ha lasciato le sue storie. Sono affisse sulle pareti e si possono leggere. “Siccome gli operai avevano bisogno dei soldi, si ammazzavano per fare un metro di galleria in più, per dargli 1000 lire, ad esempio…”. Ecco, chi deciderà di vivere a Fluminimaggiore, nell’happy village, incontrerà la vera Sardegna, la sua storia e il cuore della sua gente.
Il conflitto sui muri: il “decoro”
“Salvini muori”. Pochi giorni fa Lodo Guenzi, il cantante degli “Stato sociale”, ha commentato questa scritta apparsa su un muro davanti alla sua casa bolognese con le seguenti parole, postate sul suo profilo Instagram: “Questa scritta mi fa schifo […]. Dovremmo lasciare ad altri queste cazzate, le minacce di morte alle famiglie sinti a cui consegnano la casa popolare, gli ‘spero che i negri ti stuprino troia’ a Carola Rackete, i ‘bruciamo i rom’. Lasciamo ad altri questo schifo e scegliamo l’intelligenza, il paradosso, l’ironia, il gioco, la poesia e la passione. Anche nello scontro, soprattutto nello scontro. Perché frasi come queste sono merda fascista, e non fanno che costruire una società fascista. Non so quando abbiamo cominciato ad arrenderci a questo squallore, ma risponde[re] alla merda con la merda farà sempre e solo vincere la merda”.
Parole misurate, di buon gusto: piene di buona educazione. A criticarle, sempre sul web, con profondità, grazia ed esatto istinto politico è stato Wolf Bukowski, autore recente de La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro (Alegre 2019). Un libro essenziale per chiunque voglia intendere oggi il rapporto che corre tra le pietre e il popolo. Il decoro è una categoria etica ed estetica dei latini, che traducono così il greco prepon: ciò che si conviene, ciò che è ordinato e ciò che sta al suo posto.
Proper o suitable, nell’inglese universale di oggi. Nella retorica securitaria che legittima il totalitarismo del consumo che oggi è l’unica etica su cui si reggono le nostre città, il ‘decoro’ si oppone al ‘degrado’. E il degrado sono i poveri, i rom, i mendicanti, i migranti, i senza fissa dimora: quelli che non vogliamo vedere. Perché – in questo continuo corto circuito dogmatico che afferma senza spiegare – sono ‘indecorosi’. E dunque devono sparire. Nel suo libro (che appare l’ideale continuazione dell’ancora attualissimo Lavavetri. Il prossimo sono io di Lorenzo Guadagnucci, 2009), Bukowski anatomizza queste parole d’ordine, dimostrando come la loro diffusione prescinda da ogni dato di fatto reale (che si tratti dell’andamento della criminalità o di quello della presenza dei migranti), e miri a oscurare e a soppiantare l’unico conflitto reale, quello tra ricchi e poveri. Che viene agito, ogni giorno, dai primi, ma non dai secondi: perché i poveri sono troppo occupati a difendersi dai nemici immaginari creati dal mantra del ‘decoro & sicurezza’, il grande business dell’imprenditoria della paura.
L’assessore bolognese Alberto Aitini (tipico prodotto della nuova destra Pd, e fra gli ‘eroi’ del libro, insieme al securitarissimo sindaco di Firenze Dario Nardella) afferma serio che far ripulire ai richiedenti asilo (ovviamente senza retribuzione) i muri ‘imbrattati’ dai writers significa “contribuire a dare una mano per il miglioramento della città, che noi identifichiamo con un miglioramento del decoro urbano”. L’equazione è tutta qua: la città è il suo decoro. E decoro ha preso il posto di ‘eguaglianza’ o di ‘giustizia’: parole abolite dalla neolingua, orwelliana, dell’amore che il Pd e la Lega parlano con lo stesso accento. D’altra parte, le politiche seguono le parole: a Verona la Lega e a Bologna il Pd hanno collocato panchine con divisori nel mezzo (nella città di Romeo e Giulietta a forma di cuore: una trovata che ricorda i ‘bacioni’ in fondo ai tweet fascisti e razzisti di Salvini), così che i senza fissa dimora non possano sdraiarcisi o, diononvoglia, dormirci.
La rimozione del conflitto passa anche attraverso la cancellazione delle scritte sui muri: o peggio attraverso il loro vaglio estetico e il loro depotenziamento, fino a ‘musealizzarne’ alcune che servono alla gentrificazione, cioè all’espulsione dei residenti e alla loro sostituzione con ceti abbienti.
Ed è per questo che Bukowski critica la critica di Guenzi (fatta da sinistra, e in ottima fede) alla scritta contro Salvini: “L’odio per i potenti, per gli oppressori, è un sentimento d’amore per l’umanità. Scriveva Bertolt Brecht negli anni Trenta: ‘Eppure lo sappiamo:/ anche l’odio contro la bassezza / stravolge il viso. /Anche l’ira per l’ingiustizia/ fa roca la voce. Oh, noi / che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, / noi non si poté essere gentili’. E non si dimentichi, soprattutto, che stiamo parlando di una scritta. E lo stiamo facendo mentre l’odio con forza militare e di legge, quello indirizzato dai Minniti e dai Salvini, provoca, con atti e consapevoli omissioni, disperazione e morte in mare, nei campi libici, sulle montagne, nei miseri rifugi delle vite marginali. Il fascismo, e una società fascista, non si genera per contaminazione a partire da una scritta o da un generico clima di odio – conclude Bukowski – Il fascismo è il risultato di problemi sociali a cui viene risposto con la creazione di nemici fittizi”. Il messaggio di Bukowski è chiaro: per quanto si esprima attraverso un crudissimo auspicio, quella scritta bolognese fa parte del tentativo collettivo di riattivare un (non cruento) conflitto sociale.
La società che chiede agli oppressi di essere bene educati è una società ferocemente intenzionata ad opprimerli. Intenzionata a spostare il discorso dalle migliaia di vite che Salvini ha sulla coscienza (si pensi solo ai migranti restituiti alle torture libiche) all’opportunità di una scritta sul muro di un quartiere agiato di Bologna. Mai come oggi il totalitarismo non tollera dissenso e pretende buona creanza: prenderne coscienza, e ribellarsi, è un primo passo per provare a rovesciare lo stato delle cose.
Dai draghi volanti agli specchi magici: il futuro è già qui
Lo scorso 23 marzo, in Corea del Sud, un drago ha volato sulle teste degli spettatori riuniti nello stadio SK Happy Dream Park di Incheon: emetteva versi che rimbombavano in ogni angolo, la sua ombra si stagliava sul campo di gara e sugli spalti insieme a lui, si è fermato a lungo sul maxischermo dell’evento ci si è arrampicato. Era reale, ma al tempo stesso non lo era. Lo spettacolare ed enorme ologramma, infatti, è stato il frutto di una fortunata combinazione di realtà aumentata e applicazione delle tecnologie 5G che, rendendo la banda più potente e veloce, sarà in grado di supportare invenzioni ed effetti speciali sempre più avanzati e grandiosi, cambiando completamente la tecnologia come la conosciamo ora.
A mettere a disposizione la rete 5G necessaria per far volare il drago è stato l’operatore telefonico SK Telecom, proprietario della struttura sportiva e tra i primi nel mondo nello sviluppo della rete 5G, lanciata per la prima volta a dicembre 2018. Innovazione che parte dalla Cina. Il Fatto ha già raccontato quali siano le implicazioni geopolitiche dello sviluppo del 5G, ma un’altra importante parte di quanto accade a Pechino riguarda invece le applicazioni e gli strumenti che, da Oriente, stanno nascendo per sfruttare al meglio la rete e traghettare utenti e cittadini su un livello nuovo di funzionalità. Minacciando anche la Silicon Valley. In sintesi: la rete ha bisogno di applicazioni nuove e viceversa.
Il video personale e lo specchio magico
Un catalogo dettagliato ed esauriente delle applicazioni del 5G che si stanno sviluppando in Cina è quello che troviamo in esposizione nel centro di ricerca e sviluppo di Zte, azienda cinese leader del settore, e al Mobile World Congress di Shanghai. Appena varcata la soglia del centro, ci porgono una sorta di specchio con il manico, leggero e molto semplice nel design. Di fronte, uno schermo con diverse sezioni tematiche statiche. Basta però inquadrare una sola di queste con lo specchio digitale per vederle magicamente attivarsi sullo strumento che abbiamo in mano e descrivere, ad esempio, la storia di un luogo. Possiamo quindi ascoltare e guardare un intero video sul nostro specchio (immaginate ad esempio di utilizzarlo in un museo come video – guida) mentre il display alla parete continuerà ad essere immobile e a disposizione del prossimo utente che volesse guardare il video dall’inizio sul suo personale specchio. “Si tratta di una tecnologia che è possibile grazie all’unione del 5g, del cloud e dell’hardware sviluppato con i nostri partner – spiegano i tecnici di Zte mentre indicano un mappamondo interattivo – lo specchio, infatti, può interagire con altri oggetti ed essere utilizzato quindi anche per la formazione”.
Basta noia in classe: la lezione è nelle lenti
Campo di applicazione importantissimo, nel futuro, sarà quello dell’istruzione. Indossiamo un visore per la realtà aumentata. Prima, ci troviamo catapultati in un quadro di Van Gogh. Siamo nella sua stanza, possiamo guardarci intorno, avvicinarci al letto e alle finestre, camminare avanti e indietro o decidere di ammirarla da più lontano. In sottofondo ci sono le spiegazioni, un puntino luminoso ci indica dove guardare. “Questo è il docente – spiegano – che può così indicare agli alunni cosa osservare senza che tolgano il visore dagli occhi”. Le sue parole risuonano attraverso le aste delle lenti. Un passo in avanti ed eccoci in un antico giardino giapponese: passeggiamo lungo i ponti, il puntino luminoso ci dice di ammirare un tempio. Siamo in Giappone ma potremmo essere in qualsiasi altra parte del mondo senza muoverci da i banchi di scuola. “Un vero e proprio viaggio virtuale” che per essere efficiente e disponibile per tutti ha bisogno di molta banda e connessione super veloci.
Sport al microscopio pronto per Pechino 2022
Un angolo con un grande e comodo divano strategicamente posizionato di fronte a uno schermo molto esteso, è riservato alle soluzioni innovative di Zte che, sfruttando il 5G, permetteranno di guardare qualsiasi sport da vicino, anche vicinissimo, e da ogni angolazione possibile, complici decine di telecamere ad altissima definizione sparse per il campo.
La demo che ci viene mostrata è quella di una partita di calcio. Si può decidere di inquadrare la panchina, ascoltare le parole del mister e i commenti dei giocatori. O inquadrare più da vicino l’area del campo dove si trova la palla. Una tecnologia che potrebbe permettere anche di differenziare l’offerta per lo spettatore (che potrebbe abbonarsi a una telecamera vip), ricevere le statistiche in tempo reale delle azioni in campo e partecipare a una sorta di forum – chat in cui commentarle. Sono soluzioni che potranno essere ovviamente applicate a qualsiasi altro sport e che sono pronte per essere implementate soprattutto in vista delle Olimpiadi invernali di Pechino del 2022: per questa occasione si sta già pensando a un sistema capace di mettere in collegamento e armonizzare tutti gli elementi, i servizi e le aree del futuro villaggio olimpico che, assicurano al congresso, sarà smart e completamente connesso. Per allora, infatti, la copertura del 5G in Cina potrebbe già aver raggiunto 460 milioni di utenti. Un obiettivo che Pechino vuole agguantare a tutti i costi.
Quel bus manovrato a distanza, ma non solo
Al Mobile Congress, l’idea che un giorno qualsiasi lavoro possa essere sostituito dalle macchine è ormai obsoleta. Non solo infatti sarà sostituito, ma potrà anche essere gestito a centinaia di chilometri di distanza. Ce lo conferma, ad esempio, la demo di una escavatrice che, in uno degli stand, viene ‘telecomandata’ da un operatore a pochi metri da noi. L’escavatrice si trova a 50 chilometri fuori Shanghai, in una cava di pietra. Bastano pochi movimenti del joystick che guida il braccio meccanico e la macchina preleva e sposta chili e chili di pietre. Da qui, invece, i tecnici di Zte riescono a far circolare un piccolo autobus elettrico a guida autonoma che si trova a diversi chilometri di distanza, nel loro centro di ricerca. Sempre da remoto, riescono a governare e manipolare droni di diversa grandezza. C’è quello utilizzato per prelevare campioni di acqua difficilmente raggiungibili, quello per analizzare la qualità dell’aria. In Germania, una piccola flotta di droni realizzati da Nokia, controlla e vigila i container di un porto tenendo il conto e aiutando a coordinare la logistica. Una sorta di grande ragno robotico a otto zampe saltella per il cortile del centro Zte, inseguendo il malcapitato di turno, molleggiando senza sosta sulle sue zampe. Robot di questo genere potrebbero essere impiegati nelle situazioni di crisi, tra le macerie dei terremoti, in caso di calamità naturali o in grotte pericolose per gli uomini. In ognuna di queste possibilità, il segnale utilizzato per il controllo da remoto deve essere una certezza, antenne e sensori lo garantiscono. Quando il 5G sarà capillare, e in Cina contano possa accadere già l’anno prossimo, lo sarà anche la sicurezza.
Attratti da un profumo familiare, ci imbattiamo nel “5G Coffee Robot” di Ericcson. Due braccia meccaniche posizionano capsule e bicchierino e lo prelevano una volta pronto. E solo l’introduzione ad una applicazione molto più importante. Robotica e connessione 5G potrebbero servire in futuro a rendere una realtà anche le operazioni chirurgiche a distanza. Nei mesi scorsi, stesso in Cina, c’è stata una sperimentazione: un chirurgo ha operato con successo, a 50 chilometri di distanza, un animale da laboratorio. L’obiettivo è ovviamente molto più ambizioso (l’uomo), l’intelligenza artificiale sta facendo passi da gigante, l’Internet delle cose anche. Ma l’inaffidabilità della connessione non permette di investire adeguatamente su queste tecnologie. Il segnale potrebbe essere rallentato, saltare, avere delle interferenze. Non la migliore delle prospettive quando c’è un essere umano su un tavolo operatorio. Ecco perché si conta così tanto sulla rete 5G: con una latenza di un millisecondo, potrebbero essere compiute operazioni a distanza ed evitare potenziali errori fatali che costerebbero la vita del paziente. Quasi fantascienza, ma questo non significa che non ci sia chi ci sta pensando sul serio.
La smart city e il futuro prossimo
Città intelligenti e monitorate, insieme alle auto connesse, sembrano essere comunque lo sbocco più imminente per tutte le nuove tecnologie legate a internet super veloce. Molte delle soluzioni che riguardano questo ambito sono state presentate (e lo saranno ancora) anche al Ces di Las Vegas, l’International Consumer Electronics Show Usa che è la più famosa fiera dell’elettronica di consumo allestita dalla Consumer Technology Association negli Stati Uniti.
Tra le migliori soluzioni cinesi, scorgiamo la combinazione di sensori e telecamere che permetterà, ad esempio a un piccolo comune, di sapere quali parcheggi siano pieni e quali vuoti, quando e se cambiare i cestini dell’immondizia, monitorare l’illuminazione pubblica, la sua intensità e la sua necessità, controllare i consumi e così risparmiare. Ma anche di conoscere il traffico in tempo reale e di sapere chi si trova dove. Un sistema di cassonetti intelligenti è in grado di monitorare la raccolta differenziata, dire al cittadino dove buttare l’immondizia e permettergli di accumulare punti premio.
Alcuni sensori che Zte sta sviluppando a L’Aquila, invece, sono pensati per capire dalle vibrazioni di un edificio se c’è un terremoto e dare immediatamente l’allarme. “Il 5G e le sue tecnologie renderanno le città efficienti e sicure” ripetono tutti mentre mostrano come si potranno tenere riunioni in video con grandi gruppi di persone senza che il segnale abbia problemi, condividendo documenti in tempo reale o effettuare videochiamate in 8K mentre si è in auto. Il mantra sembra essere l’efficienza: quale differenza con gli Usa?
Le start-up che guardano al cielo
L’economia dello spazio non è solo per grandi imprese: in Italia aumentano start up, piccole società specializzate e spin off universitari che iniziano ad attrarre fondi pubblici e capitali privati. Lo testimonia il rapporto Space venture Europe 2018 pubblicato a febbraio dall’European Space Policy Institute (Espi) di Vienna. Tra le piccole imprese censite nel “nuovo ecosistema spaziale” l’Italia conta la Aiko di Torino, segmento upstream, che realizza sistemi di intelligenza artificiale per rendere autonomi i satelliti, è “accelerata” dal gigante hitech Nvidia e nel 2019 collaborerà a una missione orbitale dell’argentina Satellogic. C’è Picosats, spin off dell’università di Trieste, specializzata nelle radio ad alta frequenza per satelliti, una decina tra soci e dipendenti, ma anche SpacEarth Technology, spin off dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia di Roma, fondata nel 2014, che sviluppa sistemi per gestire la navigazione satellitare e gestisce l’osservazione al suolo per il settore minerario, o Space Mind, divisione di Npc, azienda di Imola che fa componenti per nanosatelliti cubesat, come il keniano 1Kuns-PF lanciato l’11 maggio 2018 dalle Agenzie spaziali italiana, giapponese e Onu. Ma ci sono anche la comasca LeafSpace o la Silex Clouds di Ladispoli (Roma).
Così quel passo sulla Luna ha creato la space economy
Cinquant’anni fa la missione Apollo 11 della Nasa consentì a Neil Armstrong di essere il primo uomo a mettere piede sulla luna. Era il 20 luglio 1969, all’apice della Guerra Fredda che vedeva la corsa allo spazio tra Urss e Usa. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, lo spazio è diventato un business commerciale e la nuova space economy è l’avanguardia dell’innovazione tecnologica. L’anno scorso l’economia dello spazio ha fatturato 360 miliardi di dollari, 320 miliardi di euro, ma secondo Morgan Stanley, grazie al suo tasso di crescita medio del 7% l’anno, potrebbe arrivare a mille miliardi di dollari nel 2040. Intanto anche l’Italia reclama una fetta della torta.
La nuova space economy parte dalla ricerca, sviluppo e costruzione di strutture spaziali e scende sino alla creazione di prodotti e servizi innovativi. Sono molte le ricadute: innanzitutto le telecomunicazioni, a partire dalla telefonia e dal web, la tv via satellite, l’elaborazione dei dati, la mobilità via Gps, l’utilizzo dei dati satellitari per la navigazione, il monitoraggio ambientale, le previsioni meteo. Alcuni analisti distinguono tra un segmento upstream, nel quale sono collocati la costruzione e il lancio delle missioni spaziali, e uno downstream, con la realizzazione e gestione di tutti i servizi che ne derivano, tra i quali i servizi satellitari a terra (111 miliardi) e quelli tv (83 miliardi).
I fondi pubblici sostengono quasi tutto l’upstream, con 71,4 miliardi di euro su 73, e il resto va ai progetti di compagnie commerciali per missioni spaziali con equipaggio. Gli Usa da soli valgono due terzi della spesa pubblica per lo spazio (44 miliardi), seguiti a distanza dall’Unione Europea (10,2 miliardi) tallonata dalla Cina (7,5). La Nasa riceve “solo” 16 miliardi di euro, il 40% del budget americano, ma nonostante il nuovo impulso ottenuto da Obama e Trump la National Aeronautics and Space Administration non ha fondi nemmeno lontanamente paragonabili a quelli degli anni della corsa allo spazio: per le missioni Apollo sulla Luna nel 1966 la Nasa ottenne 5,9 miliardi di dollari, lo 0,72% del Pil Usa, che oggi varrebbero 46 miliardi e mezzo. Da solo il budget Nasa ancora oggi vale comunque quanto la somma di quelli di Ue, Russia, Giappone e India.
Le ricadute nel settore privato vanno di pari passo agli investimenti pubblici. Tra il lancio dello Sputnik sovietico nel 1957 e il 2009, nel mondo esistevano solo una ventina di aziende aerospaziali finanziate da privati. Ma nel 2009 la capsula Dragon di SpaceX, società del magnate Elon Musk oggi noto per le auto elettriche Tesla, portò in orbita il suo primo carico commerciale, un satellite da osservazione terrestre di 50 chili della Malesia. Era la svolta per i servizi spaziali commerciali: dal 2000 al 2018, le società finanziate da capitali privati sono aumentate sino a 375 con circa investimenti per circa 19 miliardi di dollari, cresciuti di 13,8 volte. Ma alle spalle hanno ancora i governi: SpaceX ha ottenuto dalla Nasa la metà circa del suo miliardo di capitale investito. Dal 2000 al 2018 i contribuenti Usa hanno investito 7,2 miliardi di dollari in 67 società private, con il 93% dei fondi pubblici andati ad aziende che si occupano di lanci. Le società private che hanno ottenuto fondi dalla Nasa o dal Pentagono hanno attratto sei dollari di investitori privati per ogni dollaro pubblico. Grazie ai fondi federali sono sorti interi nuovi settori: logistica, missioni interplanetarie, monitoraggio dei rischi spaziali, servizi di trasporto commerciale lunare. Nel futuro, infatti, sono previste basi permanenti sulla Luna, che ovviamente dovranno ricevere forniture stabili dalla madre terra.
Il modello dei finanziamenti pubblici Usa ha fatto scuola: l’Unione Europea dedica alla space economy una fetta degli 80 miliardi investiti nel 2014-2020 dal programma Horizon 2020, gestito in collaborazione con l’Agenzia spaziale europea (Esa). Sono fondi aggiuntivi a quelli di Esa, che quest’anno ha un budget di 5,72 miliardi, di cui 1,25 pagati dalla Ue e 4,18 dai singoli Paesi in base al loro prodotto interno lordo. L’Italia è il terzo contributore nazionale, con 402,2 milioni pari al 10,1%.
L’Italia ha poi un proprio piano strategico nazionale per la space economy, gestito dal ministero dello Sviluppo economico, che prevede un investimento di circa 4,7 miliardi, di cui circa il 50% coperto con risorse pubbliche, tra nazionali e regionali, aggiuntive rispetto al budget dell’Agenzia spaziale italiana. Sono cinque le linee programmatiche, con l’obiettivo di valorizzare al massimo l’impatto economico: le tlc satellitari, il supporto al progetto spaziale Ue Galileo, l’infrastruttura di navigazione satellitare europea, il supporto alla missione Copernico e le tecnologie connesse all’esplorazione spaziale. Il settore dà lavoro a circa 6mila addetti, con un fatturato di 1,4 miliardi e investimenti pubblici passati dai 350 milioni del 2015 ai 900 di quest’anno, per i quali è previsto un ritorno di 4 euro ogni euro di fondi pubblici allocati.
Intanto la corsa allo spazio è ripartita. Ieri l’India ha inviato sulla Luna un rover automatico e la Cina vuole una propria stazione spaziale permanente entro il prossimo anno, dopo che il 3 gennaio ha fatto allunare con successo un rover sulla faccia nascosta del nostro satellite. Gli Usa rispondono con Artemis, il programma della Nasa che punta a riportare l’uomo sulla Luna entro il 2024 e ha un budget extra di 1,6 miliardi di dollari. E Marte? A marzo, il vicepresidente Usa Mike Pence ha dichiarato che “astronauti americani dovranno camminare a ogni costo sul pianeta rosso entro la fine del 2024”. Altri dicono che sarà impossibile prima del 2033. Vedremo chi avrà ragione.
La “Vita dei Campi”
La mia riflessione sarà poco scientifica: farò una sorta di carrellata nel mondo letterario italiano per raccontare quello che è stato il rapporto della nostra cultura con il mondo contadino a partire dall’Unità d’Italia. Comincio col rilevare che l’inizio è stato assai positivo: pensiamo alla scuola del grande Naturalismo, del Verismo ottocentesco, con i libri ammirevoli di Luigi Capuana sul mondo contadino e i grandi romanzi e racconti di Giovanni Verga. La realtà contadina era affrontata con una durezza e una capacità di andare al vero escludendo ogni forma di pietismo, ogni trattazione paternalistica, com’è accaduto invece in epoche successive. Di questa scuola io vorrei ricordare in particolare tre scrittrici di cui si parla molto poco, di solito, e che hanno raccontato la campagna, l’asprezza della vita contadina, soprattutto delle donne e delle bambine: Grazia Deledda in Sardegna, Matilde Serao in Campania e Caterina Percoto, davvero molto dimenticata, in Friuli. […] Ovviamente, ci sono anche narrazioni regionali che si sono elaborate in quel periodo: in Abruzzo Gabriele D’Annunzio scrisse le Novelle della Pescara che è forse tra le cose migliori che ci ha lasciato in prosa, e ovviamente ci sono gli autori siciliani che ho appena citato, per non dimenticare quelli toscani. […] La Toscana ha dato i natali all’ultimo grande scrittore del Naturalismo, Federigo Tozzi, capace di raccontare con spietatezza la miseria della vita, sia fisica che morale, delle persone. […] E poi ha avuto uno scrittore esemplare, di grande incidenza sul modo di raccontare la provincia italiana e anche il mondo contadino: Carlo Collodi con Pinocchio, un racconto che si svolge in un paese tipico italiano, dell’Appennino – e in questo vicino alla cultura materiale tra montagna e collina che va dalla Lombardia alla Calabria, una struttura sociale che non cambia molto da Nord a Sud, molto classica e direi perfino di eredità medievale, in cui fino agli anni delle migrazioni interne e del “miracolo economico” ci sono i contadini, ci sono i padroni che in genere sono o nobili o commercianti o professionisti che posseggono le terre e, in mezzo, a far da ponte tra campagna e città, ci sono gli artigiani.
Questa dicotomia città-campagna continuerà in modi radicali nelle epoche successive. Questo è a grandi linee l’assetto di quella civiltà contadina, su cui poi hanno lavorato in tanti, e mi viene da pensare a Fellini e al suo Amarcord. […]
In sostanza, però, a raccontare la campagna sono sempre quelli che hanno potuto studiare, ovvero i borghesi, non i contadini. Fino ai primi anni Sessanta l’Italia era un Paese abitato, a maggioranza, da contadini e analfabeti. I primi grandi cambiamenti sono stati determinati dal miracolo economico del secondo dopoguerra, lentamente preparati dalla ricostruzione, ma quell’assetto sociale era durato fino alla seconda metà del Novecento. E va detto che l’ideologia che ha ridato una sorta di centralità al mondo contadino è stata quella fascista, in un modo bensì propagandistico e falso. Sul mito della ruralità Mussolini ha insistito ferocemente, persino nei film-Luce facendosi riprendere mentre ara la terra come un proletario italiano classico. Il fascismo aveva paura dello spostamento di massa nelle città da parte dei contadini, determinato dalle loro miserrime condizioni di vita. E penso non solo al Sud, ma anche al Veneto che sino alla fine degli anni Cinquanta era una delle zone ufficialmente “depresse”, tra le più povere del Paese. In questa situazione, cosa fece il fascismo? Raccontò i contadini nella chiave di un’idealizzazione della vita dei campi. […] Nel primo dopoguerra, forse il testo più significativo per comprendere il rapporto città-campagna non è un grande romanzo ma una sceneggiata napoletana, Zappatore, riportata in auge negli anni Settanta da Mario Merola.
Era una produzione dei primi anni Venti, quando si era conclusa la Prima guerra mondiale; raccontava in modo esemplare il rapporto campagna-città, e la città era la “capitale del Sud”, Napoli. […] Nei periodi successivi alla Seconda guerra mondiale, mi è molto cara l’opera di Matteo Salvatore, un cantautore spontaneo semi-analfabeta, reduce di guerra, che aveva imparato a suonare la chitarra e a cantare canzoni napoletane da un barbiere del suo paese dalle parti di Foggia. Giovane e avventuroso, si recò a Roma a tentare la fortuna facendo il posteggiatore davanti ai ristoranti all’aperto di Trastevere. Lo scoprì il regista Peppe De Santis, quello di Riso amaro, comunista, che stava preparando un film sulle lotte dei contadini pugliesi dal titolo Noi che facciamo crescere il grano, che gli disse: “Io ti do dei soldi e un registratore e tu dovresti andare in Puglia, nella tua regione, a raccogliere canti popolari che io possa utilizzare nel mio film”. Salvatore torna in Puglia, ma di canti popolari ne trova ben pochi e allora decide di scriverne lui: ha composto circa 150 ballate, spesso straordinarie, ispirandosi a tutti gli aspetti della vita contadina. Ci dà un’idea di ciò che è stato il mondo bracciantile meridionale, mentre al Nord c’era la piccola proprietà e al centro la mezzadria: non una vita da ricchi ma non una vita di fame. Se uno rilegge Paesi tuoi di Cesare Pavese, che non è un capolavoro ma un romanzo esemplare, capisce meglio cos’è stata la piccola proprietà contadina in Piemonte negli anni Trenta e Quaranta. Lo stesso se si legge La malora e altri testi di Beppe Fenoglio: si è costretti a uscire dagli schemi, ci si rende conto che si tratta di storie e culture diverse di cui non si può dire che una sia più civile dell’altra.
“Viti in collina da secoli Lavoriamo solo a mano e non usiamo i veleni”
“In Valdobbiadene facciamo vino dal VI secolo d.C.. La zona vitata dagli Anni Sessanta del Novecento è stata ridotta dal 28 al 20 per cento”. Edoardo Buso, 24 anni, laureato a Padova in viticoltura ed enologia, è il padrone – insieme a papà Mario, 59 anni, e mamma Wilma, 54 – dell’azienda Guia sulle Prealpi Trevigiane, tra 50 e 500 metri di altitudine, a cento chilometri da Venezia e dalle Dolomiti. “Le regole del Prosecco superiore sono stringenti”.
Insomma respinge le accuse di alcuni ambientalisti?
Dal punto di vista della sostenibilità ambientale abbiamo completamente eliminato il glifosato e abbiamo un regolamento che impone il non utilizzo dei principi attivi più rischiosi per la salute. Anche perché i trattamenti della zona collinare, a differenza di quelli in pianura, sono definiti “eroici” non a caso: si opera senza macchine, addirittura senza trattori, quindi i primi a essere esposti ai veleni saremmo noi stessi.
Il riconoscimento Unesco alle vostre terre, indicate come patrimonio dell’umanità, vi porterà vantaggi?
È una gratificazione, riconosce il lavoro dei nostri avi e i loro sacrificio, una storia secolare che viene finalmente premiata.
Crede che potrete avere anche un ritorno economico?
Solo se finirà la confusione tra “prosecco” o “spumante” e “Prosecco superiore” che è la docg Conegliano Valdobbiadene.
Lei è stato appena eletto al Comune di Valdobbiadene, giovanissimo consigliere comunale. Il Prosecco superiore è di destra o di sinistra?
Sono stato eletto con una lista civica. Il Prosecco superiore è della fatica di produrlo, della perseveranza di chi fa questa fatica e di chi ha il piacere di berlo.
Quanti siete in azienda?
Cinque: io, papà, mamma e due dipendenti, Carmen ed Alessio. E dà una mano anche mia sorella Laura, che ha solo 21 anni. Poi durante la vendemmia arriviamo a una trentina di persone.
La fatica vera in vigna la fa lei o papà Mario e mamma Wilma? Dica la verità.
Anche io, ma in vigna più i miei genitori. Si arrampicano tra le viti come ragazzini. È la loro vita. Io curo di più la fase in cantina. Ma fatico anche io giuro…
Lei ha cominciato a bere prestissimo suppongo…
(ride) Dopo il liceo scientifico avevo intenzione di studiare ingegneria, ma poi ha vinto questa passione.
I suoi genitori non le chiedono una moglie per avere una persona in più in azienda?
(ride ancora) Ci stiamo lavorando, ho una fidanzata, Larissa, 21 anni, che sa a cosa va incontro e poi è preparata: ha viti e terreni anche la sua famiglia. Quindi, almeno spero, non ci saranno grossi problemi.
Quanto Prosecco superiore producete?
Circa 2.500 ettolitri. Molto lo vendiamo, le nostre bottiglie sono 40 mila, non di più, per 300 ettolitri. Abbiamo 24 ettari in zona docg.
Qual è la differenza con un prosecco comune?
La terra fa la differenza, è più facile sorseggiare per capire che spiegarlo a parole. Il microclima è un altro elemento essenziale. Poi il lavoro dell’uomo in collina è talmente differente… Le posso dare questi numeri: per il processo produttivo annuale servono 600 ore di fatica senza macchine per ettaro contro le 150 ore in pianura completamente meccanizzate. L’inclinazione da noi è tra il 15 e il 60%, questo tipo di lavorazione non a caso viene definita “eroica”.
Il Prosecco superiore è un vino solo da aperitivo?
Guardi soprattutto a livello locale, poco diffuso oltre le nostre terre, c’è la versione rifermentata in bottiglia: resta secco in bocca ed è assolutamente adatto a pranzi e cene di carne.
Chiedo all’oste se il vino è buono…
L’unico modo per scoprirlo è stappare una bottiglia.
Il Prosecco superiore della Valdobbiadene vale lo Champagne francese?
La differenza è quella tra due mondi diversi. Sono differenti i metodi di spumantizzazione, sono completamente differenti i mercati e anche la storia, l’origine dell’avventura, è diversa. In Valdobbiadene i produttori, secoli fa, erano contadini, chi lavorava la terra era il produttore del vino. Nello Champagne, invece, i produttori erano clerici e nobili.
Per ritornare a quel discorso su destra e sinistra…
Io questo non lo dico, ma ritorno volentieri sulla fatica di queste terre e sull’orgoglio per il riconoscimento dell’Unesco.
“Altro che Unesco il Prosecco inquina”
“Noi non brinderemo, perché qui c’è poco da festeggiare. Come mamme di Revine Lago, vogliamo lasciare ai nostri figli un patrimonio più importante del prosecco, il rispetto per la nostra terra”. Lisa Trinca non si unisce al tripudio del Veneto dove dal pomeriggio di domenica 7 luglio è tutto uno stappare bottiglie, alzare calici e complimentarsi a vicenda, perchè l’Unesco ha dichiarato le colline che vanno da Valdobbiadene a Conegliano un patrimonio ambientale dell’umanità. “Il punto è proprio questo, quale ambiente? Non può essere visto solo da un punto di vista paesaggistico, ma anche da quello sociale e sanitario. E l’Unesco non lo ha fatto. Altrimenti ci avrebbe ascoltati”. Gilberto Carlotto, vicepresidente di Terre del Piave del Wwf, è un’altra voce in dissonanza, in una realtà agricola orientata ormai verso la monocultura. Quella che produce le bollicine del prosecco, un fenomeno enologico ed economico da mezzo miliardo di bottiglie prodotte nel 2019 (nel 2018 un fatturato di 2,3 miliardi), un marchio conosciuto in tutto il mondo, una straordinaria fonte di ricchezza.
È anche per questo che soltanto piccoli uomini e donne di buona volontà possono mettersi contro una macchina da guerra formidabile che a Baku, in Azerbaijan, ha centrato l’obiettivo, dopo la bocciatura di un anno fa. Rendendo felice il governatore leghista Luca Zaia, che è nato da queste parti, si è diplomato alla scuola enologica e rilascia interviste ispirate: “Dieci anni fa avevo un sogno… l’ho realizzato. E dopo le Olimpiadi a Cortina, adesso non resta che l’autonomia del Veneto, il terzo grande obiettivo”.
Poco prima della votazione, a Baku, si è alzata solo una voce per dissentire. Era il rappresentante della Ong anti-fitofarmaci Pan: “Questa candidatura prevede l’uso intensivo dei terreni e l’impiego dei pesticidi con gravi effetti sulla salute della popolazione e sulla qualità della vita. È questo il messaggio che volete trasmettere alle nuove generazioni?”. L’interrogativo è stato sommerso dall’acclamazione per il dossier italiano.
Le inutili denunce dei comitati
Evidentemente nessun altro aveva letto i documenti che associazioni, comitati, singoli ambientalisti hanno sfornato in questi anni. L’ultimo risale alla scorsa settimana, quando una delegazione di una trentina di associazioni veneto–friulane si è recata a Venezia per consegnare una diffida stragiudiziale alla Regione Veneto, con una copia per Icomos–Italia, l’International council on monuments and sites, che ha istruito la pratica del prosecco. La diffida dell’avvocato Alessandra Cadalt di Vittorio Veneto ha riassunto i motivi delle marce contro pesticidi e fitofarmaci che si sono svolte a maggio in Veneto, Friuli e Trentino, con l’adesione di Leambiente e Wwf.
“La provincia di Treviso consuma una media di 12 chili di pesticidi per ettaro, contro una media nazionale di 5 chilogrammi – scrive il legale –. In tutte le aree coltivate a vite tra aprile e agosto/settembre la popolazione è ostaggio e sequestrata in casa. Non può usare il giardino, stendere i panni, prendere il sole…”. I pesticidi vengono gettati ovunque, irrorano le viti, sono trasportati dal vento, inquinano le acque. I delegati dell’Unesco sono rimasti ammirati dalla bellezza delle colline. Scrivono invece gli ambientalisti: “È drammatica la situazione delle aree adibite a piantagioni di vite, non si vede altra cultura, solo viti, viti lungo le strade, viti vicino alle scuole, perfino viti sulle rotonde, a ridosso delle aree residenziali”. Ed è questa una delle accuse al prosecco: ha sconvolto il territorio, le coltivazioni hanno modellato le colline, distrutto i prati, abbattuto le siepi.
Milioni a palate dalle istituzioni
Silvia Benedetti, parlamentare padovana del gruppo misto. “La Regione Veneto finanzia a pioggia il prosecco, pompa letteralmente il prodotto con milioni di euro (dal maggio 2018 la Regione ha stanziato 40 milioni, ndr). E non si preoccupa di come avviene la coltivazione”.
Gilberto Carlotto, del Wwf di Conegliano, sulla partita giocata con l’Unesco ha le idee chiare. “È stato fatto tutto in segreto. Per mesi ho chiesto il dossier inviato a Parigi, ma il Consorzio del prosecco non lo ha mai reso pubblico. E non conosciamo nemmeno il piano di gestione”. Quando gli ambientalisti marciarono contro i pesticidi, l’ufficio stampa del Consorzio del prosecco diffuse un comunicato di fuoco. “Le accuse sono fake news. Il Protocollo Viticolo che abbiamo adottato ha vietato l’uso del glifosato, sebbene le normative italiane ed europee ne consentano l’impiego”.
Replica di Carlotto: “Intanto il protocollo è volontario, non un obbligo. Non mettono il glifosato per il prosecco superiore docg, ma poi la Regione lo autorizza per tutti i vigneti. E fa uno sconqasso. Poi ci sono le deroghe del ministero della Salute”. Lisa Trinca, una delle mamme di Revine Lago. “L’Unesco ha dato il riconoscimento a una zona dove non c’è conversione alla coltivazione biologica. Dove le viti continuano ad espandersi. Dove le colline vengono sbancate. Dove non ci sono fasce di rispetto e mettono i vitigni perfino vicino agli asili”.
E intanto il prosecco, alias spumante veneto continua ad andare forte. Nel 2019 è previsto il consumo di 3.000 ettari di terreno in più per soddisfare la domanda. Già il prosecco vedeva crescite vicino al 30 per cento in Usa e Regno Unito. Figuriamoci adesso, dopo la benedizione dell’Unesco.
Sigilli al Commissariato: proprietari legati ai boss
È sotto sequestro dal 1° luglio, perché di proprietà anche di una famiglia legata ai clan, il commissariato di Vittoria, in provincia di Ragusa. Per l’immobile – nella cittadina in cui l’11 luglio i figli di due boss alla guida di un suv hanno ucciso due bambini – il Ministero dell’Interno paga 105 mila euro l’anno di affitto, il 50 per cento dei quali va a un rampollo della famiglia Luca, di Rocco Luca, figlio di Salvatore, in carcere con lo zio e il padre con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio.